sabato 25 gennaio 2025

La mia Recensione: Mogwai - The Bad Fire



Mogwai - The Bad Fire


Un deserto trova la sua fonte nel ponte sonoro di un tempo trascorso a lasciare le tracce di vibrazioni nella speranza di un approdo, dove perdersi e trovarsi non è che un inizio.

Era il 1995 e tutto precipitava, nel cuore centro di un decennio in cui la bellezza e bruttezza convincevano senza osmosi, senza megafono e senza silenzi in contemporanea.

Una coppia di amici scozzesi ha scelto un epitaffio come uno sprint, un lampo da spegnere con ricerche, teoriche, su come il suono potesse essere schiavizzato dalla bellezza di ritmiche e armonie in cerca di un ombrellone. Hanno sempre rifiutato la definizione di band Post-Rock, di pionieri di quel genere e hanno fatto bene: se si spende tempo con quelle sbagliate, cogliere l’attimo è praticamente impossibile.

Il nuovo album non celebra i 30 anni di carriera, bensì parte da cicli di chemioterapia di una giovane figlia.

Nulla di artistico se non il desiderio di silenziare una frustrazione, un dolore, una slavina nevrotica di esplosioni in espansione. Nascono canzoni rabdomanti, emozioni che divengono espedienti, il fruscio armonico di una strana serie di conversioni, qui elevate al tappeto emotivo che lascia bave e fiori in sovrappeso, perché questo lavoro racconta, spiega, fa vivere la felicità attraverso le stagioni temporali ed educative, in un sobbalzo calcolato per anestetizzare paure e inutili tensioni.

Le intuizioni, balaustra e forte morale della band, sin dai tempi del pomposo Brit-Pop, hanno costruito nel giardino sonoro di questi polpastrelli una serie di intenzioni che in The Bad Fire trovano una risorsa nuova: creare non solo flussi cinematografici, favole sonore e la possibilità che la fantasia non abbia bavagli quanto, piuttosto, bagagli e appigli, in una storia che specifica come l’animo umano sia il primo dei pianeti. La scelta di titoli fuorvianti (da sempre un atteggiamento che appariva come un atto dissacratorio per non fare dei brani una cosa seria), ribadisce il concetto che in questa modalità unica quasi prettamente strumentale vivano parole, pensieri, slanci, frenate e il brillio di un fascio che, tra il rumore e la dolcezza, definisce l’intendere come un gesto fortuito e non come somma di capacità.

Un inno alla gioia, uno alla consacrazione dell’umore che da adulti va affrontato seriamente, uno alla pressione degli spazi mutanti, e tuttavia sempre con una innovativa e sorprendente volontà di permettere alla gioia di calpestare questi solchi. Ed è pop, rock, dream pop, alternative, psichedelia, però soprattutto un gioco serio che cerca il cielo e lo schiaffeggia con alcune trame dove l’elettronica non è assolutamente un termometro glaciale, quanto piuttosto una modalità nuova di generare calore. 

Approcci diversificati, strumenti utilizzati come un melting pot a cui regalare nuove istruzioni, per generare strati inebrianti e in cui non è il viaggio che conta, ma il rimanere ancorati al proprio territorio emotivo.

Ci si perde in questi voli, in questi vuoti, in questi sobbalzi e in questi attriti, per comporre incrollabili sogni, dubbi e certezze, non per fuggire bensì per incontrare un mondo privo di sillabe e approssimazioni sterili e inutili.

Arrivano i Pink Floyd, i Velvet Underground, i Television e una serie impressionante di note calve, senza bave, senza presunzioni: il suono (padre/padrone e servo) risulta questa volta solo la scheggia che lascia più piacere che dolore, offre l’idea che nella incertezza del senso si collochino quei fasci musicali trovando un letto accogliente.

Non hanno mai scritto canzoni Stuart e Barry: hanno cercato un rifugio laddove proprio il Post-Rock ha messo barriere, paletti e confini stilistici e attitudinali. I due sono anime intelligenti, corsari dell’ignoto che cercano adepti e sulla schiena degli spartiti lasciano la rugiada di queste note balbuzienti ma mai calanti, mai cadenti, sempre, invece, in un volo ascensionale. Ciò che è torpido i due lo disinfettano, dando agli altri due membri un giardino libero in cui lasciar cadere il dovere e cercare un gioco dove l’ipotesi non sia mai una sterile carta assorbente.

Ecco che i My Bloody Valentine e il periodo Shoegaze che andava dal 1991 al 1993 offrono alla band scozzese alcune scie da seguire, con maggior tristezza e cattiveria…

Non vi sono pressioni, tanto meno condizionamenti in  questi flussi: musica come finestre aperte nel bel mezzo di un prato senza case, per stabilire un patto che oltrepassi i limiti, per produrre, come obiettivo primario, una serie di brani che siano le parole, i gesti, i passi che girano in tondo nei solchi di un vinile che poi si alza e lascia tutti senza un appiglio. Poesia? No! È decisamente un tentativo di celebrare un nuovo vocabolario comportamentale, nel quale il menefreghismo nei confronti del tempo, dell’arte e di ciò che ha una obbligatorietà possa essere anestetizzato. Note come gocce sotto vetro, voci come assoli muti senza la necessità di un bel canto.

Forse queste strade che invocano una imminente prospettiva emotiva possono anche determinare una sospensione di quella sabbia che nella clessidra conosce solo la gravità. I Mogwai creano una epopea fantascientifica, idranti sulle abitudini di vivere gli ascolti come recinti e di determinare, finalmente, un calvario che sappia mostrare raggi di sole e arcobaleni in un giorno di festa.

Organi, piani, clavicembali, mellotron: sono strumenti che si posizionano con discrezione nei flussi, mai protagonisti bensì gregari di una complessità che brano dopo brano riesce a fare breccia nella comprensione. Ma ve ne sono altri, perché nel clamoroso lavoro di produzione si è deciso di rendere sottili gli innesti, lasciando agli assoli il compito di non essere ridondanti, ma i primi alunni di un timido rispetto nei confronti di un puzzle ordinato e concepito per lasciare le orecchie spiazzate nel ventre di un volo. Non risultano segnali di tensioni, di impacci, di discordanze: vi pare poco?

Sono dei registi di una avanguardia che, quando sarà scevra della volontà di inutili definizioni, saprà indicare nuove strategie. Gli anni 90, in fondo, sono stati per loro una infezione e, in questo nuovo millennio, tutto ciò che è in grado di consentire sobbalzi temporali, tra canguri e gamberi, può stabilire l’efficacia di una piacevole confusione che rende la mente un’edera colorata…

I bassi sono a volte poco a fuoco, le chitarre prendono sovente le sembianze di tastiere stordite, il drumming sembra spesso anticipare: sì, ci sono errori evidenti nell’album, a livello tecnico, non tutto combacia perfettamente ed è proprio questo elemento a farne un disco analogico nel tempo del digitale, lasciando all’imprecisione uno scettro meraviglioso.

Non ci sono sogni nei brani, urla, affanni o esagerazioni: tutto appare come un villaggio in volo senza alcuna intenzione di prendere residenza, un camminare con curiosità per precedere la coscienza.

È giunto il momento di guardare in faccia queste composizioni e dare loro un pugnale foderato di grazia, lenta e sensuale, dove poter baciare questa collina dai petali in corsa…




Song by Song



1 - God Gets You Back

Un synth apre il cielo, suoni come un delirio trattenuto, una lentezza con la sensazione che una velocità sia imminente e contagiosa. Ma è proprio in questo loop che si depositano fili di chitarre con un riverbero trattenuto per tenere la tensione come un interruttore che spiega, sin da subito, cosa verrà illuminato nel proseguo. Quando il drumming decide di presentare il conto alla imbarazzante bellezza primordiale, ci si rende conto di come la band scozzese abbia trovato un petrolio arancione nelle vene delle intuizioni. Ipnosi e delirio…



2 - Hi Chaos

Dicevamo degli errori, del non sincrono e qui ci troviamo di fronte a uno di quei momenti: dove esiste uno spazio rivelato e non nascosto gli dei del cielo allargano i sorrisi. Cosa succede nel secondo brano? Si entra nella pienezza del titolo dell’album che, in Scozia, significa Inferno. Lo incontriamo, quindi, nei suoi terremoti, nelle sue esaltazioni, nelle corsie di temporali e di un caos a cui, come un mantra a cui si vorrebbe dire di no, si affida il piacere, con la parte finale della canzone che insegna come il Post-Rock con i Mogwai sia un esercizio sterile e ripetitivo. Qui si scherza col fuoco che rallenta e picchia, perché è proprio nella lentezza che il dolore trova il suo trono perfetto. Le chitarre finali e il basso riportano gli effetti a fare un bellissimo bagno di umiltà, lasciando la canzone nella sua disarmante perfezione…



3 - What Kind of Mix is This?

L’introduzione (mantra celeste che celebra i Television del secondo album mentre fanno due passi con i Cardiacs) assomiglia a una catena distorta che cerca un vuoto in cui cadere: minimalista sino a quando i piedi rivelano come la pedaliera sia solo un gioco dove creare qualità e non nascondere i limiti tecnici… Ecco, dunque, un sibilo altalenante che si fa abbracciare da bacchette di seta e dalle dita che sulla tastiera di un basso producono tossine meravigliose…



4 - Fanzine Made Of Flesh

I Mogwai sono punk, totalmente punk, punk senza identità, folli senza schemi, pittori in attesa di un niente per dipingerlo. E quando parlano, quando cantano, quando sono voci melodiche su un basso distorto e desertico, allora comprendi come il talento a invitare un ritornello pop a mostrare la sua pelle non sia niente altro che il baricentro di quel furioso genere musicale e culturale…


5 - Pale Vegan Hip Pain

Il minimalismo, la paura che cerca una carezza, una lacrima che non vuole morire, un inverno che teme i raggi primaverili del sole: ecco i protagonisti di questa ballad così vicina alla preghiera, per una brillante condizione termica che pare approdare nei confini di Kurosawa, in una sera in cui il cinema potrebbe essere l’unico ripostiglio dove nascondersi. Nasce lento il brano, procede nello stesso modo ma compie un miracolo pazzesco: quando il grappolo di note della chitarra cerca la discesa ecco che il synth, con mastodontica dolcezza, accompagna questa scia di acqua nei bordi di una tristezza avvincente e avvolgente…



6 - If You Find This World Bad, You Should See Some Of The Others

Provate voi a rilassarvi, in questi sette minuti, nei quali tutto sembra una tesi di un dramma che cerca le ali. Invece: i Mogwai preferiscono la tensione, tolgono le protezioni ai cavi emozionali e li tengono a bagnomaria, qui la suspense è un trucco antico ma sempre in grado di veicolare coscienza e tremore. Un racconto, un viaggio dove gli strumenti vivono l’intensità di bolle trattenute per i capelli…



7 - 18 Volcanoes

L’ignorante si ferma sempre davanti alla precipitazione, alla definizione priva di pazienza. Ecco un esempio perfetto: nei primi secondi una moltitudine stolta potrebbe pensare a un connubio tra i Sonic Youth e i Marlene Kuntz. Ma la band gioca a riprendere la magia del krautrock senza fotocopiarlo, gettandosi nel girone del rispetto nei confronti dei Beatles più ipnotici sino a baciare i Velvet Underground con queste distorsioni pilotate e magnetiche. 

Gli ultimi minuti sono un pianto sonoro, che rallenta i battiti sedando la volontà del basso e della batteria di essere artefici di sorprese deflagranti. E invece sì, vi è un crescendo, ma con delle briglie semplicemente perfette…




8 - Hammer Room

E sia l’arcobaleno, la festa del pomeriggio in una vallata affollata di pace e bei sogni. La musica barocca presta il fianco ma poi questo combo si getta sui petali impastati di riflessi e tutto diventa moderno, ancora più effervescente sino a permettere ai rullanti di indirizzare i suoni verso una robotica che pare adatta a creare la giusta pausa in questo album che non smette di confermare e sorprendere. Gli assoli di chitarra sono minimalisti, precisi, senza sbavature di inutili effetti in eccesso, e quando il suono diventa una siringa la festa finisce…



9  - Lion Rumpus

Ancora luce, vento, leggerezza, con gli anni Settanta figli del prog a desiderare un contatto. L’unico brano dove la chitarra solista cerca l’occhio di bue, ma un ascolto attento rivela come la sincronizzazione dello spazio temporale conduca l’impressione a divenire una certezza: il gruppo ha trovato una scusa perfetta per dare a un brano breve una sensazione di eternità…



10 - Fact Boy

Non c’è due senza tre: l’album finisce con una sfilata di luci, di rullate che benedicono la melodia e la struttura di un suono prolungato che cerca l’ascesa celeste. Il rock qui spazia, senza desiderare appigli, lottando con gli stop and go al minimo termine, per lasciare a queste rullate continue il beneficio che la metrica possa essere anche un'impressione distorta. E si conclude in una gittata colorata con la speranza che tutti i momenti grevi ma non gravi di questo gioiello possano generare il ricordo di un periodo che non alimenta la memoria per trovare consapevolezza..



   Stuart Braithwaite (Guitar, Vocals)

Barry Burns (Guitar, Piano, Synthesizer, Vocals)

Dominic Aitchison (Bass Guitar)

Martin Bulloch (Drums)


Producer: John Congleton

Label: Rock Action


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

25 Gennaio 2025







  


lunedì 20 gennaio 2025

La mia Recensione: Auge - Spazi Vettoriali


 

Auge - Spazi Vettoriali


Il tempo viene archiviato solo dalla massa ignorante di chi ha fretta, quella che stringe gli spazi e divaga nel nulla. Esiste una controparte che invece disegna traiettorie per sublimare la coscienza e la conoscenza, come atto, coraggioso, di un inizio che possa scrivere, sulla coda delle stelle, un epitaffio lucente.

Questo è ciò che fa la band fiorentina Auge, un condensato crescente di nervose progressioni coscienti, disturbatori privati che, nella marcia inarrestabile di un percorso artistico, arrivano a posizionare fasci luminosi nelle ombre. Ostili, antipatici, sconnessi dalla realtà che fugge dall’impegno, i quattro artisti ne ridisegnano il volto, con un’amarezza adulta e perciò controcorrente, non desiderabile. Nel loro profondo approccio all’analisi del tempo e dei luoghi dove l’esistenza pullula di particelle omicide, loro raccolgono i suoni attuali, criptandoli, ossigenando ipotesi e frastuoni, gravitazionando senza tentennamenti in una lastra in bianco e nero dove le macchie sono ipnotizzate da un’enfasi moderata, che fa approcciare le composizioni all’arte della poesia che anestetizza il presente.

Un disco folle, romantico, impulsivo, pieno di mediazioni linguistiche e sonore, per poi rendere grigi i battiti del cuore, spettinando ogni necessità, utilizzando la strategia dell’innesco di dubbi in catalettica esuberanza, in un tripudio di bilanciamenti che snervano ma, innegabilmente, consolano.

L’ossatura ritmica questa volta, nel secondo di tre album tematici previsti, si sposta dal precedente, con trame rarefatte solo nei momenti opportuni, perché, è bene precisare, ci troviamo in un martellamento di coscienze seppur raffinato. La narrazione, peculiarità della scrittura, qui si divide il ruolo con la musica, in un combo che stravolge pratiche e conoscenze, facendo compiere il miracolo di un approccio poco italiano. Niente a che vedere con i suoni, gli stili, le attitudini: la band fiorentina corre in un sistema creativo che emargina le pratiche semplici e si tira su le maniche per far capitolare la noia e la pochezza. Arte come penna offensiva, con garbo, ma atta a ottundere.

Oscurità e limpidezza sono i cardini, gli elastici, gli interruttori di continue partenze orgiastiche e quindi dolorose, per qualità e insistenza. Melodie profonde bisognose di ritmiche per spaventare il concetto di immortalità: ecco il primo grande merito di un disco che, come un martello temporale, cerca anime sensibili e coscienze in stato di veglia.

L’eleganza entra come anestesia, come un appuntamento galante ma senza alzare la voce: sono composizioni che cercano l’apertura mentale, spazi, appunto vettoriali, che possano far abitare nuovi destini.

Ed eccoci agli argomenti, alle invettive mascherate e alle grandi occupazioni del gruppo: non un criticare, tantomeno un prendere atto, bensì un disegnare la traiettoria di esigenze che non nascondano la gravità dei fatti. L’emozione diventa elettrica, caratterizzata da tensioni che manifestano il bisogno di condivisione.

Tutto parte da musiche che sono linguaggi sensoriali, fari nel ventre di un luogo che li ospita, consentendo alle parole scritte di divenire anch’esse corpo, nel binomio maledetto di un ossimoro che conquista e seduce il pensiero.

Stasi dei sensi.

Allerte.

Venti in cerca di teorie con cui incontrarsi e perdersi negli universi…

Quella che regna maggiormente, però, è la storia di sequenze e morali travestite da racconti (uditivi e suggeriti da sillabe concretamente legate al senso dinamico di un fissativo logico) per generare consapevolezza, attraverso un dolore istruito al contagio. 

Immagini di vita? Sì, innegabilmente, ma maggiormente un idilliaco abbraccio cognitivo che renda informata la temperatura della dispersione collettiva. Ecco, spiegate divinamente, le strade della violenza, delle esagerazioni, dell’atmosfera da sballo di menti corrotte.

Un viaggio che da musicale diventa personale, illustrando e lustrando le orme dei precipizi mentali, che Mauro Purgatorio e compagnia bella disinfettano prendendosi cura del suono, in questo caso per la seconda volta ad appannaggio di Flavio Ferri ma, bene sottolinearlo, con il contributo notevole di Luca Fucci, un funambolo creativo con il senso dell’equilibrio ben posizionato sulle  dita.

La produzione, dei due musicisti accennati e degli Auge stessi, porta il suono ad anticipare il senso generale per quello che è, nascostamente, un atipico concept album, ma preciso nell’abbracciare temi e indoli in contatto tra di loro.

I quattro si fermano, arrestano il tempo, rendono il mondo un silenzio abulico, un ossigeno in cerca di un diserbante, dove le inquietudini  trattengono il giro delle lancette dell’orologio per dare un bacio al passato. In tutto questo sia benedetta Chiara Pericci, una fata della periferia artistica, che in pochi secondi di presenza ci ipnotizza e ci accarezza il cuore. 

Ascolto e trascendenza, nel matrimonio elaborato di congiunzioni ipnotiche, trafugano la semplicità per adoperare filtri e intuizioni, in una passeggiata metropolitana, che devia il percorso e lo rende un’onda ossessiva, nel pieno di una fanciullezza dalle evidenti rughe in anticipo.

Il tutto è Rock, perverso, selvaggio, maledetto con il papillon e un profumo tra il volgare e l’acre, in un urlo che nulla ha di sconvolgente: trattasi di un furto lecito e onesto.

Sintesi, salti, evocazioni, invocazioni, perplessità e trucchetti da maghi ingialliti da luci atemporali sono i protagonisti di questo balsamo per l’anima, che ha il coraggio di bussare alle porte del linguaggio onirico degli Alice in Chains come a quello metafisico dei Massimo Volume. Già questo spiega la proporzione dei confini, dei passi, delle modalità e soprattutto delle capacità che fanno di questo disco una conversione razionale all’indispensabile.

Diviso nel lato A e nel lato B (si parte dall’inizio per essere perfetti, dal rispetto del vinile come idea di base), il percorso mette in contatto i due volti, nei quali quello iniziale ha maggiormente lo spirito della contemporaneità, mentre il secondo ha uno sguardo più attento verso ciò che sta dietro, nei passi che rimangono accesi di vita…

La poetica essenziale disegna un linguaggio più raffinato rispetto al passato, come se la maturità acquisita non dovesse consegnarsi allo spreco. Infatti, in tutte le composizioni svettano le impressioni che lasciano spazio alle interpretazioni, e questo avviene anche e soprattutto con la musica, un caleidoscopio rurale dove il post-rock, il post-punk e un precedere qualsiasi cosa generano flussi ancestrali con melodie e armonie che vengono dipinte da una elettronica sapiente e capace di suggerire e non di spaccare il palco con un'entrata in scena esagerata. In questo, il lavoro di Luca e Flavio è semplicemente perfetto, costruendo matrimoni artistici per l’incanto dei piaceri.

Superiamo l’ostacolo della paura, creiamo certezze approssimative e tuffiamoci nei veleni ipnotici di queste catartiche passeggiate cognitive, una a una…




Song by Song


Lato A


1 - Icaro

“È dal giorno delle menzogne che ti vedo scomparire dentro porte senza ritorno ma con un cielo da esplorare”


Un allarme nucleare, un sinfonia ipnotica, chitarre elettriche ritmiche che graffiano e un giro di basso che sembra una colata del Vesuvio: l’inizio dell’album è un temporale lento, morale e invernale, con accordi pieni, un rock nato negli amplessi esplorativi degli anni Settanta, che si ciba di ipnosi e metalliche scariche in cerca di Spazi Vettoriali…



2 - Ero Lì 

“Io ero lì quando fecero marciare per i viali i non pensanti”

Prendete 1979 degli Smashing Pumpkins e andate oltre, calpestando stop and go, con iniezioni sonore che le portano a sudare il sangue di presenze, e avrete solo l’ossatura della prima, roboante forma di aggressione che conosce, nel finale, un rallentamento, ma puramente stilistico, perché in realtà la canzone continua a essere un missile esplorativo…



3 - Firenze

“Ma in ogni angolo del giorno c’è arte in quel dolore profondo”

L’inizio è quasi uno shock perverso: petali trip-hop fanno da pavimento a una veloce, progressiva e manifesta desertificazione post-punk che vede la citazione, illustre e illuminata dal cantato fuori dal cielo di Chiara, di Bela Lugosi Is Dead dei Bauhaus, che sono presenti in diversi momenti e non solo quando direttamente menzionati. Ecco non una invettiva sulla città, ma un tenere fuori i piedi dall’arroganza e dalla borghesia di un realtà morente…



4 - Lei

“Nascosta nella sua mente ma negli occhi brilla sempre la fiamma intermittente”

Può un arcobaleno entrare nella scia di un cuscino? Può correre nel marasma di un Alternative ipnotico, con il ritmo sincopato e capace di tergiversare, di prendersi pause e poi di distendersi sui propri muscoli, per riportare la luce nella espressione dolce amara di Moltheni, di giovani e vecchi Sonic Youth in cerca di un catrame da addolcire?



5 - Maestrale

“E mentre osservi il mare già le onde gridano senza alcun timore: “it's the secret I love!””

Ogni grandezza ha una calamita interiore: eccola.

Maestrale è un serpente ipnotico, che parte sinuoso e poi, accelerando, porta con sé una tristezza davvero indolente come il maestrale, qui raffigurato come una pepita temporale, sfuggente, grazie a un solo di chitarra che riporta lo stoner rock in Italia, con leggerezza e contorni di hard rock quasi segregati.

 

Lato B



1 - Gravità 

“Non è solo bisogno di calore quello che ora vuoi. È questa forza di gravità”

Prendi l’oceano e dagli del veleno come colazione: una scossa elettrica che accarezza non solo le foglie da un’inclinazione, dispersiva e necessaria, al fine di creare un vuoto cosmico. Per scrivere questo capolavoro (la canzone lo è, innegabilmente), la band raggruppa la sanguigna capacità di Clementi con i suoi Massimo Volume e l'istrionico connubio delle voci di Chiara e Mauro, per far precisare le chitarre e il basso nello scuotimento pelvico di un drumming potente e raffinato.



2 - La Teoria

“Ci muoviamo senza senso dentro la scatola finita polvere che verrà sostituita da altra polvere”

Siamo nel territorio degli ammiccamenti musicali recenti e il bisogno di guardare la progressione mentale di una chitarra appiccicata al rock lento dei Saxon fine anni Settanta, per poi arrivare ai Marlene Kuntz, sino a definire il vero passaporto stilistico degli Auge che è quello di rifiutare maschere e nascondigli ma di allargare il petto della propria cifra stilistica. E lo fa bene in questo maligno camminamento tossico di parole che prendono il caos e lo rendono una teoria fallace e dimenticabile. Un brano che ruba l’inutile e diventa sacralità ineccepibile…


3 - Ognissanti

“Prova ad immaginare, immaginare di essere Dio senza mai più un segreto”

Per il  Vecchio Scriba questo è l’episodio che meglio sintetizza la bellezza, l’esplosione delle polveri, dei connubi dei musicisti e dei produttori, per lanciare le voci inquinate e inquietanti verso una corsa che non permette deviazioni ma mette con le spalle al muro. La canzone ha un impeto violento, un confine millimetrico di un odore marcio di religiosità e convenienze perlustrate e appese fuori della propria stupidità, per far morire i segreti dell’imbecillità. Rock con i grumi sui polsi, voci raddoppiate enfatiche e chitarre malate di verità che assediano l’ascolto e ospitano uno spazio temporale davvero impetuoso. Definitiva, incalzante, necessaria: niente altro che il doveroso appuntamento con la perfezione degli Auge…


4 - Perdersi

“Preferisco perderti nelle mie fantasie e non in un bicchiere d'acqua”

L’identità danza lentamente, tra Tenco, De André e i Primus a basso regime ritmico, in un solstizio che ospita parole sagge e romantiche e gemme musicali a contatto del cielo in una clamorosa quasi ballad, dove il suono maligno dell’assolo è un perfetto calcio testicolare ben assestato. Ruvida, apparentemente, la canzone è un gioco temporale dell’identità che finisce in un eco riverberato davvero sublime…


5  - Universi

“E capisci di essere l’umile ingegnere che può aiutare a tirar fuori i sogni dal cassetto”

Chiara Pericci si trasforma in una fata triste, un angelo grigio con un vocalizzo che fa nascere lacrime mentre l’arpeggio di chitarra ci porta in Francia negli anni Quaranta. Quando arrivano le parole di Mauro, e il suo cantato quasi al limite della stonatura, ci rendiamo conto che il tutto perfetto, anche se pesante da vivere, ritrovandoci coinvolti dal suo prendere fiato e dalla ragazza sola del testo, qui raccontata come se fosse uno specchio termico di Michelangelo Antonioni, tra sudori e pianti. Ed è un crescendo psichedelico, che ci porta in dono l’unico nemico mai assente: Dio.

È un finale pazzesco, insostenibile, con una coda Shoegaze/Post-Rock nei confini di una follia insostenibile.

Se ogni album è un congedo, questo è un silenzioso rumore che anticipa un’ennesima pausa dove tutto accade…


Auge:

Mauro Purgatorio (Voce, liriche e synth)

Matteo Montuschi (Chitarre)

Sara Vettori (Basso, basso fretless)

Riccardo Cardazzo (Batteria)


Produzione:

Flavio Ferri, Auge & Luca Fucci



Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
20 Gennaio 2025

L'album uscirà il 7 di Febbraio

domenica 5 gennaio 2025

La mia Recensione: Lamante - IN MEMORIA DI


 

Lamante - IN MEMORIA DI


Che bello aspettare un disco invecchiare, percorrere la strada della pazienza, dello studio, dargli il tempo di circumnavigare i pensieri, governare gli istinti.

Otto mesi dopo la sua uscita ecco un’analisi fitta, dritta, coraggiosa ma in grado di cogliere un esordio deflagrante, per dare alla musica italiana ponti e riflessi, in un mare agitato da una giovane donna che ha avuto il coraggio di aprire le proprie contaminazioni libere nel circuito della memoria. Non fotografie e nemmeno “solo” ricordi: direi, piuttosto, un allacciamento temporale all’interno di istinti e grumi di sangue, per tracciare teoremi, scarti, immaginando la creazione delle note come un’arte che si presta a scuotere la vita. Non esistono classificazioni in questo graffito, che affitta il talento per condurlo in solchi pieni di scorie, maledizioni, ingiurie, macabre pulsioni sessuali che diventano con la sua scrittura il respiro angelico dei peccati. Giorgia Pietribiasi investe la storia recente di operatori messi a disagio  dal buon gusto e li schiavizza, con torture sonore e vocali, con la parte testuale che, ingegnosa e voluttuosa, permea il tutto come un delirio educato che prende in prestito la modalità dell’hardcore italiano molto più del punk, in quanto le liriche sono centrate sul pronome personale io e tendono a includere ed escludere gli altri solamente nella parte terminale delle sue considerazioni. E poi la musica: un fitto cammino nella foresta fresca di incursioni che fanno del suono il presupposto di una sciabolata, per far rabbrividire le definizioni. Lei è scomoda già con se stessa, incespica e rutta versi come un olio che cerca vitamine essenziali. Un aprire le mani per chiudere gli occhi, con fraseggi gentili solo per concedere al fiato di cercare un imbuto per cadere e dare all’equilibrio modo di illudersi. Sono undici rosari, circolari e spinosi, gravidi di pulsioni, garze che dalla sua Schio si affacciano sul mare italiano sempre più sporco e nei pressi dello sfarzo inutile. Giorgia no: parte dai suoi paletti, propositi che, quando si avvicinano all’aspetto artistico, fanno scattare in piedi i muscoli, per sottolineare non c’è alcun punto di contatto con le ultime due decadi sonore di questo stivale sempre più storto. In Memoria Di accusa, difende la dignità, balbetta felicemente nel corollario dei suoi tentativi di immaginare la musica come un deserto che rivela fiori inconsueti.

Immergere le contaminazioni elettroniche per farle combaciare con una attitudine Industrial è davvero ragguardevole, portando l’incanto a stabilire il contatto con una poetica suburbana, invasiva e piacevolmente scomposta. Si alternano fluidi e pugni, nella scelta di operare un marcamento stretto che abbisogna dei fiati per portare le note del pentagramma nella ragnatela della seduzione.

La sua voce, poi, un groviglio nevrotico che accende l’orgoglio di paragoni che stavolta diventano un merito e non una punizione. Si va quindi all’estero, a bussare sulla spalla di Sinead O’Connor, per tornare in Italia con Cristina Donà, e poi fuggire via nel suo petto, perché per davvero il suo canto nasce dal suo cuore, proprio in questo organo che lei spreme, per metterlo poi nel cervello sempre pronto a scaricare watt e deliri.

Nelle sue urla ci sono lacrime che ossigenano le riflessioni, nei suoi ritornelli (che presto potrebbero anche sparire, vista la sua affermazione che la forma canzone le sta stretta) gli arcobaleni entrano nei disagi quotidiani facendola vibrare. 

Taketo Gohara è un produttore capace di dare ai mirtilli il suono delle rose selvatiche ed è stato proprio lui a riempire questo lavoro di venti che rendono solido il volo magmatico di queste composizioni. Una farcitura, una guarnizione, una mano abile per consegnare a Giorgia un trono da cui non scenderà facilmente. La grinta non passa solo dai rumori e/o dalle lacerazioni, bensì dal governare la cosa giusta facendola sposare con l’errore. Ecco quindi canzoni come bambine monelle che prendono in giro le verità seminando dubbi ed esternazioni come pallottole che invece di colpire circondano, finendo per snervare ancora di più.

Un album che odora di pellicola antica, di un sax scassato e mai riparato, per conservare l’odore di cammini continui. Venticinque anni che nelle composizioni paiono essere più del doppio, per seminare confusioni e imbarazzi. I termini scelti per sviluppare un percorso mentale si affacciano agli anni Settanta: un continuo saltare avanti e indietro con il gioco del banale che oscura la bruttezza, ingravidandola con scorie che attraversano il setaccio di una morbidezza sopraffina e incontenibile. Un luna park a intermittenza che passa dagli oggetti alla natura, al tempo, ai rapporti rotti che paiono perfetti, e un’indole propensa a separare se stessa dal suo stesso mondo.

I temi trattati oscillano tra il prato dell’esistenza che scorre nelle sue giovani vene e il dramma di un tempo da far filtrare da qualche parte. Scendono i suoi versi nei meandri di paure che si vorrebbero lontane. Una fila di tracce che lei inchioda, cancella, semina nel suo vocabolario solo apparentemente semplice: i suoi puzzle provocano un’orticaria mentale che non si può che adorare e adoperare per sentirsi sganciati dal senso e cercare un luogo nuovo dentro noi stessi.

Si fa in fretta a immaginare che questo album non sia in grado di fuggire dall’attrazione da parte di chi, stanco e amareggiato da una scena italiana che cerca il successo, voglia uno specchio frantumato da guardare senza pretese, ferendosi nel raccogliere i pezzi, disinfettando le ferite con la tossina infinitamente generosa del suo talento senza museruola, anarchica al di là della sua stessa dichiarazione. Basta vedere come nessun testo parta e arrivi senza conoscere la tentazione di nascondere il cielo…

L’abilità principale si precisa nel pop che si trova sbilanciato, raggirato ma utilizzato all’interno di un circuito che fugge dai generi musicali. Lei va oltre quella presa sicura, scavalca la scuola della sicurezza e, invece di far riposare le canzoni nei canali di boriose definizioni, sprinta e parte per la tangente, sfigurando il volto di chi passa il tempo a voler classificare. Urla, molto, questo è vero, ma lo fa come lo faceva James Brown nei primi anni Settanta: quando l’isteria trova un pretesto, un aggancio, allora smette di essere governata. Questo continua in ogni brano, in un esercizio delizioso per correggere la sua luna interiore.

La bontà e la cattiveria non si sfidano a duello: si ignorano e ci invitano a cedere davanti alla ragione che vacilla e cade.

Si può solo imparare a vedere i nervi distesi dentro un romanzo e qui Tolstoj non c’entra nulla, malgrado il titolo della sua più clamorosa opera: un disco come discarica tra pagine ingiallite, in cui la foto di copertina si ritrova a essere il bastone di un passato che è miracolosamente sopravvissuto.

Si rimane basiti, non confusi e tantomeno felici: dentro una gioia scomposta le lacrime di questo miracolo ci rendono la pelle dell’anima una cometa che non muore nemmeno volendolo…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
5 Gennaio 2025


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