mercoledì 18 maggio 2022

La mia Recensione: RosGos - Circles

 La mia recensione 


RosGos - Circles


Le sorprese sono sempre più determinate ad essere negative, noiose, faticose, pesanti.

In questo traffico spasmodico di fatti, eventi, tragedie in crescita, quelle positive sono rare, come le zone del mondo che sono prive di contaminazioni varie.

Il mio sguardo ora diventa musicale ed entra nell'opera di un artista italiano, lavoratore instancabile e dall'anima tesa, capace di dare alla sorpresa il volto del sollievo.

Un album che sa essere acuto nella sua tensione, respiri che diventano ansia poliedrica, contagiosa di nuvole scure che cercano il sole. Amore è la parola chiave di questa navicella marina: portata in fondo al mondo a guardare l'universo, lo si osserva nella sua potenza e prepotenza, facendone un fascio di gocce amare, ma capace di regalare labirinti di coppe di gioia in cui perdersi.

RosGos entra come un insieme di bolle nella pentola del cuore, tra fiammate Postpunk ed una Darkwave leggera affiliata alla Synthwave di gran classe, con brani calibrati nel mettere a fuoco le vicende del sentire umano. Purifica e incanta, scuote e ci fa danzare con la testa verso il nero seppia.

Sulla sua voce scende la follia del mondo, nel vano tentativo di una fuga impossibile, e l’artista Lombardo (Crema) la rende capace di scuotere la paura e di farla diventare un respiro consolatorio.

Chitarre dal mantello di pietra stringono il patto di fede con tastiera e basso: c’è una voragine da riempire e tutto va nella direzione del compimento.

Vi è del coraggio, una acuta leggerezza quasi romantica, un velo a proteggere la fragilità dell’aria e la predisposizione a trasportare il tempo in una atmosfera di piacevole confusione mista a tensione.

Grande predisposizione al bilanciamento dei volumi di idee tenendo in asse, perfettamente, tutti gli strumenti utilizzati. 

La tristezza ha la luce di una candela sospesa sopra il ghiaccio.

Quando sembra che il tutto sia rappresentato con un certo senso del distacco, ecco le sorprese che dicevo prima: RosGos scuote, rende insensata la nostra convinzione e la spiazza.

Diverse le direzioni musicali di queste nove composizioni, come il bisogno di trovare forza e conforto in un range che dia il senso di pienezza.

Non vi è nulla di italiano e in questa occasione direi che va a suo favore: i testi, il cantato in un perfetto inglese, la musica che nuota tra la Germania e l’Inghilterra in una danza completa di innumerevoli motivi di orgoglio che consegna all’Europa un meraviglioso figlio adottivo.

La sua tendenza è quella di offrire armonie e melodie, come se le gocce d’acqua fossero ancora possibiliste nei confronti di un bianco non del tutto macchiato. Una lunga poesia fatta di immagini, incontri, con il talento di un progetto che ci rende nuotatori dei sogni…


Canzone per Canzone


Limbo


Un fiato corto, un respiro pesante si appoggia ad un velluto elettronico in espansione, mentre la voce sembra avere la necessità di sedare gli sguardi: il primo brano mostra un crescendo armonico che diventa luculliano, potente e gioca con saliscendi vari per essere, nel ritornello, un saloon del far West moderno e vigoroso. Quando gli Alan Parson Project erano in grado di spiazzare: la canzone di Maurizio sarebbe stata perfetta per creare un’unione stellare.


Lust


Cambio di scenario per un brano che compatta il Postpunk ad un sentire digitale: zolle di vetro dalla pelle morbida fanno da cuscino ad un senso estetico del pop mascherato, che rivela un’attenzione agli equilibri di strumenti che come macchia d’olio avviluppano il fiato del nostro ascolto. Un ritornello a ricordarci l’evoluzione dei Radiohead, quella propensione decadente che seduce anche il sorriso più acceso. 


Gluttony


I Sophia e Jeff Buckley, del secondo album che in vita non è riuscito a completare, sono gli elementi che illuminano la pelle di una canzone che come un gomitolo malinconico trova un ritmo e elementi per creare una piacevole tensione. Poi il tutto si arresta per ripartire come una navicella spaziale in cerca di nuovi pianeti. Grande abilità nel non creare una probabile esplosione: è ciò che conferisce al brano una potente difesa dal banale.


Greed


Se non fosse esistito The Top dei Cure, questa sarebbe stata una perfetta canzone di apertura dell’album successivo a Pornography, almeno nelle prime battute, come se Charlotte Sometimes fosse stata alleggerita. Poi il cantato, trascinante e malinconico, dà modo all’autore Lombardo di rimanere in una zona musicale dei primi anni 90, terreno quasi sismico perfetto per melodie dal polso fermo. 


Wrath


RosGos qui restringe i campi di azione, tenendo le briglie ben strette su questo vascello cosmico dal profumo di sabbia bagnata: la drammaticità diviene evidente, sospensioni e voli grigi scuotono per precisione, con un arrangiamento che diventa atteggiamento di ricchezza, tra le note che sembrano scrutare l’intimità di una fuga. 


Heresy


Brano spiazzante, da una parte una sezione che ricorda la chitarra che rimanda a Pictures of You dei Cure ed un cantato di cui Tom Verlaine sarebbe fiero. Il ritornello mantiene la sensazione di riferimenti musicali troppo evidenti ed è forse quello che fa pagare dazio, perché l’unico nell’album a non mostrare la grande capacità di Maurizio di sapersi smarcare dalle comparazioni, visto che ve ne sono molte. Ma alla fine rivela la sua abilità nel tenerci sospesi in un sogno ed è pur sempre un grande regalo.


Violence


Quando la bellezza abbacina e ci rende schiavi ubbidienti e felici, distruggendo ogni logica possibile.

Brano eccelso, corrosivo, subliminale, un pirata che salta a bordo lentamente ma con grande capacità di derubare i nostri forzieri. Si spazia nel crocefisso sonoro che ci ingobbisce, muri di suono per renderci muti con stilettate di classe volte a conferire alla composizione un pathos che pulisce l’anima da scorie radioattive. Vertice assoluto di rara bellezza.

Un carillon dal sapore moderno, un approccio sintetico su una chitarra che proviene da Seventeen Seconds, per poi acquisire rocce per strada e dare alla canzone granitici atomi di magnifica estensione.


Fraud 


Nuova chicca sinuosa, in bella vista, col vestito lucido: si entra di nuovo nelle zone mistiche di Robin Proper-Sheppard, il capo mastro dei Sophia.

I primi 100 secondi sono lo scatto tenuto a bada per poi lanciare il brano sui territori di una intimità che conosce la luce e la propensione a divenire un lampo continuo che prova a battagliare con l’oscurità. Raffinata e sensuale, si serve di poche note di piano per elevare la spiritualità nei prati bui dell’universo: dando la sensazione di una caduta rapida e ineluttabile. 


Treachery


L’album si congeda con bolle new age dentro una giostra moderna dai neon opachi, una intima propensione a tenere il sogno vivo negli occhi angelici. Una culla nel cielo dondola con la sensazione che qui tutto si chiuda, con dolcezza e amarezza, in un binomio che sospende il respiro. Una chitarra semiacustica sorprende con le sue note calde, mentre la tastiera dipinge note che sembrano portare l’ascoltatore alla fine del cielo: una meravigliosa esibizione di classe per concludere un lavoro immenso, quintali di bellezza che ci hanno regalato un ascolto intimo e capace al contempo di scuotere i nervi ormai assuefatti. RosGos è un talento da tenere nel cuore: piacevolmente, in modo inevitabile!


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

18 Maggio 2022


In uscita il 19 Maggio 2022


https://open.spotify.com/album/4tHE0n595G6A6Fze7lSyuV?si=YKdwqyNYQLS2olrJ66OybA





martedì 17 maggio 2022

La mia Recensione: Adami - Cosentino - Roversi / Praha

 


La mia Recensione 


Adami - Cosentino - Roversi / Praha 


“Non ricorderai i passi che hai fatto nel cammino
ma le impronte che hai lasciato.”
(Anonimo)


C’è una strada che chiede di essere mostrata, insieme alla modalità.

Il sudore, l’aria umida, le correnti, i disagi, le reazioni conseguenti: nel mondo che si surriscalda e dove tutto è affidato alle emozioni nessuno pensa a proteggere la mente, sempre più corrotta e resa debole dai gusti.

Arriva, però, un progetto artistico che sa fare quello che sembra ormai una memoria antica: prendersi cura, con la creazione di canzoni, di ciò che conosce la rottamazione.

Tre anime, tre percorsi nobilissimi si trovano a sviluppare il senso di compattezza, come dottori della cronica malattia della musica che si è smarrita.

Ed ecco PRAHA, un cobra dalle pelle fluida, che nuota cibandosi di correnti musicali riuscendo a incuriosire e alla fine nutrire chi lo ascolta.

Illumina per la sua coerenza, compattezza, versatilità, per la sapiente capacità di connettere ciò che lo ha preceduto, sviluppando idee proprie che risultano essere decisive per fare di questo disco un incontro con la piacevolezza, che alla fine è il pane dell’anima.

Ideato, curato, prodotto con grande professionalità, merita di attraversare le vostre stanze, di trovare un posto sulla vostra pelle e nel vostro involucro.

Con riferimenti che arrivano dagli anni 80, tutto si presenta fresco, pieno, con la consapevolezza di trucchi e capacità che devono andare incontro all’esigenza moderna che desidera una parte elettronica a prescindere.

Ed in questo lavoro la troviamo, equilibrata e non strabordante..

Convivono tra le tracce sapori intensi, dilatazioni, un senso di curiosità nei confronti delle proprie note che a volte sembrano rimpicciolirsi, altre avere uno slancio per allungarsi a proteggere la propria identità che non basta a se stessa. 

Sono compresi momenti di fuoco, di ghiaccio etereo, come se la world music incrociasse lo sguardo del progressive, piantando la bandiera della conquista su trame che comprendono un abito pop che sembra uscire da un Synthpop nascosto.

Se cercate l’evidenza lasciate perdere: nelle nove tappe sono i rimbalzi di luce a tenere tutto vivo, ma i colori li si trovano studiando, facendo dell’ascolto una lezione di alto livello. Si diventa girovaghi delle sorprese, delle conferme, qualcosa che assomiglia a una attitudine iniziatica verso ciò che appare diverso, come un cammino in cui cambiano anche i mezzi per percorrere le strade e non solo i luoghi incontrati. Permane, dopo molti ascolti, la convinzione che altre forme artistiche siano all’interno di PRAHA, nascoste per poter far brillare meglio ciò che è evidente all’occhio mettendolo in condizione di percepire e capire. Le mani sapienti dei tre, la loro esperienza e la forza d’urto di una cultura che deve sempre avere nella sua identità l’urgenza di allargare gli incontri con la conoscenza, consentono di fare delle canzoni pezzi di creta, in un manipolazione che svela non solo il talento ma la profondità, il senso di questo progetto. Un album come una cascata silente: lo ascolti e ti ritrovi in una zona complessa, perciò meritevole, di bolle d’acqua che corrono per rendere muta la bocca ma accesa la mente che incomincia a trarne beneficio. Più di una terapia perché questo non è il compito principale della creazione musicale. Questi artisti esperimentano per individuare ciò che occorre definire e tutto esce dal loro laboratorio con la faccia serena, quasi spavalda perché questo percorso è una gravidanza di un piacere che nasce quando lo si comprende. Il lascito è un bolo musicale che sale alla mente, salta giù sino alle gambe, con ritmi diversi, con solidità, per depositarsi nella zona sicura della piacevolezza. Si impasta come se le stagioni fossero ancora aggrappate alla loro storicità e fossero intenzionate a combattere la devastazione di un cambiamento a cui non opponiamo resistenza. PRAHA ci aiuta a connetterci con la spiritualità, con assoli termici di grande spessore, con strutture che spaziano per portarci in un luogo che non conosciamo. Questo è il reale compito della musica: il cambiamento del nostro posizionamento. Eccoci, sognanti e ballerini, con le storie che hanno le loro ragioni per uscire dal laboratorio ed essere condivise, come una pennellata di vita che giunge improvvisa. Gli arrangiamenti potenziano, rivelano ancora di più la struttura, l’epicentro di una forza che è la costante di tutto questo disco. Come pulviscoli senza peso, i secondi passati in questi nove tuffi regalano leggerezza pop con testi mai banali, associazioni sonore e stili musicali come un afflato che non spettina le nostre malate abitudini, bensì lo stratagemma per imparare che altre forme possono divenire veicoli che costruiscono capacità diverse. Ci è voluto del tempo per giungere alla perfezione, nessun percorso artistico può essere breve perché i veri artisti prendono appunti, studiano, misurano gli elementi e li inventano per dare un volto al tempo. 

Eccolo, si chiama PRAHA, un impulso dalla pelle balcanica, poi orientale, poi moderna, poi misteriosa, che come una nube cambia l’intensità della luce, della sua pelle, come camaleonte senza divisa né obblighi. 

Andiamo allora a visitare questa esperienza progressive pop, con tutta la serenità che spero questo scritto vi abbia regalato per dare alle pareti dei nostri ascolti nuovi palazzi mentali in cui inserire questa fiumana di incanto.



Canzone per canzone 


Spiritual Climax


Il mondo dei suoni, dei suoi luoghi è ciò che caratterizza la opening track, mantra che evoca luoghi che cercano il contatto: dall’Africa alla Scozia, c’è un filo che li tiene a portata di sguardo, con il basso che ferocemente alza la voce per consegnare alla tastiera e al cantato un arco melodico nel quale sognare. La voce di Adami trova nella sua potenza la capacità di essere evocativa e la chitarra semiacustica le dà un sostegno amichevole, con un approccio che partendo dal folk si collega a quella elettrica di matrice rock wave.



Show Me The Way


Ci sono ballads dalla propensione sensuale: si nutrono del gioco delle voci, delle linee che salgono sull’areo delle possibilità e abbandonano la propria natura iniziale per andare a tuffarsi in giochi stilistici che divengono abbracci. Brano multiplo, dalla faccia che mostra curiosità nella mutazione della propria pelle, con solidità ritmiche ed un solo di chitarra che graffia, come figlia profuga di Robert Fripp. Esiste una grande attenzione alla ritmica pulsante, alla complessità della composizione che allarga il sorriso a un rock che progressivamente lascia petali di luce 70’s.


In Your Eyes


Prendi gli Who, mettili in una discoteca, falli ballare con Lou Reed e gli U2: ma è solo l’inizio di questa favola dei sensi che insegna la profondità di anime allo specchio, alla ricerca di un contatto. Su pattern ed un loop elettronico che ammalia, in questi minuti si notano le capacità di connettere alla melodia ridotta all’osso all’inizio l’incanto di una sezione di archi che quando arriva stupisce. Ed è volo su note come schiocco di una frusta gentile. 



Mum


Quando l’atmosfera invoca il rallentamento, la dolcezza di un David Sylvian dal vestito World Music, l’impatto è da brividi, veicola tenerezza con le voci che si impastano perfettamente. Con il registro che si innalza, tutto progredisce e l’atmosfera cambia, portando il brano tra le strade di un Peter Gabriel etnico e di ottimo umore. Se il Progressive vuole restare in vita deve prendere spunto anche da questa canzone, in certi suoi momenti, dove tutto è un accogliere le possibilità di sviluppo.



The Idol (Prelude)


Torna Sylvian, con Ryūichi Sakamoto, in questo passeggiare pomeridiano, con la malinconia sorridente su note che cavalcano e sorpassano i sogni. Si avvertono emozioni dalla lunga ombra bianca: un componimento che convalida ed esprime al massimo l’interazione tra la canzone e i musicisti, capaci in 192 secondi di consumare le energie del ritmo e di farci porre invece la riflessione sulla lentezza, sempre più necessaria.



The Idol


Dopo il brivido iniziale di Kraftwerk con la finestra aperta sul cielo italiano, il brano si sposta, viaggia dentro una cavalcata dalle piume capaci di volare leggere, per poi incontrare una chitarra dalla voce bassa che rallenta il tutto e l’atmosfera si macchia di un catrame elettronico/dance dai fianchi torniti, che ci rende sognanti danzando.



All You Can Feel


Il mio vertice di preferenza risiede in questo arcobaleno dei sensi che veste il brano: la perfezione degli incroci degli strumenti, la cura degli intarsi, il senso di compattezza che regna tra i tasti del piano accarezzati come un bacio e il vigore di ritmiche e chitarre piene di fiato. La struttura è un ricamo di classe, capace di spaziare e di rendere il tutto elegante in un amalgama vistoso.



Everything 


Un potenziale hit radiofonico porta l’estate nei pensieri e l’aria l’accoglie felicemente. Questo combo di tre fuoriclasse sfodera la canzone che li può condurre alle masse. Come un ghiro che si scioglie con il basso quasi funky, il piano che ci fa danzare ad occhi aperti e la voce come un gabbiano in cerca di un volo come un acuto necessario,   tutto procede per arrivare alla parte che seduce per quel tocco di musica classica che non puoi immaginare, per poi dare alla chitarra ritmica il vestito rock che invece sì che desideravi. Ed ecco che tutto si sublima nel percorso di secondi ricchi di sale, che è ciò che dà sapore. 



Return Home


Il congedo arriva con una chicca dal sapore autunnale, con il lavoro di Adami che con le sue corde vocali riesce con grande capacità a saldare la musica, che è una esibizione di classe di un lenzuolo di raso che vuole fare le capovolte tra le nubi. E il finale è in mano alla chitarra che si inchina e ringrazia per il nostro ascolto. Una chiosa assolutamente perfetta!


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

17 Maggio 2022


https://adamicosentinoroversi.bandcamp.com/album/praha






sabato 14 maggio 2022

La mia Recensione Gaudi - Theremin tribute to The Smiths

 La mia Recensione 


Gaudi - Theremin tribute to The Smiths


I brividi: l’universo che si compatta sulla pelle del cuore per trasferirsi nella storia di un percorso umano. Sono le briciole meravigliose di un infinito impossibile da conoscere, ma accontentandosi della loro forma e sostanza ci si ritrova a sentirsi persone migliori, che è un ottimo inizio.

Nella musica i brividi certificano l’incontro con l’emozione, nascono legami spesso indissolubili, sicuramente per qualche istante al centro del proprio mondo.

E, quando si dà loro spazio, nascono dei Grazie capaci di divenire montagne di bellezza, calamite sulle rocce per rendere stabile un amore.

Gaudi l’ha fatto, in modo perfetto, conducendo lo scriba dentro oceani di lacrime di gioia per il suo generoso lascito: cinque rose sul suo sentire sensibile, il suo mondo più intimo, il suo resocontare un amore infinito, trovano specificazione e validità per la modalità scelta, per il rispetto dimostrato, per l’accuratezza nel non cadere nella banalità di espressione di cover che avrebbero rovinato tutto.

L’amore vero calcola e deve essere attento: da questo è partito l’Artista e ha capito che il duo Mancuniano Morrissey/Marr non può essere riprodotto perché le unicità non si copiano né si incollano.

La sensibilità umana è una antenna capace di captare il mistero, il noto, una complessità spesso poco decifrabile e difficile da decodificare.

Ed è un’antenna particolare quella che ha deciso di usare Gaudi per ringraziare gli Smiths. Per far intendere che la bellezza, l’unicità, la ricchezza della band di Manchester ha caratteristiche talmente specifiche e intense che occorreva un rispettoso accorgimento. Il cantato stupendo  del poeta di Stretford, seppur a volte sbilenco, con delle imperfezioni, è intoccabile. Come lo sono le magie delle dita di Marr. Ha scelto l’unico strumento che potesse contenere tutto questo su un piano strutturale, grazie alla conoscenza pluriventennale e avendo capito che in questo modo avrebbe dato un senso specifico al tutto, non banalizzando ma rendendo ancora più chiara quella unicità di cui ho scritto prima.

Il Theremin è lo strumento dell’anima, lo schiaffo che educa al riconoscimento vero del suono, per la sua altezza e intensità.

La voce ed il violino, così distanti tra di loro, trovano nel timbro esecutivo del Theremin la possibilità di compattare e rendere praticabile un incanto infinito.

Presa la decisione di suonare questo diamante espressivo, dentro di sé Gaudi non ha selezionato le canzoni in modo superficiale: si è rivolto a opzioni che tenessero conto del suo Grazie e delle caratteristiche dello strumento perché tutto fosse impeccabile. Raggiunta la perfezione della scelta dei brani su cui lavorare, tutto poteva concentrarsi verso l’esecuzione che doveva essere eccellente.

Questo Grazie toglie la polvere all’invecchiamento che lo scorrere del tempo causa nostro malgrado: Gaudi ha spruzzato sulle note antichi sentimenti maggiorandoli di intensità. Sia dato spazio allora alla malinconia, al dolore, alla frustrazione, al dolore, con questo clamoroso dispositivo che fissa la bellezza con le spalle verso il muro, quello dell’eternità.

Le rose degli Smiths non sono canzoni, ma appunto le regine dei fiori: cinque regine che Gaudi ha reso altrettanto immortali con la sua capacità visionaria.

L’assenza della voce non viene sostituita dal Theremin, bensì  analizzata e portata su un piano sensoriale: le trame sono state rese figlie non solo della melodia ma anche delle parole, come un pennello che saggiamente non riempie i buchi ma dà senso a ciò che gli gravita intorno. Questo è il vero capolavoro di questo mazzo di rose: riuscire a rendere immortale il cantato del bardo di Stretford, con le spine che la proteggono affinché quelle antenna, suonata in questo modo, compia il miracolo di non offendere.

Ascoltare le rose, quando rappresentano l’amore profondo, diventa un regalo, essere degni del quale deve divenire l’aspetto primario. Imbarazza in modo indiscutibilmente positivo sentire l’anima di Gaudi tremare, sudare, farsi piccola mentre compie un gesto enorme.

Un’opera di questa levatura è da studiare perché ogni goccia che cade su questo ascolto ci aiuta a capire maggiormente la grandezza degli Smiths: questa è la rosa che si vede di più, occorre notarla perché Gaudi ha trovato un modo intimo di riportarci al cospetto della band Mancuniana con maggior rispetto.

Ora andiamo vicino a questo mazzo, con un religioso silenzio interiore, perché la bellezza è pronta a fare di noi un ennesimo piacere e privilegio…


Canzone per Canzone


Last Night I Dreamt That Somebody Loved Me


Prima rosa.

Scende la nebbia, il volo dei gabbiani si riempie di liquidi amari negli occhi e il devastante piano accoglie il Theremin che, come annotiamo e notiamo sin da subito, partecipa anche nella parte musicale. Ed è innegabile che questa delicata antenna spezzi il fiato e ci porti in dono le stesse lacrime di quegli uccelli. Struggente, figlia di un abisso in caduta libera. Gaudi, supportato da eccelsi compagni di regali, dona alla canzone tutto il significato mentre Morrissey piange con noi…


Please, Please, Please, Let Me Get What I Want


Seconda rosa.

Dove tutto sembra alleggerirsi, per via dell’incredibile talento di Johnny Marr, ecco che Gaudi arricchisce la sinuosità di questa rosa con piccoli, quasi velati arrangiamenti. Il Theremin ci consegna la voce di Morrissey, senza corde vocali ma con le vene piene di un sangue, che cammina sulla rugiada di un desiderio che vuole compiersi. Le oscillazioni sono semplicemente stati emotivi in fervida esibizione.



I Know It’s Over 


Terza rosa.

La Regina della emarginazione, dell’incomprensione, della solitudine più feroce diventa con questo regalo un’onda che sale nel cielo, un turbinio devastante. Gaudi ne ha colto la profondità, non ha attenuato di un grammo la sua intensità e ci concede la bellezza di un abbraccio bagnato di dolore e petali in caduta libera. Il Theremin, che sostituisce il cantato di Morrissey, adopera qui il battito delle ali di quelle gocce in volo per fermarci il cuore…



Asleep


Quarta rosa.

Il groppo in gola sotterra ogni tentativo di felicità: Gaudi tra le sue dita mette quarant’anni di devozione e tutto ciò ci conduce nella polvere notturna di battiti di ciglia nervose ed egoiste. La canzone degli Smiths qui esalta la parte del testo e fa della musica una coperta di lana merinos attenta a non farci avvertire cambi di temperatura in un cuore impegnato a tremare.



Well I Wonder


Quinta rosa.

Portate ossigeno e coraggio di vivere: Well I Wonder, in mano al Theremin, è un infarto portatile che attraversa il corpo per paralizzarlo. Non è più un’antenna, non sono più i palmi e le dita di Gaudi a tradurre ma a rendere reale l’annaspare con l’aria che ci abbandona, ci frantuma, ci indica la via di uscita da questa esistenza. 

Il talento qui diventa incontrollabile e queste onde sonore vanno oltre la comprensione umana: dilatano i passi ed è impossibile non ricordarsi di questa rosa che, mentre camminiamo, sotterra la nostra forza perché le gambe cedono.

E l’atto finale di ciò che siamo è l’ascolto di un fiore che il 20 maggio 1982 nacque e che quarant’anni dopo ancora vive, in quanto quella sua luce non se ne andrà mai…



Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
15 Maggio 2022

https://gaudimusic.bandcamp.com/album/theremin-tribute-to-the-smiths?fbclid=IwAR2qrsX5HUb9TidjAtiVGLUm2U3Le-hUrhPB99s7aS9JMXi-pqNQZGdqwnk



My Review: Gaudi - Theremin tribute to The Smiths

My Review 


Gaudi - Theremin tribute to The Smiths


Shivers: the universe that becomes compact on the skin of the heart to transfer itself into the history of a human journey. They are the marvellous crumbs of an infinity that is impossible to know, but by being content with their form and substance one finds oneself feeling like a better person, which is a really good start.

In music, shivers certify the encounter with emotion, often indissoluble bonds are born, certainly for a few moments at the centre of one's world.

And, when you give them space, some Thanks are born, capable of becoming mountains of beauty, magnets on the rocks to make a love stable.

Gaudi has done this, in a perfect way, leading the scribe into oceans of joyful tears for his generous bequest: five roses on his sensitive feelings, his most intimate world, his account of an infinite love, find specification and validity for the method chosen, for the respect shown, for the accuracy in not falling into the banality of expression of covers that would have ruined everything.

True love evaluates and must be careful: the Artist started here and he understood that the Mancunian duo Morrissey/Marr cannot be reproduced because uniqueness is impossible to be copied or pasted.

Human sensitivity is an antenna capable of picking up the mystery, what is  known, a complexity that is often difficult to decipher.

And Gaudi decided to use a special antenna to thank the Smiths. To make it clear that the beauty, the uniqueness, the richness of the Manchester band has such specific and intense characteristics that a respectful device was needed. The wonderful singing of the poet from Stretford, although sometimes crooked, with imperfections, is untouchable. As are Marr's magical fingers. He chose the only instrument that could contain all this on a structural level, thanks to his knowledge of more than twenty years and having understood that in this way he would have given a specific sense to the whole, not trivialising but making even clearer that uniqueness I wrote about before.

Theremin is the instrument of the soul, the slap that educates to the true recognition of sound, for its pitch and intensity.

The voice and the violin, so distant from each other, find in the executive timbre of Theremin the possibility to compact and make feasible an infinite enchantment.

Once he took the decision to play this expressive diamond, Gaudi did not select the songs in a superficial way: he turned to options that took into account his Thanks and the characteristics of the instrument so that everything would be flawless. Having achieved perfection in the choice of songs to work on, everything could focus on the performance, which had to be excellent.

This Thanks sweeps away the dust from the ageing that the passing of time causes against our will: Gaudi has sprayed old feelings onto the notes, increasing them in intensity. Let there be room, then, for melancholy, pain, frustration, with this resounding device that fixes beauty with its back to the wall, that of eternity.

The Smiths' roses are not songs, but precisely the queens of flowers: five queens that Gaudi has made equally immortal with his visionary skill.

The absence of the voice is not replaced by the Theremin, but rather it is analysed and brought to a sensorial level: the structures have been made daughters not only of the melody but also of the words, like a brush that wisely does not fill in the holes but gives meaning to what gravitates around it. This is the true masterpiece of this bouquet of roses: managing to render immortal the singing of the bard of Stretford, with the thorns that protect it so that the antenna, played in this way, performs the miracle of not offending.

Listening to roses, when they represent deep love, turns into a gift, being worthy of which must become the main aspect. It is unquestionably positive to feel Gaudi's soul trembling, sweating, making itself small while performing an enormous gesture.

A work of this calibre should be studied because every drop that falls on this listening helps us to understand the greatness of The Smiths: this is the rose that is most visible, it should be noted because Gaudi has found an intimate way to bring us back before the Mancunian band with greater respect.

Now let's go near this bouquet, with a deferential inner silence, because beauty is ready to make us yet another pleasure and privilege…



Song by Song


Last Night I Dreamt That Somebody Loved Me


First rose.

The fog descends, the flight of the seagulls is filled with bitter liquids in the eyes and the devastating piano welcomes the Theremin that, as we note and notice from the beginning, also participates in the musical part. And it is undeniable that this delicate antenna breaks our breath and brings us the same tears as those birds. It is heartbreaking, the child of a free-falling abyss. Gaudi, supported by sublime gift companions, gives the song all the meaning while Morrissey cries with us...


Please, Please, Let Me Get What I Want


Second rose.

Where everything seems to lighten up because of Johnny Marr's incredible talent, Gaudi enriches the sinuosity of this rose with small, almost veiled arrangements. The Theremin gives us Morrissey's voice, without vocal cords but with veins full of blood, walking on the dew of a desire that wants to be fulfilled. The oscillations are simply emotional states in fervid exhibition.



I Know It's Over 


Third Rose.

With this gift, the queen of marginalisation, of incomprehension, of the fiercest solitude, becomes a wave that rises into the sky, a devastating whirlwind. Gaudi has grasped its depth, has by no means diminished its intensity and grants us the beauty of an embrace wet with pain and petals in free fall. The Theremin, which replaces Morrissey's vocals, uses the beating of the wings of those drops in flight to stop our hearts...



Asleep


Fourth Rose.

The lump in the throat buries any attempt to achieve happiness: Gaudi puts forty years of devotion between his fingers and all this leads us into the night dust of nervous and selfish blinks. The Smiths' song here enhances the lyrics and makes the music a merino wool blanket, careful not to let us feel temperature changes in a heart busy trembling.



Well I Wonder


Fifth rose.

Please bring oxygen and the courage to live: Well I Wonder, in the hands of Theremin, is a portable heart attack which crosses the body to paralyse it. It is no longer an antenna, no longer Gaudi's palms and fingers that translate but make real our struggle with the air that abandons us, shatters us, shows us the way out of this existence. 

The talent here becomes uncontrollable and these sound waves go beyond human comprehension: they dilate the steps and it is impossible not to remember this rose that, as we walk, buries our strength since the knees buckle.

And the final act of what we are is listening to a flower which was born on 20 May 1982 and that forty years later is still alive, because its light will never go out…



Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
15th May 2022



La mia Recensione: Jeff Buckley - Grace

 La mia Recensione:


Jeff Buckley - Grace


“Nulla è più pericoloso e mortale per l’anima che occuparsi continuamente di sé e della propria condizione, della propria solitaria insoddisfazione e debolezza.”

Hermann Hesse


“Non ho paura di andare, ma va così lento”

Jeff Buckley


C’è una fuga dal respiro che la mente individua e che vorrebbe accelerare, tenendo conto che l’unico Dio è il Tempo, il sovrano che decide il tutto. 

Ci sono anime che sono perennemente in attesa e l’unico destino vero è quello della morte che consente un percorso nella vita, nulla più.

In tutto questo la bellezza, il senso, la gioia, la grazia vivono alternate, raramente nello stesso posto, affiancate.

Un vagare continuo, con la mente soffocata dalla pesantezza, che da sola non può dialogare perennemente con il talento che la natura concede a tutti. Occorre individuarlo. E da quel momento le cose potrebbero complicarsi.

Arriva in questo contesto un fanciullo eterno, dal volto illuminato di sabbia, con una serie di silenzi con l’ancora attaccata loro: non possono vivere la loro identità perché debbono trasformarsi in parole, suoni, composizioni, atti intensi come un fiume del deserto lungo pochi metri, in quanto questo è ciò che è successo a un tormento dalla voce d’aquila, la febbre dell’arte senza cornice, senza copertina, senza prigioni.


Affamate di incanti che creano dipendenza, alcune anime guardano ciò che scatena emozioni come il luogo massimo della presenza di quella giustizia in grado di soddisfare.

Creando la prima ruga senza possibilità di sciogliersi sul volto di chi è investito di un ruolo davvero molto scomodo.

E da lì non si può scappare.

Jeff Buckley è il segno tangibile di cosa ruota dentro i grovigli dei tormenti, della soluzione sempre da sollecitare per andare ad abitare quegli egoismi in una fila che si allunga e allarga: ecco cosa fa, tra le tante cose, il tempo, senza cambiare idea. La musica non più come ristoro, risorsa, espressione di serenità o nuvole, bensì come metodo per fare di quella fiumana umana la residenza del beneficio.

Il talento diventa la soddisfazione altrui, creando pressioni a cui non si presta attenzione: dove esistono egoismi non può vivere il dialogo.

Il ragazzo vive perennemente nel liquido che sposta la pelle e la tornisce, mentre l’anima è sempre qualche metro avanti, sbuffa e protesta, aspetta la fine, ignorando qualsiasi lamento perché ha un appuntamento che la renderà felice, aspetta di sorridere tra le onde che affondano il respiro.

Le dita di questo terremoto emotivo scrivono gioielli dalla faccia triste, con la voce sognante che permette di non affollare la convinzione che possa essere spenta dalla fatica e dalla morte: nel senso di appartenenza a volte si creano voragini.

Cosa sono le sue canzoni se non una manciata di cristalli che, pur brillando, contengono all’interno un grido silente che non viene colto, considerato, reso sterile?

Si parlava del talento, ma non del suo terrifico ondeggiare tra soddisfazione e sgomento.

Il suo primo progetto musicale si chiamava Shinehead: quando nel nome il destino traccia il percorso della sua corsa infame. Partendo dalla polverosa congrega del Greenwich Village, ha camminato verso la Gloria scoprendo nella sua Grazia la perfetta compagna della sua dipartita e nessuna splendida canzone ha avuto il potere di concedergli il beneficio di milioni di altri respiri: sono sopravvissuti solo i nostri.

La sua storia appartiene alle biografie, agli ascolti, all’amore sparso nei crateri del mondo senza nessuna possibilità di continuare a scriverla, come sarebbe stato giusto. E non a causa della sua giovane età bensì per quel riscatto che doveva ricercare e vivere.

Quanto amo l’idea della sua chitarra appoggiata, la sua voce muta, mentre vive giorni belli come il suo sorriso, come la sua pelle profumata di sogni dalle gambe corte.

Grace mi guarda arrabbiato: non vuole suonare, scrivo di lui ma vuole tacere. L’unicità entra nella storia e ha una responsabilità capace di togliere  il fiato solo a se stesso.

Ciò che ha scritto dopo aveva già segni di conformità, perché mancava di quella luce senza fine che era rappresentata da dieci canzoni che definivano la perfezione. Non solo artistica.

Dopo l’uscita dell’album ha trovato rifugio nell’amore, nella droga, in una forma contorta di depressione che sono cose che spesso feriscono più di un fulmine caduto nel centro del corpo.

Tutto questo a favore di una eternità che lui vive dal cielo, dove non possiamo ascoltare più la sua voce, dobbiamo ritenerci fortunati per il fatto di poterlo fare qui, sul pianeta egoista. 

Un lavoro che è arrivato dopo un Extended Play, la premessa fatata di un delirio che avrebbe trovato una prolunga nel disco dal destino segnato.

Parlare di Grace significa sentirsi orfani, non anime che godono bensì l’opposto. Ma non per ciò che è accaduto in seguito. 

La difficoltà della relazione con l’attrice Americana Rebecca Moore, le zone d’ombra di un carattere sempre pronto a saltare in aria e la tendenza a fare delle passioni la partenza perfetta di ogni suo canto, fanno intendere come fosse arduo per lui gestire la lunga registrazione del suo vero debutto discografico.

Semplicemente: un insieme di brani che già restringono il fiato, dove solo l’ascolto ripetuto sembra consentire gioia, un ascolto nel quale ogni millimetro è composto da una lama che ferisce la pelle, e non solo. Trovatosi in dote un talento enorme, viverlo ed esprimerlo gli ha complicato la vita.

La sua musica ha preso le distanze, doverosamente, da chi non lo aveva cresciuto, pur avendo l’identica capacità del padre di fare delle canzoni il motivo della propria affermazione nel mondo.

Jeff salta come un canguro spaesato in una California spettinata, piena di sole e veloce a trascurare le fatiche umane: tutto ciò che ha composto è un agglomerato continuo di stili e distanze, un puzzle sofferto in cerca di gioia, forse.

Dedicare la propria attenzione a questo lavoro è una piacevole tortura, dai sensi sconnessi, perché ciò che è stato consegnato deve fare i conti con l’assimilazione, la comprensione e infine la gestione di un agglomerato che potrebbe intorpidirsi con lo scorrere del tempo.

E invece.

Tutto rimane intatto, come un mistero che gli dèi conservano, forse come punizione nei confronti della nostra ignoranza e inadeguatezza.

Il lato drammatico, misterioso, unito all’affanno esistenziale conferisce all’ascolto la testimonianza di un mattone rosso che, con il proseguo, trova minuscole parti in disintegrazione, in un precipitare lento, facendo arrossire il fiato, oscurando il respiro.

Canzoni struggenti, ballate come abbracci stretti sino a una compulsione dinamitarda, percezioni che escono da parole che, anche se piene di garbo, non possono nascondere ciò che un’anima pura vorrebbe rifiutare.

Una band capace di rendere liturgico il viaggio, con le pennellate di Lucas, con la sua chitarra lieve, il basso di Mick Grondahl, tenebroso e potente, e la batteria di Matt Johnson, che è la mano dal cielo che accarezza. Una terza chitarra viene suonata da Michael Tighe ad aggiungere romanticismo per non lasciare il tutto troppo greve. Jeff mette le sue fragili, talentuose dita anche sull’harmonium, sul dulcimer e sull’organo, come completamento di un progetto che somiglia a un quadro impressionista di Roy Lichtenstein.

Le trame timide, esili, sconvolgenti, che passano tra il folk e il soul e un pop raffinato, si uniscono perfettamente a una ispirazione che guarda alla liturgia come punto di partenza nel quale la parte metafisica sta in attesa. La sua voce è un coro nero che si affaccia al cielo, donando brividi e smarrimento, incontrando spesso ispirazioni blues e la sacralità dello spirito gospel, senza averne i tratti. Tutto questo perché la sua voce viaggia sospesa, tra i canali emotivi innaffiati di scintille come api con le ali enormi. L’aria del cielo ne viene invasa per intensità e capacità.

Le sue corde vocali, salde, rendono l’ascoltatore tremante.

I testi sono fondamentalmente il percorso di cellule lucide ma pregne di buio al loro interno, dove il viaggio conosce già l’esigenza della sua fine.

Il suo background fatto di ascolti acuti, profondi, brillanti, ha un range vasto, spesso proveniente dall’Europa, in uno spazio temporale che parte dall’inizio del secolo scorso. È coraggioso nell’essere affamato di ciò che pare distante dal suo presente, conferendo al suo stile una somma incandescente di cellule con il dna così estremo da apparire inevitabilmente come un collage perfetto, fatto di intuizioni, esplicitazioni, scelte azzardate ma funzionali.

Riluttante, determinato a porre qualsiasi distanza dal padre Tim, non può negare la sua connessione con alcune modalità espressive dello stesso, vedi quel tuono angelico del falsetto straziante, in grado di creare rossori sui nostri sensi imbambolati. E che dire di alcuni momenti nei quali il jazz di Jeff sembra il perfetto prolungamento della pesante figura paterna?

Compositore e raffinato interprete, annette anche il bisogno di fare entrare impulsi noise nelle diamantate chitarre, come un cerchio musicale desideroso di non escludere, come un padre di famiglia che non vuole scegliere uno solo dei suoi figli.

Una generosità sensata e riuscita. Le sue cavalcate verbali possono far credere che nulla o tutto potesse desiderare di essere aggiunto. Ha provato a farlo con le registrazioni di canzoni nuove che non è stato in grado di    completare e solo la madre è riuscita nell’intento, annullando il fato e il destino con un’operazione scorretta e trucida: dovevano rimanere nel cassetto e prendere polvere.

E invece…

La sua versatilità l’ha distanziato dalla contemporaneità ed è stato questo che ha dato a tutti la possibilità di conoscerlo: si è distinto, decidendo così che la conformità sarebbe stata una difficoltà inutile e dannosa. Lui è salito in cattedra per risultare come un maestro consapevole che la sua arte sarebbe stata riconosciuta come lavoro, dedizione, interessi multipli distanti dal vuoto che invece riempiva le orecchie, senza poesia.

L’aspetto visionario è sintomatico della parte fanciullesca di un essere refrattario alla crescita, desideroso attraverso il connubio musica/parole, di avere il giocattolo sempre tra le mani. 

Nella fragilità della adolescenza la preghiera sembrerebbe essere il supporto migliore al fine di permettere ai sogni il miracolo dell’eternità ed è esattamente quello che il rock fa…

Il ragazzo dai modi gentili utilizza anche le urla, atti che potrebbero rovinare l’immagine di una modalità sempre così rispettosa. Nell’album però tutto questo rivela non solo il desiderio di completamento, ma soprattutto l’impossibilità di negare l’autenticità che spinge verso la sua affermazione. L’essenza della sua esistenza musicale trova senso nel fare di Grace la prima pagina della propria carta d’identità, un work in progress determinato ad essere un capitolo senza luce nelle pagine future.

La scomparsa è stato un graffio e uno strappo su quelle pagine.

Tutto doveva rimanere incompleto in questo percorso umano: la completezza l’ha riservata a questi dieci scrigni e alla nostra eredità fatta di ascolti vedovi e orfani.

Jeff Buckley non è un artista maledetto, tantomeno un angelo, bensì uno di quei lutti imprevedibili da parte di chi nella continuità di un beneficio afferma se stesso. Alcune morti certificano la sconfitta di chi rimane in vita ed ora l’ascolto di questi dieci respiri fatati rende questo vinile davvero troppo pesante. È questo il destino della bellezza e dell’importanza: di renderci sempre più curvi davanti alla loro assenza…



Canzone per Canzone 



Mojo Pin


I desideri e le allucinazioni, la solitudine e i sogni inquieti scendono sui fogli intonsi di Jeff che si trova soddisfatto con i vecchi accordi di Gary Lucas in un brano che si chiamava And You Will. Buckley lo trasforma in un sottomarino con la voce scivolosa di un’alba su riflessi notturni creati dalla chitarra cullante. Poi il sole sott’acqua lentamente apre i polmoni e la voce regala soddisfazioni sensoriali dentro evoluzioni crescenti. 



Grace


Un rock dalla pelle vellutata e dalle parole che pesano sempre di più goccia dopo goccia.

Una chitarra ritmica dall’attitudine Dreampop accoglie il cantato con la sensazione che certe urla siano il castigo e il dazio che il dolore deve pagare. Il falsetto e il seguente vocalizzo provengono da Janis Joplin, isterica e sconvolta, tra convulsioni che vanno a baciare lo Shoegaze più elegante.



Last Goodbye


Le chitarre gonfiano il petto scivolando con attitudine limpida nel blues nero nordamericano per poi continuare con una sezione ritmica che entra in un feedback controllato. Caratterizzato da una struttura pop senza essere legato alla forma canzone, questo imbuto brilla per rivelare la sua manifesta necessità di non essere legato a un cliché e l’orchestrazione, con violini frizzanti, lancia il tutto con un alto profilo qualitativo. 



Lilac Wine


James Shelton avrà fatto un salto sulla sua sedia celeste quando tra le tante versioni del suo splendido brano ha potuto sentire quella di Jeff. Abbassato il registro della voce, il ragazzo californiano decide di diventare una piuma, sognante, a due passi dalle nuvole. Con la dimostrazione che il tempo con lui trattiene il fiato, tutto si tinge di infinito e vibra di magia a grappoli, con la chitarra che si accorda con la sua parte vocale per siglare il patto con la bellezza che non può essere usurata. 



So Real


Traccia dall’attitudine Dreampop, con i Cocteau Twins muti e adoranti, trova la forza e l’abilità di una esplosione “contenuta” per poi deflagrare come rocce impazzite con la data di scadenza, per tornare a graffiare con dolcezza. Scura, con la pelle avvolta dalla nebbia, la canzone conferma Jeff come un ottimo scrittore capace di dare ai suoi versi il potere di sedurre gli occhi, con la voce a baciare la perfezione.



Hallelujah 


L’amore per Johnny Marr degli Smiths, la sua devozione e la forma infinita di studio per la band Mancuniana trova posto nella perfezione della chitarra di questa cover di Leonard Cohen.

Poi è miracolo, fuochi naturali che esplodono nel cielo. Nessuna cover può essere meglio dell’originale. Sia ben chiaro. Jeff ha materializzato l’infinita bellezza del cantautore Canadese e ha reso accessibile, con un suono moderno, ciò che pareva destinato ad un tempo lontano. Con un lavoro estremamente attento nei confronti della chitarra (la bambina che sconvolge gli adulti), la voce cavalca l’onda di una spiritualità in volo per separarsi da ciò che è umano e divenire divina.



Lover, You Should’ve Come Over


Come scoprire la modalità di scorrimento del sangue nei nostri battiti: tutto parte lento, malinconico ma pulsante, per poi, con la voce che accelera sino a divenire nevrotica con il suo falsetto adorabile (su una base dove l’organo mostra i confini dello splendore fatto di semplicità), rendere evidente come la musica che lui amava ascoltare potesse avere spruzzate di energia con il suono degli anni 90.



Corpus Christi Carol


Questa volta Jeff prende un brano tradizionale inglese del 1500 e impartisce lezioni di leggerezza e dolcezza mostrando a tutti che alcuni talenti venuti dopo, come Antony e Rover, ma la lista è lunghissima, sono passati da qui, da ascolti infiniti e attenti.

Se il cielo ha una voce è quella che mostra Jeff in questa incantevole esibizione di talento e capacità di estremizzare la distanza tra ciò che è possibile e ciò che non lo è. La perfetta ninnananna per cuori bisognosi di coccole.



Eternal Life


Il chaos, figlio di una miscela allettante tra gli Alice in Chains granitici e gli Aerosmith dalla faccia pulita, rivela come Jeff possa esibire il suo lato robusto brillando con arrangiamenti inaspettati, che sanno alternare tutte le micce di un rock con il papillon.

È noise con la maschera da Carnevale che seduce e spiazza, per poter celebrare la canzone con passi di danza come una scarica elettrica gentile.



Dream Brother


Dando spazio ad una stesura del brano che comprende tutta la band, ascoltandolo notiamo come si possa circumnavigare il tempo, lo spazio, i generi musicali, per fare di una canzone un vento misterioso che si tuffa in cieli rumorosi, con scintille Post-Punk, divagazioni prog, un Post-Rock con il miele sulle ali e un canto così espressivo che sintetizza questo Camaleonte artistico. Ed è l’ennesimo shock gravitazionale, la tempesta del cuore che si inchina e bacia un album che gli dèi ci hanno generosamente concesso di sentire. Noi potremmo anche smettere di ascoltarlo, ma sono convinto che nelle praterie celesti risuoni come il perfetto loop per fare dell’eternità un luogo incantevole, avendo in dote la colonna sonora migliore…



Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

14 Maggio 2022








 


 







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