mercoledì 5 aprile 2023

La mia Recensione: The Sound - All Fall Down

 The Sound - All Fall Down


“Viene sempre il momento in cui bisogna scegliere fra la contemplazione e l'azione. Ciò si chiama diventare un uomo.” —  Albert Camus, libro Il mito di Sisifo


Il tempo è un confine spesso pieno di miseria, di esagerazioni, di insoluti che schiacciano la ragione e quindi la regione del nostro io, quello votato all’intuizione e alla capacità di essere chiarezza in divenire. Si giunge alle scelte, si spostano i limiti, si sotterra la fiducia e ci si concede allo schianto: Adrian Borland conosce tutto questo e si precipita nei pressi del dolore ormai triturato e lo seduce, lo porta all’interno di un complesso circo di note e parole, come naufragio del sospiro, del respiro, di un volo dentro l’acqua del suo fremito. 

Il risultato è una serie di pillole ingerite, una cura per una tossicità insostenibile: la sua purezza d’animo. Che va distrutta, annientata, condotta per mano verso il baratro. Musica allora, di quella con gli specchi in ogni settore dell’anima, viatico maldestro per una sincerità non addomesticabile, che non corre di certo il rischio di essere contagiosa. Arriva l'arcobaleno della lucidità, con colori onesti, senza olio, senza macchia, gravidi di lucenti verità in fila, come un mantello che vola nell’aria meglio di un tappeto, come terribile scelta di una intelligenza non programmata, trovata, e non per caso, all’interno di un percorso artistico che aveva avuto due palazzi costruiti nello scenario musicale di un momento storico impreparato alla qualità della sua sonda, termometro incivile per molti, che invece portava alla luce il petrolio della vergogna. Non potendo fuggire da se stesso aveva posto fiducia nella altrui accoglienza: un fallimento totale, di cui la sua colpa non è ancora oggi certa…

Con il terzo album inizia la sua depressione. È da questo episodio che divenne chiaro quanto  le cose, così come stavano, fossero per lui insostenibili. Questo lavoro partì da una parolaccia, verbalizzata all’interno della loro sala prove: FUCK OFF!

Rabbia e frustrazione, impotenza e remissione, dolore e convinzione che fosse iniziata la fine della loro fase sognante, della loro giovinezza. 


Era stato individuato il nemico, ciò che non era funzionale alla loro vitalità, innegabile, e nacquero canzoni come rivalsa, vendetta, dimostrazione, un amor proprio con gli occhi segnati da rughe, lacrime copiose e odiose, da lasciar affondare dentro liquidi sonori.

La caduta, già presente sin dal titolo, è in realtà il punto di partenza per una ironia necessaria, dovuta, istruita per ammaestrare le anime: tutte le pillole qui presenti (ben dieci, al limite di una vera e propria dipendenza) sono frutto del laboratorio mentale di Adrian, connesso con l’esercizio di chi affronta il suo nemico più grande, che ancora non è il suo io martoriato, quello che accadrà più avanti, quando le tenebre spegneranno i suoi dolcissimi occhi, perché la sua esistenza non sarà più in grado di vedere la maestosità e l'intensità delle gradazioni dei colori. Ascolti questo lavoro ed entri in una sala di attesa, infinita e lenta, dove le voci non necessitano di esasperazioni urlanti, bensì di un faro che renda sorda la rabbia più cruda, nella quale specialmente il Post-Punk aveva deciso di prendere residenza. Ti ritrovi, così, e non per caso, a dare in affitto il tuo tempo all’ascolto di tracce che seminano sospetto, sfiducia, abbandono e nelle quali ciò che si evidenzia maggiormente è il culto di appartarsi, da soli, nella mappa della fatica quotidiana, una tendina sempre più faticosamente tenuta aperta.

Sono in quattro a produrre, a suonare, a essere membri attivi di un bidone pieno di melma lanciato verso la prepotenza del mercato, di una casa discografica, della stampa, di un Premier avvezzo alla guerra, di una distanza sociale che offre luccichii ma non luci. Un disco di opposizione, dove la chiave di lettura sta nella continuità di una musica come musa della riflessione, delle verità che fuoriescono e prendono aria sul balcone. Sperimentazione, jam sessions, analisi di piccole parti da dover incastrare in un suono votato alla cupezza, a un umore impaurito e che cerca disperatamente il congedo dall’ipotesi del successo perché, ed è evidente, questo album è una bandiera bianca nel nero della volgarità, sventolata con poche forze. Intenso, nudo, crudo, suda e fa sudare i pensieri, portandoli alla deriva di una consequenziale scelta: “con noi o senza di noi, ci ami o lasciaci stare da soli”.


Pesante (chili di glicerina e catrame al suo interno), seducente (grammi sottili di dolcezza lo rendono unico), magnetico (la calamita delle composizioni può condurci al delirio), fa di tutti questi elementi il punto più alto della loro carriera: come è bello tuffarsi nel vuoto con dieci splendide creature e perdere una parte di se stessi.

Il vecchio scriba vi invita a cercare cosa usciva a livello discografico in quei mesi, a pensare a come tutto si fosse allineato verso il concedersi al nulla, il negarsi per poter arrivare al successo. Dimenticata la dignità, tutto accadeva, per la gioia degli stolti. Adrian e soci non si perdevano in queste sciocchezze, perché concentrati a cercare la sanezza della verità, a distinguerla e offrirla. È un dato di fatto che questo All Fall Down sia una bugia, uno schifo totale, un atto vergognoso, una profonda ingiustizia per chi non poteva fare spazio dentro di sé, non obliterando la quotidianità con spruzzi di impavida follia, nel bagno turco delle volgarità, espulse senza ritegno. Quì tutto ferisce, sporca, per la costruzione meccanica dei ritmi, la melodia spolpata, arricchita con sospensioni continue, con i lumi di una ciminiera che lavora senza sosta. Non sono mai stati così attenti alle cellule i The Sound: te ne accorgi dalla forma canzone che per la prima volta viene disturbata da inserti, da arrangiamenti e tentativi di mettere a disagio se stessa per prima, un laboratorio con l’obiettivo di farne l’autopsia mentre nasce…


Si noti come il lato Pop sia volutamente volgare e perennemente bersagliato da pressioni estetiche e morali, con il Post-Punk a fare da inatteso maestro, calmo, riflessivo, per educare il brano a essere “meno semplice”. La formula della composizione si fa volutamente ampia, non è il genere ma il messaggio a essere messo al centro della sala prova, e non quello della scrittura, che mai come in questo disco vive di necessità che coinvolgono l’ascoltatore verso quella devastante situazione che è il prendere coscienza della verità, dove nulla è a contatto con la realtà. Canzoni spugne, lente, alcune invece capaci di trascinarci dentro il sistema collaudato della danza, nella quale le parole disturbano la gioia del movimento, nella quale la serenità non viene chiamata all’appello, per poterci trovare nello spazio di continui stop and go, fisici ma soprattutto mentali. Echi di Ultravox attraverso la spina dorsale di diversi episodi dell’album, mentre tutti cercano e trovano (sarà un caso? Non credo) collegamenti ai Joy Division, perché ci si ferma sempre davanti a ciò che è più vicino, che costa meno fatica. Ma i The Sound giocano in casa, guardano a John Foxx e alla sua magnifica band, e commettono l’imperdonabile errore di voler dare alle creazioni la possibilità di fuggire dalla complicità che offre la banalità. Tutto ciò è motivo di ricchezze non quantificabili, tantomeno intuibili, in quanto la genialità, se lavora a braccetto di una progettualità che vuole stordire l’infame potere del mercato, può solo far planare nel territorio di una ricchezza individuale, senza certezza di corruzione. Questo fa l’album: separa il vizio, e la conseguente perdita di equilibrio, dalla magnificenza di un pensiero sganciato e quindi libero, dove però non sono evidenti felicità da rappresentare. 


L’unico a essere conscio che si era dentro il circuito della resa fu proprio Adrian, in quello che si può sicuramente definire il suo primo album solista. L’atmosfera dei luoghi è in continuo contatto con la luce di un’alba malinconica, presso la quale ogni esplosione di colori diventa sofferenza e motivo di disturbo. Qui si chiude il sogno, si spegne la voglia di creare musica come atto di gioia e di conquista, la si porta invece nel salone dell’anima dove ciò che nasce è già motivo di dolore, per una genialità che lavora su come anestetizzare tutto questo. Proprio per questo motivo il vecchio scriba non esita a definire l’insieme delle canzoni come il più nutriente per chi vuole abbandonare la mediocrità della velocità, dell’egoismo che non contempla il sudore sulla fronte della propria anima. All Fall Down era una missione per Adrian: dare in pasto ai leoni l’inganno, per farglielo masticare, e così avvenne, per una atroce felicità che rese i The Sound la band più coraggiosa degli anni Ottanta. Cosa c’entra poi questa con l’esistenza lo spiegano benissimo le dieci tracce presenti: state lontano dai pruriti e nutritevi del volo, quello cosciente, che vi porterà a fare di questa esperienza la necessità autentica di avere bisogno non di amici, ma di sani pugni in faccia perché dove vive un livido spesso si trova il miglior alleato che poi ti accarezza il cuore…

Ci sono giochi sonori di cui molti perderebbero tempo a cercare la radice. Ma che diavolo: riusciamo a renderci conto che quello che qui ti porta a sorridere in fondo è un urlo, gentile, che rimane tale? Non è Post-Punk, non è Darkwave, non è nulla che possa cadere nelle fauci di un avvoltoio sapiente della provocazione: ciò che ascoltate è l’avanguardia di un futuro che di lì a poco sarebbe accaduto, e Adrian lo aveva previsto e messo agli atti, in tempi non sospettabili…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford 

5 Aprile 2023


https://open.spotify.com/album/3NoUegvQ2S8fUtLK6bPbUl?si=zgoGykb6R8-Wix_Yny2a7g




My Review: The Sound - All Fall Down

 The Sound - All Fall Down


"There always comes a time when you have to choose between contemplation and action. That is called becoming a man." - Albert Camus, book The Myth of Sisyphus


Time is a boundary often full of misery, of exaggerations, of un resolvable notions that crush reason and thus the region of our ego, the one devoted to intuition and the capacity for clarity in becoming. Choices are made, limits are shifted, trust is buried and we give ourselves over to the crash: Adrian Borland knows all this and rushes into the vicinity of the now shredded pain and seduces it, takes it inside a complex circus of notes and words, as a shipwreck of the sigh, of the breath, of a flight into the water of its quiver. 

The result is a series of ingested pills, a cure for an unbearable toxicity: his purity of soul. Which must be destroyed, annihilated, led by the hand towards the abyss. Music then, the kind with mirrors in every sector of the soul, a clumsy viaticum for a sincerity that cannot be tamed, that certainly does not run the risk of being contagious. Here comes the rainbow of lucidity, with honest colours, without oil, without stain, pregnant with shining truths in a row, like a cloak that flies through the air better than a carpet, like a terrible choice of an unplanned intelligence, found, and not by chance, within an artistic path that had had two palaces built in the musical scenario of a historical moment unprepared for the quality of its probe, an uncivil thermometer for many, which instead brought to light the oil of shame. Unable to escape from himself, he had placed his trust in the acceptance of others: a total failure, for which his guilt is still not certain today

With the third album his depression began. It was from this episode that it became clear how unbearable things, as they were, were for him. This work started with a swear word, verbalised inside their rehearsal room: FUCK OFF!

Anger and frustration, helplessness and remission, pain and conviction that the end of their dreaming phase, of their youth, had begun. 


The enemy had been identified, that which was not functional to their vitality, undeniable, and songs were born as revenge, revenge, demonstration, a self-love with eyes marked by wrinkles, copious and hateful tears, to be sunk into sonorous liquids.

The fall, already present in the title, is in fact the starting point for a necessary, due, educated irony to teach souls: all the pills present here (as many as ten, bordering on a veritable addiction) are the fruit of Adrian's mental laboratory, connected with the exercise of one who faces his greatest enemy, which is not yet his tortured self, what will happen later, when darkness will extinguish his sweet eyes, because his existence will no longer be able to see the majesty and intensity of colour gradations. You listen to this work and enter a waiting room, endless and slow, where voices do not need screaming exasperations, but rather a beacon that deafens the rawest anger, in which especially Post-Punk had decided to take up residence. You find yourself, thus, and not by chance, renting your time to listen to tracks that sow suspicion, mistrust, abandonment and in which what stands out most is the cult of secluding oneself, alone, in the map of daily toil, a curtain ever so laboriously kept open.

There are four of them, producing, playing, being active members of a sludge-filled bin thrown towards the arrogance of the market, of a record company, of the press, of a war-mongering Premier, of a social distance that offers glitter but no light. An album of opposition, where the key lies in the continuity of music as the muse of reflection, of truths that come out and take the air on the balcony. Experimentation, jam sessions, analysis of small parts to be jammed into a sound devoted to gloom, to a frightened mood that desperately seeks leave from the hypothesis of success because, and this is evident, this album is a white flag in the black of vulgarity, waved with little strength. Intense, naked, raw, it sweats and makes thoughts drift to a consequential choice: 'with us or without us, love us or leave us alone'.

Heavy (kilos of glycerine and tar inside), seductive (thin grams of sweetness make it unique), magnetic (the magnetism of the compositions can lead us to delirium), it makes all these elements the high point of their career: how beautiful it is to dive into the void with ten beautiful creatures and lose a part of oneself.

The old scribe invites you to look up what was coming out at record level in those months, to think about how everything had lined up towards indulging in nothingness, denying oneself in order to achieve success. Forget dignity, everything was happening, to the delight of the foolish. Adrian and co. were not lost in this nonsense, because they were focused on seeking the sanctity of the truth, on distinguishing and offering it. It is a fact that this All Fall Down is a lie, a total crap, a shameful act, a profound injustice for those who could not make room within themselves, not obliterating everyday life with splashes of fearless madness, in the Turkish bath of vulgarities, expelled without restraint. Here everything hurts, it dirties, for the mechanical construction of the rhythms, the stripped-down melody, enriched with continuous suspensions, with the lights of a chimney that works ceaselessly. The Sound have never been so attentive to the cells: you can tell by the song form, which for the first time is disturbed by inserts, arrangements and attempts to make itself uncomfortable first, a laboratory with the aim of doing an autopsy as it is born...


Notice how the Pop side is deliberately vulgar and perpetually targeted by aesthetic and moral pressures, with Post-Punk acting as an unexpected master, calm, reflective, to educate the song to be 'less simple'. The formula of the composition becomes deliberately broad, it is not the genre but the message that is put at the centre of the rehearsal room, and not the writing, which never as in this record lives on necessities that draw the listener towards that devastating situation that is becoming aware of the truth, where nothing is in contact with reality. Songs that are sponges, slow, some instead capable of drawing us into the tried and tested system of dance, in which words disturb the joy of movement, in which serenity is not called upon, in order to find ourselves in the space of continuous stop-and-go, physical but above all mental. Echoes of Ultravox run through the backbone of several episodes of the album, while everyone searches for and finds (is it a coincidence? I don't think so) links to Joy Division, because one always stops at what is closest, what costs the least effort. But The Sound play at home, look to John Foxx and his magnificent band, and make the unforgivable mistake of wanting to give creations the chance to escape from the complicity that banality offers. All of this is cause for unquantifiable, let alone intuitable, riches, since genius, if it works hand in hand with a projectuality that wants to stun the infamous power of the market, can only glide into the territory of individual wealth, without the certainty of corruption. This is what the album does: it separates vice, and the consequent loss of equilibrium, from the magnificence of an unhinged and therefore free thought, where, however, no happiness is evident to represent.

The only one who was aware that he was inside the circuit of surrender was Adrian himself, in what can definitely be called his first solo album. The atmosphere of the places is in constant contact with the light of a melancholic dawn, at which every explosion of colour becomes suffering and a source of disturbance. Here the dream comes to an end, the desire to create music as an act of joy and conquest is extinguished, it is instead taken to the salon of the soul where what is born is already cause for pain, for a genius working on how to anaesthetise all this. It is precisely for this reason that the old scribe does not hesitate to define the set of songs as the most nourishing for those who want to abandon the mediocrity of speed, of selfishness that does not contemplate the sweat on the brow of one's soul. All Fall Down was a mission for Adrian: to feed deception to the lions, to make them chew on it, and so it did, to an excruciating delight that made The Sound the bravest band of the eighties. What this has to do with existence is well explained by the ten tracks present: stay away from the itches and feed on the flight, the conscious one, which will lead you to make of this experience the authentic need not of friends, but of healthy punches in the face because where a bruise lives you often find the best ally who then caresses your heart…


There are sound games that many would waste time searching for the root of. But what the hell: can we realise that what brings a smile to your face here is, after all, a scream, a gentle one, that remains so? It's not Post-Punk, it's not Darkwave, it's not anything that could fall into the jaws of a vulture skilled in provocation: what you're listening to is the avant-garde of a future that was soon to come, and Adrian had foreseen it and put it on record, in times not to be suspected…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

5th April 2023


https://open.spotify.com/album/3NoUegvQ2S8fUtLK6bPbUl?si=zgoGykb6R8-Wix_Yny2a7g




martedì 4 aprile 2023

My Review: Blood Moon Wedding - American Nightmare

 Blood Moon Wedding - American Nightmare


There is a dutiful embrace fixed in periwinkle-coloured waves, containing travails that must be told, evaluated and finally pushed towards a consciousness that cannot escape it.

If it happens through the art of music, the din can become unbearable, especially if it is done by two souls with their hands firmly planted inside reality, as they shake it up, insult it, reveal its murky secrets and consequences that one often does not want to see.

Mia and Steve take on the burden, they dig into this daily cataclysm and, like a pair of carpenters, smooth out what would like to remain rough and give it an upright, precise moral shape, with wounds coming out of thick, pendulous wrinkles. They do not play at economy, they use words like unscrupulous bulldozers, like heartless scalpels, because they know that what must be done cannot have temptations, stutterings and inaccuracies. 

The old scribe listens, studies, standing on the bridge created by these artist-strategists and walks inside music that throughout the album are continuous windless tombstones, proceeds to meet their courage, the adult determination that does not seek favouritism, probably deciding in advance that the last thing that counts is success, what is fundamental is a conscience capable of ceasing to play the fool. 

They work with their helmet, their rifle, they shoot at the dust of inebriated thoughts, they shake and tug at those who have slumbered over the years, and they advance, song after song, arrow after arrow, bullet after bullet, with the tattoo of their compositions on their skin that ignites every time it finds no opposition. 

Their artistic past allows no doubts: always active, reflective, with their hands like perpetual fists, they throw themselves into this marriage of notes and words, red-hot the airspace that starts in Oakland and arrives in Bath, thus creating the only Anglo-American coalition that bears the fruits of thought within a field of action where the result is an awareness that can no longer be missed.

Sadness here becomes a weapon, an asset, the beginning that throws the sky into joy: two human beings spread their shoulders and embarked on a crazy but perfectly successful feat. Like psychologists wit

hout reticence, they examined the corpse of human minds, even reaching into their nightmares, and teased, stimulated a reaction, threatening with quintals of rock and gothic folk to allow no escape. An anarchic punk that is slowed down and not anachronistic, but perfectly topical, emerges fearless and overbearing, as it must, to crumble useless existences. 

The singing is recitative, soaked in drama and boiling oil, it scratches and breaks the heart and mind, as fearless insidiousness, comes out of the manholes and soars on the flight to a precise point where everything must be heard. Mia and Steve share stanzas, sometimes sharing them, and chills arise like inevitable fires. The music continually hangs by a thread, they seem to be able to fall into the void, and they do so without exaggeration, with the maturity that is only allowed by experience full of talent. The settings are the fruit of studies, of sleepless nights, of days used not to lose anything: all the instruments come out of wisdom and responsibility, nothing can be wasted and the suggestions are merciless tanks.

Mia Dean wounds: the beauty of her vibratos, her high notes, the ups and downs of her vocal registers are masterpieces that bring tears and unstoppable fears, melting our bad listening, ridiculing, because her class is infinite but above all necessary. In her throat dwells the richness of one who sows certainties, has pins and pots of flowers that coexist as her writing enters the notes and explodes into the sky.

She succeeds in giving the voice a dress in which a witch and a fairy converse, converging in a strategy in which everything must emerge, a blood pact that emerges ceaselessly in every song.

And so it is that we feel the urgency, the rage kissing the calm, and the cleverness of words defeating reality.

Steve, rumble of thunder with his unique and therefore recognisable modes of expression, has returned for this project, and has cast himself in the role of a narrator with a reddened uvula, full of sadness but with his fists embedded in every syllable, a shaman with scimitar and incense, an actor of rituals and inveterate agitator, a wayfarer who throws your illusion to the ground and kills it with his song.

Exaggerated, irrepressible, he knows how to become the shadow that terrifies, he advances with that vibrant plate of his that from the 1970s to the present day has been pregnant with murderous bacteria and intoxicating filthy sweetness.

Dynamitic, decadent, swaggering, aggressive, all that comes from him is a reflection of tense nerves, which are sure to create righteous discomfort.


We are about to enter into these ten oceanic waves that the two artists wanted, we will smell the scent of these compositions and the colours of lightning that will make the seasons a single long thunderclap with an often lashing voice, which, however, when it softens, manages to bring out a chance to breathe and make what was meant to be a smile.

A resounding album that will swim giving you nightmares, between America and England, with no room for manoeuvre. Surrender and suffer, with that one smile that will look back at you laughing…


Song by Song


1 - Spell


Mia Dean and Steve Lake's awareness swims with bitter lyrics and heavy music kept afloat by the melody of the American artist's singing that is truly sublime and light, almost close to the clouds, but then Zounds' leader, with his vocal part, brings the song back into our stomachs. 

Something magical and cloudy sticks to our ears: these are sensory oscillations that seduce and penetrate the mind. This duo launch a determined attack on our weaknesses, but perhaps a song can actually be useful to understand our surroundings and to lead us to growth. 

It is interesting to note that defining what you hear can certainly be of little use, but an attempt must be made.

Rock is dressed in the guitars of The Blue Aeroplanes of Jacket's Hangs with the roar of New Model Army, with the addition of a guitar solo that brings a post-punk modality capable of giving warm chills.

A back-and-forth between the two voices, between the two protagonists, and the story unfolds with this tense atmosphere that clings to us and refreshes the mind: we have a chance to listen to what will shape our thinking and it is one of the most beautiful gifts at the beginning of the year!


2 Some Things Are Worth Believing

The magic of a dark lullaby, a breath-killing synth, the two voices gravitating to the desert of a vanished happiness, the guitar wickedly taking dreams out of the drawer, and an electronic noise that keeps the song inside a cloak where colours seek an embrace. When they then sing in unison, at a high register, even the sky trembles...


3 Wanted 

A forest of desires compacts into a junkyard of tensions, magically blessed by almost devilish vocals, in the vicinity of the anger that has reason to be, in a state where everything seems catatonic, with the suspicions inside the sighs of Mia, a swampy angel-witch, and Steve, an obese devil with his tepidly acid crooning. A song full of free-falling lights, the world is shaken up, and this song sounds like the suspension of life, as it tries not to glide ruinously over useless vague... Clamorous!


4 Looking For Us

Time stands still here, in this frustration of melancholy, in the bombastic reminder of decades long gone by, which the two cleverly celebrate, using a theatrical, almost tribal modus operandi, to deliver us a path of slowed-down metallic tangles, in words that warm like lava held in the hand...


5 Murder Ballad

The ocean, the desert, the night, time, compressed thoughts: a journey inside an alarm, the decadent funeral march activates its splendour in a mantra song, pulsing with echoes in the swamp of existence, with a knife in its hand. Oneiric, in a different way than one might imagine, it is mocking for the pounds of slow vomit the two pour into our minds, and death bangs its nose against our desires...


6 Hey Mia Do You Remember

Gothic Folk lights its torch, the procession enters sturdy but slow in the streets of the night, the guitar and drums are accomplices in a delirium, as if the Virgin Prunes were peeling off their skin and escaping into the mystical aura of the pair, who here decide to dress the music in expectant lights…


7 Wild

Poignant, aggressive with roses bloodying on the ground, Wild is the cloud of chorality that shows how a song can be perfect without being a mass of chords and sounds. Here, the arrangement wins out, a piano and lopsided, weeping guitar. With an almost pop attitude, the enchantment lies in its ability to suggest imagery, to be a blindfolded muse, with the warm-sounding drumming giving everything else the approach of a set of words as unquestionable gospel


8 Blood Moon Wedding Part 1


If there is such a thing as the dance of the pungent winter atmosphere, the one that sedates summer memories, here it is, a slow lash of thorns on the skin. Heavy, harrowing, decadent, the vocals definitively take the sceptre and enchant: it reflects on a black, metallised thought, with guitars like sabres in the wind, in a noise ordeal that gives a bastardised peace...


9 Blood Moon Wedding Part 2


We should all learn from this bite, from this sledgehammer of a hallucinated bass as it burrows into the earth's subsoil, and from the drumming that prepares the entrance of the two masters with their desperate vocals, a trained scream within Post-Punk incandescences tamed by the mood so full of slow-motion Horror.

If you're looking for a winning musical genre, you'll fail intelligence: this is the rite of a marriage gothic in style and perfect in the content of diamond-cut and corrosive lyrics. 


10 PN M2-9

The last dart, amidst the vapours of an existence in leave-taking, is the idyll of voices celebrating the end, in black and torn clothes, in a continuous suspension, between the guitar in a folk but electric state of grace, the piano reciting the rosary and the keyboard enveloping the scene. Seeds of sweetness descend into the heart, but with the unfailing companion of misfortune standing close by in this track that cements perfection, concluding the work of two artists in a state of grace, two soul mates who seem to have been born of the desire of unknown divinities to give us the certainty that blood is the place where life gathers its misery... The album is the sweetest of stabs one can receive, and it is a pleasant pain, to the point of orgasm…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

5th April 2023

https://bloodmoonwedding.bandcamp.com/album/blood-moon-wedding-an-american-nightmare






La mia Recensione: Blood Moon Wedding - American Nightmare

 

Blood Moon Wedding - American Nightmare


C’è un abbraccio doveroso fissato in onde color pervinca, che contiene traversie che debbono essere raccontate, valutate e infine spinte verso una coscienza che non può sfuggire a tutto questo.

Se accade attraverso l’arte musicale, il fragore può divenire insopportabile, specialmente se a farlo sono due anime con le mani ben inserite dentro la realtà, mentre la scuotono, insultano, ne rivelano i torbidi segreti e le conseguenze che spesso non si vogliono vedere.

Mia e Steve se ne assumono l’onere, scavano in questo cataclisma quotidiano e, come una coppia di falegnami, levigano ciò che vorrebbe rimanere grezzo e gli danno una forma morale eretta, precisa, con le ferite che escono da rughe spesse e ciondolanti. Non giocano al risparmio, usano parole come ruspe senza scrupoli, come bisturi senza cuore, perché sanno che ciò che va fatto non può avere tentazioni, balbettamenti e imprecisioni. 

Il vecchio scriba ascolta, studia, trovandosi sul ponte creato da questi artisti strateghi e cammina all’interno di musiche che per tutto l’album sono continue lapidi senza vento, procede incontra il loro coraggio, la determinazione adulta che non cerca favoritismi, probabilmente decidendo in anticipo che l’ultima cosa che conta è il successo, ciò che è fondamentale è una coscienza in grado di smettere di fare la gnorri. 

Lavorano con l’elmetto, il fucile, sparano alla polvere dei pensieri inebetiti, scuotono e strattonano chi si è assopito in questi anni, e avanzano, canzone dopo canzone, freccia dopo freccia, pallottola dopo pallottola, con il tatuaggio delle loro composizioni sulla pelle che si incendia ogni volta che non trova un’opposizione. 

Il loro passato artistico non concede dubbi: da sempre attivi, riflessivi, con le mani come pugni perpetui, si gettano in questo matrimonio di note e parole, arroventando lo spazio aereo che partendo da Oakland arriva a Bath, creando così l’unica coalizione Anglo Americana che porta i frutti del pensiero all’interno di un campo di azione dove il risultato è una consapevolezza che ormai non può più mancare.

La tristezza qui diventa un’arma, una risorsa, l’inizio che butta il cielo nella gioia: due esseri umani hanno allargato le loro spalle e si sono imbarcati in un'impresa folle ma perfettamente riuscita. Come psicologi senza reticenze, hanno esaminato il cadavere delle menti umane, arrivando persino ai loro incubi, e hanno stuzzicato, stimolato una reazione, minacciando con quintali di rock e gothic folk per non permettere nessuna fuga. Un punk anarchico rallentato e non anacronistico ma perfettamente attuale si palesa impavido e strafottente, come deve essere, per sbriciolare esistenze inutili. 

Il cantato è recitativo, imbevuto di drammi e olio bollente, gratta e spezza il cuore e la mente, come insidia senza paura, esce dai tombini e sale sul volo diretto verso un punto preciso dove tutto deve essere ascoltato. Mia e Steve si dividono le strofe, a volte condividendole, e i brividi nascono come incendi inevitabili. Le musiche sono continuamente appese a un filo, sembrano poter cadere nel vuoto, e lo fanno senza esagerare, con la maturità che è consentita solo all’esperienza piena di talento. Gli incastri sono frutto di studi, di notti insonni, di giorni usati per non perdere nulla: tutti gli strumenti escono dalla sapienza e dalla responsabilità, nulla si può sprecare e le suggestioni sono carri armati impietosi.

Mia Dean ferisce: la bellezza dei suoi vibrati, dei suoi acuti, i saliscendi dei suoi registri vocali sono capolavori che fanno nascere lacrime e paure inarrestabili, sciogliendo i nostri cattivi ascolti, ridicolizzando, perché la sua classe è infinita ma soprattutto necessaria. Nella sua gola abita la ricchezza di chi cantando semina certezze, ha spilli e vasi di fiori che convivono mentre la sua scrittura entra nelle note ed esplode in cielo.

Riesce a dare alla voce un vestito, nel quale una strega e una fata conversano, convergendo in una strategia nella quale tutto deve emergere, un patto di sangue che in ogni canzone emerge senza sosta.

E allora ecco che sentiamo l’urgenza, la rabbia che bacia la calma, e l’intelligenza delle parole che sconfigge la realtà.

Steve, rombo di tuono dalle modalità espressive uniche e perciò riconoscibili, è tornato per questo progetto, e si è calato nel ruolo di narratore con l’ugola arrossata, piena di tristezza ma con i pugni incorporati in ogni sua sillaba, uno sciamano con la scimitarra e l’incenso, attore di riti e agitatore incallito, un viandante che scaraventa a terra la tua illusione e con il suo canto la uccide.

Spavaldo esagerato, incontenibile, sa diventare l’ombra che terrifica, avanza con quella sua placca vibrante che dagli anni Settanta ai giorni nostri è rimasta gravida di  batteri omicidi e di sporche dolcezze che inebriano.

Dinamitardo, decadente, spavaldo, aggressivo, tutto ciò che arriva da lui è una riflessione dai nervi tesi, che sicuramente sapranno creare giusti disagi.


Stiamo per entrare dentro queste dieci onde oceaniche che hanno voluto i due artisti, sentiremo l’odore di queste composizioni e i colori di fulmini che faranno delle stagioni un unico lungo tuono dalla voce spesso sferzante, che però, quando si addolcisce, riesce a far uscire fuori una possibilità di respiro e a fare in modo che ciò che si doveva intendere trovi un sorriso.

Un album clamoroso che nuoterà regalandovi incubi, tra l’America e l’Inghilterra, senza possibilità di manovra. Arrendetevi e soffrite, con quell’unico sorriso che vi guarderà ridendo…


Song by Song


1 Spell

Ci sono miracoli del cielo che mostrano il loro volto conficcandosi all’interno di una canzone, come gesto di assoluto valore, perché la musica può ancora essere un messaggio degli Dei. E loro hanno scelto due anime che vivono fisicamente lontane, ma assolutamente intime artisticamente, spingendole a scrivere un brano intenso, verace, gravido di particelle coscienti per farci sapere che c’è molto da fare per chi vuole abitare la vita e i suoi luoghi. La consapevolezza di Mia Dean e di Steve Lake nuota con un testo amaro e un’onda sonora greve tenuta a galla da una melodia del canto dell’artista americana davvero sublime e leggero, quasi vicino alle nuvole, ma poi il leader degli Zounds, con la sua parte vocale, riporta il tutto dentro il nostro stomaco. 

Qualcosa di magico e torbido rimane appiccicato alle orecchie: sono oscillazioni sensoriali che seducono e penetrano la mente. Questo duo sferra un deciso attacco alle nostre debolezze, ma forse una canzone può davvero risultare utile per capire il circostante e condurci alla crescita. 

Interessante notare che definire ciò che si sente può risultare sicuramente poco utile, ma un tentativo occorre farlo.

Il rock si veste delle chitarre dei The Blue Aeroplanes di Jacket Hangs insieme al fragore dei New Model Army, con in aggiunta un solo di chitarra che apporta una modalità Post-punk in grado di regalare brividi caldi.

Un botta e risposta tra i due protagonisti, e la storia si sviluppa con questa atmosfera tesa che avvinghia e ristora: abbiamo l’occasione per poter ascoltare ciò che ci formerà il pensiero ed è uno dei più bei regali di inizio anno!


2 Some Things Are Worth Believing

La magia di una ninnananna oscura, un synth che uccide il respiro, le due voci che gravitano presso il deserto di una felicità ormai scomparsa, la chitarra che malignamente toglie i sogni dal cassetto, e un noise elettronico che tiene il brano dentro una cappa dove i colori cercano un abbraccio. Quando poi cantano all’unisono, a un registro alto, anche il cielo trema…


3 Wanted 

Una foresta di desideri si compatta in una discarica di tensioni, magicamente benedetta da voci quasi diaboliche, nei pressi dell’arrabbiatura che ha ragion d’essere, in uno stato dove tutto sembra catatonico, con i sospetti dentro i sospiri di Mia, angelo-strega dal fare paludoso, e Steve, diavolo obeso con il suo crooning tiepidamente acido. Brano colmo di luci in caduta libera, il mondo viene scosso, e questa canzone sembra la sospensione della vita, mentre cerca di non planare rovinosamente su inutili velleità… Clamoroso!


4 Looking For Us

Il tempo si ferma qui, in questa frustrata di malinconia, nel roboante richiamo di decenni ormai lontani, che i due, sapientemente, celebrano, utilizzando un modus operandi teatrale, quasi tribale, per consegnarci un sentiero di grovigli metallici rallentati, in parole che scaldano come una lava tenuta nella mano…


5 Murder Ballad

L’oceano, il deserto, la notte, il tempo, i pensieri compressi: viaggio all’interno di un allarme, la decadente marcia funebre attiva il suo splendore in una canzone mantra, pulsante di echi nella palude dell’esistenza, con un coltello in mano. Onirica, in un modo diverso da quello che si potrebbe immaginare, è beffarda per i chili di vomito lento che i due riversano nella nostra mente, e la morte sbatte il naso contro i nostri desideri…


6 Hey Mia Do You Remember

Il Gothic Folk accende la sua fiaccola, la processione entra robusta ma lenta nelle vie della notte, la chitarra e la batteria sono complici di un delirio, come se i Virgin Prunes stessero squamando la loro pelle e fuggissero dentro l’aurea mistica della coppia, che qui decide di vestire la musica di luci in attesa…


7 Wild

Commovente, aggressiva con le rose che scendono per terra sanguinanti, Wild è la nube della coralità che dimostra come una canzone possa essere perfetta senza essere un ammasso di accordi e di suoni. Qui vince l'arrangiamento, un pianoforte e la chitarra sbilenca e piangente. Con un atteggiamento quasi pop, l’incanto risiede nella sua abilità di suggerire le immagini, di essere una musa bendata, con il drumming dal suono caldo che conferisce a tutto il resto l’approccio a una serie di parole come vangelo indiscutibile…


8 Blood Moon Wedding Part 1


Se esiste la danza dell’atmosfera invernale pungente, quella che seda i ricordi estivi, eccola qui, una frustata lenta di spine sulla pelle. Greve, straziante, decadente, le voci prendono definitivamente lo scettro e incantano: si riflette su un pensiero nero, metalizzato, con chitarre come sciabole nel vento, in un calvario noise che regala una pace imbastardita…


9 Blood Moon Wedding Part 2


Tutti noi dovremmo imparare da questo morso, da questa slavina di un basso allucinato mentre scava nel sottosuolo terrestre, e dal drumming che prepara l’entrata dei due maestri dal vocio disperato, un urlo ammaestrato dentro incandescenze Post-Punk domate dal mood così pieno di Horror al rallentatore.

Se cercate un genere musicale vincente, farete fallire l’intelligenza: questo è il rito di un matrimonio gotico nello stile perverso e perfetto nel contenuto di liriche diamantate e corrosive. 


10 PN M2-9

L’ultimo dardo, tra vapori di un’esistenza in congedo, è l’idillio di voci che celebrano la fine, in abiti neri e strappati, in una sospensione continua, tra la chitarra in stato di grazia folk ma elettrica, il pianoforte che recita il rosario e la tastiera che avvolge la scena. Semi di dolcezza scendono nel cuore, ma con l’immancabile compagno di sventure che sta nei pressi di questo brano che cementa la perfezione, concludendo il lavoro di due artisti in stato di grazia, due anime gemelle che sembrano essere state partorite dal desiderio di sconosciute divinità per donarci la certezza che il sangue è il luogo dove la vita raccoglie la sua miseria… L’album è la più dolce delle coltellate che si possano ricevere, ed è un dolore piacevole, fino all’orgasmo…

Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
5 Aprile 2023






My Review: Division Of Doubt - Suffer, Sinner B / W Days of Old

Division Of Doubt - Suffer, Sinner B / W Days Of Old


We jump on the train of the animalistic Division Of Doubt, lead suitcase with solid poison in it, and off we go, plunging into Salt Lake City, Utah, USA, to lose track of ourselves (benefit, yes, pure benefit) and find ourselves in black-stained Post-Punk, which defies Darkwave to deliver twists in body and mind. It must be that in those parts, music is a summary of dramas and passions without the need to educate them, a fascinating and cruel melting pot that conquers by conviction and skill. The first track Suffer, Sinner is a TGV of asbestos and asphalt bubbles in the vicinity of Deathrock making demands, and getting them. The following Days of Old sees a change of pace and atmosphere, slowed down and pure, almost shoegaze the system, with Post-Rock studying and sitting back to applaud. Two songs for an overview that elicits elegant and measured weeping, but with the impression that as the listens go by it will become a landslide to expand the size of the city lake...


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
4th April 2023




La mia Recensione: Midas Fall - Cold Waves Divide Us

  Midas Fall - Cold Waves Divide Us La corsia dell’eleganza ha nei sogni uno spazio ragguardevole, un pullulare di frammenti integri che app...