martedì 30 maggio 2023

La mia Recensione: Happy Phantom - VICIOUS LIES

 

Happy Phantom - VICIOUS LIES


C'erano una volta i SEVIT, e questa è storia.

Poi Jackie Legos ha preso il suo talento e ha cominciato a scrivere nuove preghiere con la voce ovattata, spilli e zampilli di acqua putrida e ha generato gli Happy Phantom, una messa stramba, anomala, acida e maligna che ha colpito il cuore del vecchio scriba. Via, si corre, nei corridoi di queste pergamene Post-Punk, che srotolandosi mostrano aghi e liquidi di gotiche proprietà. In questo lavoro sono tre i componenti, ma la sensazione è quella di ascoltare una folla arrovellata per sentimenti del mondo che strisciano dentro queste sementi roventi, in cui la voce sembra quella di un Robert Smith alleggerito da certi orrori, ma famelico di essere una discarica che si butta nei timori come un atto di gioia, incontrollabile.

Le musiche godono di inserti elettronici e alcune volte la batteria sembra aiutare una flessione verso una Darkwave che ammicca alla Coldwave, ma sono esitazioni che durano per pochi attimi: le dodici composizioni sono un campionario che ha il suo DNA in una dolce assassina forma Post-Punk, privata di certe banalità, depravata perché altamente cerebrale, in una direzione di perdita dei sensi totale, e provata dalla vita che stanca e annichilisce gli entusiasmi.

A volte la sequenza degli accordi e le lame della chitarra parrebbero volenterose di baciare il Deathrock: straordinaria questa illusione, in quanto dura pochi attimi, ci ritroviamo nella lora zona fatta di piombo senza catrame ma comunque sporca, quello sporco che attrae e conquista. Si captano torsioni, veemenze, urla gettate nei ritmi e nelle melodie secche, in un imbuto pieno di tossine e soffi di vita decadente.

I minuti scorrono e si sente un fremito, un avvicinamento ai Cure più nel respiro che non nella forma musicale, e se c’è da fare un riferimento sicuramente si è nella zona di Pornography. Ma il piano, la modalità dell’utilizzo dei synth spostano la convinzione e allora si riflette trovando che la loro personalità vinca su ogni teoria balorda e si incontra il loro stile che in conclusione rende questo album uno spavento delizioso…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
30 Maggio 2023

https://darkentryrecords.bandcamp.com/album/happy-phantom-vicious-lies?from=search&search_item_id=2783952250&search_item_type=a&search_match_part=%3F&search_page_id=2629224591&search_page_no=1&search_rank=1&search_sig=ffbdadd4158a40d2ac501b35bd1d01b0






La mia Recensione: The Glass Beads - Therapy

 

The Glass Beads - Therapy


Dopo quasi tre anni, il lavoro del duo Ucraino continua a essere tra i migliori di sempre ascoltati e vissuti dal vecchio scriba: un’esperienza dalle lame nere, un rovistare in mezzo a  sentimenti e pensieri all’interno della celestiale e proverbiale capacità dei The Glass Beads di essere una poesia urticante ma misteriosa, con il loro consolidato metodo di cercare la melodia come se una orchestra sinfonica si fosse impossessata di una nuova vocazione elettrica.

Può un'ipnosi farci ritrovare dentro fazzoletti umidi, in fase di decomposizione, con la tristezza che non può nemmeno arrabbiarsi, data cotanta e struggente bellezza? Questa è musica che guerreggia, pacatamente, con il silenzio, in un braccio di ferro che la fa vincere, per le sue trame sempre pregne di mandorli in fiore nel mese di dicembre, perché l’assurdo loro lo sanno vivere ed esprimere, senza limiti né impedimenti: il duo Ucraino ha tra le mani l’onnipotenza.

Sono foglie lesiniformi: fanno male lentamente, anche se si presentano in quel modo, ma forse la lentezza, l’attenzione che hanno per rispettare l’ascoltatore fanno sì che il dolore sopraggiunga qualche ora dopo, perché sono accorgimenti tra il misticismo e la convinzione che nulla di loro potrà appassire.

Uno tra i lavori più belli di sempre che sa avvolgere il tempo, portando l’illusione nelle nostre vene che le ferite possano trovare una sosta e invece no: sono proprio loro gli artefici di nuovi spasmi, ma sono bellissimi e rigenerano quelli antichi. Tra Darkwave, Post-Punk, Synthwave vi sono queste presenze, canzoni figlie di un divenire che vi intossicherà, come un lungo film che vi porterete negli occhi: per sempre…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
30 Maggio 2023

https://theglassbeads.bandcamp.com/album/therapy-2?from=search&search_item_id=2075656217&search_item_type=a&search_match_part=%3F&search_page_id=2629223037&search_page_no=0&search_rank=1&logged_in_menubar=true



domenica 28 maggio 2023

La mia Recensione: The Smiths - The Smiths

 

The Smiths - The Smiths

L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è.

(Paul Klee)


C’era una volta un semaforo, nel bel mezzo del cielo grigio di un agglomerato urbano ribelle ma muto, che vedeva scorrere le vite disoneste, spente, piene di allergie, e fermava tutte queste anime con l’apoteosi di musiche che accendevano entusiasmi che appassivano dopo pochi minuti: Manchester degli anni Settanta era uno strano coacervo di passi, sentieri, sbagli e ipotesi, in cerca di una esplosione, che si augurava di determinare molto in fretta. Ci avevano provato tre band, in ordine cronologico: Buzzcocks, Magazine e una che ha fatto molto di più di tutto questo, accelerando la catastrofe della città, perché dopo di loro sarebbe sorta una sterilità che non avrebbe fatto altro che metterla completamente da parte. Oggi non è più la capitale inglese della musica, e va bene così. Ma il vecchio scriba ha potuto capire quale è stato il momento del parto che ha reso quell'agglomerato urbano incapace di generare altri figli. Sono stati quattro cadaveri, quattro spavaldi intolleranti, incattiviti da metodiche che lasciavano al futuro solo sogni, velleità e illusioni. Ma Stephen, Johnny, Andy e Mike avevano le redini, il bavaglio, tele di catene con i brividi appiccicate a canzoni che sapevano divenire la bottega della miseria, nella notte arrossata di un percorso senza finestre.
L’album di esordio è uno straordinario errore, una incapacità folle di essere banali e prevedibili, un osceno affronto alla civiltà britannica ancora devota a conservare l’arroganza di poter conquistare e dominare. In fondo pure loro volevano arrivare al potere e lo hanno ottenuto, passando dalla porta sul retro di una casa senza lustrini (quelli li avevano presi i New York Dolls e il buon Marc Bolan), per rimanere nello scantinato tra giovani e immortali rughe e riff che potevano ferire il cuore di chi (vi ricordate Ian Curtis?) aveva già dichiarato il fallimento di un sistema, per prendere le distanze e crogiolarsi nella bellezza, quella atomica, quella che non lascia respirare nemmeno i sogni.
The Smiths ferisce, molesta, offre chiodi e siringhe, storie sbilenche, raccapriccianti ma vere, quindi credibili e in grado di squarciare il perimetro della città di quel canale del quale il cantante dinoccolato aveva avuto la necessità di mettere a bordo la storia. Musiche astute, perché lontane dal Post-Punk pur avendo l’odore di una ascella malata di stanchezza. Fatte di piume Pop con il timbro di una decade che per davvero aveva illuso tutti, ma avendo lasciato almeno una luce spenta: non ci sarebbe stata più tanta allegria…
Questi ragazzi avevano l’umore di una giornata in miniera pur avendo i polpastrelli lucidi e ben pettinati, ma una volta che toccavano gli strumenti ecco una ribellione improvvisa a rendere penosa ogni reazione. All’arciere Morrissey il delicato ruolo di confezionare frecce, pallottole, bombe e mine anti-stupidità: si doveva cercare il torbido e imbalsamarlo.
Ma del colore delle composizioni di questo anfiteatro inglese ne vogliamo parlare? La storia ci dice che i quattro sono riusciti a spaventare genitori, amici, gli incoscienti, gli inutili, gli spavaldi collezionisti di squallide avventure, nel momento in cui la città non riusciva più a farsi il trucco di giorno, ma solo negli appuntamenti di quella grande puttana che è la notte Mancuniana dei primi anni Ottanta. Il metallo cola dalle chitarre di uno gnomo, un puffo che, come in un bisogno anacronistico, si permette di scavalcare il tempo e di prenderlo in giro con l'atteggiamento di chi piange mentre fa sorridere la musica, nel delirio di una classe incontrollabile, effervescente, che miscela funky, rock, pop, blues, punk e la follia di chi nelle note immette passione e una dose di freddezza ordinata dal dottore dell’imprevisto, un tipo strano ma necessario.
Il basso in questa band, nel presente disco, è una carezza di piombo, lontana dai cliché di chi cercava il dominio, l’arroganza del capobanda in quanto, si sa, è lo strumento più importante di una formazione dedita al rock. Andy Rourke ha avuto il coraggio di sembrare un soldatino obbediente al servizio del Re Marr, per lasciare al suo regno la luce, la scena. Ma che inganno! Sui suoi solidali voli, tutto sembrava ordinato, pieno di polvere e in grado di incollare trame e nuvole che lo gnomo non smetteva di disegnare nella granitica Manchester. Vedremo poi cosa è riuscito a combinare. Mike, l’uomo del caso, diviene qui la vincita milionaria, il metronomo di ogni talento, il vigile e il tappeto su cui tutto poteva scivolare e frenare, collaudando uno stile poi divenuto essenziale negli anni Novanta. Un’anima silenziosa che nel disco sculaccia la prevedibilità e insegna al mondo intero che leggerezza e potenza sono solo coordinate parallele di un volo senza catene: non il genere, non la tecnica, bensì il progetto, per creare una impalcatura senza possibilità di crollare.
L’lp è frutto di una avidità eclatante, una burrascosa predisposizione a rendere la canzone un pulcino in una giornata di pioggia, nuda e disarmata, per portarla nel caldo cuore delle sue dita vellutate. Johnny Marr è il più adorabile sbaglio della città di Manchester: un Re che si lascia crescere i capelli per nascondere il suo talento è destinato a essere detronizzato in fretta, ma sono passati tanti treni, tanti regni senza che nessuno sia stato in grado di ridicolizzarlo.
Ha portato in studio novità clamorose, effetti, amplificatori, stili e la colla magnetica che può possedere solo chi con un riff non si gioca la vita bensì la schiaffeggia con la risata di un regnante senza corona. Il buon Marr ha anticipato usando il passato di chi non voleva più considerare, ha illuminato i polsi di errori chiusi a chiave da tanto tempo. Dalla sua collezione di dischi sono usciti stimoli, impulsi e tanta voglia di mare. Che ha saputo inventare e sul quale il profeta/poeta di Stretford ha fatto nuotare le parole più cupe, più arroganti e strazianti che si potessero immaginare. Ma Morrissey è andato oltre: sapete di cosa parlano i suoi capricci verbali? Quali sono i temporali mentali della sua indole pseudo ignorante? Quali sono le pallottole che ha lucidato per costruire un romanzo senza l’ultima pagina? Quest’uomo ha elevato l’arte, portandola nel Millequattrocento, buttando via la storia successiva e togliendo alla verginità dei sogni la possibilità di un ristoro, fosse pure temporale. I suoi testi rendono buia Salford, Deansgate, Bury, Oldham e le zone limitrofe, per divenire spazzatura da congelare. Sono catastrofi piene di logiche senza senso per i più, estremamente importanti per i meno, che qui, nel nord ovest inglese, sono una muta maggioranza ed è proprio quella parte della città che ha tributato subito considerazione nei confronti del poeta occhialuto, mostrando un ostinato bisogno di nutrirsene. Burrascosa la produzione, tanto da dover registrare daccapo l’album, cambiare il timoniere del suono e fare il tutto velocemente, visto che la Rough Trade non aveva soldi da perdere stupidamente…
Poi: la magia, a rendere cieche le orecchie e muti gli occhi, per incastrare il sole nella sofferente periferia Mancuniana e dare alla violenza suburbana il palco. Così come alle storie piene di sbavature, come una scialorrea inevitabile consequenziale all’approdo enigmatico di identità votate al terremoto morale. Morrissey ha saldato la verità con ironia, rendendo merce prelibata e senza prezzo il pensiero, la scelta di passeggiare con il raziocinio dentro le inquietudini, sia quelle adulte che quelle adolescenziali.
Ed eccoci, tutto è da consegnare alla lente di ingrandimento, all’ispezione anale di una volgare attitudine da parte di un quartetto che ha saputo squarciare il cielo dell’idiozia e inondarlo di gladioli.
Il dovere chiama: sia accesa la luce di uno stratagemma che comprende l’analisi di una verbosa ed esasperante capacità di cambiare per sempre la vita di chi vi scrive…

Song by song 

1 Reel Around the Fountain

Si può prendere la verginità della pelle, di un’anima e gettarla nell’indifferenziata, di una raccolta malata e malandata, e farla divenire una rovente denuncia? Se sei Morrissey sì, amaramente, con le lacrime ossidate, le chitarre arpeggianti nel letto del canale Irwell, il testimone muto di molte porcherie. La canzone è lenta, prevedibile, noiosa, sprezzante, un’atomica che guarda con cattiveria il polso di un adulto strappare il sogno di un fanciullo. Joyce martella con rispetto, e lo fa con la sua grancassa lucida. Andy si siede sulla storia e accarezza le quattro corde quasi con paura. Lo gnomo trova la chitarra chirurgica, poi si chiede l’aiuto di un noto musicista, gli si lascia il piano ed è tutta la magia nera di uno strupo che sale al cielo là dove Morrissey racconta e aspetta….

2 You’ve Got Everything Now

Si cambia decisamente ritmo, generi musicali tenuti incollati in una strofa che pare giungere da una marcia gracchiante di chitarre americane, sino all’organo che nel ritornello fa diventare tutto così selvaggiamente Sixties. Johnny comincia a marcare il territorio, come un felino, piscia la sua magia sulle dita che si contorcono, obbligando Andy a divenire un danzatore di trame funky, del sottobosco di quella parte del Merseyside così poco nota alle anime stolte. Un brano che poi, se lo si ascolta bene, sarà la base di una modalità espressiva ritenuta inspiegabile, in libri affannati di scrittori senza talento: Morrissey qui si rivela il maestro delle certezze, quelle senza luce, senza interruttori, ed è solo la trama musicale a tenere il sorriso dentro l’ipotesi…

3 Miserable Lie

La bugia più grande si nasconde nell’arpeggio intrigante e quasi triste di Johnny, una Reel Around the Fountain che ritorna: non è così, è una falsità che subito lascia sangue sul terreno di un'accelerazione Post-Punk ma con nell’anima tutta la radice del Northern Soul più antico e meno celebrato. Chitarre rockabilly, un solo che concede a Morrissey l’isteria sublime di un falsetto che o uccide o attira, o annoia o diventa il pretesto di un'emozione così intensa da essere una droga pesante. Ma i veri regnanti sono Joyce e Rourke, scheletri sublimi, artefici di ossa che fanno danzare e che consentono a Marr di divagare, divertirsi e farci perdere la bussola…

4 Pretty Girls Make Graves

Il futuro degli Smiths nasce in questi tre minuti e quarantatré secondi: la periferia del talento si dirige velocemente verso Piccadilly Gardens, nel cuore della città, nel ventricolo generoso di una melodia che pare rubata in modo irrispettoso a Sandy, la cantante scalza che poi darà un pugno alla band osando accettare l’invito di Morrissey… Ma torniamo al pezzo in questione: tutto si fa chiaro in quanto le melodie sono fumogeni, il ritmo la semplice e fuorviante messa in scena di uno spettacolo che prevede, come protagonisti, vittime che si illudono di detenere il potere. E via, tutto sembra così lontano dai synth, dai ritornelli banali e inutili, e la band Mancuniana con questa semi-ballad pop dà una frustata al circostante, all’elettrica danza  di gruppi infarciti di bruttezza e cataclismi addominali. Qui il falsetto è una fucilata, la chitarra semiacustica il bisogno di visitare da vicino il Country tanto caro a Marr, e la voce è l’Irwell ripulito e disinfettato da una propensione così vicina al richiamo, sempre sublime, di un annoiato Dean Martin capitato per caso nei paraggi. Dal finale della canzone Johnny prenderà i frutti di semi che si riveleranno ancora prelibati nel successivo Meat is Murder…

5 The Hand That Rocks the Cradle

Manchester esplode, con una ninnananna quasi torbida, un viso piangente dentro una melodia che pare imbalsamata dalla perfezione di un incrocio di chitarre e dal basso di Rourke che proviene dal garage di ogni ascolto adolescenziale. Sembra di essere nella periferia nord-est della storia del pop, là dove tutto iniziò: bastano poche note per inchiodare le lacrime al cielo e Marr lo sa bene. Una ossessione schematica, tutto ridotto, nessuna concessione ai ritornelli, tutto liofilizzato, tutto sufficiente a stringere i bisogni e polverizzarli. Gotica più dei Bauhaus, dei Cure, è una sciarpa invernale che con la sua tendenza terribilmente noiosa riesce a uccidere ogni desiderio di vita: semplicemente perfetta…

6 This Charming Man

Aladino era impegnato, Nerone giocava col fuoco, Giovanna d’Arco sarebbe arrivata poco dopo, ma c’era da riempire il vuoto consequenziale creato da una parata di errori che la storia voleva negare. Ci ha pensato Morrissey, creando l’assurdo movimento di una ipotetica intolleranza alla bellezza, devastando con parole fulminanti, allo stesso modo di Marr che, con quell’introduzione, ha spaccato la musica, gettandola nella mediocrità, perché quei pochi secondi sono lo scettro che brilla nelle lacrime solitarie di un inviperito destino designato dalla poesia scorticante di un leader che con questo brano stravolge il cielo. Un su e giù pelvico, sensoriale, che unisce voce e chitarra per lo stesso destino: dare la voce alla pianura affinché sia capace di arrivare a Dioniso…

7 Still Ill

C’è un ponte che collega la mitologia alla polvere di una piccola famiglia operaia (al tempo) che si chiama Stretford, nel passaggio peccaminoso di desideri incollati all’Inghilterra volgare e provocatrice di atti osceni. Marr impazzisce, trova binari non paralleli, per condurre la sua chitarra tra il paradiso e il purgatorio. Gli altri tre sono già all’inferno, data la cattiva condotta e il malvagio comportamento che ha fatto sì che l’umana esistenza conoscesse la perfezione: non sia mai! I sogni bussano, spingono, ma la sensazione di una mente malata non lascia il corpo di una mente che sublima il tutto pilotando la volgarità verso la saggezza…

8 Hand in Glove

Una grattugia, stimolata da un’armonica a bocca acida, sgretola la pelle della Gran Bretagna, a colpi di pagine di carta, di teorie e trame perverse, di una fantasia che ha il potere di rendere cattivo l’alito e il pulsare del cuore. Tutto si rende capace di divenire un moto carbonaro senza base e infatti Morrissey chiude a chiave l’accesso di ogni comprensione con una scrittura che prende in prestito il talento del mai deceduto Oscar Wilde. Moz scrive la storia per sotterrarla così come fanno le dinamiche del primo Novecento, qui nelle mani dei tre musicisti che agiscono con una terapia d’urto, come un TSO inevitabile. Ed è pura paura, puro scuotimento, febbricitante e furbastro, per dare catrame a ogni vascello e renderlo affondabile. La semplice risposta, ma assai profonda, che il bardo scrive per dare alla sua matita la possibilità di incidere meglio di un bisturi…

9 What Difference Does It Make?

Quante zampe ha una chitarra? Quante corde ha il nervo teso di un basso? Quante bolle vivono sulla pelle di un tamburo? Quanta poesia resiste nelle tenaglie di un dubbio? Le risposte, spavalde, respirano e muoiono in questa valanga, tra rock, psichedelia, rock and roll e follia primitiva dalla barba incolta…
Non un brano ma un altare, pagano, sulle rive del mare in burrasca, di una scoscesa perlustrazione, atta a ripulire la musica, tutta, dall’avanzamento tecnologico. Gli Smiths si rifiutano di pulire il culo alle giovani band emergenti, mettono gli artigli negli anni Sessanta e sconquassano il cielo di Manchester, senza paure…

10 I Don’t Owe You Anything

Qui nacquero gli Herman’s Hermits, la band Mancuniana per eccellenza, quella che portò le persone a conoscenza dell’esistenza di questo grigissimo posto. Fecero di tutto per renderlo allegro. Il penultimo brano di questo album di esordio sembra ricordarci la tempra, l’assoluto coraggio nel cercare una melodia che abbracci il sole. Ma Houston, abbiamo un problema, e pure grande: Morrissey canta come se fosse chiuso nel dondolio di una altalena spinta e dipinta dalla signora con la falce perché il suo è un approccio sbavato di vita, gonfio di un ventaglio gelido in grado però di appassionare, il mare in burrasca che, per contraddizione subliminale, seduce e pare una parodia più che accettabile. Lenta, grassa, spigolosa, incantevole come un giardino piovoso, la canzone è un rotolo di cartapesta che saprà ingravidare le stelle…

11 Suffer Little Children

Si va al Cinema, di mattina presto, tra scorticate idee primordiali, e la paura della gioia. La trama letteraria è da premio Nobel, ma con il sangue che finisce sul papiro, così come il basso di Rourke che sembra morire di stenti, solo la batteria di Mike sembra procedere, con semplicità, dentro una fossa che la chitarra di Johnny ha costruito ascoltando gli amati New York Dolls. Non stupisce che il brano più malinconico sembra un’atomica cinese, il fungo che sale sopra il cielo di Manchester lasciandolo spoglio di ogni alito di vita. Come un pranzo finito male, come una stretta di mano che diventa un pugno, così fa la canzone che stabilisce il punto di contatto celebrato precedentemente dentro la Cappella Sistina: l’umano e il divino si sfiorano per creare, nella immortalità, il pretesto di un sogno…

Un esordio, un inizio, e il libero arbitrio sul palmo delle vostre mani: a voi la scelta se obbedire all’orgasmica tentazione della sirena The Smiths o se rimanere fermi alla ridicola propensione di essere umani…

Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
28 Maggio 2023

https://open.spotify.com/album/6cI1XoZsOhkyrCwtuI70CN?si=c23HAts-TA6KNzTPnStnSg




sabato 27 maggio 2023

La mia Recensione: Franco Battiato - Apriti Sesamo

 

Franco Battiato - Apriti Sesamo


Il tempo, il suo collante, il suo collasso, la sua infamia, la sua natura che porta in sé il vento che fa dimenticare tutto. Il tracciato, l’impronta, il sale e il tanfo, il tuffo e ciò che disintegra l’ingenuità della speranza.

Franco, il Sacerdote della prudenza, il seminatore stanco, con la sua matura intenzione di porre fine, una volta per tutte, allo spreco, scrive un papiro di parole esatte, a riguardo di quello che esatto non è, come svincolo, come fuga, come alleanza con le sue discipline ordinate e compatte.

Vira verso il passato solo in apparenza: no, non è un album di memorie, di ricordi, di nostalgia, come in molti hanno affermato.

Piuttosto: è l’eleganza della comprensione che non ha tralasciato nulla dietro di sé, un ragionare intenso sugli accadimenti, esplorando il dovere di un ricavo come testamento di un ordine non comprensibile, un faticare su un contrasto inevitabile. Che è quello di dover spalmare olio di saggezza variopinta e musicata da parole che sono carezze di metallo, con la propensione a intortare soprattutto l’ignorante, che è il più corruttibile. Un lavoro che nasce da due anime già nella fase ascendente (Sgalambro morirà due anni dopo), consapevoli che bisognava congedare il futuro proprio per dare alla giovinezza degli altri un bastone, come una stella cometa densa di abilità…

Nascono così stratagemmi nuovi e inconsueti e, al contempo, si vede la sua intera carriera senza che l’opera sia una summa: la sua intelligenza non glielo avrebbe concesso. Inevitabile sentire bagliori del Battiato degli esordi, per poi incontrare quello che ha virato improvvisamente verso il desiderio di divenire noto, in  un gioco che non gli ha impedito di dare aria alla sua profondità. Un percorso di ricerca che non è cessato ma che, con Apriti Sesamo, ha trovato il suo scopo, portando il cantautore siciliano a scrivere l’album più difficile, il più completo, perché bisognava fermare la crudele propensione all’immortalità. Questo è un disco con la maggior presenza della morte, non come tragedia, ma come beneficio, come punto di partenza, capace di comprendere il senso di studi filosofali, di portare in grembo l’esagerata estensione religiosa, di dare alla letteratura un destino diverso. Battiato e Sgalambro scuotono millenni pieni di polvere, baciano le ombre come segnale di un piacere che non è perverso bensì maestro di vita. Tutti i settori della crescita umana vengono messi uno dietro l’altro, con l'incredibile colpo di scena del primo brano che ci presenta la parte prenatale, il tutto prima che diventi se stesso, in quanto al genio e solo a lui è concesso di anticipare la verità. 

All’interno del bacino infinito della spiritualità Franco agisce come un allievo, a testa bassa, scrive non come terapia ma come un essere che non perde l’occasione di abbassare il livello di spreco, per gettarlo nel pantano della sapienza, dove tutto si impasta e si fa maturità, senza sprechi. Incredibile la quantità di connessioni  al Sapere Antico, della storia dell’uomo passata dentro anime che non hanno concesso a se stesse solo la morte peggiore: l’inutilità del passaggio terreno. È proprio in quel luogo che Franco ha gettato lo sguardo. Ogni riferimento che si trova in questo album proviene da creature che hanno adagiato la spada della stupida volontà di essere immortali per insegnare a tutti che esistono altre forme di vita…

In ciò, questo disco vale più di ogni terapia, in quanto precede sia la prevenzione che la cura: basta poco per accorgersi come l’eternità sia una parola priva di senso se la paura della morte vince. Prendete i testi, esplorate la loro forma, le storie che amplificano la comprensione per farle divenire gli unici contagi che portano beneficio. La Sicilia, la terra sacra per eccellenza, dove il sole e la luce sono stati gli amici migliori di Franco, dà tutta la sua disponibilità al suo umile cittadino, per riportargli i ricordi al fine di farli diventare petali di amore che non si spaventano mai. Difficile trovare scudi per la rovinosa tendenza umana a spargere sale sulle ferite. Lui, invece, inventa voli, attraverso il recupero delle radici, non ferendo la realtà ma mettendola sull’attenti, in un duello senza armi perché non è la vittoria che desidera. Offre altro.

Dunque: Apriti Sesamo è un elenco di artriti e artrosi mentali, dove la gioia è una intenzione inutile, c'è da sbarazzarsi dell’ipotesi e lavorare su moti tenuti nascosti da chi ha paura dell’intelletto. Ecco spiegata la citazione, tratta dal Vangelo, della reincarnazione, a cui Gesù accennò. Non guarda in faccia ai ruoli bensì al significato che ogni parola e azione ingloba. Nasce proprio in questo aspetto il disegno dei due scrittori: portare a ogni vocabolo una destinazione che amplifichi e non invece il riassunto. Franco si mostra nel periodo in cui era un fanciullo, ci presenta la Lombardia con le sue balere e le domeniche fatte di danze in attesa della rovina, accertata, di un nuovo lunedì. Le metafore, da decenni compagne dei suoi passi, trovano in questo suo ultimo lavoro di inediti il coraggio di divenire uno sciame spaventoso, un lampo continuo che sa produrre noiosi ma necessari cerchi alla testa. Nuota all’interno del Mar Mediterraneo, mostrando il profumo dello sbalzo di temperatura che i ricordi, se privi di comprensione della successiva esperienza, sanno generare. Però, come un atleta astuto della consapevolezza, Battiato sbatte le ali e ci lascia, per l'ennesima volta, indietro e colpevoli di non avere il baricentro perfettamente allineato all’intenzione della crescita. Indiscutibile è il fatto che in questo album il bisogno di lasciare i semi si sia fatto impellente, come se il suo misurare il tempo gli abbia consegnato non una data di addio bensì il bisogno di usare ciò che aveva vissuto e non il desiderare di sperimentare altro. Maestro è colui che impara. 

Il Vecchio Scriba si è iscritto da tempo al dubbio e alla verità, trovando in Franco Battiato uno sparo notturno presso l’angelico volo di un raggio di luce. Non sono episodi quelli che udite all’interno di questo lavoro che, sin dalla copertina, riflette il mantra dei due coautori, ma un affascinante nonsense che, sciogliendosi davanti al cuore dell’intelletto, stabilisce il contatto con il senso, come un richiamo celestiale, in preghiere melodiche, come sismi su sismi dentro sismi senza confine. Non è un album difficile da ascoltare, tantomeno complesso: non c’è una carriera raccolta al suo interno, non vi sono segnali di cedimento quanto piuttosto di una consegna, perfetta, di una richiesta doverosa. Quale? Suvvia: da quando dobbiamo sperare che le cose che lui ci dice debbano avere i comodi sottotitoli? Apriti Sesamo è un calvario in un giorno lavorativo, lontano dalle luci de La Voce del Padrone, dall’elettronica moderna di una Gommalacca in attesa di prendere ruggine. Franco, colui che aveva osato essere diverso dalla maggior parte degli italiani senza l’identità del nostro paese, non ha mancato l'appuntamento più difficile: anticipare la morte fisica e mentale vibrando attraverso le strette vie (senza scorciatoia) della direzione che conduce ad altre dimensioni. Ascoltatevi, in modo particolare, un brano dalla forza oltraggiosa, la spada che ferisce senza toccare, perché la sua sola ombra già contorce le budella del nostro pensiero minimo…

La Polvere Del Branco è radioattività postdatata, una impronta di cui si sente l’odore sebbene non sia più visibile: occorre ascoltarla mille volte per portare beneficio al branco malvagio della nostra schiavitù inconsapevole. L’invettiva (quella vera) contro le conseguenze del Mercato in questa canzone apre le porte del suo maledetto teatrino che Battiato qui gela. Gli toglie le ali e il potere. Poteva fare diversamente? Eccola la genesi del dolore, la sua realtà, custodita dentro il bisogno di un egoismo crescente. 

Le musiche sono protesi di un passato remoto, un piccolo flash verso la sua amata musica classica, con gocce di Barocco sparse, per poi dare alla orecchiabilità degli anni Ottanta la possibilità di ricordarci quel Franco che in troppi hanno creduto di amare e di considerare il migliore: chi studia, chi cerca, non si ferma davanti a nulla, nemmeno ai benefici ricevuti. Ascolti ogni brano, le sue permanenti fasi di ruberie legalizzate, le sue formule magiche (dalla favola più famosa di sempre), le sue pergamene scelte e sciolte dal ladro più scaltro in assoluto, per consegnare l'architettura di un benessere che non abbia una corda al collo. Battiato amava così tanto la vita da non preoccuparsi della sua fine: si è concesso e ci ha concesso di andare oltre la paura. L’avrà nascosta? Ci avrà ingannato? Non importa: ci ha insegnato tramite queste composizioni che vi è un oltre da visitare. La violenza sta nel sogno senza costrutto, nella rapidità di un ego smisurato. Passacaglia è una nube tossica, una saggezza insostenibile che riporta in vita chi aveva, centinaia di anni fa, già compreso il limite, massimo, umano. Inutile scendere nell’oscurità di quel brano: chi lo conosce a memoria non avrà probabilmente capito nulla, preso e invaghito del suo incedere moderno, quando invece ha tutto per essere l’antichità che piega il moderno…

Come un angelo senza ali, prende da parte la politica, la società, il malessere primitivo dell'umanità, tutta, e la fa sedere dentro frasi che sembrano solo il club privato di una eccellenza che cerca un seguito. Ma anche troppo: Franco non aveva paura della solitudine e le canzoni sono un’isola deserta nell’oasi di ogni imbecillità che cerca la scusa, il pretesto per legittimare se stessa. L’ha combinata grossa: ci ha fatto sedere, ci ha sfiancato, tolto l’equilibrio mostrando la sua distanza da noi. Il suo bene non è il nostro, guardate cosa è riuscito a scrivere con Caliti Junku: passa ogni confine arabo-siciliano, solo per poter fare di noi viaggiatori dell’ignoto, di lingue legate alla magia, a storie che ungono ogni sospetto e riempie questa gemma di chitarre come mai nel resto del disco, con un pianoforte che saluta la storia della musica classica prima,  poi con degli archi che, come una processione del primo Settecento, sollecitano la fantasia e ci riportano il periodo della sua unione con Giusto Pio. Che la liturgia melodica sia uno dei suoi interessi primari l’avevamo sempre intuito, capito forse, tuttavia mai pensavamo che un giorno, in un solo album, avremmo potuto vedere espresse tutte le sue manie e necessità come sapevano fare le figurine della Panini. Citazioni, oscillazioni, fatti veri, ricorsi, leggende, utopie e gocce di vento per espletare il suo bisogno fisico, autentico, di pisciare amando anche l’odore degli asparagi. Folle? No, direi invece leale con la verità, con una realtà che ha sempre indossato come fosse un pigiama. 

Prendiamo un altro attimo (Il Serpente), uno di quelli che permette all’ignorante di staccare la spina da ogni diversità che lo possa disturbare: l’occidente, dolente e inconcludente, non si è mai messo in pausa, ha sempre accelerato. Cosa fa Franco, il direttore di orchestra mentale? Va e scova un solo uomo, di quella parte del mondo e di quel periodo, per mostrarci il coraggio di chi riesce a illuminare un albero di ciliegio in fiore, e pure qui la metafora si fa robusta e devastante. Battiato cerca un umanesimo nuovo, come desiderava Giorgio Gaber, e indica, oltre al bisogno, l’impellenza, il bidone dell’umido da svuotare per fare posto a una creatività mentale che supplica lo sguardo. Proprio in questo pezzo si trovano segnali evidenti di un gemellaggio con l’artista milanese, la prima anima che gli ha concesso credibilità.

Nell’ultimo brano si ha l’impressione di una nave inesistente che arriva, come un sogno dalle mille facce, per ricordarci l’assurda corsa della libertà. 

Non ci si può concedere il lusso di far finta di niente: colpisce la gioventù, la depotenzia, la rende solo per quello che è, un poco di un tutto che cerca una logica algebrica e non solo una somma matematica. Chi aveva osato prima di lui tutto questo?

Ci vuole coraggio e abilità per prevedere (non sia mai che il Vecchio Scriba sminuisca le innegabili doti degli Intellettuali), però è netto il percorso di Franco, che non si limita a tutto questo. Va oltre, nel luogo che non può essere ancora raggiunto e come vedete il suo non è il destino di un solitario, bensì il gioco volto ad anticipare l’ingresso nell’allegria di uno spazio sconfinato. 

Pensate a quando è uscito, ai sentimenti che hanno diviso fans e critica del settore, le delusioni che hanno fatto rumore, hanno lasciato tracce di malvagità solo in chi è favorevole al disprezzo. Sgalambro morì poco dopo (Franco no, lui lo era già da tempo e pochi se ne erano accorti) però ha continuato a rinascere, con stili diversi, una penna nuova, senza che nessuno abbia cavalcato il suo esercizio spirituale: tutti presi, come sempre, dall’opinione, con cui Battiato si è pulito il culo migliaia di volte…

Anche per lui era venuto il tempo di srotolare i sensi, di appiccicare il percorso dentro ciò che gli aveva dato la fama, la ricchezza, ma che non aveva (sempre Grazie Franco…) dato la misura di una mente non avvezza alla diplomazia del riverbero senza una docilità nel timbro della nota. Anche lì risiedeva la sua macchina del tempo: andare avanti e indietro solo per mostrare ciò che non si riesce a essere perché è questo il compito di uno studente…

E con Apriti Sesamo Franco Battiato è stato il migliore di tutti, un brivido che resiste al consumismo che cancella la memoria, ciononostante se proprio non volete dimenticarlo è sufficiente un disco solo ed è proprio questo…


I linguaggi urbani si intrecciano

E si confondono nel quotidiano


Vi basta? Una sola citazione farebbe di un popolo un qualcosa di migliore… Maledetta ignoranza, chiusa nella stanza sterile di un bisogno egoista.


Grazie Franco: arrivederci alla prossima battuta di caccia, in cui la selvaggina sarà ancora una volta la mediocrità…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
27 Maggio 2023




giovedì 25 maggio 2023

La mia Recensione: Polina Suffer - Agonia Market

 

Polina Suffer - Agonia Market


Una fila di chiodi elettronici prendono la decisione di recarsi sotto l’arcobaleno ferito di un grande turbinio: sono solamente due, ma ampiamente dotati di capacità balistiche notevoli, sanno mirare e colpire il bersaglio, facendo scuotere il bagliore innato di ogni tragedia quotidiana. Una coppia di giovani anime che vestono la superficie dei sogni per disintegrarli con una immaginifica maturità che trasuda esperienze lontane, forse addirittura prenatali, per rovistare tra i rifiuti di impeti in decadente putrefazione. Esordiscono per dare fuoco alle fantasie, tra campi di artrosi mentali, sotterfugi, maschere, ipotesi e sfiancanti mitragliate elettroniche con il retrogusto darkwave. Parole come voci che frugano nella pattumiera dei comportamenti, con un sentire gotico tra fili di cobalto e vibrazioni che paiono giungere dalle sperimentazioni tedesche degli anni Sessanta. Una serie di crocevia, di fermate brusche, tra le tenebre che non mancano di esplodere in grasse risate dispettose, mentre Beatrice, la ragazza dalle unghie lunghe nella sua ugola spesso atonale e poi squillante, registra l’equilibrio mentale che Tommaso, lo stregone impazzito che scopa via i detriti della noia per convogliarli verso il burrone senza ritorno, flette per farci approcciare a uno stato emotivo in continua ascesa, nel disastro appeso sotto gravide nuvole nere. Il Vecchio Scriba, nel momento in cui scopre l’improvvisa dolcezza di cui i due sono capaci, trema e si spaventa: la coppia (Milano e Torino le città che danno ai ragazzi solo la base di partenza) utilizza tecniche note per poi distruggerle con chili di zucchero sbiadito, mutevole, poco digeribile e per questo motivo succulento e prezioso. Un album che non pare di debutto data la notevole locomotiva sensoriale che scorre su binari appoggiati per terra come se il tutto fosse un lungo percorso temporale. Ti stupisci, ti schianti verso queste melodie che ingrassano lugubri pensieri, perché sono proprio i testi a far maturare lo stupore più grande, quasi insopportabile, vista una enorme esigenza di visitare argomenti che sembrano essere stati messi a bagnomaria nella letteratura, nella storia, in una vivace e violenta propensione alla scarnificazione di ogni dubbio. Non scherzano, non giocano una partita, ma si giocano i respiri come se fossero un generoso regalo di menti impazzite, in tiepida putrefazione.

Il cuore piange, l’ascolto diventa un elettrodo, una saldatura tra il male e l’ostinato nemico, quel bene che in queste tracce musicali si schianta. 

Vistose accelerazioni dei ritmi, dei grappoli di vapore acqueo che appanna la vista mentre l’ascolto diventa un affare indecente, sublime, sporco, con richiami di generi musicali che sembrano fieno in un ipotetico pasto serale all’interno una stalla piena di scheletri. Non mancano i disagi di chi vive la giovane età in un mondo vecchio, in decomposizione, con i viveri sempre meno nutrienti, con  i libri e i film come ancore di salvezza. Ma non basta, di certo le loro anime sono un dispetto nei confronti di chi sorpassa la vita senza cognizione. Loro, invece, piantano i piedi sotto la polvere, sotto la terra, dentro il mistero di dolori connessi a incubi tiepidi…

Stupisce e sbalordisce che dopo due soli singoli, ed essendo il progetto nato da poco tempo, si possa varcare il confine di un pensiero malato: sarà mica una bugia il tutto? Saranno davvero solo due e così giovani? Il Vecchio Scriba non sentenzia, appoggia le lacrime sul loro teschio che rotola canzone dopo canzone sul vassoio fatto di transistor, chitarre, lampi e lava che corrode, per portarci nella freschezza del loro dolore deambulante. Ecco spiegate le folli accelerazioni, gli atomi Darkwave che flirtano con la Coldwave, in un limbo temporale di grandi fascinazioni, per poter farcire i loro bisogni di una poesia che sembra essere urlata da Edgar Allan Poe.

Porgi l’orecchio alle loro curve amniotiche, nel grembo di un fardello, nella poesia di un bordello mentale, dove solo la mente, prostituendosi, libera inutili tossine.

Iniziare in questo modo una inevitabile carriera significa farsi tanti nemici, cosa buona e giusta, perché saranno tante le gelosie che si affacceranno nel loro circuito: non arrestate il vostro prodigio, in quanto Polina Suffer è una nuova urgenza, che sarà il regno di  molte anime in disordine…

Ora è giunto il momento di entrare, con paura e rispetto, all’interno di queste canzoni, per morire bene di loro…


Song by Song


1 Intro


Una ninnananna psichedelica, come un carillon del sospetto giornaliero, apre le non danze: in queste note disturbate da richiami di Virgin Prunes in parata militare, ci si può rincucciare sotto coperte belle dense. Nessun ritmo, solo una fata diabolicamente nascosta dentro note d’acqua che sembrano far bollire anime inquiete…


2 Dead Womb


Su un drumming che ci porta alla mente le sperimentazioni dei Wall of Woodoo e chitarre post-punk zona Sheffield, le due anime cantano unendosi e lasciando alla voce di Beatrice il ruolo di portatrice malata del registro più alto, consegnando a quella non baritonale ma grassa di Tommaso il ruolo di essere più vicina al cratere terreno. Chitarre arrotate di sale e vino rosso, per celebrare un grembo insanguinato, un'esistenza che ancora deve affacciarsi a questo torbido mondo…


3 Burnt


L’inizio è un sepolcro notturno, in attesa di far uscire un martello emotivo che danza su un electro punk decisamente americano, con intarsi drammatici più vicini ai D.A.F. della seconda parte della loro carriera. Giochi di stop and go creano crepitii continui nelle gambe che sembrano volare, mentre la voce di Beatrice sussurra paure e tensioni. L’elettronica qui è un mantello e una maschera ben confezionata: gli echi vocali si appoggiano a loop di derivazione che come urla quiete si appiccicano all’ascolto. Ed è sicuramente il primo momento di totale perdita di controllo…


4 Aesthetic Drama


Toh: volevate sorprese, magnitudini dentro sospensioni minimal wave? Il piatto è pieno di oscillazioni, di evocazioni, quando il Belgio ancora doveva mettere al mondo la Coldwave. Beatrice e Tommaso diventano attori, con un cantato che invoca il sostegno di un crooning immediato ma non troppo visibile, per creare un fermaglio nei capelli dei pensieri. Il tutto è una spina dolce, con la drum machine che lenta accompagna un synth in stato di grazia…


5 Polina, Suffer!


Il primo dei due singoli, nel contesto dell’album, sembra essere divenuto nel frattempo un mattone nell’addome: un lamento che incupisce i sogni, con la voce da strega sotto acido di Beatrice che fa di noi anime scheletrite, impaurite, destinate all’oblio. La base musicale è una chiara impronta ipnotica, lezione perfettamente imparata (forse con inconsapevolezza) dai mastodontici The Legendary Pink Dots. Che succede allora di particolare in questa canzone? Che l'identità musicale dei due artisti italiani conosce il fenomeno della consapevolezza, della resa con le armi in mano però, per non dire “basta” senza aver macchiato almeno un pò un synth che è un capriccio divino…


6 Obscura et Foetida


Vi ricordate Nag, Nag, Nag? Ecco la nipotina, nata a Torino, fresca e vogliosa di schizzare verso le vostre braccia, tra i lamenti del parto. Una siringa, un’anestesia improvvisata e poi un crescendo che diventa luce fuori dal grembo. Tra electro-punk inglese (questa volta) e piccole particelle di synth-punk tedesco, la melodia è un respiro affannato, una preghiera che si approccia nella trama sottile. I due si incontrano per la corale esibizione di un percorso che si affaccia alla teatralità esigente della Fura Dels Baus, in una obbligata sensazione di prigionia.


7 Plastic Regrets


L’altro singolo, una rasoiata che non concede difese, con risate demoniache su un filo di basso che esce dalla cantina bollente di due vite connesse in una sfida lampo, ci porta a una sola considerazione: poche note sono sufficienti per allargare lo stato di angoscia che la voce di lei sa creare. 


8 Harsh Flesh


Brian Eno cammina nel giardino dei sogni rotti, fumando un disagio alla ricerca di una melodia che sia la più decadente possibile. I due ragazzi aprono le ali, cullano e riempiono la melodia dell’essenziale, una paranoia che si tinge le dita di una dolcezza nerastra. Lenta, appassionata ma inevitabilmente una lastra che come una spada di Damocle toglie secondo dopo secondo lo spazio del respiro, brilla della contrapposizione di strumenti che si abbaiano, come storditi, in tenere melodie…


9 We Were Just Lost Kids


Una discarica di nervi alloggia dentro una secca linea armonica, echi, rimbalzi, come se i Creatures di Siouxsie e Budgie avessero trovato una linfa postdatata, un’assurda e machiavellica esigenza di spostare le lancette del tempo. Il groove pare uscire da bicchieri di vetro scivolati nella giungla della Coldwave più ossuta, per limitare gli spazi di fuga. Forse il brano più cupo di questo lavoro, intrigante perché sfuggevole, rapido a lasciare dentro di noi la certezza di una cantilena necessaria. Come un delirio elettronico privato della corrente elettrica…


10 Desires


La morte abbaia, tuona, allarga le ali e Tommaso diventa un ingegnere che ordina alla musica di essere spastica, obliqua, incontrollabile, con fascinazioni che sembrano uscire da una qualsiasi officina musicale di San Pietroburgo. Eccola, viva, la melodia che ha bisogno di un synth pieno di ruggine, per donarci la danza in mezzo a desideri con la catena al collo. I paletti danno la direzione del disastro: si è nei primi anni Ottanta, nella parte bellica delle delusioni, dove i sogni e i desideri erano capricci e il Post-Punk gettava la spugna per divenire una parodia di se stesso. Ma i Polina Suffer fanno resuscitare, con i loro perversi beat, il bisogno di finire nel baratro…


11 Whysteria


Si entra decisamente nella zona più chiara di questo album: quella della detonazione, dell’isteria che sculaccia ogni gioia e la affossa, nei vizi capitali che si incolonnano, come i generi musicali qui presenti, nel circo che, partendo dalla sperimentazione dei Can, cambia il volto, accelera il ritmo e diventa una danza figlia della Foresta Nera.

Per la prima volta il basso esce dai gorgheggi dei Killing Joke, ma lo schema musicale è un continuo vociare, senza catene nelle dita dei due giovani artisti che improvvisano un urlo che è un simbolo proveniente dalla follia educata: lo zenit è qui nelle vostre orecchie…


12 The Blue Cathedral 


Le tenebre escono da una lenta ragnatela, ipnotica e suadente, come una sirena stordita in attesa di essere decapitata. Si affacciano, nel gioiello più nero di Agonia Market, i tasselli di ascolti che hanno sedotto i due al fine di essere inseriti nel diabolico piano sonoro, con i Virgin Prunes che fanno sesso con Danielle Dax, in un ipotetico girone Dantesco di artisti sconvolti e squilibrati. Le campane invocano la processione, malata, di una scena di un ipotetico film di Kubrick, nella notte partoriente di un incubo rallentato. Il cantato contrasta il mantra sonoro, un rallenty per capire come sia stato possibile segnare una rete con il dolore nel petto. Siouxsie piange, gelosa, così come qualsiasi altra star in discesa verso il pensionamento, perché Beatrice e Tommaso coccolano il dispetto, attirano, con una linea guida impercettibile, la dolcezza e l’amarezza, per stabilire il luogo della consacrazione di una canzone che altro non è che l’insieme di ceneri buttate dal giardino delle rose della collina torinese: l’atto finale per congedare ogni follia e creare la coda in cui spegnersi…


13 Outro


Che sia dannata la fine: ci troviamo in una zona industriale alleggerita, dove il vomito non esce dai trapani ma da delle lamiere smussate, una comparsa terrifica di un teatro che risiede nella culla del tempo, tra la Germania dell’est e la Russia, in un lento e dissacrante duello colmo di tensione. Modo migliore per terminare questo disco non c’era: non tornate alla prima canzone, state qui, fate i bravi, di nuovo play su questo vascello pieno di chiodi arrugginiti, dove ogni singolo suono è un labirinto di menti con data di scadenza. Che sia cupa la vostra gioia, seguite i rintocchi pieni di linfa nera uscire da queste vie sbilenche e perdetevi: questo album è una ferita di cui poter essere fieri tutti…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

26 Maggio 2023


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