sabato 14 settembre 2024

La mia Recensione: St. Jimi Sebastian Cricket Club - Into Your Heartbeat


 

St. Jimi Sebastian Cricket Club - Into Your Heartbeat


Una tempesta, quando sa essere gentile, accomodante, pacifica, pare non credibile e viene definita in altri modi. Capita lo stesso nella musica, più raramente, per il fatto di essere considerato un evento che perlomeno attira attenzioni.

La band svedese, di cui il Vecchio Scriba in aprile vi aveva parlato di un singolo, ritorna per specificare le incredibili scie, morali, fisiche, attitudinali di un lavoro che conduce all’intima propensione a un raccoglimento, uno svago culturale, per una serie di ritrovi archeologici che vivono tra questi solchi, in una oscillazione tra dolcezza, malinconia, ricerche, gusto nella sottile critica sociale, nelle storie che mostrano il range di una scrittura in grado di visitare realtà. 

La dimensione dello stile e dei generi musicali presenti è chiara, ma quanta capacità di far sembrare il tutto una serata tra amici tra lacrime, bottiglie, risate, pianti e tante domande forse lo è meno, per chi non scende nelle zolle profumate della loro classe.

Il battito del cuore presente nel titolo di questo gioiello non è nient’altro che la vita che si presenta, con la sua limpida volontà di presenziare a una possibilità irrinunciabile.

Abbiamo così composizioni che costruiscono un emisfero, con l’eleganza di una partitura abile nell’incrociare un senso e uno spirito antico con la modernità, in costante pellegrinaggio nella moderazione dei toni e delle parole. Nessun grido, insulto e tantomeno accuse: la band è educata, paziente, lavora duramente per arrivare a presenziare al l’acuta volontà di fare un disco che insegni a documentarsi, ad assentarsi dal giudizio.

I richiami e le vicinanze a una lunga fila di gruppi attivi specialmente negli anni Novanta sono numerosi, ma si ha sempre la piacevole sensazione che St. Jimi Sebastian Cricket Club venga proprio da quel periodo, avendo avuto l’accortezza di nascondersi.

Ci sono unicità, aperture che le formazioni di quegli anni non avevano, una sacralità che arriva anche al cabaret, al teatro, al cinema, con una incredibile voracità sulla minuziosità del fraseggio, sulla successione degli arrangiamenti, sulle pulsioni come propulsori di una energia che va inglobata in un progetto.

Dieci brani come una passeggiata nel parco naturale dell’esistenza, con i volti e le vicissitudini che trovano l’olio della saggezza a rendere tutto morbido e funzionale.

Notevole il fatto che, seppur l’ascolto permetta di portare queste passeggiate facilmente dentro di sé, si abbia l’impressione di piccoli tormenti, qualche fatica, la ricerca di una perfezione che è stato possibile raggiungere proprio per mezzo di tutto questo. Ogni cosa funziona, si muove e arriva nei confini di una tensione che sa come trovare alberi poetici tra i viali di una scrittura che, attraverso l’indie rock, il lato elegante del pop rock, gli stantuffi del cabaret che inghiotte in una risata il folk, svincola la band di Stoccolma dall’ansia di dover cercare la musica perfetta.

A loro appartiene l’abilità di una espressività artistica che sia gradevole da portare sui palchi, nelle camere di quelle persone che decidono di tenere sotto braccio, come una pergamena sconosciuta, questi cinque menestrelli nordici, imbevuti di tratti quasi medievali nei momenti in cui rendono tutti edotti (attraverso testi profondi e le musiche come compassi per portarle adeguatamente a raggiungere i cuori) di ciò che accade.

Praterie, palazzi, fabbriche, strade, voli, uccelli, ombre, suoni, diamanti, spari, treni, incursioni alcoliche nella gioia come nella tristezza, fanno di questo lavoro un meraviglioso portafoglio pieno di monete emozionali…

Una partenza continua, dalla inconsapevolezza sul treno melodico sino all’arrivo a una forza enorme, che consente a questi agglomerati di note di divenire esperienze condivisibili, generando petali di curiosità ed ebbrezza. Nell’alternare andamenti lenti a quelli veloci si capisce come l’impatto, l’irruenza e la ponderazione siano decisamente presenti nelle loro menti brillanti e capaci, per spingere la musica in campi immaginari, vicino ai nostri pianeti, alle nostre stelle, ai nostri giorni pieni di confusione. Con la stessa azione diretta dei Pogues nel fare di questa scelta di vita un’autostrada, l’alcol che si beve è un liquido pieno di fermenti stagionati, con il tempo che consolida la validità delle scelte, dei suoni, di queste strofe così coscienti che permettono ai ritornelli di essere una doverosa conseguenza, dove la scrittura in minore talvolta sembra in maggiore. Volteggi cari agli Housemartins come ai Belle & Sebastien, intuizioni melodiche vicine ai Blueboy di Reading come ai The Sea Urchins di Birmingham, e strascichi malinconici molto simili ai norvegesi Saybia, denotano una complessità notevole, itinerante, lucida e ben attrezzata. Ma su tutto vince un ponte che collega la Svezia all’Inghilterra, composta di studi, perlustrazioni e la volontà di fare della scorrevolezza emotiva e mentale il pretesto per canzoni che sappiano unire le fantasie, i racconti e le effervescenti ambasciate come uno shangai (Mikado) al contrario, in cui vince chi cade e non chi rimane in piedi: un’altra mastodontica magia di questo combo…. 

E un fatto incredibilmente piacevole e straziante è sentirsi avvolti da lacrime che paiono renderci consapevoli del tutto che ci circonda.

Sì, senza dubbio, questo disco va conosciuto, adoperato e trasportato in ogni dove, senza esitazioni…


Song by Song


1 - Stockholm Central Station

“She’s always been a rover, a panda scarred by the tides
hooked on a glistening dream, with one foot in the truth
if you do not like the silence, you know nothing at all”


La libertà è una trave che cade, quando all’interno di una relazione si cercano spazi personali. Ecco che ciò che apre l’ascolto di questo album rivela un ottimo equilibrio tra il riconoscere il valore dell’altro e le proprie esigenze. Il tutto dentro un'atmosfera scanzonata, leggera, solare, un frutto caduto dalla California degli anni Sessanta con deliziosi cori e controcanti che si connettono perfettamente tra chitarre docili e più robuste.




2 - Soothing Nights

“And our days, pass by like streams and waterfalls tranquil madness, and soothing nights
but some hours, they last forever, carved in stone, with your smile”


Dalla mia recensione pubblicata in Aprile:

C’è una poesia che vola nell’aria, non ha tracce di inchiostro sulla pelle ma note vibranti sulla schiena, in una contorsione che aspira il cielo abbellendo, in modo sorprendente, la scia luminosa di una notte insonne. Un brano che nella sua struggente monotonia rivela ruscelli di splendidi comitati di tristezza, con l’intenzione di esplorare lo spazio celeste contemplante una stella morente. Non ha bisogno di variare, se non nel ritmo che aumenta, con l’ingresso della batteria e un'atmosfera sempre più avvolgente, per coniugare il testo a un insieme di grappoli sonori che, come una voragine liquida, compattano l’universo dei sentimenti.”




3 - Until We Meet Again

“So hold me, forever I can still hear the sound
the sound of laughter on a quiet night, I’ll never
until we meet on your side, let it go”


Dal Messico agli States, per poi tornare in Svezia, una puntura indie rock con l’idea di abbracciare dei mariachi per poi lasciare il tutto in una corsa piena di energie nella quale il testo affronta temi importanti, dolenti, fastidiosi, con grande maturità, dove alla fine una caduta viene fermata da un abbraccio, per un inizio ripetuto, again and again…




4 - When you Tremble

“You might be scared, you might lose control
when you tremble, but from tonight you’re not alone”


Il tempo visto da una finestra porta all’incrocio tra i raggi del sole e la notte, così come fanno queste note che affrontano la paura con un nerbo melodico efficace, permettendo alla dolcezza di fare la sua parte, con il cantato che adopera giustamente una rabbia con il guinzaglio, e le distorsioni di accordi che, passando a setaccio l’indie alternative degli anni Novanta, gioca con le luci e le ombre, per un brano davvero intenso…




5 - Lemonhead Cabaret

“I’m standing in a hole, and have the longest road to walk”


Come gli Smiths, la band si trova a proprio agio tra note leggere e divertenti e parole piene di dinamite. Ne viene fuori una canzone che sembra arrivare da Galway, in discesa libera verso le ballads inglesi, per tornare in Svezia con una teatralità che fa aprire il cielo…




6 - Golden Parachuter

“Can still hear the sound of my heartbeat and a drum
in the smell of mint where my promises are dead”


Con l’inizio che ci porta a casa degli Arcade Fire, tutto sfuma e si allontana dal Canada per arrivare nel cielo svedese, con melodie e canti effervescenti, per poter salvare un’anima e giocare con il basso dinamitardo e sensuale e le chitarre che sanno utilizzare i trucchi del glam rock in un contesto però scevro da esagerazioni…




7 -  Westbourne Terrace

“There’s a million regrets and something holding up the door for me
there’s a fly drifting away towards the crown of a maple tree”


Le lacrime possono volare come camminare e riescono a farlo perfettamente in questa ballad che include pillole psichedeliche, facendoci trasportare negli anni Settanta, e in cui il cantato gioca con la fierezza del suono delle parole, in una forma che paralizza: una nuvola che copre la luce serve a tutti…




8 - Penguins of the Ghetto

“I have something on my mind not yet a corpse, I’ll come round it’s a fine day, for a speech”


Nel momento in cui l’alcol recapita verità nelle menti opacizzate tutto può accadere: ecco una incursione rock con petali irlandesi degli scoppiettanti Sultans of Ping F.C. del periodo di Veronica.

 Al cantato è conferito il ruolo centrale nella strofa.

 Troviamo poi chitarre aperte come canyon, stop and go della batteria, con una donna e i suoi figli attori nella storia di questo uomo che scava nella sua debolezza…




9 - The 9.15 Train Departs at 9.15

“There’s not much space on postcards so I better keep it brief
and make sure to leave it clear”


L’ironia gioiosa della band svedese è impressionante: basta questa canzone per vedere la prodezza di un connubio molteplice con epoche e modalità diverse, mentre tutto scorre con scioltezza…




10 - Sailor Girl

12 months and a prayer, I fought all the shadows and doubt
never strayed from our doorstep, but we hold for another day”


Continuano le sorprese anche all'ultima stazione: una malinconica fontana folk con vitaminiche sferzate da parte di parole che catturano la forza di un cattivo sogno portano il tutto a un ritornello epico, come uno stadio che dà coraggio al singolo. Ed è una gioia abbinata alla tristezza che si infila in un fischiettio nostalgico e davvero incisivo a descrivere un’armonica propensione a uno storytelling molto europeo, per poi chiudere il tutto in un separé che ci fa intendere come lo spazio temporale di questo album sia una favola senza la parola fine…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

15 Settembre 2024


https://open.spotify.com/album/2gfcDx5zj89C21EhC4EMa9?si=TwQCXficRXeJ3T4_6rsqTg


giovedì 12 settembre 2024

La mia Recensione: Platonick Dive - Take a deep breath


Platonick Dive - Take a deep breath


Piccole percezioni definiscono lo spessore di un lavorio, guidato dall’istinto o meno poco importa. Ecco dunque determinare una serie di luci che confortano la visione di tutto questo.

La giusta prefazione per un’opera complessa, radicata nella purezza e negli spruzzi che rinfrescano l’attuale panorama mondiale di tre generi musicali in debito d’ossigeno, vede la band Platonick Dive nel tessuto narrativo che scavalca la comprensione in quanto colmo di trame ascensionali, sapendo però anche scendere all’altezza della inibita ricezione dell’ascoltatore. Canzoni che ci portano a sentire il vento sotto le onde, a percepire l’abbraccio di mondi confinanti ma sempre comunque distanti. I tre musicisti dipingono la scena come diamanti da trasferire al suono, imbevuto di una prospettiva scenica sapiente e calorosa. In certi istanti il Vecchio Scriba scorge antiche gemme provenienti dai Wishplants con il loro mastodontico Coma o l’artista australiana Laura con l’inarrivabile Radio Swan Is Down, album che la band italiana probabilmente non conosce, ma di cui hanno saputo sentire l’importanza: quanta magia esiste in tutto questo?

Un trio che sparge la sua idea di contemplazione, sogno, emozione, nel vortice di uno scivolamento pellegrino dentro armonie e melodie con le idee chiare, sviluppando metamorfosi continue con cambi di ritmo, l’uso intelligente di una elettronica non al centro bensì al servizio di un senso collettivo delle singole parti.

Un lavoro che non necessita di improvvisazioni e genuinità ma, fatto ancora più rilevante, di uno studio meticoloso attraverso il quale fare delle composizioni non un teatro bensì un silenzioso percorso, nel quale ciò che è adiacente e nebuloso si incrocia nel cilindro di un bisogno davvero potente.

Il Post-Rock guida, crea visioni, ma senza negare il bisogno di spaziare nei giochi sperimentali che includono lo shoegaze più delicato e un alternative (specialmente nel drumming) che consente formule piene di varietà, finendo per sedurre e rendere l’esperienza dell’ascolto quell’incontro con il vento sotto l’acqua, come affermato in precedenza.

Quasi del tutto strumentale, con l’impressione che le voci siano nascoste per necessità ma abili ad arrivare con raffinatezza e morbidezza. 

Esistono battaglie dei suoni, ritmi prevalentemente lenti, spesso sincopati, e una prateria di arpeggi che impegna il basso e la batteria per creare la coesione perfetta, data la mole impressionante di trame chitarristiche sempre piene di energia e poesia.

La grande consolazione giunge dal non essere un capolavoro ma un album ancora più nutriente, in quanto sa nascondere parte del proprio volto e questo costituisce un fatto irresistibile, importante, e definitivamente più incisivo del capolavoro, parola e atto regalati con troppa fretta e non più credibili.

Il fiato che si usa in questa situazione è quello che serve per sentirsi trasportare, per un ascolto sempre nuovo, in quanto la chiave sta nella mole di alchemie sviluppate per non ripetersi. Ci sono drammi, tristezze, nostalgie e sommosse dell’umore in Take a deep breath, in un circuito consequenziale che vive nei pressi di una proiezione sonora che si sposa con immagini in accumulo e mai in transito.

Come dire: nulla si perde, ma tutto diventa un salvadanaio che si gonfia e rende il sorriso il vero guadagno di questa esperienza. Dodici storie mute (in apparenza) che sanno uscire dalla coda di favole intimamente devote alla solidarietà: in certi episodi si pensa davvero che la band sia in grado di scrivere un nuovo linguaggio, rafforzando la convinzione di chi scrive che questo sia un appuntamento meraviglioso con una serie di novità forse di non facile rilievo.

Con decisa personalità, le canzoni presenti si discostano di molto dai loro esordi e in questo passaggio del tempo ci sono segnali evidenti di consapevolezza e forza: basta approcciarsi all’ascolto purificando l’egoismo e l'errato esercizio della comparazione per notare come le pennellate siano solo l’inganno meraviglioso di fascine che cadono ai piedi dell’acqua. La robustezza è più nell’indole che non nel suono: ecco il Post-Rock della fine degli anni Novanta ricordarci come bastino poche note, non una infinita trama di accordi per elevare il contatto con la poesia.

Quanto beneficio nasce da questi minuti in cui ci si trasforma in orecchie che vedono e bocche che suggeriscono evasione? Moltissimo: il ventilatore delle emozioni si ritrova nei pressi di pensieri, in un idillio che diventa forza generatrice di nuove pulsioni, gravitando nella pacifica coabitazione di sogni e orizzonti, sì, perché il piano onirico pare essersi vestito per uscire da queste note suadenti.

La produzione è buona, sebbene esistano alcune imperfezioni e qualche piccolo errore nelle dinamiche dei volumi, ma credetemi sono elementi meravigliosi, che fanno capire quanto la dimensione Live sia quella più congeniale e dove gli errori sono sorrisi della dea della musica. Notevole la scelta di dare al minutaggio poche possibilità di dilungarsi: la noia non compare mai e la vitalità di alcune soluzioni che si avvicinano alla musica classica e a certi remix di Moby e degli Air rende il tutto una vitaminica constatazione della ricchezza che vive in queste tracce.

Spaziando dagli anni Novanta ai giorni nostri, questo vento sotto la pelle dell’acqua gioca a nascondere, a proteggere, sviluppa oscena bellezza rendendoci ricchi, quasi con vergogna. Molto italiano nella produzione e nelle ritmiche, inglese come attitudine di sviluppo, questo album offre riflessioni multiple: il senso di attesa, l’enfasi, la gioia e quelle lacrime piene di sole che sciolgono le paure. La tensione è una parte importante: queste favole cercano luoghi creandoli, affollando di suoni che spaziano come tecnica, come variazioni e l’ingresso, felicemente depositato, in un disco che sembra un cantiere aperto al pubblico.

Non avrà il successo: poco male, perché sarebbe la loro rovina, avrà, invece, la capacità di essere un solvente, una scossa emozionale e un vasodilatatore dei sensi per chi dall’ascolto sentirà che potrà entrare in connessione con questi notevoli musicisti, per poter sentire quella unicità che i Platonick Dive hanno di certo…

Andiamo, tuffiamoci nelle dodici onde: forse non impareremo a nuotare, ma conosceremo l’odore di un incontro davvero incandescente…


Song by Song 


1 - Intro

Una turbolenza elettronica ci immette in un clamoroso inganno: nulla fa presagire cosa avverrà, le chitarre, le esplosioni contenute. Ma è proprio questo elemento di confusione che crea uno smacco dolcissimo: un'introduzione che pare una perfetta intrusione coi suoi algoritmi ascensionali, con l’elettronica che fa spalancare la bocca dallo stupore…


2 - Carpet Ceiling

Ecco giungere la farfalla di una sei corde che trama voli  nel vuoto, sostenuta da un drumming vorticoso e militare, echi dei Leech amati dal Vecchio Scriba inducono il primo maremoto: una ninnananna che sembra acustica nelle intenzioni, ma in grado di essere un insieme caloroso di cavi…


3 - Faro

Moby pare essere incuriosito, nei primi secondi: ci sono punti di contatto con Play, ma poi è un airone che seduce per le zone basse degli istinti, questa molecola che esce dalla sei corde, il cambio ritmo, voci in sottofondo come se fossero in volo nel cielo toscano. E sono punte di contatto con il leader dei Durutti Column: la progressione degli accordi è pura catarsi…


4 - Anesthetic Analgesic

È notte, è timore, è uno scivolio sul manico della chitarra che spiazza, il basso che inonda le onde e la batteria che dà ordine, per un brano che è un insieme di spruzzi e di stop and go solo accennati: quando la poesia moderna riesce a presentarsi, come in questo caso, ci si sente come nei film di Truffaut, ricchi e sistemati per molti anni a venire.  La trama ha la faccia del Post-Rock più umido, prossimo a vistose lacrime, grazie a un effetto che circonda l’ascolto e un loop feroce che assesta il colpo…


5 - Naked Valley

Rover prende appunti, come Bernard Butler: qui le note sono ruscelli e un dolore quasi invisibile tocca questi figli degli Adorable, quando lo shoegaze era una miniera infinita. Un film, un fremito e un basso che scivola ai piedi, una creazione davvero notevole…


6 - Too Beautiful To Die Too Wild To Live

Eccolo, il diadema, il nucleo di ogni partitura che entra nella zona della bellezza del cielo: enfatico, ermetico, benedetto dalle sue zone che sembrano necessitare di avamposti della forma canzone. Lo splendore di strofe e ritornelli senza voci è una emozione purissima…


7 - Interlude

La porta si apre lentamente, come un intermezzo con pennellate delicate, un tremolio che arriva alla punta delle dita, pochi secondi che sanno creare tensione: anacronostica, perversa grazie al suo abito lungo e nero in un giorno di sole. Sono frammenti di suono in fondo al mare…


8 - Falls Road

Il Vecchio Scriba non ha esitazioni: in questa traccia vive la maturità, lo studio, le ascensioni algebriche di tensioni alla ricerca di una perfezione che la band sa creare. Tutto fluisce nel delicato meccanismo di nuove pagine che si aprono secondo dopo secondo, spiazzando, generando intensità sino alla rullata: da quel  momento è una penna di luce che scrive la storia, un brano lucente, glorioso, che merita il punto più alto del podio… 


9 - Blue Hour

Immaginate Peter Gabriel in vacanza in Toscana, mentre cerca visi e strade, per trovare la pace dello sguardo. Improvvisamente, arriva Blue Hour ed è una cavalcata di notte che accende il sogno, la volontà di esserci e non di fuggire. Il brano è una sfera di catarsi tenute a mollo nella dolcezza, negli episodi di un crocevia che vede chitarra, basso e batteria parlare la stessa lingua, con ruoli che finiscono per essere un calendario del suono in ascesa…


10 - Santa Monica

L’inizio spiazza, sorprende, offre un lato non conosciuto della band, che pare aspettare il momento giusto per azzannare l’ascoltatore con un incipit elettronico di notevole fattura: semplice ma ben riuscito.

E invece no: Santa Monica è una proiezione futura della band, meno legata ai generi musicali amati ed esibiti, piuttosto un sondare ciò che verrà nelle loro anime così curiose. Perfetta per i pomeriggi in cui i vizi cercano spazio, la canzone gioca con gli innesti e con  riferimenti quasi impercettibili. Un gioiellino che diventerà gioiello quando chi ascolta avrà imparato a vedere capacità multiple…


11 -  Struggles & Feelings

Quindici secondi iniziali: come attendere la pioggia con due note e ritrovarsi poi con un pianto che cade dal cielo, una distorsione tra il riverbero che impasta la gola, il drumming che scuote e la tensione che visita gli arpeggi. La strategia della sonda è quella di avere la memoria degli incontri. Così fa questo pezzo, che estende il campo di azione per generare trambusti, ben voluti. Le cavalcate di The Edge degli U2, se utilizzasse questi effetti, saprebbero rimanere in eterno. Ci pensa la band italiana a prendere l’ossigeno e a circondarlo di perfezione…


12 - Tribeca

La conclusione è un brindisi con chitarre che sanno ricordarci il secondo album dei Cranberries e certe soluzioni di Matt Johnson dei The The, ma poi è tutta farina del sacco di questi ragazzi che terminano con il brano più epico, struggente, mettendo anelli di sabbia nei cambi ritmo, una vivace melodia che conduce alla danza e una trama che sembra costruita per chiudere  i loro concerti. Poi: la sorpresa di un crooning, maschile, a generare il connubio ideale per enfatizzare ciò che si è appena ascoltato. Dove non osa il Post-Rock ci pensano questi magnifici Platonick Dive…



Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

13 Settembre 2024


https://platonickdive.bandcamp.com/album/take-a-deep-breath

My Review: Platonick Dive - Take a deep breath


 Platonick Dive - Take a deep breath


Small perceptions define the depth of a work, whether driven by instinct or not it matters little. Here, then, is a series of lights that comfort the vision of it all.

The right preface for a complex work, rooted in the purity and splashes that refresh the current world panorama of three musical genres in debt to oxygen, sees the band Platonick Dive in the narrative fabric that bypasses comprehension as it is filled with ascending textures, while also knowing how to descend to the height of the listener's inhibited reception. Songs that lead us to feel the wind beneath the waves, to perceive the embrace of neighbouring but still distant worlds. The three musicians paint the stage like diamonds to be transferred to sound, imbued with a wise and warm scenic perspective. In certain moments, the Old Scribe glimpses ancient gems from Wishplants with their mammoth Coma or Australian artist Laura with the unreachable Radio Swan Is Down, an album that the Italian band probably does not know, but whose importance they have been able to feel: how much magic is there in all this?


A trio that spreads its idea of contemplation, dream, emotion, in the vortex of a pilgrim's glide within harmonies and melodies with clear ideas, developing continuous metamorphoses with changes of rhythm, the intelligent use of electronics not at the centre but at the service of a collective sense of the individual parts.

A work that does not require improvisation and genuineness but, even more importantly, a meticulous study through which to make the compositions not a theatre but a silent journey, in which what is adjacent and nebulous intersects in the cylinder of a truly powerful need.

Post-rock guides, creates visions, but without denying the need to range in experimental games that include the most delicate shoegaze and an alternative (especially in the drumming) that allows formulas full of variety, ending up seducing and making the listening experience that encounter with the wind beneath the water, as stated above.


Almost entirely instrumental, with the impression that the vocals are hidden out of necessity but able to arrive with refinement and softness. 

There are battles of sounds, predominantly slow rhythms, often syncopated, and a prairie of arpeggios that engage the bass and drums to create the perfect cohesion, given the impressive amount of guitar textures always full of energy and poetry.

The great consolation comes from not being a masterpiece but an even more nourishing album, in that it knows how to hide part of its own face, and this constitutes an irresistible, important, and definitively more incisive fact than the masterpiece, word and deed given with too much haste and no longer credible.

The breath that is used in this situation is what is needed to feel transported, to listen again and again, as the key lies in the amount of alchemy developed so as not to repeat itself. There are dramas, sadness, nostalgia and mood riots in Take a Deep Breath, in a consequential circuit that lives in the vicinity of a sound projection that marries images in accumulation and never in transit.


As if to say: nothing is lost, but everything becomes a piggy bank that swells and makes a smile the real gain of this experience. Twelve mute stories (in appearance) that know how to come out of the tail end of fairy tales intimately devoted to solidarity: in certain episodes, one really thinks that the band is capable of writing a new language, reinforcing the writer's conviction that this is a wonderful appointment with a series of novelties that are perhaps not easy to come by.

With decisive personality, the songs present deviate a great deal from their beginnings, and in this passage of time there are clear signs of awareness and strength: it is enough to approach the listening purifying selfishness and the erroneous exercise of comparison to notice how the brushstrokes are only the marvellous deception of wooden bundles falling at the foot of the water. Robustness is more in the character than in the sound: here is the Post-Rock of the late 1990s reminding us how just a few notes, not an endless web of chords, are enough to elevate our contact with poetry.


How much benefit comes from these minutes in which we become ears that see and mouths that suggest escape? A great deal: the fan of emotions finds itself in the vicinity of thoughts, in an idyll that becomes a generating force of new impulses, gravitating in the peaceful cohabitation of dreams and horizons, yes, because the oneiric plane seems to have dressed up to come out of these persuasive notes.  The production is good, although there are some imperfections and a few small errors in the dynamics of the volumes, but believe me these are wonderful elements, which make you realise how the Live dimension is the most congenial and where errors are smiles from the goddess of music. The decision to give the minutes little chance to linger is remarkable: boredom never appears and the vitality of some solutions that come close to classical music and certain Moby and Air remixes makes the whole thing a vitaminic statement of the richness that lives in these tracks.

Ranging from the nineties to the present day, this wind beneath the skin of water plays to hide, to protect, develops obscene beauty making us rich, almost with shame. Very Italian in its production and rhythms, English in its development, this album offers multiple reflections: the sense of anticipation, emphasis, joy and those sun-filled tears that melt away fears. Tension is an important part: these tales seek out places by creating them, crowding them with sounds that range as technique, as variations and the happily deposited entrance into an album that sounds like a construction site open to the public.  It will not have success: little bad, because that would be their undoing, it will, instead, have the capacity to be a solvent, an emotional shock and a vasodilator of the senses for those who from listening will feel that they can connect with these remarkable musicians, to be able to feel that uniqueness that Platonick Dive certainly have...

Come on, let's dive into the twelve waves: we may not learn to swim, but we will know the smell of a truly incandescent encounter...


Song by Song 


1 - Intro

An electronic turbulence plunges us into a resounding deception: nothing foreshadows what is to come, the guitars, the contained explosions. But it is precisely this element of confusion that creates the sweetest snub: an intro that sounds like a perfect intrusion with its ascending algorithms, with electronics that make your mouth open wide in amazement...



2 - Carpet Ceiling

Here comes the butterfly of a six-string plotting flights in the void, supported by a swirling and military drumming, echoes of the Leech beloved by the Old Scribe induce the first tidal wave: a lullaby that seems acoustic in intentions, but able to be a warm set of cables...



3 - Lighthouse

Moby seems to be intrigued, in the first few seconds: there are points of contact with Play, but then it's a heron seducing the lower zones of the instincts, this molecule coming out of the six-string, the change of rhythm, voices in the background as if they were flying in the Tuscan sky. And these are points of contact with the leader of Durutti Column: the progression of the chords is pure catharsis



4 - Anesthetic Analgesic

It's night, it's dread, it's a glide on the guitar neck that disorients, the bass that floods the waves and the drums that give order, for a song that is a set of splashes and stop-and-go only hinted at: when modern poetry manages to present itself, as in this case, it feels like Truffaut's films, rich and settled for many years to come.  The plot has the face of the wettest Post-Rock, close to conspicuous tears, thanks to an effect that surrounds the listening and a ferocious loop that settles the blow...


5 - Naked Valley

Rover takes notes, like Bernard Butler: here the notes are streams and an almost invisible pain touches these children of the Adorable band, when shoegaze was an endless mine. A film, a quiver and a bass that slides to the feet, a truly remarkable creation...



6 - Too Beautiful To Die Too Wild To Live

Here it is, the diadem, the core of every score that enters the zone of heavenly beauty: emphatic, hermetic, blessed by its zones that seem to need the outposts of the song form. The splendour of stanzas and refrains without voices is a pure emotion...



7 - Interlude

The door opens slowly, like an interlude with delicate brushstrokes, a flicker that reaches the fingertips, a few seconds that know how to create tension: anachronostic, perverse thanks to its long, black dress on a sunny day. They are fragments of sound at the bottom of the sea...



8 - Falls Road

The Old Scribe has no hesitation: in this track lives maturity, study, algebraic ascensions of tensions in search of a perfection that the band knows how to create. Everything flows in the delicate mechanism of new pages that open second after second, displacing, generating intensity until the roll: from that moment it is a pen of light that writes history, a shining, glorious track that deserves the highest point of the podium...


9 - Blue Hour

Imagine Peter Gabriel on holiday in Tuscany, searching for faces and streets, to find peace of sight. Suddenly, Blue Hour arrives and it is a night ride that ignites the dream, the will to be there and not to flee. The track is a sphere of catharsis held soaking in sweetness, in the episodes of a crossroads that sees guitar, bass and drums speaking the same language, with roles that end up being a calendar of sound on the rise



10 - Santa Monica

The beginning is surprising, surprising, offering an unfamiliar side of the band, which seems to be waiting for the right moment to bite the listener with an electronic incipit of remarkable workmanship: simple but well done.

But no: Santa Monica is a future projection of the band, less tied to the musical genres they love and perform, rather a probing of what is to come in their curious souls. Perfect for afternoons when vices seek space, the song plays with graft and almost imperceptible references. A gem that will become a jewel when the listener has learned to see multiple capacities...



11 - Struggles & Feelings

Fifteen opening seconds: like waiting for rain with two notes and then finding yourself with a cry falling from the sky, a distortion between the reverb that kneads the throat, the drumming that shakes and the tension that visits the arpeggios. The probe's strategy is to have the memory of encounters. So does this piece, which extends the scope to generate well-intended turmoil. The rides of U2's The Edge, if it were using these effects, would know how to stay forever. The Italian band takes the oxygen and surrounds it with perfection...



12 - Tribeca

The conclusion is a toast with guitars that can remind us of The Cranberries' second album and certain solutions by Matt Johnson of The The, but then it's all in the bag for these guys who end with the most epic, poignant song, putting sand rings in the rhythm changes, a lively melody that leads to dancing and a plot that seems built to close their concerts. Then: the surprise of a crooning, male, to generate the ideal combination to emphasise what has just been heard. Where Post-Rock doesn't dare, these magnificent Platonick Dive do...



Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

13th September 2024


https://platonickdive.bandcamp.com/album/take-a-deep-breath

La mia Recensione: Midas Fall - Cold Waves Divide Us

  Midas Fall - Cold Waves Divide Us La corsia dell’eleganza ha nei sogni uno spazio ragguardevole, un pullulare di frammenti integri che app...