La mia recensione
Ist Ist - The Art of Lying
Ci sono nubi che si abbassano per allargare le nostre paure e tensioni, per farci guardare dentro e cercare un contatto con l’inconscio. La volontà di capire il presente, il circostante, prendere posizione ha molti metodi.
Il secondo album dei Mancuniani Ist Ist è uno di questi.
Dopo l’esordio di Architecture (album dell’anno 2020 per Musicshockworld) eccoli avanzare dentro qualità sempre più visibili e messe a disposizione di tutti. È poesia grigia e scintillante quella che si legge dentro questi solchi, in un vinile blu cobalto che espande la sua potenza sulle pareti vogliose di essere stordite. E accade.
Si respira la loro maturità: questo secondo lavoro rende chiara la percezione che avevamo avuto con l’album di esordio. Sanno scrivere canzoni intense e devastanti. Ora lo fanno addirittura meglio.
Il clima è quello di un momento faticoso e urticante: il COVID non ha lasciato solo la paura, ma l’esigenza di limitare il raggio di visibilità di questa devastante pandemia per fare i conti con il proprio spazio personale, in una faticosa restrizione.
E per farlo Adam (voce e chitarra) ha ispessito i testi di consapevolezza; sono martellate le sue parole, cacofoniche espressioni che dall’assenza di ossigeno portano nuove verità. Testi che si incollano alle musiche senza timori né balbettii.
Le chitarre tornano a essere ossessive e presenti come nei loro devastanti esordi, con tastiere che permeano il tutto in modo perfetto, tempistiche che fanno capire la loro crescita anche negli arrangiamenti e nella struttura delle composizioni.
Ciò che si respira dentro queste 10 canzoni è anche un senso di frustrazione positiva, energetica con la volontà di non risparmiarsi.
Canzoni come polvere di amianto che si infila nelle nostre orecchie per contaminare ogni possibile difesa.
Impossibile opporsi.
Tutto viaggia tra note che come spade del ‘500 corrodono e divengono letali: canzoni come tagli sulle nostre ferite, come pelle che si lacera ed esplode.
Continua ad essere pesante, tenebrosa, drammatica e catartica la loro presenza, ma hanno aggiunto pillole di saggezza e dato al Postpunk la possibilità di guardarsi indietro solo per il tempo necessario a cogliere le perle. Ma come architetti sono interessati a inventare modalità nuove, aumentare la possibilità di uno stile unico e riconoscibile. Non mancheranno le persone che spenderanno più tempo a trovare appigli, sicurezze nel fare paragoni invece di notare tutto ciò che di nuovo mostra la presenza.
Il loro secondo album impegna l’ascolto se non si è inclini a multiple emozioni e ad accettare un arricchimento veloce dell’anima.
Se mentire è un’arte, quest’album rivela la sincerità di artisti che si oppongono a questo modus operandi. Vi è sincerità, spontaneità, integrità e ricchezza d’animo in questi minuti che sapranno donare, sebbene in una atmosfera corrosiva, momenti di sollievo…
Listening Through the Walls
“Private whispers in the wall”
Carte in tavola. Gioco chiaro e preciso: i quattro aprono le danze cupe come una roccia lenta, elettronica, una Coldwave che sembra provenire dalla sua patria, il Belgio, con passi lenti e lamiere dolci e oblique sopra le nostre teste. Rintocchi e campanelle a tagliare l’aria sino a quando una chitarra nel finale aggiunge malinconia.
Fat Cats Drown in Milk
“Reality has the sharper blade”
Una bomba che cammina, continuando ad esplodere.
Un drumming come montagna che scende e trascina.
Il basso che affonda come rituale Postpunk liturgico.
Tastiere in appoggio che ci concedono un minimo la possibilità di sognare ed una voce, con il suo cantato, a paralizzarci tra correnti umide e crasse.
Atto superlativo di estrema bellezza. Coinvolgente e mantra da scolpire nel cielo.
Middle Distance
“My thoughts had rearranged”
Andy ed il suo basso graffiante, Adam e la voce al vetriolo che penetra la terra, Mat che appoggia delicatamente le dita sulla sua tastiera e Joel che in modo semplice ci sbatte per terra con il suo drumming.
Brano che rivela come Architecture fosse la base e non un punto di arrivo. E alla fine Andy a farci danzare sensualmente con linee di basso potenti.
Watching You Watching Me
“My doubt of you still screaming through my head”
Si torna a ritmi vorticosi con questa razzia che esplora gli averi altrui.
È doccia Postpunk con attitudine generosa.
Una tastiera ad aprire il cuore, poi basso chitarra e voce per una strofa che spalanca la bocca di gioia. Al ritornello si cede. È radioattività che si stende sulla pelle ed entra nei circuiti interiori.
Perché melodia e forza trovano il consenso, un patto con fare belligerante.
Dopo il ritornello la lava arriva con un basso bastardo e terrestre. La tastiera ci prende il cuore e gli occhi, neri, da sognanti, diventano svegli e tenebrosi .
The Waves
“The tide washes over me”
Violenza smussata nei gomiti, tenebra cavernosa rigida e sporca ai lati, una corsa senza gambe per tutto il periodo della introduzione e poi via, il fiato che corre con noi nella Manchester del 1980 che guarda a quella del 2021. Trascinante, come strega malefica, dolce come i liquidi preparati dai druidi, questa canzone è la summa del loro presente, tra sibili e melodie argentate. Chitarre che dai The Fall passano per le vene dei Killing Joke, in uno scorrere veloce e assassino lasciando alla musica tutto il tempo di cui necessita per farci cadere nella sua ragnatela.
Extreme Greed
“Spotted plants, shelved dreams”
Brano che eredita tutta la bellezza di Architecture: ne presenta il ricordo ma poi si tuffa giù nell’Irwell, il nostro storico fiume, per cibarsi di futuro e tastiere
che, partendo dalla Synthwave e dalla Coldwave, navigano sino a congiungersi con il futuro prossimo. Basso Calamita, voce Puledra, tutto corre con il piombo nelle caviglie.
It Stops Where it Starts
“My words fall on deaf ears”
Brividi feroci, che corrono, si scuotono dentro la nostra affamata voglia di fuga. Brano che paralizza, frusta psicotica senza residenza, rabbiosa e vitale. Andy come un Simon Gallup dei bei tempi, un drumming che ha accolto la Darkwave per farla germogliare, Mat che catalizza l’aria con la tastiera. Un mastino che sbriciola le ossa. Sia Lode al Postpunk migliore.
If It Tastes Like Wine
“I’m here in body not in spirit”
Prendi la cruda atmosfera del loro Ep “Everything is different now”, infettala di rabbia caustica e immergila in un bicchiere di vino.
Saranno frustrate viscide e ferite senza sosta.
Lava che mangia la pelle.
Poi un sorso di vino ed una chitarra sbilenca alla Felt per stordirci e renderci fertili: è una canzone che ci fa viaggiare dall’Inghilterra all’America e in mezzo chilometri di vino pronti a inebriarci.
Heads on Spikes
“We’ve got lumps in our throats”
La dolcezza questa sconosciuta vero? Da loro poi non te l’aspetteresti di sicuro. Tutto questo nella breve introduzione di Mat. Poi Adam ed il suo cantato, la sua voce come gas soffocante anticipa quello che gli altri due aggiungeranno a breve.
Ed è catastrofe, le nuvole di abbassano sino a toccare la terra. Si sogna piangendo, la chitarra che con la cruda semplicità di un solo ci sfianca.
Don’t Go Gentle
“The river was rain”
La saggezza di questi ragazzi sta nella consapevolezza di non poterci dare certezze. E concludono il disco con un brano che è vapore acqueo elettronico, il non prevedibile che mostra il suo mantello grigio, la Manchester che non muore e che vive con fatica. Canzone che spiazza e seduce, incanta, riassume il loro talento e fa terminare l’ascolto di questo album con un sorriso che guarda verso il cratere che sono riusciti a scavare dentro di noi. Come per le altre nove composizioni anche questa vi metterà in contatto con la bellezza, perché la vera Arte non sa mentire…
Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
25 Novembre 2021
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