sabato 28 maggio 2022

Recensione di Calliope Tamara Macera: Quarto movimento della nona sinfonia di Beethoven


 Beethoven e la sua “nona onda”

 

Il quarto movimento della nona sinfonia di Beethoven è un oceano in burrasca. Sembra di osservare  uno di quei quadri di Ivan Konstantinovič Ajvazovskij, in modo particolare “ La nona onda”. Secondo leggende nautiche la nona onda è quella del destino, del fato avverso, ma anche l’incarnazione del sublime e della potenza distruttrice della natura. Strana coincidenza riguardo il numero in questione? Tutto è possibile. Eppure questo quarto movimento è spuma che si infrange sugli scogli, in un pomeriggio di tempesta. Un accordo dissonante, i contrabbassi che sono la voce delle nuvole a coprire il cielo. Pian piano arriva una schiarita, i fiati è come se spazzassero via l’oscurità circostante. Ed ecco il tema della gioia , dal nulla, un’ eco in lontananza: è la voce dei marinai di ritorno al porto.  La sezione degli archi si scambia questo canto fino ad accompagnare il tema.  Il sole sta per salutare il giorno, ormai lontano dall’immagine della nona onda. Quando irrompe il baritono dopo il tuono dei timpani, sembra che il panorama voglia tornare ad eclissarsi, ma è solo un rimasuglio della tempesta: dopo un’esclamazione viene nuovamente ripreso il tema della gioia. I solisti si rincorrono su queste note e il coro è uno stormo in picchiata sulla superficie dell’Orchestra, che enfatizza una composizione tanto elevata. Come elevata era la visione di Beethoven della vita e della musica, unica e vera arte suprema capace di racchiudere in sé tutte le arti.  Nonostante l’esistenza del compositore sia stata segnata da innumerevoli onde anomale, fino al silenzio più assoluto,il rumore del suo genio non ha smesso di far tremare il mondo. Su un ritmo danzante il tema viene cantato poi dal tenore, e ve lo immaginate questo marinaio che a babordo intona parole tanto gioiose e l’intera ciurma rispondere? E magari issare le vele durante il fugato che segue. Infine i marinai ripetono per l’ultima volta il tema nella sua forma originale per poi abbandonarsi all’ispirazione di un altro tema, adagio. A fine giornata, quando le ore lasciano spazio all’imbrunire, le voci del porto si inseguono concludendo in un trionfo finale.


Calliope Tamara Macera

Pescina

28 Maggio 2022


https://youtu.be/a5oRDitf0Kc



venerdì 27 maggio 2022

La mia Recensione: Juliet Mission - Surren

 La mia Recensione:


Juliet Mission - Surren 


Si è sempre distratti con le cose degli altri, anche quando diciamo di amarle. La musica non sfugge a questa amara constatazione, non potrebbe, visto che gli essere umani sono portati ad esaltare se stessi e non a prendere in considerazione ciò che fanno gli altri.

Metti sull’impianto stereo questo EP che si chiama Surren, della band di Denver e ti rendi conto che la considerazione è l’atto d’amore più notevole, lo start che rende la corsa una reale e concreta possibilità di incontrare luoghi, sentimenti e riflessioni perfettamente connesse. Tutto si plasma, fortifica, amplifica, nella zona spirituale colma di contenuti artistici e una spiccata attitudine a far evaporare la loro irruenza per rendere solido il succo di composizioni sempre dotate di elementi multi visivo / sensoriale.

Nel 2006 nacque la band Sympathy F., poi i tre membri, Andre Lucero, Doug Seaman, Tony Morales decisero di cambiare il nome l’anno successivo apportando sostanziali cambiamenti climatici al loro pentolone sonoro, dove le emozioni incominciarono a bollire.

Quello che ho scelto di resocontare è al momento il loro ultimo fascio di elettrica pulsione, premiato da me come EP dell’anno 2020.

Al suo interno i tre spalancano melodie, ritmi, voci, immagini, coltivando la passione bellica per dare segnali di pace necessari con storie dalle lacrime solitarie ma coinvolgenti. Gli impasti strumentali vigorosi sono congeniali ad una scrittura lirica di grande impatto, che trova nel cantato la zona della poesia melodica con concetti di ispirazione letteraria. Si fortifica, con l’ascolto dei quattro brani, la sensazione di un progetto che scavalca il confine musicale. Folgori dal voltaggio impressionante, vuoi per chitarre che fanno addormentare l’irruenza scontata, vuoi per un basso che sembra sotterrare ogni impulso di grave preponderanza, e vuoi anche per una batteria che ossida e ossigena il tutto rendendo le creazioni dinamiche e compatte. Una capacità notevole di risultare sognanti e al contempo dinamitardi nell’ambito emozionale, mentre, dall’alto dei loro voli, il tutto prende residenza nei nostri battiti terrestri.

Tutto diventa un cunicolo celeste con aspetti prettamente musicali capaci di essere degli invasori senza timori: nati per coinvolgere, ramazzano le nuvole facendo scendere la bellezza vestita di movimenti eleganti e, altrettanto vistosamente, potenti. Sono tensioni spirituali che con grazia sanno generare la danza del beneficio e dello stupore, senza didascaliche confusioni, perché notevolmente capaci di andare dritti come fusi nel centro del nucleo espressivo. Come poeti guerrieri dalla pelle levigata, costantemente intenti a farci chiudere gli occhi come spiriti imbambolati e quasi assenti, la band americana assesta ad ogni brano colpi che non procurano dolore, se non movimenti emozionali sempre gravidi di una sostenibile e sempre crescente ospitalità.

Le loro scosse vorticose illuminano il cielo dei nostri battiti, come una vacanza improvvisa nella quale impari che non c’è fine a sospiri dalla faccia bisognosa di magia.

Incursioni dal nerbo potente, inclinazioni a fare del loro blando Shoegaze l’uscita di sicurezza di un Post-Punk dai sogni ancora accesi e magistralmente tenuti a margine delle loro costruzioni elettriche, fanno di questo disco l’esempio di musica che pur ribellandosi rivela una propensione onirica.

Forza, è ora, non si perda tempo: mettiamoci a pancia in su a visitare le loro acrobazie per la necessaria lezione quotidiana di bellezza.



Song by Song 


Falling


Partenza a razzo: chitarra coinvolta nel ritmo di una melodia primaverile che sostiene un cantato che avvolto dalle nuvole conosce l’apnea. Il basso trascina i due riff di chitarra, uno in controtempo, e la batteria prosegue solida sino a quando un solo di chitarra spinge gli occhi verso l’estasi.



Surren


Iniziando con un basso alla Pixies in stato di forma, la chitarra ci porta il Post-Punk degli anni 80 che si tuffa nello Shoegaze meno pieno di feedback per un brano articolato, con rintocchi di tastiera minimalista ma efficace per compattare la melodia verso il delirio di note sospese nell’aria.



Hush


Prendi i Cure di Simon Gallup del periodo di Kiss Me Kiss Me Kiss Me e rendili schizofrenici con un cantato vicino alle corsie di Marilyn Manson, mantenendo l’atmosfera nevrotica con la batteria che rotola pesantemente sino ad accogliere sibili di chitarra in apnea. Estrema, rumorosa, con un arrangiamento di archi che può felicemente stridere insieme a un feedback “pulito”.



Never Last


Per l’ultimo brano si torna nella zona dell’apertura dell’Ep: tra il sognante e uno Shoegaze che viaggia su tracce Indie Rock, tutto si fa abbagliante con la chitarra in progressione capace di portarci verso una corsa all’interno del perimetro celeste. 



Veloce e compatto, l’Ep dimostra la poliedricità di talenti che smussano i cliché tipici di generi musicali che sembrano aver esaurito la fantasia. 

Questa band si oppone: le variabili che hanno a disposizione li rendono effervescenti e, mentre scoprono le carte del loro talento, noi ci ritroviamo sorridenti e completamente immersi tra la gioia e l’allegria.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

27 Maggio 2022


https://julietmission.bandcamp.com/album/surren


https://open.spotify.com/album/3IWLcGdkB0IzWzxqwjopSe?si=8npASZpjSriHlSU0XlH7RA






 


My Review: Juliet Mission - Surren

 My Review:


Juliet Mission - Surren 


We are always inattentive with regard to other people's things, even when we say we love them. Music does not avoid this bitter realisation, it could not do it, since human beings are prone to exalting themselves and not taking into account what others do.

You put this EP called Surren, by the Denver band, on your stereo and you realise that consideration is the most remarkable act of love, the start that makes the ride a real and concrete possibility of encountering perfectly connected places, feelings and reflections. Everything moulds, fortifies, amplifies, in the spiritual zone filled with artistic content and a pronounced   attitude to evaporate their impetuosity to make solid the juice of compositions always endowed with multi-visual/sensory elements.

In 2006 the band Sympathy F. was born, then the three members, Andre Lucero, Doug Seaman and Tony Morales decided to change the name the following year, bringing substantial climatic changes to their sound pot, where emotions began to boil over.

What I have chosen to report on is currently their latest bundle of electric pulse, awarded by me as EP of the year 2020.

Within it, the three guys unleash melodies, rhythms, voices, images, cultivating a warlike passion to give necessary signals of peace through  stories with lonely but addictive tears. The vigorous instrumental mixtures are congenial to a lyrical writing of great impact, which finds in vocals the zone of melodic poetry with concepts of literary inspiration. Listening to the four tracks strengthens the feeling of a project which crosses musical boundaries. Thunderbolts with an impressive voltage, either because of guitars that put to sleep the predictable impetuosity, or because of a bass which seems to bury any impulse of serious preponderance, and also because of drums that oxidise and oxygenate everything, making the creations dynamic and compact. A remarkable ability to be dreamy and at the same time dynamic in the emotional sphere, while, from the heights of their flights, the whole takes up residence in our earthly beats.

Everything becomes a celestial burrow with purely musical aspects capable of being fearless invaders: born to involve, they sweep the clouds bringing down beauty clothed in elegant and, equally conspicuously, powerful movements. They are spiritual tensions that gracefully are able to generate the dance of benefit and amazement, without didactic confusions, because they are remarkably capable of going straight to the centre of the expressive core. Like smooth-skinned warrior poets, constantly intent on making us close our eyes like dumbfounded and almost absent spirits, the American band delivers blows with each track that do not cause pain, but only emotional movements always pregnant with a sustainable and ever-growing hospitality.

Their swirling tremors light up the sky of our beats, like a sudden holiday in which you learn that there is no end to sighs with a face in need of magic.

Incursions with a powerful backbone, inclinations to make their mild shoegaze the emergency exit of a Post-Punk with dreams still burning and masterfully kept on the sidelines of their electric constructions, make this record an example of music that while rebelling reveals a dreamlike propensity.

Come on, it's time, let's not waste time: let's get comfortable and visit their acrobatics for the necessary daily beauty lesson.


Song by Song 


Falling


A quick start: the guitar is involved in the rhythm of a spring melody which supports a song that, wrapped in clouds, knows apnea. The bass drags the two guitar riffs, one syncopated, and the drums go on solidly until a guitar solo drives the eyes to ecstasy.



Surren


Beginning with a bass in the style of Pixies in top form, the guitar brings us 80s Post-Punk diving into less feedback-filled Shoegaze for an articulate track with minimalist but effective keyboards chimes to compact the melody towards the frenzy of notes suspended in the air.



Hush


Take The Cure of Simon Gallup of the period of Kiss Me Kiss Me Kiss Me and make them schizophrenic with vocals close to Marilyn Manson, keeping the atmosphere neurotic with drums rolling heavily until apnoeic guitar hisses are welcomed. Extreme, noisy, with a string arrangement that can happily screech along with "clean" feedback.



Never Last


For the last track we return to the area of the Ep's opening: between a dreamy atmosphere and a Shoegaze that travels on Indie Rock tracks, everything becomes dazzling with the guitar progression able to take us towards a run inside the celestial perimeter. 



Fast-paced and compact, this Ep demonstrates the versatility of talents that blunt the typical clichés of musical genres which seem to have run out of imagination. 

This band opposes it: the variables they have at their disposal make them effervescent and, as they show the cards of their talent, we find ourselves smiling and fully immersed amidst joy and merriment.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

27th May 2022


https://open.spotify.com/album/3IWLcGdkB0IzWzxqwjopSe?si=eQi6BoQuT4K6F9iyhI1T2Q


https://julietmission.bandcamp.com/album/surren






 




mercoledì 25 maggio 2022

La mia Recensione: Marlene Kuntz - La fuga

 La mia Recensione:


Marlene Kuntz - La fuga


Condizione umana attuale? Un diluvio incontrastato di elementi sparsi, senza direzione, senso, dove la disciplina cade dal vocabolario, in una condanna legittimata da incompetenza, disinteressi e incuria; dove il meschino ha lo scettro sul volto scavato dal ghigno come atto liberatorio e cosciente del nulla che porge.

Sul fare del mondo si può discutere, prendere posizione con opinioni che sanno di muffa scadente, senza luce né intensità. Se le cose devono andare così, la resa totale, il consegnarsi diventa l’unico cambiamento che possa generare miglioria.

Marlene visita il mondo dalla natura, da montagne capaci di regalare pensieri dentro silenzi urlanti, vogliosi di creare il presupposto della fuga, come primi testimoni dell'ambiente circostante che suggerisce, prima, e che urla poi come stanno le cose, nella sua suggestiva e roboante realtà.

Arriva una sberla che affascina: ci si deve chiedere che fine farà questa considerazione, se sarà il custode di un nuovo impeto. Costruttivo.

Intanto si ascolta una dolorosa meraviglia artistica, un’impronta lucida che conferma che l’abito sensoriale dell’ormai Signora Marlene è sempre la congiunzione perfetta tra la finzione e la realtà. Un groppo in gola consegna anche un fremito, lo spavento consapevole che tutto sia andato perso: la situazione non è come quella che il più ottimista potrebbe affermare dicendo “dai che abbiamo speranza”.

Chi fugge vuole cambiare scenario: il proprio gli sta stretto, lo considera un carceriere al quale togliere la licenza del comando. Un imbroglio continuo che semina la morte della libertà, della soddisfazione, del senso delle cose.

I Marlene Kuntz abbassano lo sguardo, ancora una volta perché necessario, sulla Terra, parlando del suolo da calpestare senza più spazio per quelle cose che un tempo erano site dentro di noi. Una canzone come la necessità di mostrare la nostra attuale condizione, la carta d’identità di un fallimento che vuole farci arrivare il messaggio di una fuga come ultimo atto, estremo. Un brano che circonda il pensiero umano annichilendolo, dimostrando come nessun territorio sia la capanna nella quale vivere i sogni, progettando il futuro, vestirli perché liberi di poterlo fare, in quanto si è deciso alla fine di dare in pasto a una collettività priva di capacità il nulla. Senza soffi di intelligenza le cellule si perdono davanti al chiacchiericcio sterile, i pensieri si piegano e muoiono.

Canzone drammatica, severa, sconvolgente, più che giustificata e purtroppo, per questi motivi, clamorosamente bellissima.

Ma morirà presto perché vera. 

E la Natura, la Dea del tempo che governava le nostre vite, si ritrova senza poter dialogare con noi, tornerà a vincere e stavolta lo farà per sempre, sconfiggendo il nostro inquinamento fisico e morale. Le colpe avanzano per prendere il sopravvento: è questo il torto più grande che l’uomo compie. E a pagare sono tutti.

La tristezza e lo sgomento aumentano dopo ogni ascolto, non potrebbe essere diversamente, la città dei pensieri è un agglomerato di vomito e rovina che uccide se stessa. 

Persa una certa libertà, da chi ce l’ha sottratta, tentiamo la fuga, sperando in uno spazio libero che la Signora Marlene non accenna a rivelarci: non era il suo compito. Doveva invece farci vedere i nostri passi cercare di essere capaci di avere dignità e forma, un tentativo, riuscito, di spalancare i nostri occhi. Testo e musica compatti, determinati a fare del messaggio qualcosa di chiaro e ineccepibile, nel tempo della confusione e dello smarrimento. È arte allo stato puro questo perfetto connubio: non ci rende liberi di fuggire da un eventuale tentativo di nascondere lo sguardo e diventa un vento dalle sbarre pesanti capaci di raggiungerci dall’alto, precipitando sulla nostra meschinità. Il pianoforte rende drammatico il tutto, come lo fa il drumming, tra beat e pelli vere a rimbombare dentro le parole. Le chitarre sono nascoste, la melodia rivolge il pensiero verso il cielo e gli chiede il proprio silenzio…

Sorprende quanto la band di Cuneo sappia sempre essere capace di comporre musiche che già da sole fanno intendere il percorso della penna di Cristiano. Conferendo in questo caso specifico alla composizione la libertà di sfuggire a un cliché di definizione stilistica.

Non si può che svenire all’ascolto, senza forze, senza occhi che possano vedere il guaio in cui ci siamo messi. La nuvola sopra le montagne scende verso i nostri sensi corrotti, senza che niente possa correggere la postura dei nostri pensieri.

La direzione della musica è quella di una coralità, estrema e perversa nella sua crudele capacità di essere autentica come lo sa essere il testo: inquina ciò che non vogliamo essere capaci di vedere inquinato. Si vola verso l’assoluzione, per convenienza, mentre il pulsare del cuore del brano vorrebbe accendere un barlume di consapevolezza. Fallirà solo perché i falliti siamo noi, semplicemente è così.

Il senso caotico del finale del brano non è altro che il premio alla prepotenza del menefreghismo davanti a ciò che non conosce intenzione di arresto, cioè la propensione all’indifferenza di quello che è il dna umano. Come premio abbiamo questo dono, che ci piacerà, senza minimamente pensare di usarlo, per capire la fuga o addirittura creare il presupposto di un cambiamento radicale senza doverla compiere. Non hanno mai scherzato i Marlene Kuntz con la vita: circondata, scandagliata, vivisezionata, amplificata, hanno sempre tracciato un percorso cosciente di malefatte, intuizioni, spinte, impulsi, dettagliando e determinando la loro qualità di sguardi intensi.

Ora sono feroci, aggressivi e arrabbiati: altro che Sonica, Il Vile, Cara è la fine, 111: niente di più fragoroso è mai uscito dalle loro vene salienti e capienti.

Ora si sta davvero rovinando tutto.

E questo brano/verità certifica, marchia la pelle di un cervello ormai nebuloso e inconcludente, villano, schifoso.

La cura prestata a questa esplosione morale ha coinvolto la musica.

Il cantato è una ferita senza fine, con il fiato raccolto tra le spine. 

Negli occhi di Cristiano, che dai monti fa rotolare il suo pensiero insieme ai suoi compagni, tutto sembra divenire un ambasciatore di liquidi nerastri e contaminanti come virus subdoli. È un crescendo inquietante, ingombrante, fastidioso, ma prezioso, una camera iperbarica per recuperare energie dalle fatiche delle nostre idiozie infinite. E non ci restano che le campane di mucche al pascolo, con sibili tetri e l’atmosfera pesante della fine che arriva con quella della canzone. Il mondo visto coscientemente è più piccolo, più brutto e spaventoso.

Ecco.

I Marlene Kuntz spezzano la fuga con il loro ridimensionarci, non presentano una cura bensì il conto. Non vi è estraneità, tantomeno bugia in questa impietosa analisi che forse sarà creduta meno perché viaggia su note (splendidamente pesanti e conturbanti) che sembrano poter far apparire il tutto una favola, una esagerazione per la cosiddetta licenza poetica che si annette alla libertà.

Ma quale libertà?

Da questo brano risulta evidente che siamo tutti, nella vita, lucidamente prigionieri. 

Senza via di fuga…


Alex Dematteis

Musicshockworld 

Salford

25 Maggio 2022


https://open.spotify.com/track/550Vv0MsdKOSgOEkTiSDJK?si=Jie0qqXVQKSUjU9ZT7lkyQ



https://music.apple.com/gb/album/la-fuga/1623243644?i=1623243647









 


martedì 24 maggio 2022

La mia Recensione: Cloudwalk - Rose again; My sun, My Mind

 La mia Recensione:


Cloudwalk - Rose again; My sun, My Mind 


Nuotare nelle onde della magia avvolgente ci lascia increduli, storditi, come puledri su gambe tremanti, con la bava alla bocca per la quantità di emisferi che sembrano farci compiere un galoppo universale.

Capita talvolta con lo sguardo verso il mondo, con l’ascolto della musica che diventa proprio un pianeta da abitare e che riesce ad abitarti, quando l’attenzione e la sensibilità si prendono per mano.

Vi sto per parlare di un album che mi sta facendo fare il giro delle emozioni, di considerazioni intense, regalando l’ampiezza di cui necessito, come una esperienza energetica notevolissima.

La band è Danese, un soffio di dolcezza pura che arriva dal nord per portarci quel calore che solo la mancanza di profondità può credere che sia impossibile possa provenire da quella parte del mondo. La musica da loro composta ed eseguita con gran classe è capace di sbalordire se si va oltre dei cliché che possono uccidere la percezione: vi è un solo posto dove siano in grado di vivere ed è lo stupore. L’album è un debutto notevole: in cinquanta minuti e undici brani abbiamo cibo per l’anima che può sfamarci, scuotere la nebbia della noia e della mediocrità per sistemare la nostra vacillante intelligenza per tutto il tempo che vorremo. Accennavo alla magia ed è proprio quella che risiede nei circuiti elettrici di questo vapore magnetico, purificante e maestoso, che con il passare dei minuti lascia basiti e tremanti.

Potrei anche cercare di definire tecnicamente il genere, ma mi parrebbe riduttivo: quando si guarda dentro una cellula, tutte le specificità si assentano e gli occhi pulsano per manifesta incapacità descrittiva davanti a ciò che pare indefinibile.

Sì, certamente, lo Shoegaze è presente, come un Post-Rock rivisitato e corretto, ma il nucleo di tutto ciò molto più probabilmente è connesso a una forma invisibile che controlla la forza della natura umana.


Con questo involucro il contenuto non può che essere intenso, incline a una bellezza fatta di intensità crescente, protetta dalla luna e dal silenzio cosmico. Si entra nei rivestimenti sonori come echi di un tempo bisognoso di ascolto, dove l’aria è rarefatta e tutto diventa un regalo immenso. Appare evidente il sincrono lavoro di sinergie che creano atolli, circondati da onde musicali che stregano, segregano il banale e ci purificano.


Come una scossa confidenziale di brividi allenati all’evoluzione, tutto appare nitido per poter essere condiviso da sensi allineati in un patto saldo e invincibile.

Dinamiche desuete mostrano la loro unicità più che evidente per stordire e compattare le nostre inquinate modalità di approccio nel sentire, come un vetro che soffia verso la luce rischiarando la visione del mondo. Il cantato sempre avvolto da movimenti sonori inebrianti, sciolti, vigorosi e capaci di toglierci le briglie per condurci a un galoppo libero.


Esiste una poesia fatta di armonie come batuffoli di lana che si tuffano nella morbidezza della seta, un impianto elettrico di sobbalzi continui, adulti e consapevoli. 

C’è uno spirito di dedizione e completezza che respira tra le composizioni come se non si potesse fare altro che scrivere la storia di una bellezza antica con mezzi moderni, rappresentare il chiaroscuro dell’esistenza con delicata propensione al rispetto, senza essere roboanti nei suoni bensì nelle suggestioni che volano prendendoci con sé. 


Le scintille incontenibili sono visibili quando il poeta le tramanda con i suoi versi: così fanno i Cloudwalk, coniugando il giorno e la notte nel girone della bellezza continua, dove se si vuole essere catturati la prigionia diventa un privilegio.


Questa band sa accorciare le distanze e cancellare le differenze tra il bello e il brutto eliminando il secondo, senza dover far esplodere nulla, ma subissandolo con una classe che non può assolutamente perdere il confronto, perché la bruttezza si spegne dinanzi a questo movimento che come un cerchio che si stringe annulla il potere di chi non è avvezzo a considerare la bellezza come l’unico trono possibile.

È venuto il momento di perlustrare questo territorio che ci lascia a bocca aperta, per respirare l’immensità dell’universo in volo verso ciò che fa del mistero l’unico motivo per cui vale la pena perdersi.



Undici candele celestiali, la prima è MY SUN, l’ingresso nella bellezza con chitarre cadenzate che ricordano l’importanza dei Durutti Column e certe band della 4ad.

CAGE OF LOVE è una canzone quasi robusta con un cantato che sembra provenire da un lupo con la voce bassa, per un’atmosfera alla fine che rimane sognante.

Si arriva a STRANGER e ci si commuove: la densità del cuore trova rifugio in questa melodia adatta a un abbraccio tra le lacrime. 

MOONSHINE: si sta in attesa nell’introduzione, pronti ad un attacco. Ma poi è zona onirica meravigliosa ed estasiante. Un sogno che si apre nota dopo nota.

Una gemma dal titolo RAYS OF WISHES illuminerà anche il cuore più sordo. Se gli Slowdive salissero al nord suonerebbero così!

Lo stupore continua: un piano avvolto di luce notturna è la struttura di RISE AGAIN, al quale basta poco per sussurrarci una melodia marittima, tra onde bellissime.

Il K2 dell’album: GHOST TOWN, lo Shoegaze che si esprime nella maturità poco conosciuta, abbandonandosi a una misurata dilatazione del suono. 

E ora l’Everest: con I WANTED MORE, il volo sul mondo con le ali sonore di una canzone strepitosa, neve fresca negli occhi che piangono felici. Ci si perde nella sua struttura corposa e capace di incollarci tra le sue piume.

BULLETPROOF: anche le frecce possono compiere un cerchio… Qualcosa di sacro esce da questa marcia atipica, una processione dove si celebra la loro intensità.

Ciò che è evidente in questo album è la propensione a rendere compatti i suoni e gli strumenti, ma anche a dare spazio all’effervescente brillantezza di una chitarra sinuosa come quella di FADING WINTER: lo dimostra, basta saper attendere e si gode di questa camminata tra vibrazioni quasi vicine al thriller come  ad esempio nel finale.

Si conclude il percorso tra le candele e MY MIND è la chicca che consola, che rende ancora più valido e interessante tutto ciò che abbiamo ascoltato. È vagare nel tempo e tra le onde della chitarra che le apre per consegnarci un cantato magistrale.  


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

25 Maggio 2022


Brett Tootle - vocals, guitar Jacob Mignon - guitar, backing vocals, piano Teis Harrington - drums Amalie Dallerup - backing vocals, piano, keys Sebastian Krogh - bass


https://open.spotify.com/album/1jfHtSbupVDBCpQHUKjiQU?si=C-rYcaODTEW-_5h5KyQUtQ





My Review: Cloudwalk - Rose again; My sun, My Mind

 My Review:


Cloudwalk - Rose again; My sun, My Mind 


Swimming in the waves of enveloping magic leaves us incredulous, stunned, like foals on trembling legs, frothing at the mouth because of the amount of hemispheres that seem to make us perform a universal gallop.

It happens sometimes looking out at the world, listening to music that becomes just a planet to inhabit and that manages to inhabit you, when attention and sensitivity join hands.

I’m going to talk about an album that is taking me on a tour of emotions, of intense considerations, giving the breadth I need, as a remarkable energetic experience.

The band is Danish, a breath of pure sweetness coming from the north to bring us the warmth that only a lack of depth can believe it absolutely cannot originate from that part of the world. The music they compose and perform with great class is capable of astounding if one goes beyond clichés that can kill perception: there is only one place where they are able to live and that is amazement. This album is a remarkable debut: in fifty minutes and eleven tracks we have food for the soul that can feed us, shake off the fog of boredom and mediocrity to settle our faltering intelligence for as long as we want. I was mentioning magic and that is precisely what resides in the electrical circuits of this magnetic, purifying and majestic vapor, which as the minutes go by leaves us stunned and trembling.

I could also try to technically define the genre, but that would seem reductive: when one looks inside a cell, all specificity is absent and the eyes pulsate with manifest descriptive inability before what seems indefinable.

Yes, certainly, shoegaze is present, like a revisited and corrected Post-Rock, but the core of it all is much more likely connected to an invisible form which controls the force of human nature.


With this shell the content can only be intense, prone to a beauty made of increasing intensity, protected by the moon and cosmic silence. One enters the sonic coatings as echoes of a time in need of listening, where the air is rarefied and everything becomes an immense gift. The synchronous work of synergies that create atolls, surrounded by musical waves that bewitch, segregate the trivial and purify us, appears evident.


Like a confidential jolt of chills trained in evolution, everything appears clear to be shared by senses aligned in a firm and invincible pact.

Outdated dynamics show their uniqueness more than evident to stun and compact our polluted modes of approach in feeling, like glass blowing toward light brightening the worldview. Vocals are always wrapped in heady, loose, vigorous sound movements capable of taking off the reins to lead us into a free gallop.


There is a poetry made of harmonies like cotton balls plunging into the softness of silk, an electric system of continuous jerks, adult and aware. 

There is a spirit of dedication and wholeness that breathes among the compositions as if one could do nothing more than write the story of an ancient beauty with modern means, depicting the light and dark of existence with delicate propensities of respect, without being pretentious in sounds but in suggestions that fly by taking us with them. 


The irrepressible sparks are visible when the poet passes them on with his verses: so do Cloudwalk, combining day and night in the circle of continuous beauty where, if one wants to be captured, captivity becomes a privilege.


This band knows how to shorten distances and erase the differences between the beautiful and the ugly by eliminating the latter, without having to explode anything, but subduing it with a class that absolutely cannot lose the confrontation, because ugliness is extinguished before this movement that like a tightening circle cancels the power of those who are not accustomed to considering beauty as the only possible throne.

It’s time to examine this territory that leaves us open-mouthed, to breathe in the immensity of the universe in flight towards what makes mystery the only reason worth getting lost for.



Eleven heavenly candles, the first being MY SUN, the entrance into beauty with cadenced guitars reminiscent of the importance of Durutti Column and certain 4ad bands.

CAGE OF LOVE is an almost robust song with vocals that seem to come from a wolf with a low voice, for an atmosphere at the end that remains dreamy.

We come to STRANGER and are moved: the density of the heart finds refuge in this melody fit for a hug between tears. 

MOONSHINE: one stands waiting in the introduction, ready for an attack. But then it is a wonderful and ecstatic dreamlike area. A dream that unfolds note by note.

A gem entitled RAYS OF WISHES will enlighten even the deafest heart. If Slowdive went up north they would sound like this.

The amazement continues: a piano shrouded in night light is the structure of RISE AGAIN, which needs very little to whisper us a maritime melody, among beautiful waves.

The K2 of the album: GHOST TOWN, shoegaze that expresses itself in little-known maturity, indulging in a measured expansion of sound. 

And now Everest: with I WANTED MORE, the flight over the world with the sonic wings of a resounding song, fresh snow in the eyes crying happily. We get lost in its rich structure capable of gluing us between its feathers.

BULLETPROOF: Even arrows can make a circle... Something sacred comes out of this atypical march, a procession where their intensity is celebrated.

What is evident in this album is the propensity to make the sounds and instruments compact, but also to give space to the effervescent brilliance of a sinuous guitar like that of FADING WINTER: it shows, you just have to know how to wait and you enjoy this walk through vibrations almost close to thriller, as for example in the end.

The path among the candles comes to an end and MY MIND is the consoling gem that makes everything we have heard even more valid and interesting. It is wandering in time and among the waves of the guitar that opens them to deliver us a masterful singing.  


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

25th May 2022


Brett Tootle - vocals, guitar Jacob Mignon - guitar, backing vocals, piano Teis Harrington - drums Amalie Dallerup - backing vocals, piano, keys Sebastian Krogh - bass


https://open.spotify.com/album/1jfHtSbupVDBCpQHUKjiQU?si=C-rYcaODTEW-_5h5KyQUtQ




giovedì 19 maggio 2022

La mia Recensione: Gang - Ritorno al fuoco

 La mia Recensione 


Gang - Ritorno al fuoco


“La vita è come un ponte: puoi attraversarla, ma non costruirci una casa sopra.”


“Quando un uomo si allontana dalla natura il suo cuore diventa duro.”


Pillole di saggezza dei Nativi Americani.


Le parole raccontano, svelano, spiegano ma non sono null’altro che la coda, i nipoti di infinite verità, stimoli, pruriti di bisogni, atomi, ribelli, il rimbalzo finale di mille scintille che non potranno mai svelare l’assoluto. E tanto altro ancora. Le parole sono prigioniere di decodificazioni e non costituiscono mai lo specchio di interezze multiple, per impedimenti naturali, assolutamente non colpevoli.

Poi c’è Marino Severini e allora tutto viene sospeso: si è davanti sicuramente a una rara eccezione, una serie di cavallette compatte che attraverso l’unione non disperdono nulla di ciò che le ha generate.

Da sempre Autore, da sempre la sua parola è feroce, come un silenzio di fuoco a scaldare i nostri smarrimenti, a rendere misera la nostra arrendevolezza per poterle dare un volo.

E la Musica?

In generale ha perso negli anni la brillantezza, impegnata a inventare nuovi generi, a fare della miscelanza l’unico divertimento.

Dal canto suo arriva Sandro, anche lui con la semplicità: non vergognarsi di nulla, non esasperarsi e cercare l’abbraccio sonoro di altri musicisti per aggiungere colori e lampi. Ed è così che tutti hanno i polsi carichi di gioia nel performare parole fatte di note che vibrano dentro il tendone di un circo, temporale libero, per nulla preoccupato di mostrare che dalla storia si possa ancora imparare e scrivere canzoni autentiche. Conta il messaggio. A prescindere. I due fratelli hanno accolto compagni di scorribande allegre, hanno scambiato la libertà propria con quella di una nutrita schiera di anime intenta a fare di questo album un arcobaleno che con il suo semicerchio ha saputo collegare la curiosità alla espressione artistica.

Un album che è un pranzo completo dove si rischia di fare il bis perché la sazietà non è nel suo dna, piuttosto questa abbondanza stimola ancora di più l’appetito. Una scintillante adunata di strade Americane si sono incrociate con quelle europee, con la storia madre di un folk educato alla bellezza per sostenere versi pieni di riferimenti, sogni, volti dalla pelle crassa di rughe valide, dove l’estetica perfetta non ha avuto accesso, ancora una volta, nella penna di Marino. 

Si sente la volontà di prendere dal cassonetto dell’umido storie rifiutate perché ritenute sporche, con liquidi puzzolenti: i fratelli Severini invece le hanno coccolate, dato loro sguardi interessati e non hanno concesso loro di finire in un inceneritore senza anima.

Hanno portato tutto nella casa della loro intelligenza e gli hanno ridato un senso, una direzione, uno spessore partendo da un intento preciso: la Cultura risiede dove esiste uno sguardo che assorbe e che non giudica. Che ha un grembiule dalle mille pieghe, mille macchie di pennarelli ed un grande sorriso come il benvenuto di un’anima che brinda orgogliosa di fronte a chi preferisce emarginare.

Un lavoro capace di fermare il tempo, di ridare alle storie la memoria, che è la dignità della profondità che si ribella allo scarto, peculiarità di una modernità che i due prendono solo con il contagocce. Con i Gang non si deve cercare la loro identità: si trova la nostra che nascondiamo, affoghiamo, buttiamo. Così facendo nascono punti di domanda continui che sono la nostra fortuna e le storie raccontate diventano la nostra spinta, quella determinazione che era nella nebbia delle comodità. Si può crescere nella discordanza, nella non completa adesione a un pensiero, ma alla fine forse molto di noi si ritrova con un impulso a divenire un ascolto che valuta il senso di uno schieramento. RITORNO AL FUOCO è un ponte che collega antichi valori a quelli nuovi: è una lunga seduta sulla prateria delle possibilità in cui loro hanno affidato al vento il compito di far planare il tutto, il vecchio e il moderno, per una discussione che tenga conto della evoluzione dell’essere umano e pure del suo contrario. Hanno piantato le loro bandiere studiando il cielo, guardando la deambulazione tendente alla caduta di un mondo consumato dall’esasperazione di chi gioisce solo di creazioni consumistiche sterili. Sandro e Marino hanno mostrato il senso dello studio, partendo dalla Natura del mondo per unirla a quella umana. 

Per molti i Gang rappresentano quella lotta continua, quell’impegno sociale così raro da sentire. Ed è vero. Ma credo esista un lato poetico, che non si smarrisce davanti alle ingiustizie, che a loro preme svelare, congiunto a dei valori elevati e sostanzialmente fastidiosi per chi fa del disimpegno la propria  identità. È evidentemente necessario esprimere quel lato, come parte fondamentale per mettere in evidenza un tutto che nulla esclude dallo sguardo…

Questa ultima gemma non è solo un urlo, un pugno alzato al cielo (quello lo sono stati e sempre lo saranno) bensì un goniometro, un lampo, un percorso che setaccia, una stretta di mano alle persone che con l’esclusione muoiono. I Gang si rivolgono a loro ascoltandoli, contano i loro lividi e li mettono in canzoni un po’ per alleggerire le loro tragedie e un po’ perché la musica ancora riesce a far pensare, a fare breccia, a riunire forze apparentemente lontane.

È un cascina piena di gente che lavora RITORNO AL FUOCO, dove tutti raccolgono il fieno, gettano il diserbante nella terra della vergogna, quella umana, sono indaffarati a seminare gli eventi che nessuno mostra interesse a fare propri e, come i contadini che gettano i semi sulla pelle della terra, loro lo fanno con le canzoni, per continuare a raccogliere i frutti. Che possono essere dal sapore dolce così come amari, perché una buona tavola comprende entrambi.

Il futuro di quelle persone è nella poesia che sa sentire la forza nascosta di impeti necessari ma sempre più stanchi e consumati. Un album che ci mette la polvere addosso, lo sputo sulla zappa e il piccone e il sorriso di chi al vento e alla pioggia deve tutto. 

E così arrivano le storie di chi non finisce al centro dell’attenzione: Severini è l’antenna che capta, canta, porta con impeto tutto ciò e lo sbatte sugli occhi di chi ha spento il pudore. Sono canzoni che possono fare piccoli miracoli e quelli umani sono più devastanti perché compiuti da chi è perfettamente uguale a noi. Che fastidio eh? Che dispetto eh? Che coraggio!

Ecco, come un ventaglio dalle mille pieghe e su cui siedono le lacrime di chi ha il sangue amaro, queste composizioni producono aria fresca per il cervello di chi ha spento la luce: là fuori il mondo è sempre più diviso ed egoista, i due Marchigiani con tatto e veemenza, con ragionevolezza e senso dello schifo cuciono la perfezione elegante che si pensa possa solo essere una dote tecnologica, figlia di una produzione priva di ogni propensione al calore. Ma ascoltare questi brani è tornare indietro e avanzare al contempo in un futuro con meno ferite.

Una produzione eccellente quella di Jono Manson, che sembra essere il cowboy con gli amici giusti per fare scorribande nella prateria, salvare i bisonti e non ucciderli. Tutto questo parte da una radice americana antica, che deve molto alla valutazione del talento come uno dei tanti punti di partenza. Vi sono anche bravissimi musicisti italiani, strumenti che non invecchiano, tutto mischiato rendendo l’identità artistica internazionale una festa cosciente, che semina, semina e semina imperterrita. La sensazione è che queste canzoni non abbiano mai una fine, ma che siano trucchi di stregoni di tribù indiane atte a non separare nulla di ciò che la Natura lascia in dono.

Con un suono fresco, arrangiamenti coinvolgenti, tutto sembra immerso in un bicchiere di vino rosso bevuto durante un turno di lavoro per far assentare la fatica.

Non si potrà mai capire del tutto l’infinito elenco di ciuffi d’erba dal color blu che fanno di questo album una notte che abbraccia la coscienza diurna, sino a lasciare alla loro punta il colore rosso, quel sangue che su di loro pulsa di intelligenza e vitalità. 

Non vi è tristezza nelle melodie, tantomeno nei versi: quella che si trova è l’attenzione verso chi sembra piccolo e sporco, con i suoi passi spesso resi sordi. Ai due fratelli questo non sta bene e accendono la torcia, creano una escursione termica necessaria per scuotere i sensi e illuminare questo presente così plastificato e inerme. Ribelle è chi sa dove nascono le brutture e le uccide dando voce alla bellezza che risiede soprattutto in chi è emarginato. Non è solo combat-folk, non vi è manierismo e comodità in questi solchi, c’è una propensione alla ricerca che connette modalità diverse e alle quali loro vogliono dare espansione, per poter arrivare ad essere orecchio e voce. Il loro disco migliore da tanti anni a questa parte perché i migliori non sono i musicisti (i due fratelli e compagnia bellissima), ma il profumo delle vite di quelle anime che il Capitalismo definisce puzzolenti e a cui le canzoni donano una giornata tutta intera da cui ricominciare. Si è liberi quando si capisce di non avere le catene degli altri: questo lavoro sarà un bisonte fermo che insegnerà questo e tanto altro…


Canzone per Canzone


L’ascolto incomincia con un brano che rassicura, toglie ogni dubbio sullo stato di forma della band: LA BANDA BELLINI è la pelle che conosciamo del combo marchigiano, con il loro combat-folk con i valori, le lotte, la storia figlia della strada appiccicata alla loro coscienza.

Si prosegue ed è subito un rallentare, una forma che necessariamente muta: VIA MODESTA VALENTI è la poesia feroce fatta con meno musica, meno strumenti perché tutto è affidato alla semplicità dei sogni con il groppo in gola, con la sua perfetta capacità di unire l’Irlanda alle coste meridionali degli Stati Uniti con una storia tutta Italiana.

Con ROJAVA LIBERO arrivano le lacrime: l’intro è affidata a uno strumento che sembra condurci alla rilassatezza, ma poi è puro rock robusto Californiano, con la sua stella che con il petto petto gonfio reclama la libertà. Un perfetto esempio di strumenti pieni, vuoi per l’organo, per la chitarra blues graffiante, vuoi per la voce di Marino, per le parole che occorre ripetere con convinzione.

AMAMI, SE HAI CORAGGIO è il frutto del percorso dei fratelli Severini: linea melodica ineccepibile, arrangiamenti che colorano il gioco senza regole di un testo che resiste e permette ancora l’innamoramento. Quando essere anacronistici diventa il gancio perfetto per sentirsi normali, con la sezione fiati che regala gocce di poesia sonora.

I Gang sanno come unire musiche dalla faccia felice con testi pieni di graffi, ma che concedono spazio alla fiducia del viaggio: UN TRENO PER RIACE è tutto questo, con i dubbi e i timori, ma un mondo in attesa sarà disponibile alla fine del binario. Il Messico sposta le nuvole alla band e l’accoglie con gioia.

Le orecchie e il cuore ora hanno di fronte A VOLTE: una chitarra semiacustica e una voce iniziano la vicenda di una coscienza che fa a pugni, accogliendo lungo la strada altri strumenti che si affacciano discreti, donando la leggerezza necessaria. Si vive con gli occhi aperti e con le antenne su una storia che è un doveroso filo pieno di domande.

Con il suo quasi Soul, quasi Northern Soul, con il suo vibrare Blues nascosto, EL PEP è il fiato di un uomo che canta sotto le stelle accese: la bellezza di artisti capaci di dare un movimento circolare alla canzone con l’intuizione di una semplicità che racconti come le parole ciò che rimane frizzante conferiscono al brano l’importanza che merita.

Le lacrime si accendono dentro e fuori il cuore: CONCETTA è la storia di un disastro umano che viene consentito, viene illuminato con la voce della poesia, sono parole di ferro verso quei silenzi che gridano ma che il potere blocca, sino a quando il fuoco di una esistenza toglie il disturbo rendendoci tutti sconfitti. Una canzone più dura del pugno del punk, della veemenza dell’heavy metal, perché davanti alla vergogna umana nessun genere musicale può essere perfetto. E chi è attento e sensibile brucerà un poco insieme  a Concetta…

Con le lacrime ancora pulsanti, l’ascolto ci conduce innanzi a DAGO, la sintesi, la summa dei Gang, tutta la lora peculiarità espressa in musica e parole dagli occhi lucenti, per divenire il boato della morte che vuole spegnere il sangue amaro. Una chitarra blues produce un assolo breve ma che assomiglia ad uno sparo, seguito dalla propensione Dark Country/Gothic Americana Folk Noir, per poi tornare nelle conosciute terre folk europee in una canzone assolutamente perfetta per scuotere tutti.

Una cover di Francesco De Gregori diventa la penultima traccia dell’album: una versione che porta l’America verso Roma per una delle vibrazioni in musica più belle che siano mai state scritte. Lo scriba di certo avrebbe preferito un brano nuovo, ma si inchina davanti all’arrangiamento che guarda verso il Mississippi e concede a PAZ un volo splendido.

Il falò dei fratelli Severini arriva all’alba, con un sensazionale crepitio: AZADI è l’ultima fascina, quella che tiene “lontana la paura dal dolore”, un canto quasi spiritual dentro melodie e suoni dalla pelle leggera, che navigano tra le stelle e i tamburi, per un messaggio finale che ci stringe in un abbraccio che difende il senso di questo viaggio dentro la memoria e i suoi confini, per poter liberare il tumulto di considerazioni che generano tensioni. I Gang ci fanno sciogliere davanti al fuoco, con le note e le parole di chi fa dell’arte musicale non una esibizione ma una concreta forma di rivendicazione necessaria. Clamorosa e utile, il congedo da un album che lascia speranze perché sa scaldare e formare un’identità che prima dell’ascolto sembrava sbiadita…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

20 Maggio 2022


https://open.spotify.com/album/2J88BBP1Nr1gIG5WAKQzMc?si=kI5GKlLCSRWwvpOV3YwpJg





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