domenica 12 giugno 2022

La mia Recensione: Beach House - Once Twice Melody

 La mia Recensione:


Beach House - Once Twice Melody


Un flusso abbondante di sollecitazioni può avere la pelle morbida, appoggiata sui sogni verso il vuoto, senza paure, seguendo la propria identità con quella leggerezza che conquista soprattutto se stesso. Quando tutto questo avviene si presenta la magia a battere le mani, soddisfatta, per poi concedere un abbraccio tenero, tenerissimo.

Tutto ciò accade con un album che è entrato nella mente dello scriba senza esitazioni. Due ragazzi americani, Victoria Legrand e Alex Scally, capitani della bellezza, abitano da tempo nelle strade dei sogni, del soffio, di maglioni di cashmere su note altrettanto morbide, trasportando dentro i loro solchi tutta la volontà di dare alla musica ancora un’impronta senza macchie scure sulla sua superficie. Once Twice Melody è un respiro dentro le scorribande di onde che vogliono trovare una sosta. I due le fermano e danno da mangiare alle loro melodie: è un incontro tra follia e la semplicità questo disco, una risorsa per l’anima che aspetta carburante buono e non polveri sottili, che inquinano ingannando.

Tra queste diciotto tracce non vi sono falsità, ma sincere propensioni all’avvolgimento, tra un aperitivo e carezze che escono da note rassicuranti.

Come una serie di range dinamici, i due hanno istruito le canzoni a essere navicelle spaziali con il compito di estrarre da ogni buio imperante scintille di luce, per poterle inserire dentro i palmi di questi artisti, maghi del sospiro sonoro, e dipingere sorrisi per poter dipendere da loro.

Tutto diventa uno sguardo contemporaneo, dove non manca nulla: nebbia, tinte chiaroscure, sole stanco, appetiti mentali, storie dalla trama color grigio, onde e delfini nel gioco complice e molto altro ancora. 

Afflussi intuitivi, dinamiche architettoniche notevoli sono spalmati con intelligenza per raggiungere i sensi, dove la possibilità di danzare con gli occhi chiusi conosce grande dimensioni, specialmente domestiche, nel proprio salone, nella propria stanza da letto. Offerta la possibilità di dare alla musica nuovamente un consumo soprattutto personale, viene anche concesso il modo di fare di questo album un abbraccio che esce da quei confini.

Il mood sonoro è chiaro, visita l’incanto dei luoghi umani, quelli interiori, con una spiritualità che si incrocia con una forma elettronica ben distribuita, fiumi delicati ci portano queste onde sonore con precisione e una cura nella produzione di altissima qualità.

Vince un senso equilibrato di reminiscenze mainstream ma mai banali, dove si possono scorgere elementi di contatto con uscite discografiche di due/tre decenni fa, perfettamente assorbite e rielaborate con quegli spruzzi di alcune scelte geniali.

I due ci portano semi di luce senza interruttori, con quella gentilezza che li contraddistingue, angeli educati in luoghi e tempi che non lo sono di certo, conferendo a tutto questo già una medaglia al valore dell’intenzione: essere veicoli di bellezza.

Sono canzoni che escono dal tempo, dalla contemporaneità senza essere una fuga: vi sono elementi di contatto con la realtà ma con una grazia che essa ha solo in piccole dosi, facendo sì che siano brani come miracoli, da benedire e conservare, gelosamente. È un percorso fatto di trasformazioni, di punti di avvicinamento tra le melodie e le buoni vibrazioni, per sentire un abbandono dentro note abilmente messe in condizione di generare raggi solari, morbidezza, per portare lo sguardo verso l’alto con l’impressione di stipulare un patto con l’assenza di gravità, al fine di assentarsi per davvero dalle strutture terresti, così propense alla pesantezza che genera a sua volta oscurità e sporcizia. Questo è un insieme di brani dove trionfa l’attitudine a coinvolgere le singole prelibatezze affinché diventino custodi eterni. I secondi volano, le paure non smettono di vivere, ma all’interno di Once Twice Melody non trovano residenza, rendendo il tutto capace di resistere alle storture quotidiane. Tra compendi vari esiste la certezza di un lavoro che ci fa vivere il passato come possibilità, quasi assurda, di poterlo cambiare perché questa è la magia, l’atto più sconvolgente di composizioni dal tessuto di lino, leggere e svolazzanti, per raggiungere tempi lontani.

La freschezza di quest’opera conduce a territori musicali sempre più intrecciati con eleganza, non dimenticando quell’attitudine pop/shoegaze, sapientemente cucita su synth per farci scoprire connessioni davvero interessanti. Si esce dall’inverno per nutrire la primavera di una nuova luce, il sapore della leggerezza si impossessa di questa coppia di anime per poter farci sognare.

Non vi resta che ubriacarvi con lentezza, traccia dopo traccia, con gli occhi chiusi e i sogni aperti…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

12 Giugno 2022


https://open.spotify.com/album/2eTxZYoqIv4MoLqwh73qvo?si=U4kq70g2S7WVB0Ue9Gt93Q








My Review: Beach House - Once Twice Melody

 My Review:


Beach House - Once Twice Melody


An abundant flow of solicitations can have a soft skin, leaning on dreams toward emptiness, without fear, following its identity with that lightness that conquers above all itself. When all this happens magic appears to clap its hands, satisfied, later granting a tender, very tender embrace.

Everything occurs with an album that entered the scribe's mind without hesitation. Two American youngsters, Victoria Legrand and Alex Scally, captains of beauty, have long dwelt in the streets of dreams, of the inspiration, of cashmere sweaters on equally soft notes, carrying within their grooves all the will to still give music an imprint without dark spots on its surface. Once Twice Melody is a breath within the incursions of waves that want to find a pause. The two stop them and feed their melodies: this record is a meeting between madness and simplicity, a resource for the soul that waits for good fuel and not fine dust, which pollutes by deceiving.

Among these eighteen tracks there are no falsehoods, but sincere propensities for envelopment, between an aperitif and caresses coming out of soothing notes.

Like a series of dynamic ranges, the two have instructed the songs to be spaceships with the task of extracting sparks of light from any prevailing darkness, in order to be able to place them inside the palms of these artists, wizards of sonic sighing, and to paint smiles so that we can depend on them.

Everything becomes a contemporary gaze, where nothing is missing: fog, light and dark shades, a tired sun, mental appetites, stories with gray textures, waves and dolphins in a complicit play, and much more. 

Intuitive flows, remarkable architectural dynamics are intelligently spread to reach the senses, where the possibility of dancing with eyes closed knows great dimensions, especially domestic, in one's living room, in one's bedroom. Granted the opportunity to give music again a primarily personal fruition, the possibility is also offered to make this album an embrace that goes outside those boundaries.

The sonic mood is clear, visiting the fascination of human places, the inner ones, with a spirituality intersecting with a well-distributed electronic form, gentle rivers bring us these sound waves with precision and care in the production of the highest quality.

A balanced sense of mainstream but never trivial reminiscences wins, where one can discern elements of contact with record releases of two/three decades ago, perfectly absorbed and reworked with those splashes of some brilliant choices.

The two bring us seeds of light without switches, with that kindness that distinguishes them, polite angels in places and times that certainly are not, giving all this a medal to the value of the intention: to be vehicles of beauty.

These are songs that come out of time, out of contemporaneity without being an escape: there are elements of contact with reality but with a grace that it has only in small doses, making them tracks like miracles, to be blessed and preserved, jealously. It is a path made of transformations, of  points of approach between melodies and good vibrations, with a view to feel an abandonment within notes skillfully put in a condition to generate sunbeams, softness, to bring the gaze upward with the impression of entering into a pact with the absence of gravity, in order to absent oneself for real from earthly structures, so inclined to heaviness that in turn generates darkness and dirt. This is a work in which the attitude of engaging individual delicacies so that they become eternal custodians triumphs. Seconds fly by, fears do not cease to live, but within Once Twice Melody they find no residence, making the whole capable of withstanding everyday distortions. Among various compendia there is the certainty of a work that makes us experience the past as a possibility, almost absurd, to be able to change it because this is the magic, the most unsettling act of compositions with a linen texture, light and fluttering, to reach far-off times.

The freshness of this record leads to more and more elegantly woven musical territories, not forgetting that pop/shoegaze attitude, masterfully sewn on synths to make us discover really interesting connections. It comes out of winter to feed spring with a new light, the flavor of lightness takes possession of this pair of souls in order to make us dream.

You just have to get slowly drunk, track by track, with your eyes closed and your dreams open....


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

12th June 2022


https://open.spotify.com/album/2eTxZYoqIv4MoLqwh73qvo?si=U4kq70g2S7WVB0Ue9Gt93Q







sabato 11 giugno 2022

La mia Recensione: Einsturzende Neubauten - Halber Mensch

La mia Recensione:


Einsturzende Neubauten - Halber Mensch


Luogo di collocazione emotivo: pozzanghera elettrica.


Epoca: attorno alla perdizione sensoriale, circa.


Elementi necessari all’ascolto: fulmini addominali, senza pause né disturbi.


La disgrazia delle preferenze giunge alla punizione onesta, nessuna possibilità di sfuggire, si sono rotti gli argini dell’inferno, per accogliere in un tripudio di ferite lancinanti chi osa stare lontano da questo orgasmo bellico.

Üntergang è il luogo del precipizio, la casa di un fuoco fatuo che ha generato un’onda che copre l’inconsapevole mondo. Da Berlino, dove tutto geme e urla, dove si progettano impalcature di bellezze siderali, dove non c’è uscita di sicurezza, nasce la follia delle forme più astruse e caotiche, l’orgasmo nero che annichilisce.

Necessità di terrorizzare la banalità, la comfort zone, le genuflessioni deprimenti e senza nerbo, il dovere di educare l’ignoto verso uno scontro fatto di scintille e detriti sonori. Ecco che gli edifici devono crollare e provocare fastidio, dolore, confusione, su polvere di fumo benedetto da anime sconvolte e disobbedienti ad una sistemazione esistenziale priva di contenuto, concetto e perdizione.

Non ci sono palchi, le transenne vengono gettate sotto lame senza perdono, si tritura il presente, nel delirio del “tutto serve” per rendere martire ogni cosa.

Dopo due collezioni di lava sanguinante e corrosiva, i Berlinesi decidono di infangare il suono e cercare una collocazione diversa per dare l’impressione di un cedimento, di un inganno: siamo illusi, ignoranti, gli EN utilizzano la volgarità per smascherare le nostre stupide conclusioni.

Alber Mensch è omicidio culturale, valanghe che puzzano di cupidigia disastrata e perfetta.

Al suo interno troviamo molto più della morte. Questa, a confronto della distruzione che ci viene mostrata, diventa un incubo tollerabile. Concessioni e negazioni, sferzate concettuali su territori sconosciuti e armati di torbido orrore, di silenzi sverginati con fruste nere, piene di borchie: alla pace è tolta ogni accessibilità, non ne troverete e sarete prigionieri dell’esaltazione traumatica.

Se il terrore, il disagio, la fuga senza più ossigeno nei nervi potete chiamarli musica, accomodatevi pure e rilassatevi, è pronto il rito dello sconvolgimento a segare la presunzione.

Gli EN non concedono respiro, oltre gli inferi c’è solo la constatazione di un dolore e della perdizione che, uniti, massacrano tutto quello che è convenzionale. 

A morte l’abitudine, allora.

Loro danno spazio a ciò che non ha grazia, una disgrazia che contagia sino all’irrigidimento del tutto, come unico, spaventoso godimento.

Berlino come Nagasaki: morte del futuro, conclamata e impossibile da seppellire, tra le lamiere e le spinte allucinogene di massacri continui a ogni forma di bellezza.

Lo stato dello cose (Wim Wenders lui sa) conosce l’ultimo passo tra i lacci attorno ai nostri pensieri, l’attesa della fine dell’incubo dura cinquantacinque minuti e cinquantacinque secondi: troppi, vero?

Berlino inchiodata alla sua croce, forse “tradita” dai suoi stessi concittadini, la purga più intollerabile da subire, nei liquidi amniotici come in quelli gastrici, urla di rabbia contro queste creature uscite dal sorriso dei vermi. La violenza abita, conquista, entra in aghi sorridenti di tossicità varie, acquisite e conquistate per liberarsi della noia e del vuoto. Freddo oltre i Poli, ossidata la temperatura, si può concedere al delirio la polverizzazione degli schemi, un massacro pianificato, dove il baricentro di ogni follia sorride alla devastazione mai contemplata prima.

Sono strategici, furbi, maliziosi gli EN: dopo avere per davvero distrutto i timpani con Kollaps e Zeichnungen des Patienten O. T., mitragliate furiose al di là di ogni immaginazione, creano il teatro della illusione intossicando con finta musica, dove sembrano esistere le condizioni di parvenze sonore vicino alla forma canzone.

Certo, è così, ma a quale prezzo, in quale modo, chi può davvero sentirsi salvo davanti a questa concessione?

Petali di litanie ossessive gravitano nei canali uditivi per infiammare ogni desiderio melodico, una precipitazione continua di malumore, di dissolvenza emotiva necessaria per i cinque distributori di dinamite al fine di non concedere il respiro di un sogno che porti l’ascoltatore in un bunker. Tutto inutile.

Qualcosa doveva crollare, sono partiti dal basamento di una cultura corrotta, storta, complice, venduta al consumismo e dove l’ideale politico incominciava a stare stretto ad una piccola “tribù indegna”: gli EN ne erano i più feroci rappresentanti e l’arte era vista come un’apoteosi che poteva fornire gli elementi e gli argomenti giusti. Giù tutto allora, ruspe e martelli pneumatici a sfracellare quel cemento, quell’acciaio buono solo per essere visto stravolto e abbattuto. 

Il cantato di Blixa proveniente dalle catacombe ben si allineava agli attacchi perversi degli altri quattro, come uno scudo lanciato a bomba sulle armonie, le frivolezze, le giocosità di canzoni non più tollerabili. Bisognava cancellare un passato scomodo esercitando una violenza diversa, distruggere se stessi per nascere puri, con la polvere di cemento sulla pelle, in stato perenne. Ed ecco l’occasione per eliminare l’ego di un mondo ormai già sordo ma non consapevole: Halber Mensch dunque come viatico necessario per scoprire responsabilità, colpe, disarmonie, e conoscere l’annullamento del diritto al “sempre avanti comunque”; gli EN dichiarano la guerra e procedono, senza ostaggi. La pelle dell’uomo andava scorticata, incenerita, presa a colpi di pistola, ferita da scosse elettriche primordiali, buttata nel vuoto da scorribande di fresatrici semoventi, bisognava capitalizzare il materiale bellico infinito a disposizione: l’amica Pazzia, dagli occhi pieni di vene nere, saldata a stagno, senza esitazioni, giungeva come unico aiuto. Una distruzione creativa che deve divenire una sirena d’allarme per ogni coscienza in fase di opposizione: gli EN sparano, costruiscono armi chimiche nei sepolcri sacri dei loro eccessi, come prigionia liberatoria, assoluta.

Come vedremo più avanti, la band berlinese non dimentica nemmeno l’amore: lo butta nel fuoco di attacchi implacabili, non risparmia accuse, lo circonda di velenose polemiche e gli strappa la maschera.

Per assurdo gli EN si mostrano più raffinati e addirittura eleganti rispetto agli esordi ma è un’illusione mirata, usata con le armi di chi crede al loro processo di caduta. Rimane, invece, un assalto davvero implacabile, post moderno. Sotto i detriti che lasciano ben in vista, ci sono i commenti terribili nei confronti della società, della politica, con i polsi legati che poi vengono tagliati, senza esitazione. Entrano nel teatro mondiale della rappresentazione del finto come se dappertutto esistessero Charlottenburg e il Deutsche Oper Berlin, per un balletto dove la realtà viene fatta danzare consapevole della morte imminente.

Un lavoro che evidenzia tracce di minimalismo già presente nella capitale tedesca ben da prima dei cinque metallurgici impazziti. Un cammino verso un dandismo sonoro, una pseudo complicità organica per sistemare bene i loro ordigni, come se fossero stati puliti prima dell’esplosione dei nostri ascolti. 

Ma tutto ciò che ho scritto potrebbe far pensare a un album accessibile rispetto al loro stesso passato e accessibile al contempo per chi ha dimestichezza con certe “sonorità”. Nulla di più falso, perché non ci si deve soffermare sulla struttura del suono ma occorre includere quella dei testi, forse addirittura molto più ostili di ogni distruzione più o meno alleggerita rispetto ai primi due fuochi, datati 1981 e 1983. 

Occorre però specificare: mentre i primi vagiti di musica industriale si concentravano sulla produzione di rumori casuali, disturbando quel poco che conducesse ad una sterile soddisfazione, gli Einsturzende Neubauten erano desiderosi, sin dall’inizio, di costruire temi, argomenti, per poi creare un’opera di unificazione di strutture che si ponevano decisamente al di fuori di quella che era considerata la musica classica accademica del ventesimo secolo, cioè il volgare Pop.

Halber Mensche diventa così un’evoluzione colta, spiazzante, determinata da una consapevolezza di ulteriori necessità, non un vero cambiamento bensì una saldatura composta di nuovi elettrodi fusibili, per poi causare il piegamento di leghe di Nichel e leghe di Titanio per un osceno divertimento bellico. Distruggere per togliere il puzzo umano incosciente, sedato da millenni di comodità e abitudini volgari. Ci pensano gli EN, portandoci nella scuola del rumore dedita alla ricerca sonora, alla contemplazione fuori da ogni logica, dando chiaramente l’impressione di voler creare una generazione violenta, sintetica e anticipatrice di un nichilismo senza possibilità di arresto. Tutto viene facilitato dal punto di partenza: distruggere Berlino usando la fertile cultura che vive nei sotterranei, quella degli anni 70 che osava, creava avanguardie e progettava una vita parallela. Ascoltare questo lavoro è vivere di respiri, infiniti sussurri maniacali che viaggiano nell’addome invocando urla strazianti, coralità come base di risate isteriche e grottesche, per essere liberi di creare lo sterminio di atmosfere surreali, alla ricerca dell’apocalisse. Che verrà.

Abbiamo la sicurezza di essere stati divisi in due e che la metà ancora in vita sia quella cattiva, pesante, devastante e devastata. L’altra metà è rimasta uccisa dalle presse, dallo stress e dai lampi. Il sarcasmo e la dura critica sociale della band le ha chiuso le vene, insieme alla loquacità metodica e capace di spezzarle il fiato. 

Blixa nell’album diventa più devastante, col suo cantato, rispetto ai suoi compagni di avventura, dando alla sua continuità espressiva il ruolo di ricercatore di ossessioni, di limitatore della libertà, come l’antico greco Caronte, trasportando i morti e la morte entro le tracce di questo disco, come se l’appuntamento fosse all’interno del cimitero di Dorotheenstadt.

Che si taccia ora! È tempo di dare senso a questa fiumana di parole, andiamo a spaccare gli  otto pilastri, per guardare i lori interni e avvolgerci nello stordimento.



Canzone per canzone



Halber Mensch


Tutto inizia con un coro femminile a cappella, in una modalità che fa pensare a qualcosa di poco umano, desideroso di creare qualcosa di terrificante, sino a quando Blixa libera tutta la sua intensità e forza evocativa mentre parla della morte dell’intelligenza e di un pensiero che deve conoscere uno spazio maggiormente libero. Vistosa dimostrazione che gli “strumenti” musicali della band potevano conoscere un pò di riposo, offrire una pausa prima di rendere evidente, nell’album, una natura meno incline alla pura distruzione dei lavori precedenti ma non per questo meno “disturbanti”.




Yü-Gung (Fütter Mein Ego)


Ci troviamo davanti a una sorpresa nella loro carriera: ritmo isterico, priva di melodia, un treno che accelera e frena, il cantato che da solo graffia sino al finale claustrofobico. Percussioni sotto forma di loop con inserti synth, nel labirinto di una corsa che sembra uno schianto continuo, consente al combo tedesco la prima vera, e riuscita, canzone che precederà l’ingresso della band verso soluzioni dinamiche diverse e anche di interesse nei confronti di quell’elettronica che sperimenteranno maggiormente in futuro.




Trinklied


Soldati camminano in una marcia ipnotica, tutto ridotto nella strumentazione per affacciarsi a tratti, brevemente, creando poi continuità in un cantato isterico: quando dalla sintesi nasce la base del terrore, un degrado certificato, preludio della successiva Z.N.S.

Un racconto sonoro, sintetico, suggestivo, teso, nevrotico, dove l’attore Blixa mangia il palco con la sua voce, risucchiando ogni atomo di polvere dentro il suo cantato e lo squallore cantato perfettamente.




Z.N.S


La nostra vita viene dichiarata come sfacelo inevitabile, in una nube folle di percussioni che cadono dal cielo, urla scomposte e vibrazioni di pseudo feedback, in una ossessione resa praticabile. Tutto è governato da un continuo schiocco delle dita, una trave viene percossa ossessivamente, un senso di oppressione governa l'ascolto mentre Blixa racconta perfettamente, con enfasi, di una crisi di astinenza da sostanze stupefacenti per rendere definitive tutte le nevrosi e i deliri umani. Incantevole la mancata continuità musicale, che arriva a sprazzi, incendiata da soluzioni nuove, negando di fatto che abbia tutti i crismi della canzone. Diabolica.




Seele Brennt


La forza di una allucinazione governa la potentissima Seele Brennt, manifesto della loro insurrezione, di piani dinamici discontinui e per questo spaventosi, dove l’urlo agghiacciante di Blixa terrorizza appoggiato ad una carica tellurica tenuta quasi nascosta, e poi un colpo di frusta, il via dentro un pianoforte imbastardito. Con un finale che toglie il fiato all’interno di detriti che creano una tensione devastante. La suspense regna dentro dinamiche fatte di pause e riprese del ritmo per convogliare in un caos ragionato. E l’anima brucia in un giorno infuocato dalle schegge insensibili.




Sehnsucht


Abrasiva, maniacale, terrifica e allucinata, un ibrido perfetto tra il post-punk primordiale e l’urgenza distruttiva fuori ogni schema per generare un caos educato alla dipendenza immaginifica, chitarre sghembe e ritmiche (con accordi blues/psichedelici per brevi istanti), contornate da scuotimenti nevrotici sulla voce alienante di Blixa. Presenta una sensualità malata, dalla quale si viene risucchiati, dentro un nucleo teso a sparpagliare minuscoli atomi di melodia, subito abortiti. Una ragnatela sonora dalla quale è un piacere provare dipendenza.




Der Tod Ist Ein Dandy


Il momento più devastante dell'album, ipnotico e necessario per le anime viandanti, una ciminiera al lavoro, dove tutto viene buttato al suo interno.

Si viene soffocati da questa fabbrica che si impegna per schiacciarti, annullarti in un lavorio incessante, nessun riposo, turni continui sino allo sfinimento. Gli assordanti rumori sono alla fine salvifici: meglio morire con questa musica che non inganna come la vita, perché alla fine è celestiale essere triturati dentro la bellezza. Come in una produzione lavorativa dove viene annullato il pensiero, ecco che il brano ci butta in un tornio circondato da frese e altre macchine, dove l’inferno al confronto sembra calmo…




Letztes Biest (Am Himmel)


Dopo la morte causata con intensità, ecco che per l’ultimo brano la band si sente libera di sperimentare un funerale quasi melodico, sul palco di un teatro dadaista, dando modo di anticipare le nuove direzioni artistiche future. Brevi accordi recitati come se fossero un rosario, mentre il cantato si appoggia a un basso scordato e a uno scuotimento frammentato.


Alex Dematteis

Musicshockworld

11 Giugno 2022



Einsturzende Neubauten:


Blixa Bargeld

Mark Chung

Alexander Hacke

N.U. Unruh

F.M. Einheit


Produttore: Gareth Jones


https://open.spotify.com/album/5T06pEavfCaLWxhnq8eNdw?si=lnEGInCyRm6rfBn9PU-hVg








venerdì 10 giugno 2022

La Recensione di Marco Sabatini: Peter Grimes 4 interludes / Benjamin Britten - Echo ‹the Bunnymen

 

La Recensione di Marco Sabatini

Ocean rain- Echo and the Bunnymen meeting Peter Grimes 4 interludes / Benjamin Britten


Sono affacciato davanti al Belvedere di Osimo ma non è delle belle colline marchigiane che si andrà a parlare, volgendo lo sguardo all’indietro posso scorgere uno spicchio di mare perché nelle Marche si sa convivono coste di velluto e irti colli, ok si parte. Peter grimes, Ian Mac Cullough, mari in tempesta, regni che traballano sotto la luce lunare, orchestre che pennellano suoni ricchi di fascino. È giusto che tutto inizi da un'alba Dawn del primo interlude di Britten, 3 minuti e 29 che introducono alla storia del pescatore del villaggio, siamo nel 1830, c'è un processo contro di lui, un ragazzo che è morto sugli scogli, vacilla il suo Regno insieme alla sua sanità mentale e My Kingdom di conseguenza sarà l'ascolto successivo. I’ve Lost and I’ve gained while was thinking - you cut off my hands when i want to twist, avete presente?! Da qui si procede verso mari più tranquilli e siamo al secondo ascolto di Britten, Sunday Morning decisamente più arioso e allegro come il brano forse più conosciuto del quarto album degli Echo and the bunnymen ovvero Seven seas - and stop your tears from stinging - here the caveman singing - good news they’re bringing.

• E la luce lunare del terzo Interlude del Peter Grimes fa calare le tenebre su una bella domenica, moonlight color dell'argento. E arriviamo dunque a Silver, walked on a tidal wave – Daflaughedt in the face of a brand New day - food for survival thoughts - mapped out the place where I planned to stay e arriviamo al famoso la la la la la la la la la la la la la familiare a chi si diletta col karaoke, tutto bene dunque, alla grande? No, per niente, perché arriva il buon Benjamin a portarci in un mare in burrasca, in a Storm, quarto e ultimo interludio; legni che sbattono forte, trombe che impazzano, tamburi che suonano funerei, onde bianche nel nero della notte, vele che si piegano sotto i venti impetuosi. Quindi il finale dai docks di Liverpool, Ocean Rain, ovvero da una tempesta all'altra - all at sea again and now my hurricanes have brought down this ocean rain to bathe me again, possiamo chiudere qua dove la voce di Ian raggiunge vette commoventi tra schizzi di spuma marina e sprofondati in un'amarezza propria del vivere oggi come al tempo del pescatore Peter grimes.


Marco Sabatini

Offagna

10 Giugno 2022





martedì 7 giugno 2022

La Recensione di Giampaolo Ingarsia: Tallies - Tallies

 


Tallies - Una familiare brezza colorata dal Canada

Pomeriggio uggioso in ufficio, auricolari d’obbligo.

Mi alzo per un caffè, lascio la solita cloud radio basata sui miei ascolti.

Rientrato alla mia postazione vengo avvolto da una colorata brezza “manchesterina” intrisa di riverberi e chorus per chitarre melodiose accompagnati da una voce angelica, sembrava, di una ragazzina o una bimba, ma, per intenderci, non come Alison Shaw dei Cranes.

Ovviamente, cotanti colori sonori mi distraggono e smetto di lavorare, godendomi il caffè, ebbro del vapore prodotto da queste piacevoli e lattiginose vibrazioni, familiarmente malinconiche.

Mi accingo, dunque, a identificarne la provenienza.

Pensavo fosse una delle tante band inglesi anni 80 che mi sono sfuggite e che mi sfuggono tuttora.

No: niente Europa (avrei potuto pensare, al massimo, la Scandinavia).
 Ragazzini da Toronto.

Si chiamano Tallies.

Sono in quattro: Voce (ogni tanto aiuta con la chitarra), Chitarra, Basso, Batteria.

Si sono conosciuti a scuola ed hanno sfornato un album nel 2019 e quattro Ep fra il 2021 e i giorni nostri.

Hanno appena rilasciato il nuovo singolo “Special”, completamente in linea con quanto sotto!.

Escono e sono distribuiti da: Hand Drawn Dracula in Canada, Kanine Records negli USA) e la nostra amata Bella Union (Spiritualized, Mercury Rev, Flaming Lips... per citare i più conosciuti e banali) in Europa.

Come accennavo, nuotiamo in un brodo i quali ingredienti sono: la schiettezza degli Smiths, le nebbie scozzesi dei Cocteau Twins e la “malincomelodia” dei Sundays (come loro stessi affermano nella loro bio, sul sito ufficiale).

Niente di avveniristico, dunque.. musica derivativa, OK, ma.. semplice, diretta e spontanea. Composta bene in sala prove e prodotta meglio in studio: bei suoni per tutti gli strumenti e la voce: ottimo mix, bel mastering per tutti i dischi che ho ascoltato.

Mi hanno colpito immediatamente, non solo per indiscutibili ancestrali affinità stilistiche, ma per l’evidente spontaneità con la quale sembrano aver appreso ed assimilato il messaggio di quei cari Robin Guthrie, Mike Joyce, Simon Raymonde, Morrissey o, chessò, Harriet Wheeler e compagnia sia suonante che cantante... giusto per fare qualche banale esempio di riferimento.

Melodie timidamente pop propagate con malinconica spontaneità inzuppata di interessanti riverberi, chorus e flanger (ripeto).

Testi mai pretenziosi, ma non troppo “shallow”, ecco.

Il primo pezzo che mi ha colpito (quello del caffè, appunto) è la assolutamente “CocteauTwinsiana” “No Dreams Of Fayres”, singolo del 2021.

Rimettendomi gli auricolari al momento del primo ritornello, sono stato colto dall’impulso di portare indietro la riproduzione fin dall’inizio.

Un bel riff di chitarra, con un bel suono e atmosfera, ripeto, marcatamente Sundays, Cocteau Twins.

Una batteria vera: di una consistenza decisa e non “vittimista, come le spallucce dei tennisti Italiani” (cit.), suonata con la giusta intenzione e misurata potenza, con tutte le frequenze al loro posto.. davvero un suono piacevole e poderoso, per il genere!

(sono un batterista: sono solito a storcere il naso sul suono delle batterie di molte produzioni shoegaze/dreampop, quando “vere”, in quanto, spesso, troppo eteree e con poca consistenza, ma.. oh, son di parte!).

L’incedere dell’accattivante linea melodica mi mette subito di buon umore, tant’è che mi aiuta a trovare il mood e le giuste parole per una difficile mail “diplomatica” ad un collega scomodo.

Questo per sottolineare che i nostri ragazzi hanno trovato la formula per farmi “vibrare” positivamente, perché, in questo caso, ma anche in genere come spigherò in seguito, dimostrano di suonare la musica di certi ambiti, come l’avrei suonata io.

Il testo, che si esprime come da manuale, nel ritornello, è semplicissimo e delicatamente introspettivo: malinconicamente disilluso.

Niente arcane e complicate figure retoriche simboliche.

Niente artefatti o tecnicismi metrici.

Facile da cantare e non troppo imbarazzante per farlo!
 Amo cantare la musica che ascolto.

Buona anche la struttura armonica: accordi leggibili, linea di basso pulita e coinvolgente.
 Una canzone simpaticamente suonabile con la chitarra in due minuti, ma non per questo banale.

Ripeto e sottolineo che li avevo scambiati per una band “antica” in tutto e per tutto.
 Non so se sono chiaro in questo punto, ma ritengo questa caratteristica come un merito da attribuire tranquillamente a questa giovane band.

Seppur in ambito inequivocabilmente derivativo, dimostrano di “essere nati nell’era sbagliata” (nel senso buono) e questo conferisce loro una consistente credibilità d’ascolto.

Naturalmente mi è subito partita la “scimmia” da novità, che non si è ancora minimamente dissipata due mesi dopo e, per uno che si stanca facilmente come me, è già molto!

Compro immediatamente tutta la loro sparuta discografia liquida (abitando a Malta, trovare i loro vinili è piuttosto difficile.. stendo un velo pietoso sui costi di spedizione - NDR).

Sorridente, speranzoso ed impaziente, mi metto in ascolto del loro, per ora, unico album: “Tallies”, uscito nel 2019.

Lo ascolto tutto d’un fiato per due/tre volte, senza che sopraggiunga mai l’istinto dello “skip track”.

L’essenza sonora della band conferma le impressioni del singolo che avevo ascoltato.

I suoni della sezione ritmica su questo primo lavoro sono più marcati ed incisivi e coccolano maggiormente il mio orecchio batteristicamente interessato, riportandomi a certe produzioni dei Ride o dei Teenage Fanclub (quelli iInglesi).

Lo stesso si può dire delle chitarre (una, ma suonata su più tracce) che si confermano importanti, sempre molto gentili, melodiose e assai penetranti sul mix e nella mente.

Potrei dilungarmi in un’analisi di ogni canzone, perché, davvero, tutte meriterebbero un commento, ma per questioni di logorrea, scelgo, con difficoltà, di commentarne solo una oltre alla simpatica “Mother”, dal bel ritmo un po’ motown, da considerare il “singolo” dell’album, basandosi sulla differenza del numero di ascolti rispetto alle altre.

La mia scelta cade su “Easy Enough”, che chiude il disco ed è anche la più lunga: l’unica che supera i 5 minuti e del quale è stato realizzato un videoclip molto 4AD style.

La più nebbiosa e “potente”, con un bel ritornello e, soprattutto, un bel post-ritornello: elemento strutturale che i ragazzi utilizzano spesso e che apprezzo molto, devo dire.

Il talento del chitarrista (Dylan Frankland), anche produttore artistico e sound engineer della band, si conferma nella linea melodica che qui è particolarmente efficace, alternandosi piacevolmente alla bella voce di Sarah Cogan, che, personalmente trovo piuttosto ammaliante e mai virtuosa.

Melodie colorate, “bagnate” da un utilizzo magistrale dei riverberi, mai troppo esagerato, rendendo l’ascolto piacevole e sempre leggibile.

La loro musica è assai in linea coi layout delle loro produzioni che occhieggia, nemmeno tropo velatamente, a certa familiari 4AD, MUTE o Beggars Banquet dei tempi migliori.

Non potendoli vedere dal vivo, mi sono prodigato a cercare qualche loro live (del quale potrò fornire i links volentieri).

Sempre piuttosto composti, ma soprattutto sinceri e appassionati.

Specialmente batterista e bassista (quest’ultimo credo sia cambiato nel tempo): ognuno dei quali è sempre completamente calato nel turbinio proprie emozioni.. persone evidentemente molto, molto timide!

Tutti quattro globalmente molto precisi ma non virtuosi.

Molto coinvolgenti.

Sarah canta molto bene anche dal vivo (cosa non trascurabile).

Suoni sempre ben curati..

Magari avrei gradito qualche variazione in più nelle versioni live delle canzoni rispetto a quelle su disco,

Ma... vabeh, ci sta!

Andrei comunque a vederli volentieri se fossero vicini o in situazioni molto molto comode; certamente non prenderei un aereo apposta per muovermi in caso di loro concerti a Berlino, Parigi o Londra, come ho fatto, ad esempio, per altre band anche “non
enormi“ (come ho fatto ultimamente per Twilight Sad o Calexico - OT).

Forse il look del bravo Frankland, che ho scoperto avere un passato in una band punk- hardcore, a tratti, potrebbe sembrare un po’ forzato, ma alla giovane età ed alla sincerità artistica, IO, perdono tutto, specialmente quando vengo così piacevolmente coinvolto dalle sonorità.

Ripeto per l’ennesima volta: sto scrivendo di una band il cui nome, magari non verrà impresso sugli annali della storia del Rock, ma, sicuramente vibrano di bei suoni ammalianti, colorati e malinconici.

Ottima colonna sonora per le giornate degli appassionati di certe atmosfere vicine alle band e, generalmente, delle case discografiche sopra citate.

Ci si affeziona con facilità, ecco.

Mi è sembrato di conoscerli e di ascoltarli da sempre, che facciano parte del mio imprinting sonoro.

Scoprirli, invece, così giovani, conferisce loro un fascino particolare.

Insomma un ammaliante e coinvolgente “niente di nuovo”.

Non suonano “nuovi” come potrebbero le Wet Leg , magari

(Mah, forse, anche loro, in fondo.. così nuove, nemmeno... diciamo che “osano” di più).

Il“niente di nuovo” dei giovani Tallies, però, è ben suonato, sincero, spontaneo, lucido e nebbioso al punto giusto.

Bravi!

Canzoni semplici con il potere di farsi ascoltare per ore.


Giampaolo Ingarsia

Malta

7 Giugno 2022


https://open.spotify.com/album/5eC8BJIxShy2t6Oh3x5Hpx?si=hFJqV_fWRYmku-mzdV4Tiw







domenica 5 giugno 2022

La mia Recensione: Franco Battiato - Come Un Cammello In Una Grondaia

 La mia Recensione:


Franco Battiato - Come Un Cammello In Una Grondaia

1991


Questa volta a volare nella pancia sono dei grilli e non delle farfalle. Ci sono salti necessari da fare all’interno dei labirinti dei nostri pensieri, quelli che abitano al centro del nostro corpo per quelle attitudini antiche che in qualche modo chiedono il ritorno dei nostri approcci sempre più stanchi.

Tutto ciò che è ingresso costa fatica, frutto di una necessità che è stata specificata, spostamenti, accoglienze sempre più notevoli che mutano con il passare del tempo. Esiste una grammatica e una ricostruzione, che è resa possibile da manifeste capacità di distanziarsi da ciò che è caduto in basso, nella zona mista tra la vergogna e lo schifo. In tutto questo, che pare essere un delirio senza senso, trova ragion d’essere un insieme di eleganti e voluminose bacchette magiche dal sapore amaro, che solitamente chiamiamo canzoni.

Sono scariche elettriche romantiche, perlustrazioni multiple di un divenire sempre più sconnesso dalla qualità di un’esistenza possibile, in cui il maestro, il mago delle connessioni Franco Battiato, ancora una volta trova modo di presentarcele pur sapendo che mancherà un’effettiva capacità di comprensione. Il nostro ascolto diventa il luogo di questi grilli affamati, vestiti di domande con le mani sudate, nei confronti delle quali Franco consegna la sua sapienza e il suo sguardo che non è incantato, ma sospettoso e pesante per renderle impossibilitate a ricevere risposte.

Battiato compie un miracolo di intelligenza non richiesta dalla massa e perciò pericoloso e sempre prossimo allo scarto: riesce a fare della nostra mente un cammello che troverà sempre disagi per limitarne i movimenti e le propensioni.

Per questo suo giardino dai frutti succulenti e dolcissimi, scrive otto pellicole sulle quali riesce ad imprimere la sua saggezza e al contempo la distanza da questo continuo gravitare verso la nullità. Non gli rimaneva quindi che un lungo elenco di scintille buie nelle quali nessuno di noi poteva veramente trovare una luce, se non percorrendo il suo stesso sentiero luminoso fatto di spiritualità e ricerca della verità. Ma all’ignoranza non è possibile accostare la luce. La volgarità è quella che crea l’ombra e che seduce la gentilezza per affossarla, come se delle sinfonie perdessero l’abilità di essere sacre e si trovassero nel Mediterraneo della confusione.

Franco raggiunge il vertice del suo pensiero in questo album, un rabdomante pieno di risorse che mostra dove non si trovano le gocce di saggezza, ma solamente lo sperpero. Si trova costretto a condannare, a prendere distanze, a seminare ipotesi e contemplazioni con la consapevolezza di dover parlare lingue diverse, in un tentativo continuo di non lasciare il mondo senza messaggi da condividere. Un insieme di canzoni pregne di fatica e argomentazioni, distributori collegati di un cammino che potrebbe costringerci a scartare, a rivedere la nostra indifferenza innanzi ai fatti che si compiono.

Profumi di sintonie avvinghiate alle sinfonie visitano il piano musicale che viaggia a basso ritmo, mentre le parole sono schegge velocissime che ci fanno saltare in aria. Il poeta catanese raccoglie melodie come preghiere svuotate di inutilità onnipresenti nel suo sterile esercizio di approvvigionamento umano, per indicarci zone intossicate da cui separarci.

Da chi aveva fatto della musica Pop un esercizio di limpida bellezza, non potevamo forse aspettarci un trittico spirituale di questa natura e in questo album ci ritroviamo senza la batteria, ma con parole e arie che ci fanno battere le mani con il nostro ritmo interiore. Pure il basso viene lasciato in cantina e salgono in cattedra orchestrazioni classiche di un altro maestro: Giusto Pio. Si aggiungono poi quattro affreschi ottocenteschi, denominati lieder, composizioni per voce e pianoforte, che la voce di Franco rende simili a impianti moderni di forma canzone senza rinunciare allo stato di purezza classica.

Wagner e Martin, Brahms e Beethoven sono i generatori di visitazione di un tempo nel quale era possibile nutrirsi di musica come forma di contatto con la zona della contemplazione. Battiato ci ha appoggiato parole e un cantato che può avere luoghi impervi nell’ascolto di chi non è abituato a unioni molecolari di questa fattura. Una forma di apertura generosa verso un anacronistico bisogno di tornare a forme di suono e movimenti che separano la musica dalla sua banalizzazione. 

Dividendo l’album in due parti, l’artista baciato dalla bellezza di una mente lucida ci fa entrare nella complessità delle discipline musicali creando il presupposto per frustrare la nostra pazienza: non è una sorpresa che questo album non abbia venduto molto (le classifiche parlano del decimo posto, ma come numero di copie molto meno di altri), sottolineando l’imbecillità di chi davanti a ciò che appare “difficile” preferisce la più facile fuga.

Ma questo è il ruolo di chi non concede alle persone bolle vuote di senso: Franco invece con le sue grandi mani ha costruito canzoni come scosse, come inviti di sentieri da percorrere dentro le nostre anime soporifere.

Raffinato, potente, di difficile gestione, portato per indole a far assentare la nostra frenesia, questo fascio musicale attraversa il buio storico e contemporaneo della banalità umana che ha avuto la propensione allo sperpero di qualità donate dalla natura. Punta il dito, schiaccia le nostre fragilità elencandole e cammina sospeso nell’universo dove la sua arte ha trovato residenza. Così, da distante, riesce a trovare le molecole di ogni fragilità donandoci la possibilità di riconoscere le nostre malvagità. Fa meno della facilità di canzoni usa e getta per assestare un duro colpo all’apparato uditivo, conscio di aver trovato il pertugio giusto nelle nostri menti e nei nostri cuori perché ogni essere umano può essere incline a ravvedersi.

Ci si sente piccoli all’ascolto, come se questo lavoro avesse il potere di ridimensionare il nostro cammino, si perde il senso di appartenenza e ci si ritrova a dover governare lo smarrimento, l’interrogazione della nostra coscienza, a dover perlomeno provare a disintossicare le strutture comportamentali di un atteggiamento che ha offuscato il vero piacere e l’incontro con se stessi. 

E poi la voce: sottile più che mai, nervosa, scattante, dilatata, come una fiamma che contempla la forza senza dover urlare perché a quello ci pensano molto bene le parole. Si ha l’impressione che esca dallo smarrimento, che entri nel rifugio di una conquista che vuole condividere e fortificare. Anche quando canta in altre lingue il senso del possesso di ciò che trasmette è chiaro, vistoso, destinato a fare centro nei nostri ascolti. Usa le onde del suo spirito per farle uscire da una bocca che, commossa, ci commuove, per spalancare i nostri respiri verso uno smarrimento purificatorio ed essenziale. Ferisce, e non poco, sentire che le parole pesanti conoscano una tale leggerezza: una scelta voluta per farci acquisire la consapevolezza ricevendo una sberla colorata di dolcezza.

Il piombo con Franco può diventare una goccia sulla sabbia, una trasformazione quasi invisibile se in noi esiste l’approssimazione: dovremmo come minimo porgergli rispetto e abbassare le orecchie, insieme all’arroganza. Siamo senza difesa con questi minuti: l’incertezza che ci governa trova episodi che ci mettono al centro di un ring, colpiti e messi al tappeto, frase dopo frase, nota dopo nota, dove la quiete nostra sembra scomparsa davanti al dolore. Che aumenta, senza tregua, seppure la tregua ci venga offerta come opportunità e forma di riscatto necessario.

Il dipinto della copertina dell’album (opera dello stesso cantante) è una bomba cromatica, lenta, tra le dune dove un cammello guarda al futuro carico di colori ed una coperta per proteggerlo: anche qui l’indispensabile viene rappresentato. Un cammino necessita di una direzione e poco altro.

Via le cose inutili, ci si tuffa dentro a ciò che conta per davvero senza aggravare la postura mentale e fisica, per essere leggeri e snelli.

Apri la busta del vinile e ti trovi immerso in labirinti dove la possibilità di uscirne è affidata alla nostra abilità: lui ci mostra i vicoli, le siepi, le ombre, ci regala l’odore dello smarrimento ma ci nega le chiavi per aprire questo mistero. E ci invita a un piano delle cose che abbandonano le proprietà. La nostra immortalità si presenta nelle sue convinzioni, ce ne fa dono e ci solletica lo sguardo, con la leggerezza di chi ha capito. Un disco come incantesimo, di eterna propensione, capace di dividere le acque: nessuno chiede miracoli se non la propria maturità e in queste canzoni vediamo l’accessibilità verso migliorie dalle braccia aperte. Il suo guadagno interiore non è mai segno di speculazione ma un affare privato, dove non esiste la moneta ma il valore di una identità elevata a essere non merce di scambio di un banale baratto bensì l’occasione di aprire il cielo.

Le musiche dal sapore medievale e arabico sono solo un ponte temporale e spaziale, uno stratagemma intelligente per donarci antiche fascinazioni. Tutto in queste otto tracce diventa il respiro dentro una reincarnazione, uno scatto verso la presa di posizione che ci eleva: ogni episodio è una chance per capire, per confluire in una scia magica e cruenta, un cavatappi per aprire i liquidi addormentati dai sapori magnifici abbandonati nelle nostre vene. Canzoni appassionate, legate tra di loro da un’armonia che conosce leve nuove con il suono di una antichità che ancora può risultare utile.

Franco Battiato ha deciso di non abbandonarci mai e con questo suo capolavoro (sì, è giunto il tempo di affermarlo) ci ha avvolto in un abbraccio che attenderà millenni e millenni per essere condiviso, perché l’eternità significa opportunità…

Con paura, pudore ma rispetto mi accingo a visitare le sue canzoni consapevole che la mia perdizione troverà il suo sorriso, breve, potente, ma necessario per me…



Song by song


Povera patria


Abbandonato il periodo sperimentale e pop, ecco che l’aspetto religioso/filosofico prende il sopravvento con una attenta cura nello specificare anche quello intellettuale.

Il suo sedicesimo album inizia con una musica dolcissima e un testo che gli si oppone con una propensione alla rabbia e alla quasi rassegnazione.

Scuote e dona la certezza di occhi vigili sul fare spietato di un essere umano caduto in rovina. È una freccia che cerca di formare una bomba atomica comportamentale: il risultato è lasciato a un destino che sotto la sua pulsione inarrestabile devasterà ogni atomo di questa arma primitiva, con corpi in terra preceduti da menti già arrese…


Le sacre sinfonie di un tempo


Con un inizio ambient/new age  e di derivazione classica, queste note sono una culla che si avvolge in una giostra che si rivolge alle tenebre e la voce di Franco padroneggia le parole con determinazione su una scia fasciata di tristezza. 

Il lavoro di un arrangiamento quasi nudo evidenziano che l’accoppiamento testo/musica è purtroppo perfetto lasciando all’ascoltatore del catrame sui pensieri.


Come un cammello in una grondaia


Questa musica serena, su un territorio proveniente dall’amore per la musica classica, porta ossigeno e un elegante paio di ali per un’anima in partenza. Gli archi salgono in cattedra per prendere le parole e condurle nel cielo dove le tentazioni cedono. È una canzone che sospende l’affanno e la vivacità per divenire un terremoto acclamato a gran voce dalla coscienza di Franco, che si separa definitivamente dall’essere partecipe di deliri. 



L’ombra della luce


A far divenire senza dubbio una pietra miliare questo album ci pensa questo pianto dal sorriso che supplica considerazione. Devastante, come una marcia funebre senza intenzione di cessare questo rito, il brano tocca la vetta di una intera carriera. Sacra, lunare, mistica, come una coperta che viene buttata per terra per rivelare il corpo umano capace di abbandoni, uccidendo la possibilità di condivisioni continue, la canzone prende la mediocrità e la forza e le mette sotto un riflesso di luce per offrire l’ultima possibilità di scelta. È il definitivo appuntamento per un riscatto, mentre l’infelicità aspetta diabolicamente la morte di quel fascio luminoso.



Schmerzen 


La poesia di Mathilde Wesendonck stipula un contratto possente con Richard Wagner per dare a Franco un canto in lingua tedesca, rivelando la dolcezza e sposando la musica classica per guardare il mondo da un cratere lunare. Archi che marciano quasi austeri per poi aprire le tende del paradiso sulla leggerezza di una interpretazione clamorosa da parte del cantante siciliano.



Plaisir d’amour 


Per il secondo Lieder arriva un altro compositore tedesco: il potente Jean Paul Martin consente a Battiato di cantare questa volta in francese su un testo di Jean Pierre Claris de Florian. Ed è la primavera notturna che visita il silenzio donandogli pennellate vibranti in attesa del giorno. La passione del cantautore catanese trova il terreno su cui poi tornerà per rivolgersi alla canzone popolare francese qualche anno dopo, svelando come la musica classica tedesca possa abbracciare la nazione francese per creare il bacio accademico dell’arte. Una poesia che grandina sui pensieri in pausa. Ed è un piacere che ci consuma le forze denudando i nostri impeti verso i rumori. Maestosa.



Gestillte sensucht


L’immenso pianista di Amburgo, il direttore supremo dei sogni, entra nell’album con una delle sue più magnetiche composizioni. Questa volta il testo è dello stesso Battiato. Si viaggia sulle dune di sabbia, dove lo spirito danza lento sulle piume dei sogni per farci chiudere in un sonno ristoratore. Per poi accelerare e diversificare la sua struttura e strattonarci con dolcezza.



Oh Sweet Were the Hours



Connettere tre personalità come Beethoven, William Smyth e Battiato è qualcosa di inimmaginabile. Per l’ultimo brano la musica presenta un impalcatura fatta di gocce di piano sulle ali di violini pacifici e la voce di Franco che allunga le sillabe rendendole magiche, per poi concedere l’ingresso di un coro che cementa la forza e l’eleganza di un abbraccio cosmico su parole magnetiche.



Raggiunta la perfezione con questo album, non era semplice mantenere queste vette per un’anima continuamente alla ricerca di espansione delle sue necessità di formare il suo spirito. 

Ma l’impresa più grande non è raggiungere una vetta, bensì voler concedere all’eternità la capacità di lasciare questo corpo libero di osservare il mondo per sempre da quel luogo. Ed è da lì che vigila Franco Battiato, dal suo cammello sulla cima dell’Everest mentre noi, sconfitti dal nostro egoismo, non abbiamo ascoltato bene le parole di questa opera  continuando a sconfiggere i suoi nobili e altissimi concetti.

Siamo noi che l’abbiamo abbandonato, ma lui rimarrà la nostra luce…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

5 giugno 2022


https://open.spotify.com/album/7CdGW9JRoTbqk2v5imOHQd?si=DnizsVYqQaGt6X5JdM3FOg






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