domenica 24 aprile 2022

La mia Recensione: CSI - La terra, la guerra, una questione privata

 

La mia Recensione 


C.S.I. - La Terra, La Guerra, Una Questione Privata


Si vive sulla Terra, mentre si fa la Guerra, e la vita diventa una questione privata, fatta di ricordi, di testimonianze, mentre il tempo accarezza le ferite, le guarda in faccia e poi, dopo singhiozzi, riflessioni e scatti d’ira, dice a se stesso “Esco”…

Un album capace di essere l’orgoglio di persone che ascoltano movimenti di coscienza da tenere accesa, da mostrare con fierezza mentre le rimembranze di lotte fratricide divengono anche il Presente che acclama il diritto di valori che devono imporsi.

Una chiesa, un paese fondamentale nella lotta al fascismo, un uomo che ha scritto come nessuno mai e che per una sera ha ricevuto lo sguardo di anime attente.

Tutti presenti, lucidi, con la capacità di generare insieme quel fragore che da avvenimento è stato capace di trasformarsi in prezioso accadimento.

Lamento sonoro, anche sonico, con parole scortecciate, hanno gonfiato il ventre di quell’edificio in una preghiera soprattutto laica, in una pentola di emozioni che hanno conosciuto anche la devastazione interiore, per bollire nelle vie sanguigne quasi terremotate e increduli: i C.S.I. hanno stretto i pugni, preso fiato da polmoni urlanti e hanno depositato, attraverso cavi, microfoni, amplificatori, tutta la loro necessità di prendere il loro ultimo album Linea Gotica e di integrarlo con la vita dell’uomo nato ad Alba. Una processione di intenti, di valori, necessità che in abbondanza hanno colorato il cielo interno di quella chiesa e dei presenti per sussurrare alle cupe vampe di far posto ad un arcobaleno sempre più desiderato. 

Le cose che dovevano andare sono andate per la loro strada: sono finite dentro menti che si spera le abbiano tenute in sé, che ne abbiano conservato preziosa memoria.

Notte di esplosioni, di canzoni dalla gola profonda, la devastante capacità di uomini e musicisti uniti nel deflagrare, nel seminare, nel vivere il dolore che ha consumato, torturato, ucciso innocenti.

Introduzioni lente, minimaliste, piene di odori, per poi detonare il tutto facendo sentire il puzzo di una vita assurda, un macello aperto ventiquattro ore al giorno.

Canzoni come morsa, c’era da stringere forte il Nero, l’esigenza di mostrare che il sangue è Rosso e che il nero significa putrefazione, malattia, follia, prevaricazione, morte.

Quella sera la musica dirompente della band tosco-emiliana si è coniugata con una modalità che ha piegato il fare favorevole ai dilettanti per mostrare la professionalità e distruggere l’approssimazione. Vi era una Patria scomoda da definire, da invogliare, a cui dover dare una sterzata e l’energia profusa è divenuta letale: il torpore è stato annientato, capace di essere un moto acceso, fresco, vivace, essenziale. Ciò che era crudo e freddo è stato riconosciuto e portato a essere un falò: bisognava accendere la necessità di non consegnarsi al silenzio di anime intorpidite e abituate alla rassegnazione. 

Molte delle canzoni originali sono state rese più lente, bisognava rimarcare la loro potenza e la lentezza può fare questo. Pallottole di vita, caricate per essere salvifiche e generare il doveroso beneficio, sono state sparate da un palco rovente, terribile, inarrestabile per forza e precisione. Quegli uomini hanno ucciso le storture, ci hanno fottuto per salvarci, una cascata di fuoco ha bruciato l’inutile e ci siamo ritrovati in una catarsi di cui non saremo mai grati abbastanza.

La nostra testa quella sera ha conosciuto un taglio, il limite è stato preso, scosso, portato alla luce grazie alla Grazia che abbiamo ricevuto come prezioso dono necessario, scuotendo l’inverno dei nostri bui comportamenti. Un album coraggioso, la processione di note musicali e parole che sono salite al cielo, lentamente, desiderose di leggerezza che è penetrata nei pensieri come vitamina, come proteina, aprendo la volta celeste verso un miglioramento teso e verticale. La lotta partigiana ha conosciuto la considerazione che meritava con un impegno che ha soffiato via per qualche momento la disperazione, la fatica nell’accettare quel male che, dopo aver ammazzato pubblicamente migliaia di persone, ha deciso di uccidere la libertà, privatamente, di nascosto, con il suo ripudiante sguardo fisso. I C.S.I. ci hanno reso piccoli, immobili, ci siamo sentiti arresi da una parte dalla loro bellezza, dall’altra davanti ad una realtà che l’approssimazione avalla contribuendo alla assoluta libertà di quel fascio nero indigesto di continuare ad essere devastazione insopportabile. Ci hanno fatto viaggiare dentro la Storia che ha scritto pagine terribili, drammatiche, uno sconquasso che si muove come la polvere con il vento che, infaticabile, non si arresta. Sono stati una vertigine voluta, desiderata, tesa ad abbattere il mondo e liberarlo. Canzoni come pance, menti vergini da proteggere e conservare per non conoscere la distruzione.

Ci hanno guardato negli occhi per illuminare la nostra piccolezza, riempiendo le vene di una potenza più che mai necessaria con brani colmi di cartavetro: c’era da raschiare e l’hanno fatto perfettamente. Tutto è stato pregno di Letteratura, di Storia, di Poesia, hanno attraversato i visi, i loro drammi, la volontà di farci sapere che si è liberi dando la vita, non accettandone i soprusi. Sentire i tuoni dentro una chiesa è stato pazzesco: nessun Dio poteva fermare la band perché c’era un compito in classe da svolgere, un percorso umano da definire, specificare, rendere eterno in quanto questo sa fare la Musica che conosce l’impegno concreto. Non bisognava ascoltare ma fare inginocchiare l’ignoranza, l’attitudine al menefreghismo più violento e inutile. 

“Materiale Resistente”, “Linea Gotica” e infine “La Terra, La Guerra, Una Questione Privata”: tre movimenti del pensiero profondo si sono uniti per celebrare l’umana messa del risorgimento, del risveglio, di una guerra mentale capace di non fare vittime ma di generare una nuota vita, pulsante e consapevole. La tensione e il caos hanno regnato, fortunatamente senza essere interrotti, gettando sui ciottoli della chiesa la convinzione che il movimento culturale avesse trovato nella band dei profeti, dei guerrieri pacifici, dove l’elmetto è stato tolto: non c’era nulla di cui aver paura, nulla da cui ci si doveva difendere e ci siamo ritrovati a intonare la poesia della vita con tutta la sua importanza. Ogni irripetibile chance è stata praticata, Annarella ha avvolto l’impegno e la saggezza, mentre la figlia di Fenoglio versava lacrime umane tiepide, dolcissime, tenere, ed un suo amico col foulard sorrideva e rendeva il ricordo di Beppe una cavalcata nelle colline di Alba: un piacere assoluto a dimostrare che ciò che rimane può seminare bellezza e l’inclinazione a voler ancora progettare un mondo migliore. L’ascolto di una registrazione di questo evento non potrà mai far scaturire lo stesso effetto che ha sortito su di noi che eravamo presenti, ma sarà capace comunque di scuotere, di arrossare il cielo interiore, dove nessuna quiete ha trovato posto: era necessario mettere della legna calda, bruciante, rincuorando e sostenendo la volontà di riappacificare il cuore. La terra è stata scaldata, la guerra è stata punita e la questione privata ha avuto il conforto di essere abbracciata, perché in questo album la vita ha danzato tra le stelle insieme al partigiano Johnny facendo capire che il passato ritorna con il senso della consapevolezza e dell’efficacia, di un utilizzo che genera miglioramento.

Probabilmente quella serata e questo disco testimoniano una dirompente unicità, come anche l’affermazione che la veemenza, il bisogno di vivere una Storia sempre uguale e sempre diversa, per non essere più “semplici” canzoni ma inchiostro vivo, energico, necessario per scrivere una nuova identità e far scendere il sogno dal suo piedistallo e renderlo concretamente una realtà efficace, possa trovare il suo senso.

È tempo di bruciarci la pelle e di entrare nel fuoco di questi solchi per dare alla memoria la luce e la consapevolezza di una serata talmente intensa che ancora oggi il fiato si trattiene: per rispetto, per il bisogno di non disperdere nulla…


Canzone per Canzone


Campestre


Tutto dilatato, glorificato dalla seta soffice della voce di Ginevra Di Marco, che impone la sua classe alla poesia delle chitarre danzanti di Massimo Zamboni e Giorgio Canali su un arpeggio cupo, una dissonanza perfetta e il basso sornione di Gianni Maroccolo. 


Esco 


Fuoco alle polveri: le chitarre ed il pianoforte tetro di Francesco Magnelli sono l’apripista di una canzone ancora più sferzante dal vivo e Giolindo Ferretti fa vibrare l’inferno e il tempo. Donna Ginevra è un sibilo come la chitarra di Giorgino, mentre Massimo spella la pelle e tratteggia il pianto nascente.


Fuochi nella notte di San Giovanni 


Le percussioni di Gigi Cavalli Cocchi ammaliano, mentre la voce di Giovanni splende come non mai per una canzone che vive di una coralità unica, vistosa e imponente, con quel fare pop che viene concesso per bellezza e valore. Senza dimenticare quella chitarra elettrica che sul coro graffia e seduce. 


Guardali negli occhi


Il dono del cielo si chiama Gianni Maroccolo, il suo basso scompiglia le vene, e Massimo e Giorgino gli danno una mano per rendere questa canzone la regina dell’emozione. Ferretti affonda la sua voce nel nostro ventre, mentre la penna del partigiano vola libera. 

Una semi danza che circonda le nostre gambe e poi Ginevra che sale a baciare le piume delle stelle.


Linea gotica


Maestosa, rovente, cilindrica, grassa e crassa, la canzone che dà il titolo all’album che ha preceduto il concerto diventa acqua bollente: scende dalle colline attorno ad Alba per riscaldarla dalle ferite della guerra. Una parata di classe geniale che, una volta che ha lubrificato il suo motore, diviene un boato lento. Francesco ci fa rabbrividire con la sua tastiera, mentre le note si abbassano per poi salire in alto come allucinazione necessaria.


Cupe vampe


Commovente, straziante, pericolosa, agile, precisa nel fare della chiesa un luogo pieno di sangue raffermo e di un dolore che continua a bruciare la carne e la mente.

L’apoteosi che sovrasta e che induce alla disperazione. Potente come non mai, qui tutti mostrano la perfezione e la ferita si allarga. Giovanni e Ginevra sono gli Dei che ci fanno tremare e poi la chitarra che parte al minuto tre e cinquanta ci spazza via tutti: non rimane che la fede davanti non alla versione migliore, ma all’essenza di questo brano che qui trova il luogo ed il momento per divenire la perfezione assoluta.


Memorie di una testa tagliata


Il maestro Francesco sale in cattedra: dipinge le mura della chiesa con tocchi perfetti come la volta celeste e Giovanni veste la sua voce di terremoti dolcissimi ed esplosivi, come se potesse coniugare a tutto questo l’eruzione di vulcani scalpitanti. La chitarra acustica di Maroccolo è poesia ritmica che ben si abbina al contraltare di chitarre nevrotiche. Con un finale apocalittico e snervante che ci sbottona la pelle.


In viaggio


Marito e moglie (Francesco e Ginevra) aprono i cuori con la loro sottile poesia e poi Giolindo abbassa il tono della sua voce verso il centro della terra. Quando il punk invece di urlare strappa le vene con il suo ritmo lento ma dalle fondamenta solide, logorando il tempo che vorrebbe farlo cedere: non ci riuscirà. Un’altra perfezione che si mostra facendoci cadere nella vertigine della bellezza.


Del mondo


Una nenia logorante ci fa puzzare il sangue: Francesco pigia con veemenza sui tasti, mentre Giolindo diventa un muezzin che con la sua preghiera pagana infetta le nostre palpebre.

Il pianeta terra cambia la sua traiettoria scendendo ai piedi dell’universo.


Annarella


Bella come non mai, Annarella indossa il suo abito rosso d’amore per spogliarlo dentro le voci di Giovanni e Ginevra e divenire la ninnananna  che invece di far addormentare sveglia il bisogno di legarsi a qualcuno. Il pianoforte di Magnelli diventa il testimone di una poesia senza fine.


Irata


Le lacrime entrano nel coro sovrano di questa processione divina, con l’organo di Francesco a portarci atomi degli anni 70 ed un prog infettato da chitarre ubriache e storte. Giolindo soffia fulmini nel microfono con malinconia ed il fiato pesante per esaltare un testo poderoso. Gianni diventa la voce dal tocco possente, Gigi appoggia le dita donando al tempo calore.

Mentre si muore si ascolta la canzone della fragilità che col suo finale vibrante porta Ginevra ad essere la fata dalla vocale che uccide.


Guardali negli occhi - ripresa


Le gocce del viso vivono nell’ascolto di questa canzone che ritorna mentre la morte si trasferisce sui monti per rimanere intatta contro l’infinito. Giolindo spezza il fiato con la sua fiamma ossidrica capace di scaldare l’ignoranza e di sconfiggerla, circondato dagli altri membri della band accordati in una intensità che rende la musica un palco di spine che usando la melodia fanno la guerra. 

È un combat folk che può solo ripetere la storia della nostra vita, tra le note sottili di Francesco che spingono le chitarre malate di un dolore che vive obbligatoriamente il suo destino irrimediabilmente segnato.

Massimo e Giorgino spargono schegge di follia insieme a Gianni che distrugge il cielo.

Uno strazio sentirla, una gioia cantarla, i brividi che illuminano il futuro dentro la consapevolezza che il destino umano è quello di vedere le penne cadere, ma con i sorrisi appiccicati sui denti…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

24 Aprile 2022


https://open.spotify.com/album/6742TYQHe1Rru8NwLwc5kJ?si=f9Sb_3TdTtu51GlM7D7mFQ







sabato 23 aprile 2022

My Review Unbelievable Truth - Almost Here

 My Review 


Unbelievable Truth - Almost Here


On the road of memory one can find atoms of beauty with petals almost ready to surrender, to the structural failure that would mean their death. 

For example, an album that has been lying in the dark for too long: trembling, disappointed, perplexed, shocked, dejected.

Born and bred in rich and fruitful Oxford, it is a breath that contains the millennial sweetness that has been able to turn into songs with hands full of candour and gracefulness, with a longilinear manner structured to be a pillow that as a faithful companion supports rest and dreams. 

But I have never forgotten how much exquisiteness abounds inside, its ancient flavour that comforts and seduces: only frenzy led me for a while to leave it unjustly among the dust.

Almost Here is the feasible exercise of a skilful collection of love progressions, open pages of flair and emotion that walk on the claws of our inattention. No longer in time to be called Brit Pop, it sounds more like an Alternative scenario that welcomes Folk Rock in order to connect with romance prone to put on some muscle and decadent pop.

You cry, you are moved, you seek true affection while listening to these eleven delightful compositions, short of breath and long of joy because yes, in the end you are enveloped by the feeling that joy lives on forever.

Andy Yorke, brother of Radiohead's more famous one, has had to fight against the comparisons that human stupidity has not failed to show, ending up by crushing the path of this equally talented one.

The album is a grey necklace of pop songs with a look inside sadness, atmospheres that veer towards melancholy as the fruit of a familiar DNA, the need to closely scrutinise the motions of suffering of an increasingly depressing everyday life. 

 Not slaps but songs that know how to surprise for different attitudes, for a final sampling that can lead to declare that there are few records of the 90s that have such an intense mood. Where there is a lack of songs that can bewitch (which is not necessarily a defect or a lack) we find a general involving and dragging climax, given by having perfectly gathered the sick waters of a world with little poetry...

Now let's get in the water and see things through these eleven waves: may any of you learn the beauty of the sea...


Song by Song


A guitar that tingles the skin opens the album: it's titled SOLVED and it's a welcoming melodic cradle, an almost mystical, delicate and gentle nebula that captures us for its distinct propensity to make us dream.

With ANGEL we hear what the Yorke family does best: being inclined to hold our breath with the gentleness of dreamy images, minimalist rhythms, the bass and drums knocking on the door of the heart to wrap us in a romantic grip.

STONE recalls the importance of Glen Hansard with his The Frames: with little you can give a lot. The acoustic guitar, in full folk style, brings the atmosphere alive and a very sweet counter-song softens the tension of the lyrics. In the finale, the electric guitars push towards a more robust zone, only to dissolve and give way to the acoustic one.

By the time SAME MISTAKES arrives, you realise that certain songs could only be born in the 90s. Drops of The Levellers from the first album A Weapon Called The Word, the kindness of Heather Nova, the beam of light mixed with the shadows of the first The Cranberries and then a lot of sweetness for a really remarkable emotional rollercoaster.

Just enough time to catch our breath and FORGET ABOUT ME reminds us of The Eagles at first: the introduction sounds like a declaration of love for the band from Los Angeles. Then we enter Andy's beloved space: the introspection that comes from the lyrics to this song that sounds like a dry leaf in search of oxygen, while its flight becomes more and more sad.

The rhythm and a more serene melody return: it's SETTLE DOWN that softens us, opening the shutters with its pop, a minimal but effective arpeggio, the poetry of the bass and the propensity to be a caress that from the initial blue ends up sounding yellow. Finally, the sun comes out of the Oxford sky.

Neil Hannon's The Divine Comedy seem to draw the melody of this song, asking for an opinion to the Danish Saybia for the delicate FINEST LITTLE SPACE: a poignant flight that makes us cry with the play of guitars and keyboards until we tremble. Very remarkable. 

Perhaps the best moment, certainly interesting, comes with BUILDING, a song that Thom Yorke could have written if he hadn't chosen to play with Radiohead. Arcane, light, between the sweetness and the scream that shakes the night, the song shows the ability that Adam Duritz with his Counting Crows has always had: that of letting people taste the beauty slowly, to the point of putting a little salt with the invitation to movement to give this gem the joy of taking four steps in our hearts.

The title song of the album, ALMOST HERE, is simply immense: we are in the USA of the 60s, a melody like a sip of water, the voice like a hidden gospel and questions that advance within a man searching for himself. Everything is painted, whispered, almost faint, essential, with no need for fragments. All it takes is a slightly higher register of voice and everything clicks into place and the heart applauds.

The first Simon & Garfunkel opens HIGHER THAN REASON: it starts with a little pop run, then a stop and the voice vibrating over acoustic guitars, in odour of flamenco, to then clearly notice the attitude so dear to Puressence to give to the refrain the sensation to make a vibrating flight. We are moved by these wounds mentioned in the lyrics and we thank heaven for giving Andy the strength not to sink. 

BE READY concludes our listening: a gentle, good-humoured Bob Dylan seems to have written the opening part. We understand that folk music, when it decides to couple with pop, can generate pure, dreamy beauty. A delicate guitar solo leads towards the end with electric strings drawing a melody that is perfect for a farewell.


Alex Dematteis 

Musicshockworld 

Salford

24 April 2022


https://open.spotify.com/album/5rhxKOGLR6q7Rni9E8jQ9t?si=8Sr2VFlWTNutmnnK7nLbFQ







La mia Recensione: Unbelievable Truth - Almost Here

 La mia Recensione 


Unbelievable Truth - Almost Here


Sulla strada della memoria si possono trovare atomi di bellezza dai petali quasi pronti alla resa, al cedimento strutturale che significherebbe la loro morte. 

Per esempio un album che da troppo tempo giace nel buio: tremante, deluso, rattristato, perplesso, sconvolto, abbattuto.

Nato e cresciuto nella ricca e fruttuosa Oxford, è un respiro che contiene la dolcezza millenaria che ha saputo trasformarsi in canzoni con le mani piene di candore e leggiadria, con un fare longilineo e strutturato per essere un cuscino che come compagno fedele sostiene il riposo ed i sogni. 

Ma mai sono stato dimentico di quanta squisitezza abbondi al suo interno, del suo sapore antico che conforta e seduce: solo la frenesia mi ha portato per un po’ a lasciarlo ingiustamente tra la polvere.

Almost Here è l’esercizio fattibile di una raccolta sapiente di progressioni di amore, pagine aperte di estro e commozione che camminano sugli artigli della nostra disattenzione. Non più in tempo per essere definito Brit Pop, sembra piuttosto uno scenario Alternative che accoglie il Folk Rock per potersi connettere al romanticismo incline a mettere su qualche muscolo e a un pop decadente.

Si piange, ci si commuove, si cerca affetto vero durante l’ascolto di queste undici deliziose composizioni, col fiato corto e la gioia lunga perché sì, alla fine si è avvolti dalla sensazione che la letizia abiti perennemente qui.

Andy Yorke, fratello di quello più famoso, dei Radiohead, ha dovuto lottare per contrastare i paragoni che la stupidità umana non ha mancato di mostrare, finendo per stroncare il cammino di questo altrettanto talento.

L’album è una collana grigia di canzoni pop con lo sguardo dentro la tristezza, atmosfere che virano verso la malinconia come frutto di un Dna familiare, la necessità di perlustrare da vicino i moti di sofferenza di una quotidianità sempre più deprimente. 

 Non schiaffi ma canzoni che sanno stupire per attitudini diverse, per un campionario finale che può portare a dichiarare che sono pochi i dischi degli anni 90 ad avere un mood così intenso. Dove mancano brani che possano stregare (il che non costituisce necessariamente un difetto o una mancanza) troviamo un climax generale coinvolgente e trascinante, dato dall’aver perfettamente raccolto le acque malate di un mondo con poca poesia…

Ora entriamo in acqua e vediamo le cose attraverso queste undici onde: sia mai che qualcuno di voi impari la bellezza del mare…


Song by Song


Una chitarra che pizzica la pelle apre l’album: si intitola SOLVED ed è una culla melodica accogliente, una nebulosa quasi mistica, delicata e garbata che cattura per la sua spiccata propensione a farci sognare.

Con ANGEL sentiamo quello che la famiglia Yorke sa fare meglio: essere propensi a trattenere il fiato con la gentilezza di immagini sognanti, ritmiche minimaliste, il basso e la batteria che bussano alla porta del cuore per avvolgerci in una stretta romantica.

STONE ricorda l’importanza di Glen Hansard con i suoi The Frames: con poco si può donare molto. La chitarra acustica, in pieno stile folk, rende viva l’atmosfera ed un controcanto dolcissimo smorza la tensione data dal testo. Nel finale le chitarre elettriche spingono verso una zona più robusta per poi dissolversi e lasciare posto a quella acustica.

Quando giunge SAME MISTAKES capisci che certe canzoni potevano nascere solo negli anni 90. Gocce di The Levellers del primo album A Weapon Called The Word, la gentilezza di Heather Nova, il fascio di luce mischiato alle ombre dei primi The Cranberries e poi tanta dolcezza per una montagna russa emotiva davvero notevole.

Il tempo di prendere fiato e FORGET ABOUT ME ci ricorda all’inizio gli Eagles: l’introduzione sembra un attestato di amore per la band di Los Angeles. Poi si entra nello spazio caro a Andy: l’introspezione che dal testo arriva a questo brano che sembra una foglia secca in cerca di ossigeno, mentre il suo volo si fa sempre più triste.

Torna il ritmo ed una melodia più serena: è SETTLE DOWN a intenerirci, ad aprire le persiane con il suo pop, un arpeggio minimo ma efficace, la poesia del basso e la propensione a essere una carezza che dal blu iniziale finisce col sembrare gialla. Finalmente il sole spunta dal cielo di Oxford.

The Divine Comedy di Neil Hannon sembrano disegnare la melodia di questa canzone chiedendo una opinione ai Danesi Saybia per la delicata FINEST LITTLE SPACE: un volo struggente che fa piangere con i giochi di chitarre e tastiera sino a farci fremere. Notevolissima. 

Forse il momento migliore, certamente interessante, arriva con BUILDING, brano che Thom Yorke avrebbe potuto scrivere se non avesse scelto di suonare con i Radiohead. Arcano, lieve, tra la dolcezza e l’urlo che scuote la notte, il brano mostra l’abilità che Adam Duritz con i suoi Counting Crows ha sempre avuto: quella di far assaggiare la bellezza lentamente, sino a mettere un po’ di sale con l’invito al movimento per dare a questa gemma la gioia di fare quattro passi nei nostri cuori.

La canzone che dà il titolo all’album, ALMOST HERE, è semplicemente immensa: siamo negli Usa degli anni 60, una melodia come un sorso d’acqua, la voce come un gospel nascosto e domande che avanzano dentro un uomo che cerca se stesso. Tutto è dipinto, sussurrato, quasi debole, essenziale, senza necessitare fragori. Basta un registro di voce leggermente più alto e tutto scatta in piedi ed il cuore applaude.

I primi Simon & Garfunkel aprono HIGHER THAN REASON: si parte per una piccola corsa pop, successivamente uno stop e la voce che vibra sopra chitarre acustiche, in odor di flamenco, per poi notare chiaramente l’attitudine così cara ai Puressence di dare al ritornello la sensazione di compiere un volo vibrante. Ci si commuove con queste ferite di cui parla il testo e si ringrazia il cielo per aver dato ad Andy la forza di non sprofondare. 

Con BE READY si conclude il nostro ascolto: un Bob Dylan gentile e di buonumore sembra aver scritto la parte iniziale. Si capisce che la musica folk, quando decide di accoppiarsi al pop, può generare bellezza, pura, sognante. Un delicato solo di chitarra conduce verso la fine con archi elettrici a disegnare una melodia che è perfetta per il commiato.


Alex Dematteis 

Musicshockworld 

Salford

24 Aprile 2022


https://open.spotify.com/album/5rhxKOGLR6q7Rni9E8jQ9t?si=8_Y9rDObSPWZZDGr8sIG2g






La mia Recensione: Abrasive Trees - Moulding Heaven With Heart

 La mia Recensione:




Abrasive Tree - Moulding Heaven With Heart


Esiste un’onda misteriosa che mantiene la sua identità senza permettere un’analisi che possa renderla visibile.

Nella musica capita sovente perché è parte del suo percorso, come un dovere a cui non è possibile sottrarsi, un cammino che può sembrare anche irriverente ma necessario.

Da una Scozia sempre capace di creare talenti e artisti dotati di sensibilità, bellezza e capacità di scrittura immensa, ecco che Matthew Rochford giunge con un singolo, due canzoni a dilatare il senso di beneficio attraverso una modalità profonda, essenziale come una nuvola che cavalca il cielo per colorarlo di rugiada e regalargli quel brivido che la mantiene viva.

L’impressione che deriva dall’ascolto delle tracce è quella di vedere perfettamente accordate, sul lato espressivo, dolcezza e amarezza.

Si sogna mentre gli occhi conoscono movimenti liquidi nei loro bordi, si danza lentamente come una Colia gialla, una splendida farfalla assetata di fiori.

Perché questo sono le due canzoni: animaletti volanti affamati di bellezza e cibo che sanno essere generosi, perché basta vederle per essere felici.

No so se sia utile definire il genere musicale: parrebbe come sempre limitativo e forse pure inutile, perché ridurrebbe la capacità di approfondire la sensazione di gocce soniche intrise, oltre che di bellezza e di mistero, anche di quel senso di una identità che potrebbe offendersi nel vedersi attribuite parole prive di significato.

Che sia Post-Rock, Post-Punk, Ambient, Dreampop delicato più del solito o Rock Sperimentale, poco serve dirlo e saperlo: dove vi è capacità di conseguire unicità ogni addizione diviene superflua.

È brivido, scuotimento, approvvigionamento, volo, drammaticità colorata dalla positività, per un battito di ali come forma di godimento e sopravvivenza.


Moulding Heaven With Earth è una cavalcata lenta dai colori pastello, chitarre che lavorano nell’introduzione con uno spoken word affascinante e coinvolgente, per poi crescere nella forma canzone. È la Scozia dalle bellezze più estreme che la farfalla ci porta ad ammirare, la chitarra che disegna un cerchio nel quale sentirsi sicuri, per una melodia esplosiva nella sua quiete quasi malinconica. 

Se proprio si vuole definirla in un genere musicale è Post-Rock di notevole fattura, un rotolare sui prati tra il vento e i fulmini: qualcosa di breve vive nella malinconia di questa chitarra che pare una assassina melodica.


E poi è Kali a inchiodarci nuovamente all’emozione: Vini Really, Jeff Buckley e Robert Smith sembrano intenti a disegnare poesia densa dentro queste chitarre magnetiche, mentre la voce mostra un cantato pungente, intriso di potenza e tristezza. Si sale con il vento a perlustrare le zone plumbee del cielo, si diventa goccia per esplodere con dolcezza senza fare troppo rumore, perché in quella parte del mondo vi è ancora bisogno di un silenzio rispettoso. 


Conclude l’Ep la versione Rothko remix di Moulding Heaven With Heart e tutto si fa ancora più dilatato e tenebroso.


Concludendo: sarete ammaliati e sicuramente conquistati da queste composizioni intrise di poesia con un senso di allarme sulla pelle.


Alex Dematteis

Musicshockworld 

Salford

22 Aprile 2022


L'Ep uscirà il 28 di Aprile.


https://abrasivetrees.bandcamp.com/album/moulding-heaven-with-earth-kali-sends-sunflowers






venerdì 22 aprile 2022

My Review: Abrasive Tree - Moulding Heaven With Heart

 My Review:


Abrasive Trees - Moulding Heaven With Heart


There is a mysterious wave that keeps its identity without allowing an analysis that could make it visible.

It often happens in music because it is part of its path, like a duty that cannot be avoided, a way that may seem irreverent but necessary.

From a Scotland always capable of creating talents and artists endowed with sensitivity, beauty and immense writing skills, here comes Matthew Rochford with a single, two songs to expand the sense of benefit through a deep, essential modality, like a cloud that rides the sky to colour it with dew and to give it that thrill which keeps it alive.

The impression that comes from listening to these tracks is that of seeing sweetness and bitterness in perfect harmony on the expressive side.

You dream while your eyes experience liquid movements in their edges, you dance slowly like a yellow Colias, a beautiful butterfly thirsty for flowers.

Because this is what the two songs are: flying animals hungry for beauty and food which know how to be generous, because you only have to see them to be happy.

I don't know if it is useful to define the musical genre: it would seem as always limiting and perhaps even useless, because it would reduce the ability to deepen the sensation of sonic drops imbued not only with beauty and mystery, but also with that sense of an identity that could be offended by the attribution of meaningless words.

Whether it is Post-Rock, Post-Punk, Ambient, a more delicate Dreampop  than usual or Experimental Rock, there's little need to say it or to know it: where there is the ability to achieve uniqueness, every addition becomes superfluous.

It's thrill, shaking, provision, flight, seriousness tinged with positivity, for a beating of wings as a form of enjoyment and survival.


Moulding Heaven With Earth is a slow pastel-coloured ride, guitars working in the introduction with a charming and engaging spoken word, then growing in the song form. It is Scotland with its most extreme beauty that the butterfly takes us to admire, with the guitar drawing a circle in which to feel secure, for a melody that is explosive in its almost melancholic stillness. 

If you really want to define it in a musical genre it is Post-Rock of remarkable workmanship, a rolling on the meadows in the midst of wind and lightning: something short lives in the melancholy of this guitar that seems a melodic killer.


Then it's Kali that nails us to the emotion again: Vini Really, Jeff Buckley and Robert Smith seem intent on drawing dense poetry inside these magnetic guitars, while the voice shows a pungent singing, full of power and sadness. We go up with the wind to examine the leaden areas of the sky, we become a drop to gently explode without making too much noise, because in that part of the world there is still a need for a respectful silence. 


The Ep ends with the Rothko remix version of Moulding Heaven With Heart and everything becomes even more dilated and gloomy.


In conclusion: you will be charmed and surely conquered by these compositions rich in poetry with a sense of alarm on their skin.


Alex Dematteis

Musicshockworld 

Salford

23 April 2022


The EP will be available from the 28th of April. You can currently find the song Moulding Heaven With Earth on Bandcamp.


https://abrasivetrees.bandcamp.com/album/moulding-heaven-with-earth-kali-sends-sunflowers




La mia Recensione: Olden - Questi anni

 La mia Recensione 


Olden  - Questi Anni


Ciò che non si capisce non si possiede.

Johann Wolfgang Goethe


Anime in giro che non vogliono capire ve ne sono molte: alcune innocenti, altre meno, ma assolutamente interessante è il concetto dell’intendere, del senso di perdita, di quello di conquista, di questo oceano di cose che viaggiano tra i luoghi e i non luoghi.

In Italia l’arte e la cultura si sono sposate perfettamente con Gianni Siviero, oscurato forse già da se stesso, ma sicuramente molto di più da quella parte di un paese che non ne ha saputo riconoscere la grandezza ed il talento.

Abbiamo però un appuntamento con la fortuna avendo un cantautore italiano, di istanza in Spagna, che ha voluto fortemente riprendere il percorso del Maestro Torinese trapiantato a Milano, nel suo penetrare la ricchezza di un campionario di canzoni che reclamavano considerazione, dando accesso anche ad una rivisitazione corposa.

Così facendo le due identità distinte hanno potuto convivere perfettamente.

L’album è solo un meraviglioso atto finale ma occorre studiare, indagare, capire le dinamiche di come questa grandiosa esibizione di bellezza possa essere finita dentro dieci farfalle dorate.

E questi insetti volano nello stomaco in un volo che Gianni e Davide Sellari compiono insieme: sono ali precise che operano nel nostro io interiore distribuendo petali di saggezza e gentilezza umana, senza rinunciare alla introspezione che spesso è scomoda ma necessaria.

Davide ha colto al volo la sua curiosità e talento, li ha messi uno di fronte all’altra e li ha educati in un esercizio che ha avuto come premessa il rispetto per le canzoni di Siviero.

Da lì la sua classe ha incominciato a dare alle composizioni un volto diverso, un pulsare verso altri battiti, un generare un rapporto come propri figli da educare e indirizzare alla vita.

Canzoni come “piccoli regali”, che arrivano ad essere ricchezza che si offre alle nostre anime pigre e “prive di trofei”.

Olden ha preso ago e filo, voce e passione, un senso architettonico nei confronti di quelle travi che Siviero ha rovesciato davanti ai nostri cuori.

Come si possa arrivare a coniugare la fiumana di considerazioni, gemme dalle labbra dorate di Gianni nella sensibilità del giovane cantautore di Barcellona è un glorioso mistero: nel tempo dell’ascolto vi è sempre la certezza che la perfezione esista e sia una vicenda umana.

Da qui l’atto della sorpresa che avanza atto dopo atto, con quella agilità che ci inebria.

Il tutto avviene con una musica soffice, musa di se stessa e graziosa nella sua abbondante propensione alla bellezza, con finezze sciolte nelle trame di coniugazioni sublimi tra gli strumenti appiccicati alla chitarra.

Nella danza del canto e della musica, nei quali i due hanno affittato la stanza della mutua condivisione, emerge anche la produzione eccelsa di Flavio Ferri, con le sue spinte e certezze cha hanno reso Olden libero di conoscere lo slancio che certifica l’unicità e la sicurezza di se stesso.

Ecco tre anime come Api Regine a lavorare insieme, a rendere il miele non un cibo troppo dolce bensì propenso al doveroso gusto amaro, perfettamente appiccicato a testi come artigli avvolti da sorrisi di fate.

Un disco che propone atmosfere sottili, le note che hanno la forza di non patire la grande affascinante corsa di parole davvero figlie di pugni necessari.

Si viaggia con il folk che bacia il rock più propenso a dolcezze che a ruvidi esibizioni di forza.

Ci si ritrova in Africa e in Asia con arrangiamenti suggestivi e benefici in flussi di abbondanza perfettamente collegati.

Canzoni come stagioni di vita, calendari che contemplano la vita e la salutano, una forma di informazioni che scavalca la banalità e la crudeltà di quella dei giornali e delle televisioni.

Qui tutto appare vero e credibile, con la bilancia che non sconfigge nessuno: a vincere è la verità.

Se riuscissimo ad accogliere questo album di Olden diventeremmo anime che hanno saputo dare consequenzialità alla progettazione, perché è nella natura umana costruire sicurezze e in questo nuovo disco ne troviamo molte.

Descrizione sia allora di queste farfalle: prendiamo vetrini e microscopio, serriamo gli occhi e allarghiamo il cuore perché abbiamo cibo prelibato in regalo di cui masticare la qualità per renderlo felice…


Dieci brani inediti di Gianni Siviero, con testi suoi e musiche sue e di Flavio Ferri.

Olden ha messo nella sua voce un arcobaleno interpretativo meraviglioso.

Tutto inizia con NON VOGLIAMO CAPIRE, un “noi” che viene esposto lasciandoci l’amaro in bocca per le verità che entrano dentro i nostri egoismi e limiti. Chitarra acustica, piano, organo e la voce di Gianni che tratteggia e graffia insieme a quella di Davide per stordirci sin dall’inizio.

Giunge PICCOLI REGALI, con la presenza di Rusò Sala, un cammino fatto di semi multipli e aperture “per non trovarmi solo al tramonto sul molo a salutare il sole”. Brano che esce dalla polvere del tempo, una carezza che circonda la nostalgia e la paura, con voci che danzano insieme, poi si alternano, mentre la musica cresce, con un volo che trasporta la nostra famelica voglia di movimenti sensuali perfettamente fissati dentro a questa traccia.

Con TROPPE COSE i due affondano, ci strapazzano con una storia cruda che le voci sembrano materializzare perfettamente confezionando un groppo in gola enorme. Olden canta come non mai: un signore dell’emozione che stordisce e ammalia. 

La mano sapiente di Flavio Ferri si sente: la sua coperta sonora avvolge perfettamente la chitarra mentre la voce di Davide è una folata di vento piena di lame e spine, quasi vibrante, che cade in piedi, fiera, sul nostro cuore.

QUESTI ANNI, con la presenza di Sighanda, ci conduce in una sospensione carica di consapevolezza ed energia al contempo, i pensieri si allineano ad una musica struggente, con rimembranze di Gianmaria Testa che corrono nella mente. Pennata di chitarra come ruggito, e la voce di lei che è pepe nero, e tutto si trasforma in un groviglio di lacrime e tensioni. E Olden diventa il fulmine che è caduto per mostrarci la sua intensità.

Arriva una parte della Storia Italiana che ancora brucia e le parole di Siviero sono una bomba che stavolta colpisce la nostra arrendevolezza: con ITALIANI VERI l’impegno sociale e la musica si uniscono in un cammino denso e profondo. Si sta fermi a inghiottire i nostri torti con questo brano che musicalmente è un amaro carillon del dolore, un necessario pugno dolce dentro la nostra mente addormentata.

Tocca a MILLE E NON PIÙ MILLE: il brano, che è un capolavoro di riassunto di abilità libere senza confini, è un film arabo, un vento che dal Sahara ci porta un rock quasi Stoner, ma sempre con quella sensualità nord africana a inchiodarci al muro. Gianni e Olden insieme sono una valanga di sabbia, donandoci l’immensità di una risposta mancante.

Una sciabolata di luce arriva con SERA DI LUGLIO (con la presenza di Claudia Crabuzza), con Gianni che diventa un geometra che disegna sogni e realtà. Ed è proprio la voce di Claudia a sposarsi perfettamente con la musica che inizialmente è un gatto sornione che gioca, poi Olden arriva e capiamo quanti passi la sua classe stia facendo: tocca a noi mettere i nostri passi nei suoi.

Arriva Wayne Scott per la stratosferica IN CERCA DI UN RAGIONAMENTO: quando un piano ed una chitarra aprono il cielo per divenire poi uno squarcio e tutto diventa una poesia nera a guardarci con i suoi ritorni al lato acustico per poi ricominciare ad essere fragoroso. Flavio qui mostra il suo lato imbattibile come produttore perché conferisce al brano la perfezione che merita, in un gioco di piani che si spostano dal basso verso l’alto e viceversa con perfetta abilità, spingendo Olden ad una meravigliosa esibizione vocale.

DIMMI GIORGIO è un incantevole dialogo con l’aldilà con un procedere che, partendo da echi di world music e l’attitudine al suono di Phil Spector senza dover essere devastante, rivela come il trio Siviero - Olden - Ferri sia predisposto all’essenziale, senza dispersioni. In due minuti e mezzo abbiamo in mano il contatto con il mistero ed il bisogno, con questa atmosfera musicale che è una culla del tempo e con i due che cantano come piovre che danzano nel cielo. 

Stiamo ancora nella volta celeste con l’ultimo brano che si chiama CHE BELLA LUNA.

Il vero ed il falso che rimangono a duellare nella mente mentre la musica ci porta il Tom Waits più oscuro, con una tensione che vuole afferrare la speranza per poi trovarsi in un lento chaos pieno di verità. Olden e Siviero recitano lo spettacolo affamato di una esistenza egoista che di fronte a sé di vero ha solo la luna. Ed è un terremoto musicale avvolto nella sua lentezza e amarezza, per un brano che sembra donarci un Franco Battiato in una escursione lunare più che mai necessario.


Olden ha dimostrato riconoscenza per la profondità e la bellezza immensa di Siviero e ha messo tutta la sua crescita artistica in questo album che merita luci costanti e applausi scroscianti. 

Un applauso va anche ai due compagni di bellezza che sono Ulrich Sandner (sua l’abilità di chitarre magnetiche e sensuali) e ad Alex Carmina per averci dato la possibilità di capire una volta di più che la batteria e le percussioni possono essere voli magnifici.


Alex Dematteis

Musicshockworld 

Salford





Testi Gianni Siviero

Musica Gianni Siviero, Flavio Ferri 

Voce: Olden

con la partecipazione straordinaria di: Gianni Siviero, Rusó Sala (Piccoli regali), Sighanda (Questi anni), Claudia Crabuzza (Sera di luglio),

Wayne Scott (In cerca di un ragionamento)

Ulrich Sandner: chitarre acustiche ed elettriche Olden: chitarra acustica

Alex Carmina: batterie e percussioni

Flavio Ferri: basso, tastiere

Arrangiamento e produzione artistica: Flavio Ferri Produzione esecutiva: Cose di Amilcare

Registrato, mixato e masterizzato presso Republica Recordings, Barcelona, da Flavio Ferri.


L'album si può acquistare qui:


https://www.squilibri.it/catalogo/crinali/olden-questi-anni.html





mercoledì 20 aprile 2022

La mia Recensione: Arlo Bigazzi / Flavio Ferri - Alfabetiere

 La mia Recensione 


Arlo Bigazzi / Flavio Ferri - Alfabetiere 


Il mondo come linguaggio, come sistema di decodificazioni, come possibilità di capire e farsi capire. La ricerca della creazione di un insieme che possa far fruttificare ricchezze individuali e collettive. Usando anche la visione poetica che illumina e addolcisce le coscienze. Una forma di sviluppo che consente di trovare un baricentro per partire verso la consapevolezza. È il più grande dizionario umano tutto questo e lo percepiamo dentro il lavoro di Arlo Bigazzi e Flavio Ferri, che in “Alfabetiere Majakovskij!” ripartono dall’album “Majakovskij! - il futuro viene dal vecchio ma ha il respiro di un ragazzo”, per unirsi alle fotografie di Lucia Baldini. Cinque brani dell’opera precedente vengono ripresi e rielaborati, aggiungendone altri due nuovi.

Note musicali come lettere, come un via continuo verso il sentiero della conoscenza, un viaggio che forma la comprensione, su territori dilatati e colmi di mistero e luce, tutto questo tenuto insieme da chi ha compreso il percorso da compiere e  sa renderlo chiaro.

Sono poesie sonore, magazzini della memoria e slanci verso la creazione di scintillii che diventano stelle polari.

Parti acustiche, parti elettroniche, per un sogno che scende nella realtà quotidiana portando con sé quell’infinito sconosciuto capace di divenire concreto in una serie di composizioni che sono già immagini, scatti di percezioni, di intuizioni in viaggio tra il passato ed il futuro.

Canzoni come navicelle ricoperte di velluto mentre in viaggio sondano l’universo poetico del sentire la vita come esperienza sensoriale. Loop, lampi di suono morbidi, mantra strepitosi che rendono l’ascolto uno stupore continuo.

Il buon Arlo crea atmosfere dotate di profondità senza nessun contorno di tristezza, sapendo fare del suo percorso un dizionario emozionale e percettivo laddove Flavio distorce, dilata, sublima per conferire all’insieme una compattezza che odora di ambienti senza confini, unendo l’ovest e l’est del mondo, con uno spostamento che diviene ulteriore beneficio culturale per quelle anime volenterose e predisposte a continuare la ricerca più profonda delle verità.

Strumenti come sillabe, vocali e consonanti in un dialogo continuo, dove nulla stride, niente è fuori posto, dando alla musica un senso di completezza che abbatte i limiti della forma canzone.

L’alfabeto cirillico si unisce a quello arabo per circumnavigare maggiormente la comprensione in una festa di informazioni che finalmente aggiungono precisione e chiarezza.

Questo album stoppa la frenesia come un evento che nasce dal deserto, dai ghiacciai, luoghi disabitati e quindi prova evidente della frenesia umana, come se fosse in grado di creare una nuova vita partendo dal silenzio e dal rumore più dolce che esista: quello della natura.

Si giunge alla sensazione che la new age e la sperimentazione più pura siano antiche possibilità stilistiche che i due condensano e da cui decidono di prendere poi le distanze per aggiungerci, attraverso uno sconfinato talento, i loro stilemi.

Movimenti continui di sogni che oscillano nel cammino dell’incoscienza finendo per compattarsi nella realtà umana che i due aRtisti rendono accessibili trasformando il tutto attraverso strumenti che conosciamo ma che trovano una originalità, una forma nuova che conferma il fatto che l’arte sia ancora capace di inventare ulteriori modalità espressive.

Il lavoro di Lucia Baldini e di Chiara Cappelli, insieme alla magica e profonda penna di Mirco Salvadori, che perlustra perfettamente il contenuto, conferisce all’opera eleganza ed una maggior comprensione della musica, finendo per fissare il tutto nel magico non luogo che sapientemente hanno reso concreto.

Strepitosa manifestazione di eleganza e di creazione di nuovi stimoli per dare alla nostra ridotta capacità intellettiva la possibilità di rigenerarsi e di liberarsi di ciò che è divenuto stantio e sterile.

Oltre che un piacere ascoltarlo è soprattutto un riscatto ed una chance di crescita quello che i due strepitosi musicisti, con le loro lucidissime visioni, hanno saputo donarci al fine di insegnarci a parlare la lingua della Cultura e dello sviluppo umano.



Canzone per canzone


1. Se accendono le stelle 4:43


L’apertura è affidata alla esperienza che ha saputo intervenire sul reale: gelatina musicale dentro un sibilo che nuota sulle onde come un campanello d’allarme, inserti di elettronica come insetti lenti a creare l’inizio dell’idea di una parola, che verrà. Un brivido corpulento arriva dal basso che sonda il terreno in un fragore che Flavio doma sapientemente.



2. Poeti estinti 4:25


La verità indiscutibile attraversa il mare per scendere a terra: subito il basso si prende gocce di note che provengono da una tastiera per rendere la sabbia accogliente. Il brano sembra un velo che cammina dentro le nostre insicurezze, con rintocchi ed echi a suggerire la dimensione del lavoro da fare, perché c’è da inventare un linguaggio comprensibile. E allora la melodia semplifica il tutto donando morbidezza, con un loop che abbraccia ciò che sembrava smarrirsi. 



3. Cella 103 5:24


Qui la dimostrazione che il fare non ha potuto che agire in quanto tale e allora note più tese, vibranti, passi che conoscono l’ombra, basso distorto e la fatica del vivere che viene rappresentato dal bip che sembra provenire da un letto di ospedale. Ci si muove con circospezione, guardinghi, per un brano che fonde il jazz all’elettronica, passando per le derive spaziali di Robert Fripp e il progressive stralunato dei Beggars Opera.


4. Ljuda 7:14


Una sillaba nasce, tra la polvere alzata da questa poesia sonora: vive l’allusione all’atto dell’esistere che annienta il discorso arcano per divenire forma concreta. Lo si capisce dai fluidi lenti color vento dei vari inserti di cui è composta la canzone, rasoi elettronici con i mantra necessari per dare alla minima unità fonica appena nata forma e sicurezza.



5. L’alba del 28 febbraio 5:17


Muore l’ambiguità che una sillaba, divenuta ormai parola, possa creare e, dentro questo castigo sonoro, come un temporale che blocca la velocità, se ne ha la pura percezione. Tutto è dilatato, sino a quando il basso di Arlo diviene il battito del cuore del linguaggio crescente. E ci si sposta di latitudine, come una marcia nomade tra le corsie della paura. Flavio governa la tensione spogliandola, ma rivestendola nel contempo di dubbi per fare del quinto brano un miracolo lessicale.



6. Dodja 6:55


Il mistero di una forza che vuole rivelarsi permea questa oscillazione termica data da note quasi gioiose nel sentiero di una cupezza che si avverte in lontananza. E la parola diventa verbo, creando nuove forze, e la tastiera suggerisce un percorso minimalista e indiscutibile. Gocce di ghiaccio scendono dall’alto per purificare il linguaggio, mentre ci si rende conto che anche musicalmente qualcosa di nuovo è nato, rendendo il tutto un ascolto unico.



7. Se accendono le stelle [reprise] 2:48 


L’ultimo brano non determina la fine, piuttosto il contrario: ci lascia in dotazione la consapevolezza che dobbiamo decodificare la bellezza ricevuta come dono unico e incommensurabile e che simbolizza l’inizio di un circuito che si ripeterà come ciclica costante. I due sintetizzano il tutto per un brano plumbeo, rigido, ossuto, glaciale, con spruzzi di melodia e inclinazione alla positività. Il modo migliore per far sentire la Poesia del poeta Russo nell’era moderna, riassumendo le suggestioni antiche che Arlo e Flavio hanno saputo rendere moderne e comprensibili a tutti.

Di una bellezza davvero struggente nella danza dell’ipnosi più suadente.


Alex Dematteis 

Musicshockworld 

Salford 

21 Aprile 2022


L'album uscirà il 22 Aprile 2022




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