giovedì 14 settembre 2023

La mia Recensione: White Rose Transmission - White Rose Transmission

White Rose Transmission - White Rose Transmission


Questa recensione la dedico all'anima sempre preziosa di Adrian, al generoso talento e grande umanità di Carlo, e a due miei amici, Marco Sabatini e Henry Verger.



Una sempervirens si aggira lontano da casa sua, nella costa settentrionale di una California accaldata e assonnata, facendo tappa nel cuore dell’Europa, vagabondando sino ad abbracciare due anime spettinate e laboriose. Atomi concreti di un atteggiamento misoneista consentono di valorizzare maggiormente ciò che già è stato creato: il nuovo qui non avanza, se lo riferiamo ai generi musicali, ed è alla fine un bene. C’è la necessità di formule storicizzate che diano il benvenuto e che convivano con la novità del tessuto letterario. Nell’album non ci sono mai parole eristiche, il linguaggio usato è semplice ma complesso solo per una abbondante perlustrazione emotiva che viene avvertita. Carlo e Adrian sono arcieri notturni, con vocaboli che escono dagli alberi e cadono sui cuori, soggiogati e muti, come un lampo che non necessita di un suono per ammaliare. Un lavoro luculliano, di difficile gestione, in quanto sfiora pensieri di piombo senza usare l’elettricità di una formula musicale che anestetizzerebbe l’indole intima, per consegnare la certezza che la coppia abbia oliato la macchina del talento dalla notte dei tempi. Nulla in questo fascio di canzoni può obnubilare il nostro stupore: ci sono budella che si inclineranno al pianto innanzi a queste gemme che non conoscono sbavatura con gli anni. Sono nate per dare alla vita del tu, in una convivenza che spossa solo gli stupidi, nutrendo invece le anime curiose e attente.

Miscele e templi, contenitori di assoluti dalla cicatrice lunga, pulsano e si stendono, come magmatiche cadute stellari, per convincerci che esistono insindacabili gioielli che desiderano l’ascolto e l’apporto delle nostre riflessioni. Il tutto, quello che non ti aspetti da chi non era riuscito ad avere il  meritato tributo  popolare con i suoi Sound, pare una pura essenza strategica: Adrian qui è un comprimario nobilissimo della scrittura del suo migliore amico, in grado e sicuramente volenteroso di un passato da sospendere se non addirittura da dimenticare. Perché tante sono le novità rispetto al combo Londinese, per un costrutto che mira ad abitare altre zone dell’animo umano, con una misura minoritaria del lamento e una superiore di testi che captano senza offrire cifre di dolori insostenibili. La penna di Carlo è altrettanto sciolta, pregna di romanticismo e malinconia, perfettamente salubre e intenta a sostenere quella dello sfortunato leader della band di Jeopardy. Corsie amletiche, autostrade sensoriali, incroci di luce nella notte senza lancette si incollano alla semplice composizione musicale, intenta a raffreddare i bollori del Post-Punk, per approcciarsi al Neo-Folk, al Barocco e alla Classica, per mascherare la delusione di carriere che sino a quel momento non avevano conosciuto il consenso di massa. I progressi nascono dal consumare esperienze comuni, un circondario dentro il calvario di Adrian, anima turbolenta che con Carlo trova la quiete e una disamina del suo zig-zag umorale per incanalarlo all’interno del beneficio, luogo a lui sconosciuto sino a quel momento. Ecco che il sentimento più nobile e potente struttura il sorriso dolcissimo ma amaro del biondo londinese verso la conquista di una gioia diversa, forse mai ipotizzata. Gli elementi per scrivere insieme scendevano dalle loro bevute, risate, da gestualità come nidi di incanti imprevedibili.

Un dramma cosmico è perennemente disubbidiente e farlo entrare nei circuiti creativi è una impresa che abbisogna di una forte dosi di ipnosi: lo si può cogliere tutto in questi vibranti piani prospettici, articolati per esaltare i colori grigiastri della condizione umana. Danze epiche, melanconiche, ballate col tappo di sughero per far sentire il brivido della commozione, si stampano nell’ascolto, in un incidente dove a morire è la banalità e a sopravvivere la classe cristallina dei due. Il vetriolo entra brevemente in chitarre elettriche istruite a dovere, per ghermire un imbuto decadente ineccepibile e voluto. Un sodalizio che prima di divenire arte è il presupposto del loro climax, dei loro sogni che qui vivono la possibilità di registrare la realtà per addobbarla, per un inganno più che mai necessario. I pochi tamburi sono preziosi slanci nel ventre di una tribalità seminascosta, mentre le tastiere, il piano e il basso sono una equipe ammaestrata, incollata alla tenerezza meno incline alla esplosione, ma che funge piuttosto da carburante per quegli accordi di chitarra che da soli riempiono il cielo di un arcobaleno costante. Le due voci, mai attrezzate alla esibizione delle timbriche, sono i servitori della bellezza che si presenta compatta per tutte e tredici le composizioni. Sono respiri che non cercano la gloria, a volte talmente simili da essere irriconoscibili, in un abbraccio che stordisce, per unicità, rendendo livida la pelle.

Insostenibile è il pensiero che il compimento di questo tipo di percorso sia in grado di regalare scoppiettii continui agli artefici: penseresti il contrario, e invece…

Il 1995 è un anno disonesto, scarico, fuorviante, banale, dove pochi album reggono il confronto con il passato e dove a visitare la certezza è un’ondata di approssimazione al limite dello sconcerto. Se si ascolta invece questa opera si nota il calibro continuo dell’attenzione, il polso fermo che impedisce sovraincisioni inutili e manieristiche, una propensione al minimalismo che dà alla forma canzone un significato diverso e sicuramente più nobile: si stia attenti, particolarmente, alla volontà di cristallizzare la linea armonica, l’uso sapiente di arrangiamenti che guardano in faccia la struttura primordiale per regalare una intensità che galleggia a proprio agio, in ogni singolo brano.

La timidezza di Adrian è uno scettro che cade sotto la pelle, senza pungere o ferire, regalando un castello infuocato con fiamme ghiacciate. E Carlo non può che essere il pompiere che struttura il futuro salvando la sua anima complessa. Ecco come la parte acustica e quella elettrica sono cittadini di un nucleo concentrico che non fa entrare l’ostracismo e il senso di colpa del Post-Punk usato da Borland per presenziare al suo travaglio interiore.

Uno stile vesperale, misantropico, sottolinea l’enormità degli averi situati nel bacino del loro talento, mitragliatrice con pallottole fiorate, rose bianche, appunto…

Un camminamento continuo sul piano onirico, per mettere il bavaglio a una realtà contraria, fa sì che le gemme sonore dal fare lento, siano cardini assoluti, lampioni e docce di un ascolto drammatico ma in grado di essere benevolente, quasi mistico, sicuramente abile nel fagocitare miliardi di schi bolsi e boriosi.

White Rose Transmission è un incontro che chiude le finestre agli ascolti superficiali, rende pura la paura e la voglia di bellezza reale e concreta, con le lacrime che non si congedano mai…

La poetica presente, lungi dall’essere solo una cavalcata struggente, è uno degli ingressi che facilitano il desiderio di ascolti senza soste, per cadere gioiosamente nella tristezza che passeggia con le mani in tasca, soddisfatta.

È tempo di andare a fare l’amore con queste tredici vergini, queste particelle piene di acqua che ci faranno fare il bagno dentro una unicità che non conosce disobbedienza…


Song by Song


1 Unkissable 


Uno scintillio tra suoni cupi che iniettano le voci nel gioco di chitarre perfide, con gli stacchi della batteria che arrivano a barricare il tutto nelle pelli ricoperte di lana e polvere. Una traccia d’apertura che separa il passato e presenta la coda dei Talking Heads imbevuti di psichedelia quasi muta. Gran lavoro su una chitarra dal sapore Byrdsiano, che fluttua e sintetizza la natura di una composizione che passeggia tra le ultime tre decadi.


2 Die dunkle Macht


Stupore, genuflessione, l’ardire mutato che si inchina davanti al martirio sonoro pieno di ruggine, all’inizio, per poi trasferirsi con dimestichezza nel confine del congedo dei sensi. Maestoso, epico, con l’Oriente che si affaccia con un arrangiamento che proietta il brano a sud della paura. Lo stop and go offre una chitarra dalle impronte funky per poi ritirarsi e lasciare i semplici accordi, liberi di divenire una puntura nel ghiaccio…


3 In Your Hand


Il colore della cedevolezza sale sui tasti di un piano ammaestrato a catturare la pioggia e a rimbalzare nel cuore. Episodio sconcertante per bellezza e profondità, le voci all’unisono accarezzano il desiderio e pilotano l’emozione con la certezza che bastino poche note per subire una paralisi. L’ebbrezza è data da intarsi semi-elettrici e da archi a trattenere il fiato, sino a quando la chitarra di Adrian decide di piangere sulla melanconica melodia…


4 Sister Sweetness


L’impianto di musica barocca stabilisce il primo stupore, instancabile attraverso l’accostamento di una pennata che consente al canto una catena deliziosa, in grado di frustare ogni opposizione. Mentre tutti cercavano ritornelli per attirare gli stupidi, Carlo e Adrian dipingevano la dolcezza nel ventre di un impianto minimalista. Non rumore, tantomeno deflagrazione, ma deliziose carezze elettriche…


5  Vapour


La tradizione Irlandese pare trasferirsi per cedere alcuni dei suoi fardelli in questa ballad mutevole, mutante, deliziosa striscia di condense ipnotiche che sembrano giungere da una domenica solare del cielo di Dublino. Poi la drammaticità subentra, per congelare la prima parte e cedere il palcoscenico a una chitarra graffiante ma sensuale…


6 Street of Flowers


Gli Dèi si annoiano, cercano svago, blaterano, ma non possono distrarsi: arriva un brano totalmente desideroso di ricordarci il cantato di Ian McCullogh e dei suoi Echo & The Bunnymen di Porcupine. Ma in questa canzone vi è una drammaticità che rimbalza indietro, svilendo il confronto e portando i due compositori a guardare in faccia quelle divinità che sanno bene come questo gioiello sia incapace di morire…

Si può sospendere la perdizione solo su una strada pieni di fiori sonori, intensi e in grado di strozzare il cuore…


7 Allein


Stridono le orecchie, le chitarre sono aghi e il basso un ignoto vessillo di ipnotica propulsione, e si libera il corpo in una danza che circumnaviga il cantato, vero emblema di una inclinazione a stuzzicare i sorrisi, sebbene il testo piloti il pensiero in una piccola smorfia. Un circuito sottile elettronico spinge la chitarra a essere operosa con poche note, riuscendo a stabilire il contatto tra la poesia del ventre e la voglia di godere. David Bowie avrebbe amato questo esercizio di incanto, senza dubbio alcuno. Primo brano dove non si può stabilire la residenza musicale, bensì si decide di propendere verso la necessità di cantare. Le due voci nel finale sono spazzole gentili per rischiarare il cielo…


8  Thorn of a Rose


La sintesi di Borland conosce e incontra il liquido amniotico della scrittura di Carlo. Le cataratte del cielo si appannano nei respiri di Adrian, le chitarre suscitano ricordi, gli Psychedelic Furs di India applaudono, mentre abbiamo la sensazione che in questo brano viva tutta la magia di una intuizione: nella solitudine notturna le spine sono il bacio di un dolore in cerca di spazio. Breve, morente di stupori, non necessita di orpelli perché ogni roccia solitaria ha vinto l’applauso del cielo…


9 Silver Age


Violini e moti in viaggio aprono l’ascolto e poi è Neo-Folk, addomesticato dalla chitarra semiacustica in odor di Nada, ma il cantato è una secca frustata, breve, per concedere più secondi alla musica che è una caverna che ci ricorda come i Sound, negli impianti rallentati, siano stati inimitabili. Qui, forse, si fa addirittura meglio.

In quanto la parte colma di tensione non lascia spazio a nessuna concessione: Silver Age è un arco teso, sfibrante, infinito…


10 Indian Summer


The Doors, Velvet Underground: entrambe le band americane affacciate e interessate a questa culla ipnotica, dove il crooning si alza e diventa un volo con fattezze spirituali, sino a quando tutto pare una giostra di stili senza paura…


11 The Hell of It


Suoni come discariche, note come marasma senza controllo, in un tripudio verticale, ipnotico, psichedelico, dove una storia esercita l’abbandono e alle chitarre bastano pochi secondi per essere un sequestro. Piena di nuvole, tetra, devastante, breve, lenta, si lancia poi in una perlustrazione emotiva che ci consegna le chiavi per attraversare un ponte: quello dei primi anni Settanta, sponda americana…


12 The Sea Never Dies


Il miracolo vero giunge quasi ad album concluso: se si aveva il desiderio, l’impressione che tutto fosse bello, utile, importante, ecco che ci troviamo dentro la summa di un’unione irripetibile di tragedie ammaestrate dal talento dei due che qui davvero esagera per via di una carezza che fa male più di una serie di calci, perché il brano ha la capacità di trascinarci sempre di più in un inginocchiamento colmo di spavento e devozione. Struggente, verticale, una evidente dote nel ricordarci quante canzoni abbiano fallito quando tentavano di affrontare l’argomento del testo. E poi la musica: una ballad che pare uscita dal tuono, senza fiato ma incrollabile…


13 Kugel der Einsamkeit


Le rose sono appassite, hanno perso il colore, il nerbo esausto ha concesso la morte e per farlo si inventa un magnete straziante per concludere un album semplicemente perfetto, doloroso e urticante. Il piano è un pugno tetro, una rappresentazione teatrale che gioca con le pause, con l’ingresso di suoni che stridono sul cuore e asciugano la voce baritonale che si fa inghiottire dalla sfera apocalittica, dal vento lontano che si sente giungere come se tutto fosse un congedo. È la paura che inietta nei tasti neri del piano il bisogno di farci piangere, mentre si ringrazia la vera amicizia di due anime bollenti per aver partorito questo gioiello dai carati infiniti…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

14 settembre 2023

https://open.spotify.com/album/3pRW2k3FzpSLdQCRMxO7fb?si=DMzkiBTiSoa7bJ_Y6OpxnA





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