domenica 14 luglio 2024

La mia Recensione: The Cure - Seventeen Seconds


 

The Cure - Seventeen Seconds 


“Il Tempo vola e noi no. Strano sarebbe se noi volassimo e il tempo no, il cielo sarebbe pieno di uomini con l’orologio fermo”.

Alessandro Bergonzoni


L’inverno è un accadimento importante, non una stagione bensì l’insieme di elementi umorali, percettivi, mentali, in una malsana conformazione fisica solo per chi lo teme. Nella musica ha dato modo all’arte di perlustrarne i confini, di nascondere la sua magnitudine, di scherzare con la pochezza della gioia, di scritturare inganni che potessero sostituire la realtà. I dubbi, le indecisioni sembrano mettere radice e fiorire velocemente, per poter convivere, perfettamente, in una situazione tra il drammatico e il comico, con scelte radicali e doverose.

C’è chi, come i Cure, ha chiuso un decennio e ne ha aperto un altro facendo credere che il tempo sia uno scherzo poco serio, non credibile, costringendo chi li ascoltava a scegliere se fosse meglio quel luna park confuso di Three Imaginary Boys (con qualche bella giostra di sicuro) o il cielo ingrigito da sostanze di difficile descrizione e, soprattutto, assimilazione del secondo album.

Seventeen Seconds è l'incubo di una vicissitudine personale del leader della band, mentre fa della sua vita sentimentale lo specchio per i suoi spettri.

Seventeen Seconds è un mare che nasconde le gobbe delle sue onde per rivelare uno stato febbrile che paralizza gli arti ma non i sensi, gettando ogni impeto in uno stato perenne di misura: del tempo, dello spazio, delle catarsi obbligatorie, dei suoni che anticipano la melodia e gli accordi, e della paura, che in questi solchi veste la maschera desueta della sincerità.

Seventeen Seconds è uno stratagemma per nascondere i colori della vita laddove il punk ne aveva garantito l’assoluta mancanza, per sostenere invece, attraverso un impianto malinconico, il diritto di appartarsi. 

Seventeen Seconds visita le possibilità che diversi generi musicali provavano a materializzare, per sfuggire all’incubo della definizione, ossequiando il passato, e per dare al presente un sorriso sghembo.


Il vocabolario e l’enciclopedia della vita viaggiano sempre insieme, non nella musica ed è bene precisarlo. Basterebbe infatti notare, ascoltando il secondo lavoro del gruppo, come le parole e i suoni profumino di antico, ma non riescano a generare qualcosa di davvero nuovo. Lo è invece l’insieme di una prospettiva che indica come il laboratorio delle idee passi solamente attraverso l’uomo di Blackpool e che gli altri membri siano la perfetta manovalanza, gli esecutori di quei limpidi grigiori attitudinali che hanno fatto improvvisamente di un ragazzo di quasi ventuno anni un uomo con tutte le discese impazzite di frammenti da ricomporre per dare alla dignità una resistenza.

Seventeen Seconds è il lampadario offuscato di quegli anni Ottanta che nei primi due saranno preda, da una parte, di musiche disimpegnate, frivole, agglomerati di nullità perfette per impedire al pensiero di essere solido. Dall’altra di una massa impotente che, persa l’opposizione sociale, si avventura nel cataclisma di una interiorità inevitabile.

I quattro scrivono la storia di un universo mai attraversato prima dalle indagini, dalla paura dello scorrere dell’esistenza, del perdersi senza fiato, del sentire la schiuma della rabbia divenire un grumo di segreti da tenere nella propria casa, quella della mente che non conosce ancora il terreno esatto per nascondersi.

Un insieme musicale che pare fare l'occhiolino al concetto di un agglomerato che racconti il momento della maturità, delle scelte obbligate, di un gioco che vale solo per pochi secondi, per poi, invece, atterrare in una nube tossica figlia di intuiti massaggiati in fretta.

Diverse le novità che faranno di questo secondo episodio artistico la prima lettera dell’alfabeto di una nuova necessità, quella che in grembo non ha i candori pop dell’esordio bensì il freno a mano tirato con stanchezza e con fretta al contempo. 

La rustichezza dei tappeti sonori è di fronte al nostro stupore e, quandunque l’album è nelle nostre mani, si ha la sensazione di perdere sempre qualcosa nella sua breve durata, in quanto il genio svela la bellezza ma non la modalità attraverso la quale si rende visibile. La produzione finisce tra le dita di Robert Smith e di Mike Hedges, in una collaborazione che ha il sapore di un breve armistizio, data la propensione al controllo da parte del strumentista e cantante che piazza alle tastiere Matthieu Hartley, consapevole che l’operazione avrà vita breve. Ma, indubbiamente, quello che si ascolta non è un lavoro di chitarre o di qualsiasi altro strumento: è un corollario, più che onesto, di una scelta che sacrifica ogni virtuosismo (due soli assoli di Robert Smith in tutto il lavoro) per donarci una lastra piena di vibrazioni, di crepuscolo e affanno che si stringono, in lentezza, nel tentativo di proteggere la vita senza per forza doverla adorare. Ed è qui che abita il vero capolavoro dell’album…

Il punk e il post-punk vivevano di estremi urlanti, di roboanti manifestazioni pelviche, di trambusti esibiti senza alternativa. Il genio che lavora nella cantina della propria paura attiva risorse diverse, si apparta col tempo, lo misura e poi lo indossa su canzoni come abiti, appunto, invernali.

Spicca il metallo arrugginito in cerca di un eco vocale, di rarefazioni che conducano a un riverbero cognitivo senza bavaglio, in sezioni ritmiche quasi robotiche, vicine all’impeto menefreghista tipico della drum-machine, che è priva di sentimenti. Gli accordi (antichi intrugli che spaziano dai vomiti Velvettiani di Lou Reed) a quelli più asettici di avamposti progressive, allineano la fluidità della morte contro la durezza della vita, in una ipnotica forma di assemblaggio che spaventa: non esiste traccia in questa opera che non abbia il lato sporco della notte sulle sue spalle…

Il boato che si avverte è quello dei pensieri e non delle parole: queste ultime sono calibrate, lasciano spesso spazio alla parete musicale su cui loro appiccicano l’intenzione di palesare la loro esistenza, ma non si accollano la responsabilità di essere indispensabili. Infatti, seguendo questa logica, tutte le composizioni permettono, nel silenzioso e tremante ascolto, di verificarne la struttura, la solidità, e così facendo l’intero progetto diviene una capanna di cemento costruita nella landa di ogni tremore. Diversi sono i momenti in cui l’assenza del cantato ci induce a riflettere: non è una poderosa vittoria questa?

Il basso di Gallup non è niente altro che la catena di montaggio di melodie che potevano appartenere al canto: niente di tutto questo, il buon Simon distribuisce lapidi dorate, ritornelli già nelle strofe, per un qualcosa di poco sentito in precedenza. Il suono è privo della sollecitazione frenetica degli effetti: a lui non servono e già per questo ci ritroviamo basiti e immobilizzati dalla bellezza di questa manifesta forma di coraggio.

Per quanto riguarda Lol, lui rimane sempre lo stesso del primo album: un non-batterista che diventa indispensabile, riconoscibile e sul cui lavoro tutto il resto prenderà le luci, ma è impossibile negargli il merito di dare al suono dei Cure qualcosa di inconfondibile.

Dieci venti invernali spaccano il cielo in una ferita poco evidente: Seventeen Seconds vive di supposizioni, di accenni, dove il viaggio non è fatto da luoghi, da persone, ma da una sana paura su cui, volente o nolente, si definisce il futuro. Ecco, in questa dimensione umana, i Cure seminano per non ritrovarsi mai più negli stessi labirinti ed era già ipotizzabile che tutto nella loro carriera sarebbe stato costruito sugli opposti e sui loro satelliti.

Infatti, sia questo che Faith ma anche Pornography presentano, chiaramente, il rapporto tra la vita e la morte, dimostrando, in ognuno dei tre episodi, quegli elementi che faranno sembrare la loro musica l’anticipo della consapevolezza.

Però.

Però qui abbiamo il pudore, la timidezza, l’ingombro della realtà che urla e tocca a questi suoni addormentarne l’impeto. Gli accenni dell’ombra, nella mente acuta di Smith, riescono a pilotare l’orchestrazione del tutto verso un piano dove ascoltare è soprattutto afferrare prima e spiegare dopo una infinita percezione.

Altro momento magico e portentoso di questo insieme bollente nel ghiaccio atmosferico, in cui la coldwave sembra aver scelto di mettere le ali ma nascondendo il proprio volo.


Un racconto, un esame, un inchiostro tra le mani piene di colla, nel sudore del cemento che rimanendo fermo ribadisce il suo ruolo: si parte da qui per capire l’enorme validità di questa oscena bellezza che dura da quarantaquattro anni.


Si inizia senza parole, con accordi come un atto funebre in corso, echi di lamenti giovanili sotto la tensione di un basso e una chitarra che sembrano giocare con la luce. Come si definisce la fragilità dell’età, i silenzi che interrogano la paura? Scrivendo A Reflection, l’avamposto che crea il timore della solitudine, dopo un terremoto che ha lasciato in dono accordi secchi, che scandiscono il tempo senza aver bisogno della batteria. 

La tensione di Sheffield nella caotica Londra: ecco cosa sono i primi secondi del brano di apertura, un manifesto attitudinale in cerca di un nascondiglio emotivo. Tutto qui è incline alla nevrosi priva di balbettamenti ritmici ma straordinariamente potente.

Si entra nella lapidaria affermazione contenuta nella prima strofa per capire che con Play For Today ci si ritrova con pennellate morbide ma non romantiche, con il quattro quarti che ci incanala nel suono di una chitarra che circonda gli anni Settanta e li fa arrendere: l’approccio allo strumento con uno stile primitivo da parte di Robert Smith è un chiaro schiaffo dato a chi quando lo impugnava cercava di stupire. Qui, ciò che strega è l’ardore di un circuito che non può privarsi del basso e della batteria, dove la tastiera vince anche se nei pochi secondi nei quali le si concede la libera uscita. La seconda traccia è una chiara boccata di ossigeno per i pensieri di un ragazzo che si ritrova adulto nel dolore: l’unico scampo è giocare con la vita, in un giorno soltanto…

Atomi post-punk baciano la pelle dei sogni pop che mai potrebbero avere quella forma cosciente. Eppure, ancora oggi, questo brano avvicina forme diverse di ascoltatori. Della serie: la magia non si spiega ma si vive…

Arriva Secrets e la purezza della paura manifesta l’intenzione di usare due voci fuori sincrono, su registri diversi, per ammorbidire i giochi di chitarre minimaliste, cupe, frenetiche e il basso che accarezza il brano, quasi con timore. Gli accordi del pianoforte sono teatrali, vistosi, semplicemente imbevuti di drammaticità e il mini-solo spagnoleggiante della chitarra acustica lo ritroveremo poi in The Head On The Door

Come una candela in cerca di riparo, così la canzone sembra attivare la memoria dei vagiti del glam, nelle ballate che accennavano al suono senza renderlo dirompente. 

Giunge la sublime In Your House a ricordarci di tre ragazzi immaginari: qualcosa dell’album di esordio vive nell’arpeggio della sei corde ed è soltanto la tastiera, con due soli accordi, a spostare il tutto verso il regno della novità. Il mappamondo esistenziale qui restringe i confini: partendo dall’ampiezza (dovendo quindi escludere il mondo esterno) per afferrare l’unicità della brevità, lungo il terreno della pochezza e della approssimazione. Irresistibile è il fatto che la forma canzone, in questo caso, diventi scheletrica, utilizzando un bridge, che si rivela più efficace del ritornello. Attesa, tremore, tasti della tastiera che sembrano rendere mute le parole di un testo minimalista ma estremamente efficace nell’inchiodare l'attenzione verso la cantina della riflessione.

Quella che sembra una drum-machine è invece la spina dorsale di una musica che ruota, come un carillon che se ne sta in piedi lungo i corridoi di una casa che non sa come sfuggire a se stessa. Tutto è microscopico, indagatore, come se l’acqua in cucina non potesse mai bollire…

La medesima struttura di Three la troveremo in A Forest: con il basso che qui fa le stesse cose che farà la tastiera nel singolo più famoso dell’album, quattro accordi in successione su cui il brano trova forza, intimità e coraggio, oltre che il senso. Solo apparentemente strumentale, questo gioiello ospita la voce lontana di Robert Smith, per una situazione che pare uscire da un film di Mario Bava: far intuire procura molta più tensione di un urlo… Ecco le carezze di chitarre che evocano i Suicide all’inizio e poi via, nel teatro delle note che cadono come se avessero imparato il gioco da Bela Lugosi Is Dead: accennare per poi strutturare il suono in un magnete su cui piccoli e rudimentali marchingegni cercano un arrangiamento che renda sottile il tutto.

Ed è evocazione pura, il teatro drammatico di Oscar Wilde che entra nel cinema di Kurosawa: ardore e lentezza nella danza del sospetto.

L’assurdo dura poco ma è una catapulta nevrotica: poche note per pochi secondi creano il disagio con la spaventosa The Final Sound, l’addio a ogni forma canzone, il tentativo di far collimare gli incubi e di darli in pasto ai suoni, per generare una corrente balbuziente, nella giostra che non concede una nuova corsa…

Quella arriva con A Forest, il sigillo di un suono, di una storia adolescenziale che viene investita dalla realtà che non fa sconti, dove l’amor proprio mette in fuga quello collettivo, e i confini vengono scompaginati da immaginari alberi in movimento. 

Il corpo pare nascere da occhi in picchiata, mentre le gambe cercano ossigeno nelle metalliche movenze di una chitarra che circonda il buio per consegnarlo ai colpi vellutati del basso. La struttura è semplice: l’alternanza di un testo con la mimica sonora, che non adopera orpelli e tantomeno esagerazioni, ma si nutre della polvere alzata da una corsa confusa, che troverà l’apice in un eco pieno di riverbero dell’“Again and Again” del finale, dove il terremoto adolescenziale amoroso non conosce la morte ma qualcosa, forse, di ancora più frustrante: la paura che non cessa di correre insieme al sogno.

La canzone sarà l’inizio della fine: gli epigoni nasceranno come funghi, e, al giorno d’oggi, sicuramente velenosi. L’aurea piena di mistero è incline alla scena coldwave di Sarajevo, ma è proprio la chitarra a spostare le coordinate, a farci credere all'ultimo urlo di un post-punk senza ossigeno…

La luce dei Cure del 1980 era ingannevole: cercava la nuova Three Imaginary Boys mettendoci più ritmo: eccola, la M che confonde prima e fa accasciare poi, nel suo altalenante movimento tra la ricerca di una forma pop e la sua perfetta negazione. Ci si ritrova da soli, smarriti, di notte, con questa fionda sonora, che abbatte le illusioni e le cristallizza, per vestirle e attaccare, il prima possibile, il desiderio della morte attraverso la vita di queste note impetuose, quasi come fossero delle cortigiane al servizio del piacere della depressione di fare quattro passi in compagnia…

La prima canzone di Pornography avrebbe potuto essere At Night, il ghigno ottocentesco del marasma di una mente in debito di ossigeno: suoni meno pesanti rispetto al quarto album, ma la stessa, magnetica capacità di incupire i respiri e di inchiodare i nervi. L’episodio in questione è il perfetto armistizio tra quello che chiude l’album e Siamese Twins: in un riff si nasconde il cielo e si aprono le gocce per irrigidire la mente, creando uno spazio dove la consapevolezza ci riporta alla nascita, alla residenza (la nostra casa) e il momento in cui il tempo ingrossa le paure (la notte).

La tastiera, quasi nascosta, sarà quella che abiterà il palco in Faith e la cantina in Pornography: un mantra assassino che toglie ogni sogno allo scorrere del tempo…

Quello che parrebbe avere una misura: Seventeen Seconds è l’armadio che chiude il fiato, quello che puoi abitare per duecento e quarantuno secondi, per poi lasciarti vedovo di ogni speranza. Catatonico, rigido, porta le note nell’imbuto di una paralisi che eccita, per via del suo approccio a raccogliere gli altri strumenti sino ad aumentare la velocità, come un lento tornado pieno di sé…

La voce di Smith è un candelabro nel vento del tempo: senza paura, emette suoni codificati che si appiccicano alla sua chitarra in un binomio letale, con le due note della tastiera a saldare il tempo e il senso incompiuto dell’esistenza, dando al drumming il potere di apparire e scomparire come se tutto non avesse più senso.

Se la morte ha un inizio ecco che troviamo la sua carta d’identità nel brano conclusivo, in cui, come un grido silente, tutto volge al termine…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
14 Luglio 2024

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