giovedì 14 settembre 2023

La mia Recensione: White Rose Transmission - White Rose Transmission

White Rose Transmission - White Rose Transmission


Questa recensione la dedico all'anima sempre preziosa di Adrian, al generoso talento e grande umanità di Carlo, e a due miei amici, Marco Sabatini e Henry Verger.



Una sempervirens si aggira lontano da casa sua, nella costa settentrionale di una California accaldata e assonnata, facendo tappa nel cuore dell’Europa, vagabondando sino ad abbracciare due anime spettinate e laboriose. Atomi concreti di un atteggiamento misoneista consentono di valorizzare maggiormente ciò che già è stato creato: il nuovo qui non avanza, se lo riferiamo ai generi musicali, ed è alla fine un bene. C’è la necessità di formule storicizzate che diano il benvenuto e che convivano con la novità del tessuto letterario. Nell’album non ci sono mai parole eristiche, il linguaggio usato è semplice ma complesso solo per una abbondante perlustrazione emotiva che viene avvertita. Carlo e Adrian sono arcieri notturni, con vocaboli che escono dagli alberi e cadono sui cuori, soggiogati e muti, come un lampo che non necessita di un suono per ammaliare. Un lavoro luculliano, di difficile gestione, in quanto sfiora pensieri di piombo senza usare l’elettricità di una formula musicale che anestetizzerebbe l’indole intima, per consegnare la certezza che la coppia abbia oliato la macchina del talento dalla notte dei tempi. Nulla in questo fascio di canzoni può obnubilare il nostro stupore: ci sono budella che si inclineranno al pianto innanzi a queste gemme che non conoscono sbavatura con gli anni. Sono nate per dare alla vita del tu, in una convivenza che spossa solo gli stupidi, nutrendo invece le anime curiose e attente.

Miscele e templi, contenitori di assoluti dalla cicatrice lunga, pulsano e si stendono, come magmatiche cadute stellari, per convincerci che esistono insindacabili gioielli che desiderano l’ascolto e l’apporto delle nostre riflessioni. Il tutto, quello che non ti aspetti da chi non era riuscito ad avere il  meritato tributo  popolare con i suoi Sound, pare una pura essenza strategica: Adrian qui è un comprimario nobilissimo della scrittura del suo migliore amico, in grado e sicuramente volenteroso di un passato da sospendere se non addirittura da dimenticare. Perché tante sono le novità rispetto al combo Londinese, per un costrutto che mira ad abitare altre zone dell’animo umano, con una misura minoritaria del lamento e una superiore di testi che captano senza offrire cifre di dolori insostenibili. La penna di Carlo è altrettanto sciolta, pregna di romanticismo e malinconia, perfettamente salubre e intenta a sostenere quella dello sfortunato leader della band di Jeopardy. Corsie amletiche, autostrade sensoriali, incroci di luce nella notte senza lancette si incollano alla semplice composizione musicale, intenta a raffreddare i bollori del Post-Punk, per approcciarsi al Neo-Folk, al Barocco e alla Classica, per mascherare la delusione di carriere che sino a quel momento non avevano conosciuto il consenso di massa. I progressi nascono dal consumare esperienze comuni, un circondario dentro il calvario di Adrian, anima turbolenta che con Carlo trova la quiete e una disamina del suo zig-zag umorale per incanalarlo all’interno del beneficio, luogo a lui sconosciuto sino a quel momento. Ecco che il sentimento più nobile e potente struttura il sorriso dolcissimo ma amaro del biondo londinese verso la conquista di una gioia diversa, forse mai ipotizzata. Gli elementi per scrivere insieme scendevano dalle loro bevute, risate, da gestualità come nidi di incanti imprevedibili.

Un dramma cosmico è perennemente disubbidiente e farlo entrare nei circuiti creativi è una impresa che abbisogna di una forte dosi di ipnosi: lo si può cogliere tutto in questi vibranti piani prospettici, articolati per esaltare i colori grigiastri della condizione umana. Danze epiche, melanconiche, ballate col tappo di sughero per far sentire il brivido della commozione, si stampano nell’ascolto, in un incidente dove a morire è la banalità e a sopravvivere la classe cristallina dei due. Il vetriolo entra brevemente in chitarre elettriche istruite a dovere, per ghermire un imbuto decadente ineccepibile e voluto. Un sodalizio che prima di divenire arte è il presupposto del loro climax, dei loro sogni che qui vivono la possibilità di registrare la realtà per addobbarla, per un inganno più che mai necessario. I pochi tamburi sono preziosi slanci nel ventre di una tribalità seminascosta, mentre le tastiere, il piano e il basso sono una equipe ammaestrata, incollata alla tenerezza meno incline alla esplosione, ma che funge piuttosto da carburante per quegli accordi di chitarra che da soli riempiono il cielo di un arcobaleno costante. Le due voci, mai attrezzate alla esibizione delle timbriche, sono i servitori della bellezza che si presenta compatta per tutte e tredici le composizioni. Sono respiri che non cercano la gloria, a volte talmente simili da essere irriconoscibili, in un abbraccio che stordisce, per unicità, rendendo livida la pelle.

Insostenibile è il pensiero che il compimento di questo tipo di percorso sia in grado di regalare scoppiettii continui agli artefici: penseresti il contrario, e invece…

Il 1995 è un anno disonesto, scarico, fuorviante, banale, dove pochi album reggono il confronto con il passato e dove a visitare la certezza è un’ondata di approssimazione al limite dello sconcerto. Se si ascolta invece questa opera si nota il calibro continuo dell’attenzione, il polso fermo che impedisce sovraincisioni inutili e manieristiche, una propensione al minimalismo che dà alla forma canzone un significato diverso e sicuramente più nobile: si stia attenti, particolarmente, alla volontà di cristallizzare la linea armonica, l’uso sapiente di arrangiamenti che guardano in faccia la struttura primordiale per regalare una intensità che galleggia a proprio agio, in ogni singolo brano.

La timidezza di Adrian è uno scettro che cade sotto la pelle, senza pungere o ferire, regalando un castello infuocato con fiamme ghiacciate. E Carlo non può che essere il pompiere che struttura il futuro salvando la sua anima complessa. Ecco come la parte acustica e quella elettrica sono cittadini di un nucleo concentrico che non fa entrare l’ostracismo e il senso di colpa del Post-Punk usato da Borland per presenziare al suo travaglio interiore.

Uno stile vesperale, misantropico, sottolinea l’enormità degli averi situati nel bacino del loro talento, mitragliatrice con pallottole fiorate, rose bianche, appunto…

Un camminamento continuo sul piano onirico, per mettere il bavaglio a una realtà contraria, fa sì che le gemme sonore dal fare lento, siano cardini assoluti, lampioni e docce di un ascolto drammatico ma in grado di essere benevolente, quasi mistico, sicuramente abile nel fagocitare miliardi di schi bolsi e boriosi.

White Rose Transmission è un incontro che chiude le finestre agli ascolti superficiali, rende pura la paura e la voglia di bellezza reale e concreta, con le lacrime che non si congedano mai…

La poetica presente, lungi dall’essere solo una cavalcata struggente, è uno degli ingressi che facilitano il desiderio di ascolti senza soste, per cadere gioiosamente nella tristezza che passeggia con le mani in tasca, soddisfatta.

È tempo di andare a fare l’amore con queste tredici vergini, queste particelle piene di acqua che ci faranno fare il bagno dentro una unicità che non conosce disobbedienza…


Song by Song


1 Unkissable 


Uno scintillio tra suoni cupi che iniettano le voci nel gioco di chitarre perfide, con gli stacchi della batteria che arrivano a barricare il tutto nelle pelli ricoperte di lana e polvere. Una traccia d’apertura che separa il passato e presenta la coda dei Talking Heads imbevuti di psichedelia quasi muta. Gran lavoro su una chitarra dal sapore Byrdsiano, che fluttua e sintetizza la natura di una composizione che passeggia tra le ultime tre decadi.


2 Die dunkle Macht


Stupore, genuflessione, l’ardire mutato che si inchina davanti al martirio sonoro pieno di ruggine, all’inizio, per poi trasferirsi con dimestichezza nel confine del congedo dei sensi. Maestoso, epico, con l’Oriente che si affaccia con un arrangiamento che proietta il brano a sud della paura. Lo stop and go offre una chitarra dalle impronte funky per poi ritirarsi e lasciare i semplici accordi, liberi di divenire una puntura nel ghiaccio…


3 In Your Hand


Il colore della cedevolezza sale sui tasti di un piano ammaestrato a catturare la pioggia e a rimbalzare nel cuore. Episodio sconcertante per bellezza e profondità, le voci all’unisono accarezzano il desiderio e pilotano l’emozione con la certezza che bastino poche note per subire una paralisi. L’ebbrezza è data da intarsi semi-elettrici e da archi a trattenere il fiato, sino a quando la chitarra di Adrian decide di piangere sulla melanconica melodia…


4 Sister Sweetness


L’impianto di musica barocca stabilisce il primo stupore, instancabile attraverso l’accostamento di una pennata che consente al canto una catena deliziosa, in grado di frustare ogni opposizione. Mentre tutti cercavano ritornelli per attirare gli stupidi, Carlo e Adrian dipingevano la dolcezza nel ventre di un impianto minimalista. Non rumore, tantomeno deflagrazione, ma deliziose carezze elettriche…


5  Vapour


La tradizione Irlandese pare trasferirsi per cedere alcuni dei suoi fardelli in questa ballad mutevole, mutante, deliziosa striscia di condense ipnotiche che sembrano giungere da una domenica solare del cielo di Dublino. Poi la drammaticità subentra, per congelare la prima parte e cedere il palcoscenico a una chitarra graffiante ma sensuale…


6 Street of Flowers


Gli Dèi si annoiano, cercano svago, blaterano, ma non possono distrarsi: arriva un brano totalmente desideroso di ricordarci il cantato di Ian McCullogh e dei suoi Echo & The Bunnymen di Porcupine. Ma in questa canzone vi è una drammaticità che rimbalza indietro, svilendo il confronto e portando i due compositori a guardare in faccia quelle divinità che sanno bene come questo gioiello sia incapace di morire…

Si può sospendere la perdizione solo su una strada pieni di fiori sonori, intensi e in grado di strozzare il cuore…


7 Allein


Stridono le orecchie, le chitarre sono aghi e il basso un ignoto vessillo di ipnotica propulsione, e si libera il corpo in una danza che circumnaviga il cantato, vero emblema di una inclinazione a stuzzicare i sorrisi, sebbene il testo piloti il pensiero in una piccola smorfia. Un circuito sottile elettronico spinge la chitarra a essere operosa con poche note, riuscendo a stabilire il contatto tra la poesia del ventre e la voglia di godere. David Bowie avrebbe amato questo esercizio di incanto, senza dubbio alcuno. Primo brano dove non si può stabilire la residenza musicale, bensì si decide di propendere verso la necessità di cantare. Le due voci nel finale sono spazzole gentili per rischiarare il cielo…


8  Thorn of a Rose


La sintesi di Borland conosce e incontra il liquido amniotico della scrittura di Carlo. Le cataratte del cielo si appannano nei respiri di Adrian, le chitarre suscitano ricordi, gli Psychedelic Furs di India applaudono, mentre abbiamo la sensazione che in questo brano viva tutta la magia di una intuizione: nella solitudine notturna le spine sono il bacio di un dolore in cerca di spazio. Breve, morente di stupori, non necessita di orpelli perché ogni roccia solitaria ha vinto l’applauso del cielo…


9 Silver Age


Violini e moti in viaggio aprono l’ascolto e poi è Neo-Folk, addomesticato dalla chitarra semiacustica in odor di Nada, ma il cantato è una secca frustata, breve, per concedere più secondi alla musica che è una caverna che ci ricorda come i Sound, negli impianti rallentati, siano stati inimitabili. Qui, forse, si fa addirittura meglio.

In quanto la parte colma di tensione non lascia spazio a nessuna concessione: Silver Age è un arco teso, sfibrante, infinito…


10 Indian Summer


The Doors, Velvet Underground: entrambe le band americane affacciate e interessate a questa culla ipnotica, dove il crooning si alza e diventa un volo con fattezze spirituali, sino a quando tutto pare una giostra di stili senza paura…


11 The Hell of It


Suoni come discariche, note come marasma senza controllo, in un tripudio verticale, ipnotico, psichedelico, dove una storia esercita l’abbandono e alle chitarre bastano pochi secondi per essere un sequestro. Piena di nuvole, tetra, devastante, breve, lenta, si lancia poi in una perlustrazione emotiva che ci consegna le chiavi per attraversare un ponte: quello dei primi anni Settanta, sponda americana…


12 The Sea Never Dies


Il miracolo vero giunge quasi ad album concluso: se si aveva il desiderio, l’impressione che tutto fosse bello, utile, importante, ecco che ci troviamo dentro la summa di un’unione irripetibile di tragedie ammaestrate dal talento dei due che qui davvero esagera per via di una carezza che fa male più di una serie di calci, perché il brano ha la capacità di trascinarci sempre di più in un inginocchiamento colmo di spavento e devozione. Struggente, verticale, una evidente dote nel ricordarci quante canzoni abbiano fallito quando tentavano di affrontare l’argomento del testo. E poi la musica: una ballad che pare uscita dal tuono, senza fiato ma incrollabile…


13 Kugel der Einsamkeit


Le rose sono appassite, hanno perso il colore, il nerbo esausto ha concesso la morte e per farlo si inventa un magnete straziante per concludere un album semplicemente perfetto, doloroso e urticante. Il piano è un pugno tetro, una rappresentazione teatrale che gioca con le pause, con l’ingresso di suoni che stridono sul cuore e asciugano la voce baritonale che si fa inghiottire dalla sfera apocalittica, dal vento lontano che si sente giungere come se tutto fosse un congedo. È la paura che inietta nei tasti neri del piano il bisogno di farci piangere, mentre si ringrazia la vera amicizia di due anime bollenti per aver partorito questo gioiello dai carati infiniti…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

14 settembre 2023

https://open.spotify.com/album/3pRW2k3FzpSLdQCRMxO7fb?si=DMzkiBTiSoa7bJ_Y6OpxnA





lunedì 11 settembre 2023

La mia Recensione: Graveyard Train - Hollow

Graveyard Train - Hollow


Scena: un bambino con gli occhi appiccicati al suo oceano lancia lo sguardo e insieme a esso la voce e il tempo, per ingrassare il sogno di un delirio cupo. Quella che ascoltate è una musica che scende nelle viscere per trovare un covo di vipere in manifesta attitudine di bave raccolte nei secondi precedenti un attacco. Quattro, cinque, sei corde e pelli piene di catrame, una miriade di strumenti assemblati per far correre quel gesto del bambino tramite i sei musicisti di Melbourne, che stanno dalla parte sbagliata della città. 

Le storie raccontate sono sciabolate di demoni dal ghigno metallico, gonfio, affacciate dentro il dolore di un disagio che accoglie chilometri di romanzi, dove la pazzia è forse il sorriso di Dio… Un album pieno di segreti, di tormenti, di tensione manifeste, di ossessioni con il riverbero, con il blues che accarezza la chitarra slide in procinto di confermare la commistione tra l’alt-rock, il country più maligno e il lato più oscuro di un arsenale che conosce forme, modalità, tossicità e alcol senza il tappo, nel salto carpiato verso un ventre inebetito. Capire cosa avviene nel deserto lunare e notturno di Melbourne è estremamente complesso: tra gli sbandati, le anime appese a un ago, una bottiglia, o chiuse in una desolante meditazione solitaria, a fare la differenza è il binocolo senza peli sulla lingua del gruppo australiano, che srotola la vergogna, il timore, e li inchioda tra solchi pregni di polvere e anime grattugiate.


Lo schema di scrittura prevede chitarre potenti e voci che siano rappresentanti del lato più tenebroso di quelle corde che scavano dentro il lato sud-ovest degli Usa, filtrando, dilatando, per poter mettere il timbro che non consenta insicurezze: le undici composizioni provengono dalla terra dei koala, non v'è dubbio alcuno. Inutile, dannoso, alquanto banale e stupido citare Nick Cave: siamo molto lontani da quella pazzia meravigliosa, sragionata e adolescenziale del cantante che poi si è ritrovato l’epicentro di tante nuove anime.

No, questi non sono bardi, lupi della notte, nemmeno una sfilza di crudeli nubifragi comportamentali. I Graveyard Train (con questo insieme sonoro finalmente decisi ad avere un batterista a tempo pieno) sono dal lato opposto di ogni conclamata sicurezza: descriverli è come lanciare una manciata di sabbia cruda sulle onde dell’oceano. Le coordinate sono letterarie prima di tutto, con la sfiducia nei confronti dell’essere umano, finendo per mostrare paralisi continue. La parte strumentale è un combo nocivo, una grattugia di oggetti presi a schiaffi, per produrre la schiuma e cristallizzare la sofferenza, non come richiesta di aiuto bensì come una lastra che mostra il cancro comportamentale di una umanità ormai inchiodata con i suoi libri. E allora, in questo epidermico contesto cristallino dai guaiti continui, si afferma un legame fiduciario con la depressione e il vizio conclamato, si invita a bere per ricordare come sotto il cielo di Melbourne ci sia un bambino che, ipnotizzato e imbambolato sotto l’effetto di incubi senza fine, non ha un passato e tantomeno un futuro. I cori, così dichiaratamente legati all’opzione rockabilly americana degli anni Cinquanta, fanno rimbombare versi che escono dichiaratamente da letture di libri tenuti di nascosto negli scantinati, negando loro la possibilità di offrire se stessi alla consapevolezza di un mondo disinteressato a fare ciò. Adem Johansen è un ipotetico filo spinato, con i petali di dolcezza che sanno comparire nei pochi momenti nei quali la ballad sospende la processione sonora così incline alla psichedelia tedesca, per un salto nello spazio davvero impressionante. La slide guitar in quelle poche occasioni sale in cattedra, toglie il nero e inserisce un blu malinconico ma sognante. In quelle canzoni la band perde l’impatto concentrico per nutrire il fabbisogno dell’anima di quel fanciullo…


La chiarezza del suono serve per esaltare il lato oscuro di una città sempre più vittima del progresso, sempre abile a emarginare il debole, e in tutto ciò il senso di inquietudine pare un amico in stato di grazia. Un fascio di particelle sonore per un cammino nel piacere di un vizio che tolga la dimensione della comprensione e della consapevolezza. Storie squallide, crude, pruriginose, insopportabili avevano bisogno di un cavo elettrico, di ritmi senza esitazioni, un peso uguale a quello di testi imbevuti di petrolio. La ballata da pub come la danza scatenata sui bordi di una notte sbagliata si incontrano nel luogo di queste canzoni che spesso richiamano le pellicole dei festini pieni di cocaina, per dei sogni con un incubo ricorrente…

Spaventosamente credibile, il tappeto sonoro è una terapia d’urto, nelle paludi di un futuro che qui si rivolge a dischi pieni di polvere. Spesso la voce sembra la conseguenza del diavolo che mette le dita nella presa di un egoismo: sclerata, senza ossigeno, l’ugola di Adem non offre dubbi perché la normalità esiste e non abita qui!

Un lungo fuoco fatuo attraversa il tempo, inchioda la speranza sulla croce dell’eternità con queste frammentazioni continue, nei saliscendi tenebrosi di un lavoro che consente ai sei la possibilità di essere odiati bene, quasi con amore: a loro non manca il coraggio di asfaltare le bugie, le idiozie, di schierarsi contro il mercato, figli di quella sinistra australiana che non usa il megafono ma brani come letame, per coprire le altrui incapacità.

Concludono il tutto con un tuffo nel petardo che fa terminare il mondo: dove c’è obiettività l’unica resa consta di una scrittura musicale che verrà ricordata nel prossimo bing bang…



Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

11 Settembre 2023


https://graveyardtrain.bandcamp.com/album/hollow




My Review: Graveyard Train - Hollow

Graveyard Train - Hollow


Scene: a child with his eyes glued to his ocean casts his gaze, and along with it his voice and time, to grease the dream of a dark delirium. What you hear is music that descends into the bowels to find a den of vipers in manifest attitude of burrs gathered in the seconds before an attack. Four, five, six strings and tar-filled skins, a myriad of instruments assembled to run that baby act through the six Melbourne musicians on the wrong side of town. 

The stories told are sabre-rattling demons with metallic, bloated grins, facing into the pain of a discomfort that welcomes miles of romance, where madness is perhaps God's smile... An album full of secrets, of torments, of manifest tension, of reverberating obsessions, with the blues caressing the slide guitar about to confirm the mingling of alt-rock, the most malignant country and the darkest side of an arsenal that knows forms, modes, toxicity and alcohol without the cap, and within the pike jump towards an inebriated belly.


Understanding what goes on in Melbourne's lunar, nocturnal desert is extremely complex: among the stragglers, the souls hanging from a needle, a bottle, or locked in desolate solitary meditation, it is the Australian band's unabashed binoculars that make the difference, rolling out the shame, the fear, and nailing them between dusty grooves and grated souls.

The writing scheme involves powerful guitars and vocals that are representative of the darker side of those strings that dig into the south-west side of the USA, filtering, dilating, in order to put a timbre that allows no insecurities: the eleven compositions come from the land of koalas, no doubt about it. It is useless, harmful, rather banal and stupid to quote Nick Cave: we are a long way from that marvellous, unhinged, adolescent madness of the singer who later found himself the epicentre of so many new souls.

No, these are not bards, wolves of the night, not even a parade of cruel behavioural cloudbursts. Graveyard Train (with this sonic ensemble finally determined to have a full-time drummer) are on the opposite side of any self-confessed certainty: describing them is like throwing a handful of raw sand on the ocean waves.

The coordinates are literary first and foremost, with distrust of the human being, ending up showing continuous paralysis. The instrumental part is a noxious combo, a grating of objects slapped together to produce foam and crystallise suffering, not as a plea for help but as a slab showing the behavioural cancer of a humanity now nailed to its books. And so, in this epidermic crystalline context of constant yelps, a fiduciary link to depression and overt vice is affirmed, a drink is invited to remind us how under the Melbourne sky there is a child who, hypnotised and bamboozled under the effect of endless nightmares, has no past, let alone a future. The choruses, so avowedly linked to the American rockabilly option of the 1950s, rattle out verses that avowedly come out of readings from books kept secretly in basements, denying them the chance to offer themselves to the awareness of a world uninterested in doing so. Adem Johansen is a hypothetical barbed wire, with the petals of sweetness that know how to appear in the few moments when the ballad suspends the sonic procession so prone to German psychedelia, for a truly impressive leap into space.


The slide guitar on those few occasions takes over, removing the black and inserting a melancholic but dreamy blue. In those songs, the band loses the concentric impact to nourish the soul's need for that child's soul...

The clarity of the sound serves to exalt the dark side of a city increasingly victimized by progress, always adept at marginalising the weak, and in all this the sense of unease seems a friend in a state of grace. A bundle of sound particles for a journey into the pleasure of a vice that takes away the dimension of understanding and awareness. Bleak, crude, itchy, unbearable stories needed an electric cable, rhythms without hesitation, a weight equal to that of oil-soaked lyrics. The pub ballad as well as the wild dance on the edge of a bad night meet in the place of these songs that often recall the films of cocaine-filled parties, for dreams with a recurring nightmare

Frighteningly credible, the sound carpet is shock therapy, in the swamps of a future that here turns to dust-filled records. Often the voice seems the consequence of the devil putting his fingers in the grip of a selfishness: unhinged, without oxygen, Adem's uvula offers no doubts because normality exists and does not live here!

A long fatuous fire crosses time, nails hope on the cross of eternity with these continuous fragmentations, in the tenebrous ups and downs of a work that allows the six to be hated well, almost with love: they do not lack the courage to tar lies, idiocies, to take sides against the market, sons of that Australian left that does not use the megaphone but songs like dung, to cover others' incapabilities.

They end it all with a dive into the firecracker that ends the world: where there is objectivity the only surrender consists of musical writing that will be remembered in the next bing bang...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

11th September 2023


https://graveyardtrain.bandcamp.com/album/hollow





giovedì 7 settembre 2023

La mia Recensione : Slowdive - everything is alive


Slowdive - everything is alive


E’ fuggito dal labirinto della realtà ed è finito sotto la ruota dei sogni!

(Mikhail Kuzmin)




Un labirinto, una donna al centro, il viso indecifrabile, colori pastello rendono l’immagine un percorso da iniziare, immaginando che la musica sappia far muovere i passi e condurli all’uscita.

Tornano i cinque gabbiani di Reading, affamati di vita ma generosi nel lasciare cadere dall’alto dei loro maestosi voli cibo per le nostre anime: si rimane a bocca aperta e gli occhi intinti in un sogno liquido. Capaci di disinfettare il loro senso artistico da trappole corsare sempre pronte a ingabbiare il talento, gli Slowdive compiono il lavoro più completo della loro lunga percorrenza artistica, generando aria fresca nei motori delle loro composizioni, decidendo di costruire il tutto con  imponenti richiami alla Storia umana, con immagini che paiono giungere da luoghi e Tempi molto lontani. Entrano in modo definitivo nello spirito Post-Rock, nell’elettronica imbevuta di morbida propensione all'incanto, per anestetizzare la consueta volontà verso una possibilità nel generare frastuono, e l’abilità di raffinare ancora di più una scrittura che conosce modalità diverse per poter connettersi all’inevitabilità della morte. Due lutti si sono succeduti in questi anni per quei membri della band che hanno trasportato il proprio dolore verso la contemplazione e la serenità. 

Avete mai sognato di entrare in un arcobaleno? Ecco, già sapete della sua breve esistenza, del suo destino con una veloce data di scadenza. 

Questo fanno i cinque gabbiani di Reading: ci offrono un unico appuntamento con quella destabilizzante sensazione che oltre la loro musica non vi siano confini da sfiorare. Toccante, rassicurante, disarmante, l’ultimo lavoro vive di dettagli come fermagli per i capelli di pensieri in un agglomerato lucente, intento a sondare con un regale distacco i nostri sentimenti. Non è Shoegaze, non è Dreampop, è un concept album sulla bellezza priva di retorica, una raffineria che incendia i sentimenti di seta, portando il volo di un sentire non comune in giro per i cieli di un mondo che se ignora la propria ignoranza può cibarsi di tutto questo: se l’eternità è ciò che l’uomo cerca, eccola qui, nella dimensione terrena, pronta a essere stabilizzata nella corsia della gioia. Pensate al titolo: un dato di fatto, un'affermazione priva di drammaticità o di luci, dove il bene e il male rimangono in vita. Nulla cambia, se non il desiderio di musicare la realtà nel fascio organico di una piattaforma onirica che privilegia la lentezza, senza però smarrire l’innato approccio Pop che fa di questo gruppo musicale l’unica meteora che non si congeda mai…

Impiegano anni per tornare, lo fanno in questo modo, e si sa, noi essere umani svuotati di inclinazioni alla profondità, non possiamo che rimanere confusi innanzi a questa dimostrazione di classe che tende sempre più a illuminare la loro carriera e le nostre esigenze. La pandemia ha rallentato l’impulso schizofrenico della natura tutta, compresa quella nostra, di persone sempre più perse e disperse. In quel periodo il mastro Neil pensava di dirigere le sue composizioni verso una pura forma elettronica. Una volta consegnate, quelle forme sono state impastate dagli altri quattro ed ecco il risultato: il labirinto della copertina sonda ogni forma per divincolarsi dalla stagnazione, anche da quella musicale, per partorire una indagine che da emotiva raggiunge il livello spirituale, come una danza calma per far sentire la morbidezza dei nostri fianchi. Non un laboratorio,  uno studio, una sala prove, bensì un volo di anime intrecciate a pochi passi dal baricentro dell’universo: non è mai stata così prossima la loro Reading a divenire la capitale delle nostre affamate ambizioni. Misurati con gli effetti, semplici nelle ritmiche, ogni brano non conosce evoluzioni continue ma uno schema semplice, minuscolo e tuttavia dannatamente efficace. Ed è questa componente che porterà molti “seguaci” degli Slowdive al lamento, a sentirsi traditi con questo lavoro che sembra chiaramente contenere bellissime briciole del loro percorso artistico, ma con la chiara necessità di perlustrare altre forme di vita.

Generosa è la propensione a circondare gli accordi di tappeti elettronici che consentano a Simon Scott di vibrare con il suo drumming nell’incanto di un imbuto dalle pareti dorate. Le due chitarre (Neil Halstead e Christian Savill) sono un goniometro che imprigiona ogni smarrimento per liberarle avendo avuto in dono la loro grazia. Mai spavalde, mai strafottenti, mai permalose, le due sei corde sono vitamina pura, capaci di entrare nella psichedelia come nello Space-Rock meno gravido, e di tergiversare per il tempo giusto con alchemie vicine agli Alan Parson Project, così come ai Can e ai Kraftwerk, per un giro temporale e geografico davvero notevole. Mr. Nick Chaplin è semplicemente il miglior bassista a disposizione di quei sogni che abbisognano di una sferzata per tenere il busto eretto. 

Detto questo: non si possono negare le profonde interazioni di una scrittura di trame sonore con quelle dei testi, per la prima volta ermetici, sfuggenti ma incapaci (grazie a Dio o a chi ne fa le veci) di lasciarci nel pericoloso brodo dell’indifferenza: la penna di Neil non è un faro, un bagliore, bensì un sussurro che non necessita di essere decifrato. I suoi testi sono geroglifici orgogliosi di essere compresi solo da lui, ma sanno sfiorare il cuore, regalare la convinzione che la sua sfera privata non debba essere violata. 

La parte che approda all’ambient è incredibilmente matura, permettendo ai diversi generi musicali presenti di vivere nello stesso spazio, senza frizioni, remore o tensioni. L’album è un fluido, che scende dalla bocca dei cinque gabbiani, in percorrenza verticale, per centrare perfettamente i nostri apparati, in parata, bisognosi e in attesa di non conoscere la parola fine…

Difficile immaginare, in un mondo che in modo sgarbato cataloga per poi dimenticare, dove questo fascio principesco possa essere relegato: specialmente in Inghilterra la musica dei giorni nostri assomiglia al gioco del potere di una massa che conosce la stagione di un giorno per esaltare, per poi buttare via tutto. Ma EVERYTHING IS ALIVE saprà resistere: alle divinità non si può opporre resistenza e queste otto canzoni tasteranno la fragilità dell’arroganza, annientandola con dolcezza sopraffina, elegantemente.

Saper ascoltare significa pilotare il tutto nell’incastro smisurato dell’immortalità, l’unico luogo adatto a questi otto bocconi di un cibo prelibato, capaci non solo di sfamare ma di soffermarsi nel ventre, nella mente, nelle nostre lente progressioni di danza, nei nostri sogni liberati con la chiave della loro classe, sigillo di sicurezza di una qualità indiscutibile.

Non ci resta che andare ad assaggiare ognuna di loro ringraziando in anticipo…


Song by Song 


1 - shanty


L’album inizia con una partitura, breve, di elettronica, la chitarra è molto simile a quella di Teardrop dei Massive Attack, ma capace di liberarsi dal pericoloso accostamento per poi incanalarsi in un gioco atmosferico che pare uscire da un anfiteatro greco, con la dolcezza delle voci della regina dei cuori Rachel, e quella di Neil, convogliando nel delicato binomio Postrock - Psichedelia che attraversa il cielo del nostro stupore…


2 - prayer remembered


Un vistoso calo di ritmo ci conduce nella planimetria del mondo Slowdive, tutto, dal lontano 1991 ai giorni nostri, in un pezzo strumentale che permette di sentire le voci dello spirito sostituire quelle del duo di Reading. È lacrima lenta che sale su in cielo, in quel fragore Post-Rock che accarezza la base Shoegaze della band, qui attenta, premurosa nel calibrare le suggestioni, con i colpi di drumming di Simon che danno ritmo a una continua esplorazione. Musica che esce dai granelli di sabbia di un deserto comportamentale: i cinque dipingono un capolavoro di inconsueta attesa, mai una esplosione, mai una esagerazione, bensì un continuo emigrare nella storia di una intensità che non abbisogna di frastuoni…


3 -alife


Il tempio dell’incanto ci mostra donna Rachel inchiodare i dubbi nel suo afflato, nel suo tributo, nel suo inchino poliedrico per consegnare il testimone della canzone dal buon ritmo a Neil, ed è un intreccio di sensazioni che giocano a mostrarsi, a cambiarsi d’abito, nell’unico brano dell’album che si concede qualche variazione in più, ma sempre nella corsia di  un necessario minimalismo. Tutto quì è uno spirito corsaro ingentilito, soffice, rapace ma capace di essere rispettoso e le tastiere dipingono conforto ispirando alle chitarre  una strada lastricata di opzioni che paiono essere suggerite dagli anni Sessanta…


4 - andalucia plays


Il Vecchio Scriba non ha dubbi: questa è la composizione più sofferta da parte di Neil, un calvario che scendendo dal cielo mostra gli sbadigli di un dolore quasi silenzioso ma esistente. Il suo cantato conduce al pianto, mentre suoni quasi new age e una chitarra in odore di Faith dei Cure si appoggia al nostro cuore, distruggendolo dolcemente. Torna quella semiacustica e la sensazione che proprio in queste note abiti tutta la talentuosa capacità che gli Dèi hanno concesso ai cinque di Reading. Compatta, lenta ma veloce ad approdare nei nostri involucri, fa della sua apparente semplicità un vanto sussurrato…


5 - Kisses


Pochi accordi, il ritmo mostra subito la sua tenera capacità di farci danzare in una storia dalla trama semplice ma che adopera metafore, anche musicali, per permetterci di inoltrarci nel sogno e baciare il desiderio di una dimensione onirica senza bavaglio sulle labbra. Con un fare decisamente Shoegaze, annettendo minuscole particelle acustiche, tutto scivola con l’eclettica loro capacità di trame complesse che si trasfigurano, concedendoci la possibilità di immagazzinare la magnificenza che abbiamo potuto ascoltare. Mantra corposo, dama incantevole per ogni corte, regale anche per anime povere, Kisses è la perfetta Pop song imbevuta di sogni, quando il Dreampop non è soltanto un genere da esibire ma una modalità di essere ultraterreni…


6 - skin in the game


La maturità non evitabile per i cinque gabbiani: trentadue anni di carriera necessitavano di una resa dei conti, di un momento in cui dovevano tornare: ecco ciò che è stato il loro arrivo, la loro percorrenza, il senso… Un distributore di piume nel sacco dei nostri corpi in apnea, perché queste chitarre sono una dinamite resa incandescente senza necessitare dell’esplosione bensì di un navigare, secondo dopo secondo, nel corpo amniotico di un labirinto eccelso…


7 chained to a cloud


Si può governare la marea di stelle che danzano nel cielo? Se ti chiami Slowdive come minimo puoi mettere sul palcoscenico la rappresentazione e abbandonare ogni velleità di poterle toccare. Però: la band di Reading ancora una volta affitta la maestria e disegna un involucro con i gioielli che vengono rilasciati dal canto angelico di Rachel, una donna bambina piena di grazia che, supportata da leggeri echi e riverberi, si trova a un passo dal cantato di Neil, per confezionare un piano di magnetismo colmo di una magia fluttuante, inossidabile e impermeabile, all’interno di un loop che con la tastiera trova il modo di fissare il brano nell’Olimpo, l’unico luogo dove le comete non muoiono mai. Sei minuti e cinquantuno secondi dove ciò che non si verifica è il rispetto per questa elaborata parentesi tonda dentro la quale la matematica cambia pelle e diventa brivido…


8 - the slab


Nel cielo di Reading una scossa elettrica, un fremito, un’estasi verace e vorace prende possesso dei sensi e determina la nascita di un amplesso sonoro senza precedenti: the slab è il laboratorio dell’inconsueto, un gioco imprevisto, un’assonanza inusuale che determina terremoti emotivi capaci di dirigere la valutazione dell’album con due sole parole: GRAZIA MULTIPLA.

Le chitarre sono lapidarie, ma non ferme, bensì le ali di gabbiani che afferrano la melodia e la inchiodano nelle corsie di uno spazio mai così generose di elaborate strategie sonore. Definendo tutto ciò che abbiamo sinora udito e portandolo fuori della nostra comprensione, la chiosa è un gioiello che regala la conferma che gli Slowdive siano capaci di avere il suono del nostro tempo ma perfettamente connesso con quello che lo ha preceduto. Lo sanno fare solo i Maestri questo tipo di operazione…


Concludendo: nella speranza che spariscano gli opinionisti, gli inetti, i precisatori di ogni sciocchezza, questo lavoro è un un combo stratosferico nel quale crescere e una piscina in cui navigare tra le canzoni che alla fine diventano onde capaci di ospitare ogni nostra sciocchezza.

Ma è proprio cibo quello che cadrà senza sosta dai cinque gabbiani ai quali dobbiamo l’eterno inchino…


⭐⭐⭐⭐⭐


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

7 Settembre 2023


https://slowdive.bandcamp.com/album/everything-is-alive




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