lunedì 21 novembre 2022

La mia Recensione: The Cure - The Head on the Door

 


La mia Recensione: 


The Cure - The Head on the Door


Siamo perennemente di fronte a una contraddizione: vedere o meno i presupposti di un cambiamento. E la conseguenza ci porta in luoghi scomodi e spesso urticanti. Accettare o subire, spingersi verso l’accoglienza o il rifiuto. Da quel momento la convivenza genera sentimenti e comportamenti che inficiano la sicurezza e l’equilibrio. E nella musica tutto questo può presentarsi in grandi quantità.

Qualcosa di simile avvenne con Japanese Whispers, ma in quel momento quell’album aveva delle scusanti, una carezza perché si voleva accettare l’uomo Robert Smith impegnato nel tentativo di uscire da un labirinto pieno di spine e aghi dall’effetto terrificante. Nulla da perdonare, si poteva evitare l’ascolto e si poteva anche sorridere alla sua presunta felicità, connessa alla libertà artistica che non va mai negata. Poi venne The Top e le cose tornarono nell’ambito di un gradevole ascolto.

Tutto cambiò con il loro vero sesto album in studio.

The Head on the Door è un territorio multiplo di desideri artistici, di contraddizioni sonore (come approccio stilistico), dove tutto si indirizza verso un insieme che rende sgomento lo scriba per la doverosa presa di coscienza di un lavoro che spinge la band in un luogo in cui la danza, la leggerezza, la mancanza di quel pathos clamorosamente dimostrato in precedenza ponevano la difficile accettazione del cambiamento.

Perché è di questo che mi preme parlare: non un giudizio negativo, ma l’appurare che si era davanti a un addio, a una carta d’identità mutata, spiazzante. Tocca maturare la convinzione che il gusto personale non conti nulla: si deve criticare un lavoro capendolo, oppure cambiare i propri gusti.

Io opto per la prima opzione.

L’album mostra la formazione migliore di sempre tecnicamente non in grado di scrivere canzoni pregne di qualità e sviluppo, perché ancorate al desiderio di una presa collettiva, come un atto di beneficenza in grado di soddisfare più persone. Canzoni come spie, come sondaggio, dove l’aspetto pop (nei Cure spesso presente e di qualità) qui trova una dimensione esagerata, con il desiderio di non perdere del tutto un lato oscuro, disintegrando però, in questo modo, la credibilità. Non esiste una continuità espressiva, seppure non manchino brani che veicolino piacevolezza nell’ascolto (Push, The Baby Screams, Sinking), perché non è il numero di canzoni poco capaci di entusiasmare il problema. Molte idee, confini musicali disparati e la sensazione di non voler suonare in maniera simile al passato rendono tutto questo una fatica. Bisogna però considerare che alcune melodie sono deliziose, certi passaggi dimostrano sempre un talento eccelso. La compattezza, ripeto, latente, assomiglia nuovamente a una compilation con quello che viene considerato il miglior ventaglio di canzoni a disposizione.

Non più dubbi ma rassegnazione: trasmigrata la capacità di scrivere canzoni di piombo e ruggine, ci si sente smarriti davanti a un qualcosa di non decifrabile, sconveniente e disarmante. Pare evidente che siamo  davanti a persone nuove con un cammino che mostra già una direzione che non si può abbracciare: per un senso di appartenenza che viene a mancare. E la colpa è sicuramente dello scriba, troppo immerso ad ascoltare di tutto, ma sempre alla ricerca di una qualità che qui non si presenta. Senza dubbio alcuno.

Dieci tracce, ognuna di loro non abbracciata alle altre, singole espressioni che durano il tempo necessario per essere sostituite, senza un contatto, un passaggio di consegne, senza una continuità che crei affetto e sicurezza.

Ci si ritrova davanti a un mago, il suo cilindro e un coniglio con facce diverse, ma mai in grado di generare stupore.

Con un’unica eccezione: Sinking. 

La verità è che tutto vira decisamente verso chitarre e batteria iperprodotte, dalla presa facile, un lavoro che stanca, un ammassamento che ingolfa e toglie la capacità di focalizzarsi sul suono, qui banalizzato, negando quello che era stato il valore aggiunto di tutta la carriera. Si punta invece sulla riconoscibilità stilistica, sul fatto di non avere dubbi che canzoni come queste possano scriverle solo loro. È così, ma senza qualità. 

Sembra doveroso da parte di Smith e soci mantenere quote nere nella musica, ma davanti a queste pulsioni votate al Pop tutto svanisce e, quando è la psichedelia a tornare, si fa rimpiangere: sotto questo punto di vista The Top sembra un capolavoro. L’intenzione sembra quella di un album radiofonico e in quel momento si potevano ascoltare brani decisamente  più centrati in questo senso. Bisogna considerare che, se questo è il disco che ha aperto loro le porte del successo, molto dipende da un momento storico, quello della metà degli anni ’80, nel quale l’assuefazione, la stanchezza e la mancanza di buongusto aprivano la strada ad accettare e persino a desiderare musica non propriamente capace di fare cultura e di offrire validità. Bisognava andare oltre la storia, forse anestetizzarla e proporsi non come alternativa ma come un elemento che arrivasse alle masse. E in parte ci è riuscito. Aggiungerei: purtroppo.

Il bisogno di cambiare è legittimo, come quello di separarsi da ingombri, ripetizioni, affanni, difficoltà umane che possono includere quello della creazione. È il divario rispetto al passato dei Cure a sconcertare, a rendere difficoltosa l’assimilazione, perché è più facile per un artista mutare la pelle che per un ascoltatore. Un limite su cui porre attenzione. 

Proseguiamo.

Sembra di assistere allo spettacolo di anime che si sentono all’ultima spiaggia, bramose di creare uno stupore volutamente, di dare al pubblico nuovi lidi su cui approdare, mostrare la variabilità delle proposte come atto valido in sé, per stabilizzare il rifiuto verso quelle zone senza molta luce (a volte addirittura nel buio più totale) e, se ciò è comprensibile, non lo è la dispersione in artifizi volti a stupire più che a contenere valide alternative. Morta la parte visionaria dei Cure che ci poneva davanti a domande potenti, le immagini di questo album sono fini a se stesse, facilmente sostituibili da altre. Nella precarietà della scrittura di Robert Smith risiede il mio dolore, un quasi rifiuto. 

Il leader espresse il bisogno in alcune interviste di tornare a scrivere 45 giri, di non volere un filo conduttore: obiettivo centrato, negando al loro indiscutibile passato la possibilità di confidare nella loro musica per sentirsi avvolti in quella continuità.

XTC, Roxy Music, The Clash, Japan e i Devo sembrano i nomi tutelari di questo album ma nessuna delle canzoni (con l'eccezione di Sinking) sembra in grado di mostrare uno sviluppo e migliorie rispetto ai citati artisti. Ed è qui che nasce immediatamente il rimpianto e una forte delusione.

La tavolozza è piena di colori, di luci che sembrano, per fare effetto e per non dimostrare una totale negazione del passato, dover attraversare le tenebre per non scontentare nessuno. Un disco che cerca la felicità pur non avendone e non essendo capace di donarla: sta qui, al limite, il suo torto e la sua presunzione.

Ma il clamore e il successo avuto ha davvero dimostrato come ci sia stata una arrendevolezza da parte dell’ascolto, il bisogno di decretare il successo della band inglese con un lavoro non riuscito. Lo si è fatto anche per altri artisti, confermando il trend di discesa inarrestabile di chi ha smesso di essere critico consegnando inevitabilmente la follia. 

La prima formazione a cinque, che poteva essere motivo di grande specificazione sonora, sarà in grado dal vivo, con la successiva tournée promozionale, di rivelare invece una grande abilità con le vecchie canzoni del repertorio. Il ritrovato Pearl Thompson e Boris Williams si riveleranno autentici fuoriclasse, mentre, dall’altra parte, avremmo il declino conclamato di Lol Tolhurst, incapace di dare un serio contributo.

Simon Gallup in questo lavoro sfodera alcuni giri di basso semplicemente meravigliosi (Indovinate un pò? Sinking!), ma nell’insieme gonfio del collettivo sonoro si perde pure lui, dando al suo stile e alla sua modalità espressiva l’impressione di essere stato avvolto in uno spazio dove la sua identità è venuta meno, per salvaguardare un quadro complessivo che non è stato messo fuoco.

Robert Smith, partendo da dei suoi demo, ha concesso alla band un lavoro di equipe che alla fine è andato esattamente nella direzione che lui voleva: sua la vittoria, di molti l’insoddisfazione. Spariti i colpi di fulmine con l’arte che esalta ed educa se stessa a divenire un momento importante di riflessione, tutto consta di momenti sporadici in cui trovare i brani migliori: un pò poco, se parliamo dei Cure.

Ma questo album è utilissimo: fa capire, mette dei séparé doverosi, spinge a compiere scelte e quindi a maturare, perché non è nella piacevolezza che si fa un passo in avanti. La cosa che più fa star male è la consapevolezza che non fosse un passo falso, ma una cammino che stava portando la band in altre direzioni. Non sarebbero mancate in futuro delle belle e valide canzoni ma gli album sì, ed è questo aspetto ad aver creato con quell’ascolto un senso di abbandono.

Non entro nella descrizione delle canzoni: credo di avere già sin troppo dimostrato il fatto di non gradire molto questo lavoro, ma una menzione speciale va a  Sinking.

Con un inizio spettrale, un basso assassino e avvolgente e i giochi di alternanza tra piano, chitarra e tastiera, il brano in questione entra nella pelle immediatamente, come se diventassimo acqua mentre sprofondiamo nelle note, con la capacità magistrale di nuotare nella bellezza della luce nella profondità dell’oceano. Si respira abbandono, soffocamento, con annessa una tenue disperazione che lascia aria fresca nei polmoni. Ma la storia, magicamente scritta dalla penna di Robert Smith, ci conduce a piangere disperatamente su questa voce che diventa corpo e sostanza di un viaggio del quale tutti vorremmo fare meno ma da cui siamo attratti, come se la canzone ci spingesse in una misteriosa dimensione lontana e tuttavia a portata di mano. 

Sinking sarebbe stata l’evoluzione splendida dei Cure, senza forzature e negazioni. Ma è stata posta propio a fine album: un messaggio? Un addio? Una carezza per confermare che la qualità non è stata dimenticata?

Quello che so è che si tratta dell'unica fuoriclasse di un disco che personalmente ritengo incapace di dare qualità a una carriera sino ad allora davvero notevole. Un passo falso che troverà modo di ripetersi, portando il dolore di un necessario impianto nostalgico che non si dovrebbe provare.


Data di uscita: 13 Agosto 1985

Casa Discografica: Fiction Records

Produttori: Robert Smith - David M. Allen


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

21 Novembre 2022

https://open.spotify.com/album/7zJzNs8eVgbkVVSQSwKRtx?si=c4u5GDNdS7aqbbZhjP2-5A







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