mercoledì 21 settembre 2022

La mia Recensione: Gaetano Nicosia - Sparare a vista

 La mia Recensione:


Gaetano Nicosia - Sparare a vista


C’è qualcosa di devastante per lo scriba nell’essere anarchico: una serie di torsioni mentali ed emotive che si raggruppano nell’incredibile oceano di ingiustizia che l’essere umano crea, porta avanti e addirittura difende.

E la voce diventa sempre più sottile, con la tendenza a sparire. Ma poi in soccorso arriva un album, che crea spazio alla speranza, anche se nel farlo non manca l’occasione per piangere e specificare una rabbia davvero immensa.

L’artefice è un avvocato dal cuore enorme e dalla mente lucida e combattiva che muove la sua arte dentro coscienze ammutolite e purtroppo soprattutto assenti. Scrive un lavoro composto da nove esplosioni per svegliarci dal torpore che fa dimenticare la follia del male che non esita a sparare sulle voci che si oppongono al potere. L’unico modo per silenziare e rendere innocuo il tentativo di spodestarlo.

Sono una madre e suo figlio i protagonisti di questo progetto: la loro storia cucita nella modalità di uno Stato volgare e prepotente, dal grilletto facile. Sono nove “no”, nove “basta”, nove “vi fermiamo noi” che con convinzione e abilità sfoderano la loro forza e credibilità. E la morte di un ragazzo diventa messaggio di resistenza, la stessa praticata da una madre ferita gravemente ma con ancora respiri da vivere, sanguinanti e tremendi.

Gaetano usa dolcezza e irruenza, un senso urgente per non far addormentare la memoria e sveglia il mare di indifferenza e distacco con composizioni impetuose, frastornanti, come dinamite dalle mille sfumature, perché il senso del dovere gli fascia l’anima.

Un concept album dalla faccia piena di rughe nella sua storia per poterne però creare una nuova, dove lo spirito guida sia la consapevolezza.

Se l’incipit giunge dal libro del collettivo N23 “Perché non sono nata coniglio”, dove la storia di Roberto Franceschi diventa la lotta di sua madre per restituire al cielo tonnellate di doverosa giustizia, Gaetano raccoglie la tensione, la sviluppa e le dona parole e musica per trasportarci dentro una nube nera, nella quale immaginare che non sempre le ingiustizie rimangano quelle degli altri. Così facendo scattiamo in piedi non per ballare o cantare ma per reclamare diritti che dormivano nel letto della nostra intorpidita coscienza.

È il rock che torna ad alzare la voce, che ritrova una funzione sociale, con l’obiettivo perfettamente raggiunto. Lo fa individuando il nemico, la storia che lascia ferite e lacrime, trasformando queste canzoni in un’enorme sveglia nella testa.

Le chitarre, il basso, la batteria: una officina che si sposta in un hangar, per divenire cacciabombardieri con le parole urlate e sussurrate dalla gola di Gaetano, che diventa una furia anche tramite l’ottimo lavoro di produzione di Flavio Ferri, trovando il modo di precisare senza sbavature l’infinita corrente elettrica di una storia drammatica e la sua conseguenza.

Musica da tenersi stretta, da temere, da seguire, da sviluppare nei nostri spazi solitari, per poterci davvero connettere al mondo al fine di essere perfetti animali sociali, senza nessun risparmio da esibire. Un disco con il sudore e i brividi, che genera febbre e smottamenti, attraverso il quale il dito viene puntato contro le istituzioni, i comportamenti menefreghisti e svuotati dal rispetto che Gaetano invece mostra come assolutamente necessario.

I ritmi sono carichi di vibrazioni, le canzoni di inclinazioni verso la robustezza dove le distorsioni sono calibrate e non atti di fighetteria stilistica.

Nell’architettare questo concept album l’artista milanese ha setacciato, è divenuto un segugio di informazioni precise per poi convogliare il tutto in riflessioni che ha musicato, dando loro la capacità di inserirsi perfettamente nel desiderio che le canzoni diventino fiumi dove la vita torni a galleggiare e non l’ennesima macchia di petrolio a inquinare.

Ecco che allora la musica diventa utile e spazza via il gusto, la preferenza, la confidenza con la zona di conforto che alla fine è una discarica tossica.

Gaetano Nicosia si è immerso in atmosfere col mitra e l’elmetto, con le ginocchia piegate dal dolore, riuscendo però a farci vedere il cielo e a farci assaggiare il desiderio di cambiare le cose, avendo prima capito il da farsi.

Un album con le maniche arrotolate, un via vai frenetico di solidarietà e sostegno per il dolore di quell’ingiustizia che ha portato via una vita da questo mondo e fatto lacrimare la madre. Ma così come quella donna ha usato il dolore per reclamare desideri legittimi, Gaeatano usa la musica per mettere a posto quello che può permettersi di fare.

Canzoni che spazzano ma anche che seminano, il tutto concepito come un flusso magnetico dove gli opposti debbono smettere di farsi la guerra.

In tre episodi (vedremo poi tutto nel dettaglio) tutto sembra rallentare e conoscere prospettive nelle quali la necessità di respirare la calma conduce a incontrare melodie più marcate, maggiormente predisposte all’incanto (che siano in modalità semiacustica, o attraverso una psichedelia con una fisicità sognante), consentendo tregua e riflessioni senza correre.

Il suono dell’album è arcigno, benigno e maligno, sempre avendo l’impressione che voglia tener conto della storia, ma con l’obiettivo rivolto verso forme di considerazione che hanno lo sguardo al futuro, come se contemplasse una strana e tagliente forma sperimentale, un’avanguardia a piccole dosi ma poetiche e battagliere.

Si fa necessario, quindi, avere il muso duro di Bertoliana memoria, questa volta in un contesto dove l’errore significa scivolare, cadere giù, nelle braccia del nemico. Ci sono fuochi da accendere, da vedere, da subire e Gaetano ce li porta dentro gli occhi, mentre le chitarre sono schegge sparse tra questi trentatré minuti di contropotere che, oltre a viaggiare tra note, strumenti e parole, viaggia soprattutto nelle mani e nelle gambe che riescono, dopo l’ascolto, ad essere un’azione concreta per impedire a quella storia di avere la possibilità di ripresentarsi. Un album che è l’onda sonora di quelle pagine: qui sono chiassose perché amplificate e pregne del ruolo di dover ribadire la triste vicenda usando la favola della musica, in quanto è uno dei pochi veicoli in grado di fornire altre armi verso i soprusi.

Qui non si tratta di un artista impegnato a spiegare ciò che succede: piuttosto è un prendere posizione e volare cantando con la mente capace di non farsi imprigionare e di incutere paura.

Non più Maestro e alunno nella palestra dell’apprendimento, bensì una strategia che attraverso liriche impetuose e strazianti diventa l’unica arma da usare. Un lavoro toccante, disagevole, che non lascia perplessità. Se è il vostro pollice su o verso che conta allora state lontani da questi paraggi perché all’interno di questo involucro non si ha tempo da perdere e l’ascolto è già una preziosa forma per arrestare il nero beffardo che sa che è anche attraverso i gusti che si addomesticano le coscienze.

Per concludere: l’instabilità dello iato tra realtà, sogno e velleità è parte integrante di questo progetto, che ha in sé l’energia, l’unica possibile, per non essere un bell’album ma una scheggia negli occhi, da mantenere sino a quando le cellule si svegliano per dare a Roberto Franceschi e a sua madre  Lydia non solo un posto di cronaca nera e il risultato di un potere omicida, ma una culla dove possano guardarsi ancora amorevolmente: tocca a noi dare a quella famiglia la possibilità che diventi una realtà bella e importante e non solo un sogno…


Song by song 



Ma io non sono Stato


L’atmosfera, sin dall’inizio, ci fa intendere come sarà l’album. L’opening track è una trascinante esibizione di chitarre fangose, con cambi ritmo che non smorzano la tensione e un basso assassino, come una legnata sulle gambe, rovista il nostro ventre. I sogni infranti di Roberto Franceschi dimostrano il Potere di uno Stato omicida.


Anime perdute


Chitarre tremanti che ci portano in zona Sonic Youth fine anni ’80, aprono il cielo di ricordi di cui Gaetano deve purtroppo segnalare la disperazione con un testo che è una pentola che straborda con la sua acqua incandescente.


Molto semplice 


Sostenuta dal basso e da un chitarra sibilo che dalla periferia giunge nel centro del cuore, questa favola nera avanza con il suo incedere rock che balbetta suoni magnifici sino alla deflagrazione.


Odessa 


Tenebrosa nel suo primo respiro, la voce di Gaetano diventa capace di volare con il suo lieve eco, mentre il sentimento sonico rarefatto con gocce blues e psichedeliche ci fa entrare nel deserto con questa atmosfera tenebrosa.


Sparare a vista


Manifesto anarchico per eccellenza, ci riempie di consapevolezza con le lacrime aggrappate a un proiettile. Il giro armonico e il ritmo ci portano dentro vertigini nere dove tutto esplode senza sosta.


Uomo nero 


Il concept album continua con un episodio straziante, dove un finto pop di convenienza sviene ipnotizzato da parole di piombo, la morte dell’Occidente che ha donato la propria libertà a una Democrazia che si arroga il dovere di fare ciò che vuole. E intanto “Noi sappiamo molto bene il male dove sta”.


Bocca a bocca


La finta ballata, l’illusione, e poi è un orgasmo plumbeo di chitarre Glam annerite, con propensione alla rivisitazione delle possibilità del rock di essere molteplice nelle sue forme. Compatta, è distorta nella sua anima ancora più che nel suono.


Urla e ricordi


I Fugazi, i Sonic Youth e la scena alternativa americana dei primi anni ’90 si riuniscono dentro questi spari lontani, in un artifizio meraviglioso di richiami punk tenuti per le orecchie, nel quale svetta un basso sepolcrale, e la capacità di dare a un assolo breve tutta la suggestione che le parole hanno inciso nella nostra mente.


Caro Papà 


Il giorno dopo la consapevolezza di cosa significhi questa storia, il suo dramma, il suo urlo, Gaetano decide di concludere l’album con una lettera a voce aperta, su un loop elettronico e la polvere psichica della chitarra che spinge i nostri occhi a chiudersi. Parole come rose in attesa di essere accarezzate, la modalità è quella di avere la stessa capacità di alcuni momenti dei Pink Floyd di anestetizzarci, di placarci. Anche la volgarità della storia umana può conoscere una canzone immensa…


FF Recordings

Produttore: Flavio Ferri


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

21 Settembre 2022


https://open.spotify.com/album/1piUiSNx53CUKvw4jUjEyS?si=-I0Zh0vsTTi0UPT3kWwgyQ









lunedì 19 settembre 2022

La mia Recensione: Tina & The Hams - Wake the Babies


Tina & The Hams - Wake the Babies




Melbourne al tempo del Covid 19: probabilmente la città più severa con le restrizioni, quando normalmente è una radura accogliente e dinamica, ma, si sa, l’impatto della pandemia ha cambiato giocoforza le cose anche in quello splendido agglomerato urbano.

Tre anime piene di sentimenti vistosi, dalla pelle robusta e acida ma in modo sano, esordiscono con un album al vetriolo, con scorribande psichedeliche e l’attitudine a rendere compatto il cammino di testi pieni di esperienza personale, per poter conferire al tutto l’impressione di trovarsi all’interno di una roccia piena di brillanti e di incantevoli misteri.

Il gioco di incastri delle chitarre, la tastiera, il basso e la batteria sono notevoli, permettendo al ritmo e alle melodie di stabilire un patto che unisce il tutto e lo trasporta dentro l’intimo convincimento di una piacevolezza dilagante. Sono brividi di sudore e riflessione, per quarantadue minuti di amplessi, vibranti, stimolanti dove ciò che si ascolta conforta e stimola. 

Chitarre come lame, cantati e cori pieni di freschezza, in cui atomi di tristezza non possono limitare la dirompente propensione a fare della musica un atto di aggregazione, perché queste dieci composizioni hanno il pregio di convogliare le persone nel medesimo spazio.

I ritmi spesso sono spirali di frenesia che attirano e spingono i corpi a divenire catapulta (su tutte valga la prodigiosa Way), ma anche quando i ritmi e le condizioni del suono rallentano si vivono tensioni necessarie (Minou Granuleux, Hanging Rock, per intenderci), facendo sì che l’insieme ci avvolga donandoci ciò di cui necessitiamo.

Nel caso di Still on You, siamo davanti a suggestioni e suggerimenti attitudinali della nostra mente davvero coinvolgenti, perché la quasi intima propensione a un suono rarefatto concede respiri intensi e pieni di stupore.

Waves from the Sea, nella parte iniziale, ci porta agli scozzesi Man of Moon, per poi attraversare il post-punk infarcito di cellule psichedeliche che trascinano e conquistano.

Un album che ascolto dopo ascolto semina necessità, donando semi di gratitudini perché le canzoni sono generose, eleganti seppur nella loro dirompente intensità, e si diventa sognatori in grado di rivedere la realtà come una possibilità di baciare il benessere che sembrava ormai scomparso, date le vicende a cui ho accennato all’inizio.

E il momento più elettrizzante e capace di contaminare la gioia del nostro esserci è l’intrigante Suicide Girls, che con le sue diverse diramazioni e i riferimenti di qualità scende nel letto come un fulmine buono, senza far danni ma nella condizione di accendere la passione che diventa una piacevole dipendenza.

Con Ice troviamo una nuvola di suono col basso a spingere le dita nel nostro addome, con un cantato quasi sognante, che sembra suggerirci di stare dentro le corsie della nostra intimità.

Per concludere: consiglio vivamente l’ascolto di questo insieme di notevoli composizioni perché abbiamo bisogno di freschezza, di luce e del coraggio di vivere…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

20 Settembre 2022


https://tinaandthehams.bandcamp.com/album/wake-the-babies


https://open.spotify.com/album/0MxXIdoZe1SOawP7QGetfa?si=ZE-SAR88QLyP2C2ZwhhnEQ









My Review: Tina & The Hams - Wake the Babies


 Tina & The Hams - Wake the Babies




Melbourne at the time of Covid 19: arguably the strictest city with restrictions, when normally it is a welcoming and dynamic clearing, but, you know, the impact of pandemic has inevitably changed things even in that beautiful conurbation.

Three souls full of considerable feelings, with a skin tough and sour in a healthy way, debut with a vitriolic album, with psychedelic raids and an aptitude for making the path of lyrics full of personal experience compact, in order to give the whole thing the impression of being inside a rock full of brilliance and enchanting mysteries.

The game of joints of guitars, keyboards, bass and drums are remarkable, allowing the rhythm and melodies to establish a pact that unites everything and transports it into the intimate conviction of rampant pleasantness. These are chills of sweat and reflection, for forty-two minutes of sexual intercourses, a vibrant and stimulating state where what is heard comforts and inspires. 

Guitars like blades, vocals and choruses full of freshness, in which atoms of sadness cannot limit the disruptive propensity to make music an act of aggregation, since these ten compositions have the virtue of channeling people into the same space.

The rhythms are often spirals of frenzy able to attract and push bodies to become catapults (of all of them the prodigious Way stands out in this respect), but even when the rhythms and conditions of sound slow down we experience necessary tensions (Minou Granuleux, Hanging Rock, for instance), causing the whole to envelop us giving us what we need.

In the case of Still on You, we are in front of truly captivating ideas and attitudinal suggestions of our mind, because the almost intimate propensity for a rarefied sound grants intense and awe-filled breaths.

Waves from the Sea, in the opening part, takes us to the Scottish Man of Moon and then through post-punk infused with psychedelic cells that drag and seduce.

An album that listening after listening sows necessity, giving us seeds of gratitude because the songs are generous, elegant albeit in their disruptive intensity, and one becomes a dreamer able to see reality as a chance to kiss the well-being that seemed long gone, given the events I mentioned at the beginning.

And the most electrifying moment capable of contaminating the joy of our being is the intriguing Suicide Girls, which with its different branches and quality references descends into bed like good lightning, doing no damage but in a condition to ignite passion that becomes a pleasant addiction.

With Ice we find a cloud of sound with the bass pushing its fingers into our abdomen, with almost dreamy vocals that seem to suggest we are inside the lanes of our intimacy.

In conclusion: I highly recommend listening to this set of remarkable compositions since we need freshness, light and the courage to live..


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

20 September 2022


https://tinaandthehams.bandcamp.com/album/wake-the-babies


https://open.spotify.com/album/0MxXIdoZe1SOawP7QGetfa?si=VETOdm5rTJ-RNcaSfmiYhg









mercoledì 14 settembre 2022

My Review: Hey Calamity - Ocean In Between Us

My Review:


Hey Calamity - Ocean In Between Us


Since time immemorial, human beings have almost desperately led themselves towards a search for contact that eradicates loneliness in the first instance. Then love comes along to improve and change the meaning of everything. And distances can be shortened by compacting desire and reality.

Inevitable considerations when you listen to the flagrant and moving new composition by Hey Calamity, a project by Dave Thomas who produces songs as if he were fishing for pearls without a moment's rest. We find ourselves inside the fluidity of guitars elegantly married to melody without sacrificing power: Ocean In Between Us is a praise of contact, presence, bringing one fertile hand inside another, with dreamy vocals as the words touch lightly our heart to cradle it. 

The magnificent final instrumental part is really able to make us fly over the ocean, so that we can get closer to those we love. 

In a few minutes, loneliness is imprisoned, undermined by a reality that peacefully blesses existence.

To do so Hey Calamity welds the whole musical experience with a cloud of notes flying over the water, with colorful confetti to cheer up the oxygen, with shoegaze crackles that feel like an embrace, a powerful drumming which lifts the legs for a dreamy dance, a poignant melody that makes the beats weepy and capable of giving thanks.

A song that brings sunbeams into our dreams, into our dull daily acts, for a strength that this listening can make real.

Another gem which will fill your hearts because Dave, as a sound gentleman, cares for us all to make existence a cradle that opens confidently to the world.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

15th September 2022


The song will be available on 16th September 2022





La mia Recensione: Hey Calamity - Ocean In Between Us

Hey Calamity - Ocean In Between Us


Da sempre gli esseri umani conducono quasi disperatamente se stessi verso la ricerca di un contatto che debelli in prima istanza la solitudine. Poi sopraggiunge l’amore a migliorare e a cambiare il senso di tutto. E le distanze possono essere accorciate compattando desiderio e realtà.

Considerazioni inevitabili ascoltando la flagrante e toccante nuova composizione di Hey Calamity, progetto di Dave Thomas che sforna canzoni come se pescasse perle senza un attimo di sosta. Ci troviamo dentro la fluidità di chitarre sposate elegantemente alla melodia senza rinunciare alla potenza: Ocean In Between Us è un osannare il contatto, la presenza, portare una mano fertile dentro un’altra, con un cantato sognante mentre le parole sfiorano il cuore per cullarlo. 

La spettacolare parte strumentale finale è davvero capace di farci volare sull’oceano per poter avvicinarci a chi amiamo. 

In pochi minuti la solitudine viene imprigionata, scalzata da una realtà che benedice serenamente l’esistenza.

Per farlo Hey Calamity salda tutta l’esperienza musicale con una nuvola di note che sorvola l’acqua, con coriandoli colorati per rallegrare l’ossigeno, con crepitìi Shoegaze che sembrano un abbraccio, un drumming potente che solleva le gambe per una danza sognante, una struggente melodia che rende i battiti piangenti e capaci di ringraziare.

Una canzone che porta raggi solari nei nostri sogni, nei nostri spenti atti quotidiani, per una forza che l’ascolto sa rendere reale.

Un’altra gemma che farcirà i vostri cuori perché Dave, da gentiluomo sonoro, si prende cura di tutti noi per rendere l’esistenza una culla che si apre con fiducia al mondo.


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
15 Settembre 2022

Il singolo sarà disponibile Venerdì 16 Settembre 2022





domenica 11 settembre 2022

La mia Recensione: Youth & Gaudi - Stratosphere


 La mia Recensione:


Youth & Gaudi - Stratosphere


La vita come strati, un insieme di pellicole confinanti che continuano il loro percorso nell’atmosfera terrestre. E da una di quelle arriva musica celestiale a renderci involucri in movimento, coscientemente connessi con l’arte della seduzione e della partecipazione emotiva e fisica grazie al nuovo album di Martin Glover (alias Youth), menestrello senza tempo che attraversa le decadi con maestria e innumerevoli qualità, bassista e fondatore dei Killing Joke e produttore dell’ultimo album dei Pink Floyd, e Gaudi, il talento della gioia umana che sa contagiare e rendere più dolce l’esistenza.

I due, amici che si stimano per davvero, hanno nuovamente aperto l’autostrada della bellezza per un disco che generosamente dimostra e qualifica i loro incroci musicali, per un insieme di momenti di pura estasi, deliri che rotolano in danze che a partire dall’epidermide giungono agli arti per una connessione piacevolmente devastante. 

I territori emozionali mostrano viso e respiri, la stratosfera del titolo viene perfettamente resa visibile, un insieme in volo che porta il pianeta Terra in una discoteca colma di fascinazioni, sperimentazioni sensoriali e fuochi fatui in corpi sudati, esplosivi, sicuramente sorridenti e pure pensanti: un tale lavoro veicola energie e stati dell’umore connessi a una partecipazione totale. Come un viaggio silente, dove le voci possono assentarsi, ecco che i due partono dagli anni 90 per sondare e scandagliare quella parte dell’elettronica che si era trovata nella necessità di legittimare se stessa, di fronte al mondo delle chitarre che mostrava un pericoloso invecchiamento.

Ecco allora che i Transglobal Underground, Orb (entrambi sono stati stretti collaboratori di quel magico progetto), Orbital, The Klf, The Future Sound Of London e molti altri diedero alla musica dance la possibilità di mostrare tutta la sua intelligenza, inserendosi in generi come l’acid house, drum and bass, dub, la techno, breakbeat e via dicendo, includendo anche influenze gotiche.

Di quella storia Youth & Gaudi prendono le cellule migliori, sviluppandole, per creare legami che esplorano possibilità che hanno saputo rendere infinite e toccanti. Note come luci stroboscopiche, connessioni e dinamiche verso dilatazioni e approfondimenti: il risultato mostrato offre la gioia di constatarne un ottimo stato di salute.

Nove stelle imbevute di grazia assoluta sfrecciano per l’universo impiegando poco più di cinquantadue minuti, sufficienti per mostrarci l’intensità del silenzio che sanno dipingere con musiche che non lo offendono, anzi, sono in grado di descriverlo perfettamente proprio in un modo che parrebbe una contraddizione e una negazione.

Geni.

Maestri assoluti.

Incantatori del mistero e arbitri del tempo, in un saliscendi vorticoso dove il respiro si addentra e addensa per poter tenere il passo di questa danza che ci rende sognatori e menti riflessive, in un binomio dai frutti delicati e sontuosi.

Ascoltando questo viaggio si cammina nella certezza che la musica è un veicolo saccente, abile nel creare fruscii mentali e sospensioni che flirtano per poter fare della nostra vita ancora un qualcosa di sensato e solido.

Il duo lavora sapientemente sulle frequenze sonore con strutture complesse che arrivano alla semplicità in modo incredibile, perché ci fanno nuotare nella loro alchimia, per vivere e vedere le loro note, non solo per sentirle. E qui sta la differenza sostanziale rispetto a lavori di altri artisti.

Una missione contagiosa, effervescente, che si precisa in un approfondimento di tutte le potenzialità di generi musicali che si concentrano per spogliarsi della loro forma egoistica al fine di divenire altruisti, in generosa abbondanza.

Sanno fare il giro del mondo, con numerosi viaggi tra la Giamaica e Londra, Manchester, passando per Berlino, gli USA più tenebrosi, proiettando verso le galassie la volontà di dare ai singoli beats la capacità di tenerli legati come una colla potente ma gentile, nulla deve cedere. Il ritmo è il signore dell’album, capace di dare alle intuizioni melodiche l’abito perfetto di un matrimonio sicuramente efficace.

È un’esperienza, questo ascolto, che fa capire la volontà dei due di spiazzare il monolitismo di quella parte musicale che subisce spesso maltrattamenti per via di alcuni presunti limiti: Stratosphere spazza via i dubbi con la sua forma espressiva che esce dall’ordinarietà e ci trasporta tutti in mondi nuovi che non rinnegano il passato, ma che necessitano di poter proiettare anche semi nuovi nel cyber spazio.

L’attitudine è narcotica e al contempo piena di spruzzi di vivacità che rendono il risultato estremamente positivo e colmo di energie: non musica per curare, ma per fare dell’esperienza della vita qualcosa di esattamente costruttivo. In piena salute.

È un linguaggio nuovo, che ammalia e stupisce, che ci porta a nuovi orizzonti, in ascese veloci che poi rallentano, per aspettarci. Composizioni che fanno da impalcatura per un futuro che odora già di presente, per liberare voli infiniti e che sublimano l’esistenza.

La duttilità creativa dei due ci spinge al miglioramento, per fare dell’ascolto motivo di espressione personale, nostra, perché queste cellule sonore sono insegnanti, pennellate sulla nebbia quotidiana per renderla colorata ed efficiente.

Vi sono momenti nei quali il sogno viene benedetto da synth clamorosi, con effetti che ci inghiottono, catapultati dentro i fumi della coda delle meteore. 

Tutto è fluido e organico, ciò che è insolito riesce ad attecchire e coinvolgere e il nuovo che avanza diventa la cerniera per un passato che sa riconoscere che la potenzialità è divenuta un dato di fatto di un presente che Youth e Gaudi disegnano per consegnarlo all’eternità.

Una delle magie che viene mostrata è la capacità di far sentire una stanza come luogo di rilassamento all’interno di danze e frenesie, dove l’assenza del pensiero non viene contemplata bensì stimolato l’esatto opposto: i due hanno creato la chiave per un luogo immaginario dove è possibile passare velocemente attraverso percezioni, riflessioni e specifiche propensioni a fare del corpo un oggetto volante. Ed è pura psichedelia sotto micro e macro chip elettronici che collegano la mente al corpo, come un web interiore, personale. 

Saper spaziare nei generi e farlo con questa classe è un regalo proprio della stratosfera che ha lasciato scendere sul nostro malato pianeta due angeli elettronici in grado di ridarci una umanità possibile fatta di bellezza e ricchezza ed è proprio questa la magia più grande di questo enorme album: che la danza sia in noi.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

11 Settembre 2022


YOUTH

https://en.wikipedia.org/wiki/Youth_(musician)

GAUDI https://en.wikipedia.org/wiki/Gaudi_(musician).

album smartlink: https://youthgaudi.lnk.to/stratosphere .










My review: Youth & Gaudi - Stratosphere

 My Review:


Youth & Gaudi - Stratosphere


Life as layers, a set of adjacent films that continue their journey through the earth's atmosphere. And, from one of those, celestial music comes to make us moving shells, consciously connected to the art of seduction and emotional and physical participation thanks to the new album by Martin Glover (aka Youth), a timeless minstrel who runs through the decades with mastery and innumerable qualities, bassist and founder of Killing Joke and producer of the last Pink Floyd album, and Gaudi, the talent of human joy who knows how to be contagious and to sweeten existence.

The two, friends who really respect each other, have once again opened up the highway of beauty for a record that generously demonstrates and qualifies their musical intersections, for a set of moments of pure ecstasy, frenzies which roll into dances that from the epidermis reach our limbs for a pleasantly devastating connection.

Emotional territories show faces and breaths, the stratosphere of the title is perfectly rendered visible, a flying whole that takes planet Earth into a disco full of fascinations, sensorial experiments and fatuous fires in sweaty, explosive, surely smiling and purely thinking bodies: such work conveys energies and moods connected to total participation. Like a silent journey, where voices can be absent, here the two start from the 90s to explore and probe that part of electronic music that had found itself in need of legitimising itself, in the face of the world of guitars that was showing a dangerous ageing.

So it was that Transglobal Underground, Orb (both were close collaborators in that magical project), Orbital, The Klf, The Future Sound Of London and many others gave dance music the chance to show all its intelligence, inserting themselves in genres such as acid house, drum and bass, dub, techno, breakbeat and so on, including gothic influences too.

From that history Youth & Gaudi took the best cells, developing them, to create links that explore possibilities they were capable of making infinite and touching. Notes like stroboscopic lights, connections and dynamics towards dilations and insights: the result offers the joy of noting an excellent state of health.

Nine stars imbued with absolute grace hurtle through the universe taking little more than fifty-two minutes, enough to show us the intensity of the silence they know how to paint with music that does not offend it, on the contrary it is able to describe it perfectly in a way that would seem a contradiction and a negation.

Geniuses.

Absolute masters.

Enchanters of mystery and arbiters of time, in a whirling up and down where the breath deepens and thickens to keep up with this dance that makes us dreamers and reflective minds, in a combination of delicate and sumptuous fruits.

Listening to this journey, one walks in the certainty that music is a conceit vehicle, adept at creating mental rustles and suspensions which flirt to make our lives still something meaningful and solid.

The duo skilfully works on sound frequencies with complex structures that arrive at simplicity in an incredible way, because they make us swim through their alchemy, to live and see their notes, not just to listen to them. And therein lies the substantial difference from the work of other artists.

It is an infectious, effervescent mission, which is specified in a deepening of the full potential of musical genres which focus on getting rid of their selfish form in order to become selfless, in generous abundance.

They know how to travel around the world, with numerous trips between Jamaica and London, Manchester, passing through Berlin, the darkest USA, projecting towards the galaxies the will to give individual beats the ability to hold them together like a powerful but gentle glue, nothing must deteriorate. Rhythm is the lord of the album, capable of giving melodic intuitions the perfect dress of a marriage that is certainly effective.

This listening is an experience which makes one understand the desire of the two to displace the monolithic nature of that musical part that often suffers mistreatment due to certain presumed limitations: Stratosphere sweeps away doubts with its expressive form that emerges from ordinariness and transports us all to new worlds that do not deny the past, but which also need to be able to project new seeds into cyber space.

The attitude is narcotic and at the same time full of splashes of vivacity that make the result extremely positive and filled with energy: not music to cure, but to turn the experience of life into something constructive. In full health.

It is a new language that enchants and amazes, that takes us to new horizons, in fast ascents that then slow down, to wait for us. Compositions acting as a scaffold for a future that already smells of the present, to release infinite flights which sublimate existence.

The creative ductility of the two guys pushes us towards improvement, to make our listening a motive for our personal expression because these sound cells are teachers, brushstrokes on the daily fog to make it colourful and efficient.

There are moments when the dream is blessed by resounding synths, with effects that engulf us, catapulted into the fumes of the meteor tail. 

Everything is fluid and organic, what is unusual manages to take root and involve, and the new that advances becomes the hinge for a past which knows how to recognise that potentiality has become a fact of a present that Youth and Gaudi design to consign it to eternity.

One of the magics shown is the ability to make us perceive a room like a place of relaxation within dances and frenzies, where the absence of thought is not contemplated but rather the exact opposite is stimulated: the two have created the key to an imaginary place where it is possible to pass quickly through perceptions, reflections and specific propensities to make the body a flying object. And it is pure psychedelia under micro and macro electronic chips that connect the mind to the body, like an inner, personal web. 

how to range through genres and doing it with this class is a gift from the stratosphere itself, which has let down on our sick planet two electronic angels capable of giving us back a possible humanity made of beauty and richness and this is the greatest magic of this huge album: may the dance be within us.




Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

11th September 2022


YOUTH

https://en.wikipedia.org/wiki/Youth_(musician)

GAUDI https://en.wikipedia.org/wiki/Gaudi_(musician).

album smartlink: https://youthgaudi.lnk.to/stratosphere .






giovedì 8 settembre 2022

La mia Recensione: Portishead - Dummy

 La mia recensione 


Portishead - Dummy


La maternità: un mistero assoluto, malgrado di tempo se ne abbia avuto moltissimo per studiarla.

Un processo che forse ben presto ha smesso di avere forza perché davanti all’immensità si è sconfitti in partenza.

Così accade anche per certi fenomeni che hanno a che fare con l’arte della musica.

E nello specifico con alcuni album, che rimangono assolutamente capaci di non svelare tutta la propria identità.

Si è parlato di scena di Bristol e del Trip-Hop, si sono fatti collegamenti, ipotesi, comparazioni.

Ma non vi è dubbio che l’album dei Portishead sia proprio una madre, la scintilla di un molto, l’apoteosi di miscele musicali che comprendono il fare compulsivo della Techno, la seduzione del Jazz, le nebbie di un Postpunk quasi timido, la leggerezza del Lounge, la veemenza dell’hip-hop, la dolcezza del Soul migliore, il Blues con la maschera e molto ancora che, appunto, non si può spiegare.

Ma rimane la certezza che con il suo ascolto viviamo l’unicità, diventiamo partecipi di un evento che, quasi a fine millennio, ha visto per la registrazione del loro esordio discografico l’utilizzo delle migliori tecnologie, conferendogli ancora di più lo status di un album seminale.

Quello che poi, più o meno in modo corretto, è stato definito trip-hop, è stato il genere musicale che ha saputo sostituire nell’attenzione di molti il fenomeno grunge che aveva, rispetto a quello di Bristol e dintorni, i giorni contati, per una minor capacità di evolversi.

Parlando di questo album rimane inalterata la convinzione che la sua peculiarità più grande sia il suono, sempre moderno ed efficace, capace  di insidiare i graffi del tempo.

E poi le atmosfere: tutte le band che ne sono rimaste folgorate hanno vanamente cercato di riprodurle.

Una magia che contamina e fa arrendere.

Riesce a diventare facilmente “adoperabile” per molti usi, dall’ascolto approfondito, a colonna sonora di un viaggio, all’intimità di un momento d’amore, come mezzo per una ricerca spirituale, per divenire facilmente una colonna visiva di immagini infinite.

Loro hanno deciso di prendere la bellezza del suono analogico utilizzando il sistema dello scratch dei vinili, buttando spruzzi di Hammond per scaldarci il cuore, il theremin che incanta, facendo girare accordi di chitarre che evocano le colonne sonore di Morricone, sapendo anche inserire sezioni di archi capaci di far stendere sul letto i sogni, conferendo al tutto un tappeto di romanticismo avvincente, convincente, dove non c’è spazio per la freddezza e la rigidità.

Un lavoro che scalda la mente ancora prima che il cuore.

Al suono è conferito il ruolo di essere un sibilo addomesticabile, di condurre all’estasi e al senso di una concezione nuova della potenza.

I ritmi, spesso sincopati e ribelli, conoscono la perfezione di uno stop and go che con l’elettronica è capace di affascinare per le nuove possibilità che offre.

C’è un senso di un lunghissimo abbraccio temporale che tiene saldo il sodalizio tra il passato ed il presente, quel presente del 1994 che sarà eterno, destinato a non conoscere invecchiamento.

Ascoltarlo è ipnosi beata e benvoluta, come entrare senza paura nella macchina del tempo inventando il futuro.

Di Bristol erano anche i The Pop Group che seppero già negli anni 70 coniugare le differenze stilistiche dell’Europa e degli Stati Uniti con giochi di prestigio per dare alla musica nuove possibilità, nuovi slanci, nuove trame.

È da quel Dna cittadino che i Portishead hanno attinto per rifare quel gioco, per manifestare ancora la medesima necessità con nuove carte, approdando a determinare la possibilità di considerare che la musica poteva nuovamente trarre giovamento da tutto questo.

Dummy è la Bibbia, la coscienza del nuovo che sa esercitare fascino, il passo di danza che con nuovi ballerini prima confonde gli occhi e poi li rende estasiati.

Ed è un pozzo infinito di richiami e di innovazioni, un respiro di 49 minuti che ora andrò a visitare, sapendo in anticipo che per l’ennesima volta non saprò capire la sua profondità, ma che in regalo (perché è un album molto molto generoso) mi donerà il suo ossigeno rendendo felici i polmoni dei miei battiti…

Ma non è finita qui: per ultima cosa dobbiamo saperci inchinare a Beth Gibbons, che come un angelo timido, da questo lavoro ha compiuto regolarmente scorribande dentro il nostro stupore, con un range espressivo che attraversa generi diversi, esaltandoli e migliorandoli, con una classe che diventa la luce su cui hanno trovato suggestione  non solo centinaia di interpreti femminili, ma anche decine e decine di cantanti maschili.

La sua modalità espressiva è una calamita: capace di attirare antiche muse, lei le ha rielaborate rivelando che la sensualità nel canto non aveva forse mai raggiunto queste vette.

Tutti i sentimenti che conosciamo gravitano nella sua gola, nel suo diaframma che esplode lentamente dentro di noi.

Assolutamente una regina senza epoca che ha inchiodato il tempo per renderlo migliore.

Ora mi butto dentro gli undici brani con i brividi che già saltano dalla gioia…


Canzone per canzone


Mysterons 


Il viaggio inizia con la tensione malinconica che si appiccica subito con il rullante della batteria e da un basso tenebroso aI quale la chitarra si aggiunge come accenno laterale per consentire al cantato di esaltare la sua voce malinconica.

Ed è subito catarsi per chi ascolta: nei secondi di questo brano si accende la fede nella bellezza e nella paura che echeggiano come dune che trasportano la sabbia di notte. La musica si sente, e non si vede, ma ci trascina dentro immagini che sono nel chiuso delle nostre pupille.

Maestosa.


Sour Times


Il ritmo si alza, il cantato accelera ma sembra aspirare dentro di sé la miscela vorticosa di strumenti in tensione.

I volumi perfettamente centrati consentono a tutti di trovare il loro momento di gloria. È tutto si fa luce, come il misterioso quadro L’Isola dei Morti di Arnold Böcklin: un’onda blu che si associa al verde e al giallo per rendere le pupille un’antenna ricevente senza sosta. Tutto nel brano è un perfetto mix di sensualità dove il tempo vivacemente mostra la sua stanchezza.


Strangers


Canzone come monitor: ci mette a conoscenza dei nostri battiti in una Harlem degli anni trenta imbevuta di jazz e swing. Che afferra il tempo e compie un balzo notevole sino a considerare gli anni 90 salutando i Massive Attack di Lines del 1991.

Nei tre minuti e cinquantotto secondi si è come centrifugati da un mantra che sa essere messo a tacere dalla voce di Beth. Poi tutto riprende fiato e ritmo, dando alla canzone il ruolo di elettrificare il fianco sensuale dell’ugola: Beth sa calibrare i nervi trovando una linea musicale che ci riporta negli USA di Sarah Vaughan, e tutto diventa poesia, moderna e credibile.


It could be sweet


Una fiaba, una musica che sembra costruita per essere tale sino a quando pare scomparire davanti alla voce. Beth interpreta modificando l’interpretazione, le tonalità sembrano ventagli che spazzano via il calore delle emozioni per spostarle, tutte dentro il cuore.

Velocemente si entra dentro le creature notturne fumose degli anni 60 del Northern Soul, non dimenticando la fase sperimentale del jazz, ma poi tutto viene assemblato da quel cantato che sembra sorpassare ogni tentativo di concentrarsi nell’ascolto della musica.

Che però è clamorosa: riesce nella sua complessità a permettere al cantato di essere un soprano dolcissimo, mentre la malinconia si presenta truccata, per accoglierci tutti.


Wandering Star


Si danza, ognuno con la sensualità che gli compete, ognuno trascinato dal basso che scava imperterrito, Beth che con questo brano influenzerà anche la Björk più adulta.

Un battito del cuore con la spina elettrica per accendere le tenebre e permettere un incontro fatto di sensi che si annusano.

Lentamente, avviene la crescita che si rende evidente da piccolissimi frammenti che si aggiungono donando un arrangiamento di pura classe.

Gli strumenti sono elettrodi scordati in incroci e sovrapposizioni che conferiscono al brano una continua serie di sorprese.


It’s a fire


Cosa sono i Portishead se non un guardaroba perfetto che a seconda dell’occasione ci offrono i giusti abiti musicali? Su un organo che rende morbida l’aria, il ritmo sincopato si accosta alla sensazione di sacralità sino a giungere agli archi che come una veloce  comparsa semina bellezza anche se solo per pochi secondi.

Beth mette i guanti nella sua ugola per approcciarsi al fuoco e sedurlo sino a farlo spegnere. 

Incendiando però le nostre lacrime intense e veraci. 

Ogni armonia raggiunge l’Everest e la canzone diventa una bandiera di raso che si appoggia sul nostro cuore sognante.


Numb


Brano che è una pellicola, un film che da muto diventa sonoro, con una storia che ha la capacità di sedurre, di incantare attraverso il bisturi vivace, delizioso, quasi tremante della voce di Beth che qui porta la sua abilità interpretativa oltre le stelle.

Piccole sciabolate di suono, sul drumming polveroso: tutto sembra lontano, inavvicinabile, con Beth che prende appunti da Sinéad O’Connor per poi ammaliare con il suo respiro, i suoi denti che mordono le parole senza ferirle.

Tutto assomiglia ad una frustata addomesticata dove gli strumenti, pochi ma intensi sino allo sfinimento, confondono decenni di sperimentazione sino a creare un nuovo approccio minimalista.


Roads


Forse qui potremmo decidere di desiderare l’infarto, di congedarci e di chiudere le persiane.

Perché costa tanta fatica trovarsi di fronte ad un capolavoro, indiscutibile, così evidente che ci consegna un sentimento pregno di vergogna: non siamo degni di così tanta bellezza. La perfezione che si mostra e avanza per avvolgerci in un ascolto sconvolgente.

Tutto è un silenzio sacro che adopera gli archi per sedarci; un basso tondo che sembra il mondo, la batteria che per una volta opta per una semplicità non preventivata dati i precedenti brani.

Nell’essenzialità sonora, che è una sala di mille candele spente, Beth diventa la Regina, senza dubbi, senza ma: il suo regno incomincia con l’ingresso al cinquantaduesimo secondo e già siamo suoi sudditi felicemente ubbidienti.

La sua voce è il dramma della solitudine di Marylin, la forza di Diamanda Galas nel nascondere l’inspirazione, mentre il suo canto diviene una lacrima di ghiaccio all’equatore.

E noi con lei.

La chitarra non si agita, si concede un leggero riverbero ed eco, una nota e basta, chè non vi è nulla da aggiungere alla perfezione.


Pedestal


Il talento di Geoff Barrow è innegabilmente riconoscibile per tutto l’album, ed in questo brano probabilmente si fa più evidente: la canzone offre tutta la sua debordante classe attraverso un fare misterioso con le sue programmazioni che mette in risalto l’amore per gli anni 30 come se fosse la colonna sonora di un film giallo, offrendo ad Andy Hague la possibilità di stravolgerci con la tromba epilettica e raffinata, per lasciare una patina sulla nostra pelle che profuma di un temporale ammaestrato.

Su Beth meglio tacere: si è increduli e probabilmente oltre ad arrendersi non si può fare nulla…


Biscuit


Ci vuole un amore smisurato ed una capacità enorme per poter unire una propria composizione con il perfetto timing per inserire campionamenti di Burt Bacharach e Hal David e la loro I'll Never Fall in Love Again.

Alla fine però il brano non suggerisce nulla che si avvicini al musical di “Promises, Promises” bensì un territorio desertico su cui si è montato un palco con il piano di Geoff Barrow libero di incantare la sabbia con i suoi movimenti brevi ma efficaci e sui quali il cantato di Beth sembra una preghiera notturna.


Glory Box


Un album meraviglioso può arrivare alla perfezione? Certo!

Prendiamo la canzone che conclude l’esordio dei Portishead e potremmo affermarlo senza timori.

Adrian Utley conferma tutte le sue capacità dando alla sua chitarra l’abilità di farla divenire un diamante bagnato nell’acido, una bolla nervosa con un arpeggio che circonda il respiro ed un Hammond che spiazza e ci porta nella Francia semi sconosciuta.

E Beth diventa un’attrice da premio Oscar: la sua interpretazione non è umana, siamo inginocchiati davanti a questa Dea che con il suo cantato trasforma i sentimenti in una processione di talento che lasciano il suolo terrestre, voce come l’argomento preferito degli angeli, il suo tremore aspirato, con un cantato che sa divenire nasale, quasi robotico ma al contempo contenitore di una dolcezza spaventosa e disarmante.

Quando un brano isola il mondo dal caos per crearne uno suo per ipnotizzarci notte giorno ecco allora che diventa una guida per ogni luogo della nostra sentire.

Di spaventosa bellezza.


Conclusione: la droga migliore è quella che sgombra la violenza per dar spazio alla bellezza e Dummy lo è, non importa come la si consumi, perché alla fine entra totalmente in noi…


Alex Dematteis

Musicshockworld- We love music

10 Febbraio 2022





https://music.apple.com/gb/album/dummy/1440653096


https://open.spotify.com/album/3539EbNgIdEDGBKkUf4wno?si=vwhnh1KuSByKXCd9x90THw

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