sabato 23 luglio 2022

La mia Recensione: Tuxedomoon - In a Manner of Speaking

 La mia Recensione:


Tuxedomoon - In a Manner of Speaking


 L’abbandono: questo mistero che parte dalla fisicità e arriva ai sensi, sostando nella mente come libertà, nel caso sia stato scelto. E allora tutto pare un nuovo cosmo che lubrifica le possibilità, arrivando ad essere pura genialità anche solo per averlo ritenuto possibile.

 È quello che hanno fatto i Tuxedomoon nel 1985: nuove fiammate creative ma senza considerazione per quello che era stato composto in precedenza, per una carriera che aveva generato clamori, gemme di piena avanguardia sonora, trame artistiche poi studiate e copiate da molti, per un insieme perfetto di post-punk e cabaret sino ad approdare a espressioni di elettronica diversa, valida, sempre oscura. Avevano portato la paura e il terrore nei loro Live set e la loro musica era studiata, rispettata e in grado di sconvolgere. 

 Invece nell’album Holy Wars arriva l’eleganza, la ricerca della “bella” canzone e forme multiple di sentimenti a rendere le cellule sonore dipinti dall’ombra decadente e piovigginosa, il passo della vecchia Europa che si mette l’abito per andare a bere un cocktail tra la polvere grigia di una stagione con poca luce. Dove i Japan e i Wall of Voodoo sembrano presenze poco velate, i Tuxedomoon spingono verso la frammentazione degli antichi slanci e si rotolano nel fango della ispirazione per respirare progetti che li porteranno a separarsi dal passato in modo definitivo.

 Il brano in oggetto è la summa dell’intero lavoro, lo specchio di una decadente propensione alla confidenza, il posare le maschere su un lettino dove l’amore risulta finito con in dotazione solo domande. Il fuoco dei ruoli, la responsabilità e le conseguenze di tutto questo viaggiano dentro la nebbia sonora della voce incatramata e piangente di Winston Tong, nel momento più lucente della sua carriera, con i lavori spigolosi/destrutturati di Peter Dachert e la meravigliosa esplosione di sibili taglienti di Luc Van Lieshout, il flauto spaziale di Bruce Gedulgig e il controcanto di Steven Brown a regalare maggior pathos.

 IAMOS è una marcia che si prende subito una pausa, entra nella piramide egiziana per seppellire il dolore e parlare con l’eternità, il medico seduto accanto al lettino. Una cantilena che abbraccia togliendo il fiato, sbattendo contro il muro di parole che cercano il vuoto per morire, insieme a noi.

Quando una canzone arriva a sintetizzare una vicenda comune ecco che si genera il contatto con l’evidente stupore, il riconoscersi che non ci rende più unici. Il percorso artistico però fa proprio questo: il tema portante del testo si impossessa della pelle di molte anime, unendole.

 La litania di Winston diventa il chiodo sulla pelle in una settimana fatta solo di lunedì, dove il riposo del weekend non si può nemmeno intravedere e la voce di Steven sembra quella di un Gavin Friday educato: tutto nelle parti cantate serve per conferire alla musica il ruolo di spatola e culla amniotica, in una aspra convivenza che gratta la luce.

 Come una danza macabra di un film di Sergio Leone, le note musicali diventano immagini che escono dalla pellicola per sprofondare dentro una sconfitta dalla perfetta colonna sonora, con due mantra diversi che si dividono la strofa e il ritornello.

 Il brano, lucente di una straordinaria declinante bellezza, sembra la raccolta di lacrime copiose che si sono date appuntamento proprio in queste note: tutta la frustrazione dell’ascolto ci porta a fasciare di rose l’involucro per non dimenticare il nostro destino che è incastrato perfettamente nelle parole “Give me the words that tell me nothing”, dimostrazione assoluta del vuoto di cui ci impossessiamo con la comunicazione.

 Ci ritroviamo con i battiti ingobbiti e le mani arrese, con questo suono che sembra il canto del vento del funerale che viviamo giornalmente, senza alcuna consapevolezza. E la paura diventa una lezione conscia stabilita da questo pulsare tenebroso, questa mancanza della batteria che annulla il tempo ci priva di ogni danza per dondolare tristemente nella melodia che ci percuote molto di più. Il rimprovero accennato dal testo diventa anche quello degli strumenti, un vagare dentro spalle che si stringono perché è consapevole del fatto che sbagliare sia solo il frutto di una pochezza che sembriamo negare. 

 L’amore che non parla ma che definisce la realtà e forse la verità lascia nel testo un senso pesante di sgomento, un brivido che approda al terrore accennato, dove nessuna sentenza pare definire gli accadimenti. Fascino, attrazione, sconvolgimento si riuniscono nella gola di Winston per incendiare il buio di questa storia, vista dalla tenebre di una canzone che risulta alla fine una frusta su cicatrici in espansione. Ci possiamo accontentare della bellezza artistica quando poi ascoltando il brano siamo circondati da pallottole di vetro, quelle di uno specchio grande come il pianeta in cui viviamo, che ci mostra chi siamo in realtà? Allora sì che il nostro modo di sentirsi può essere sacrificato, come sentenzia il testo, per avere un mondo senza parole, un buio semovente che cancella l’udito. Come se provenisse dalla coscienza senza tempo del franare umano, la canzone sembra essere una Divinità che lascia cadere pillole di saggezza che dobbiamo imparare a masticare, digerire, sino a contaminarci di quella profondità che la condizione umana non ci permette.

 I Tuxedomoon scrivono il comandamento che lo stesso Dio non ha osato creare: affannarsi per trovare il modo di dire parole che stabiliscono il vuoto forse è un processo evitabile e la meraviglia implosa di questo fiato sonoro che si chiama IN A MANNER OF SPEAKING potrebbe divenire la saggezza che dentro la culla del fiume Nilo ci porta a passeggio nel mondo, bocca chiusa, la speranza pura, sino a quando un flauto si spegnerà dentro di noi…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

23 Luglio 2022





In a Manner of speaking

I just want to say

That I could never forget the way

You told me everything

By saying nothing

In a manner of speaking

I don't understand

How love in silence becomes reprimand

But the way that i feel about you

Is beyond words

O give me the words

Give me the words

That tell me nothing

O give me the words

Give me the words

That tell me everything

In a manner of speaking

Semantics won't do

In this life that we live we live we only make do

And the way that we feel

Might have to be sacrified

So in a manner of speaking

I just want to say

That just like you I should find a way

To tell you everything

By saying nothing.

O give me the words

Give me the words

That tell me nothing

O give me the words

Give me the words

Give me the words


https://youtu.be/1ak1bckaKS4





venerdì 22 luglio 2022

La mia Recensione: The Fall - Copped It

  La mia Recensione:


The Fall - Copped it


 Il dovere di avere una spina dorsale mentale sempre presente rappresenta un appuntamento giornaliero per ogni mente evoluta.

 Nella trafficata, altamente qualificata carriera dei The Fall, la meteora selvaggia, seducente e affascinante, ancora inesplorata vista la sua incredibile abbondanza di misteri, arrivò un album esaustivo come The Wonderful and Frightening World of…, nuova atomica cinese a renderci ammaliati, storditi, necessariamente votati alla riflessione.

 Questa volta vi parlo di una canzone inclusa in questo capolavoro di coscienza sociale che si intitola Copped It, la frusta sonica che gratta e sconvolge, avvolge e ci butta nel fango.

 The Fall in strepitosa forma cacofonica, un alveare sonoro che tritura e soffoca, veicolando dolore che risulta essere anche piacevole. Qui ascoltiamo la classe che divide il tempo dallo spazio dove la rappresentazione musicale riesce a sconquassare, tra bagliori 60’s con i coretti verso la fine, un basso mangiafuoco e la chitarra gravida di rock americano ammaestrato,  con il regalo della voce di Gavin Friday a rendere ancora più tesa e nevrotica la delirante esibizione di polvere da sparo. 


 Un furto, da specificarsi nell’abilità del testo (una scheggia impazzita tra realtà e fantasie accese al massimo dei watt disponibili), e la tensione di fili elettrici scoperti che rubano a loro volta onde magnetiche lasciate parcheggiate nel post-punk americano e la follia evoluta dei Devo come attitudine. La voce di Gavin si trova perfettamente a proprio agio con quella di Mark E. Smith, qui davvero rappresentante e benefattore come se fosse un Robin Hood sceso nei giorni nostri.

 Il suono diventa una profezia, tra futurismo e caos generazionale di sobborghi impolverati ma intenti a riportare alla consapevolezza qualsiasi strato sociale, con un fare da impenitente bullo strafottente e quindi artisticamente perfetto. Tutto l’estremismo dei The Fall qui trova un catino di accoglienza dove la melodia è un osso raspato che fa irritare gli occhi: una cantilena in mezzo a schizzi di parole e note musicali anarchiche che gravitano nella follia senza sosta.


 Il mondo, nel titolo dell’album, è rappresentato in modo perfetto in questa canzone: povero, imbroglione, sempre di corsa, una lista che presenta il conto della precarietà umana. La voce di Mark diventa una mannaia ma gentile, acuta e stridente, perfetta su parole vomitate per rimpicciolire la nostra condizione e per darci uno scossone. Come al solito non viene concesso spazio all’easy listening e il marchio di fabbrica della band Mancuniana ancora una volta ci dà sollievo: le inutilità e la superficialità non entrano nel circolo di una classe sempre più unica e straordinaria. 

 Copped It è una grossa  lama che taglia le orecchie e le fa sanguinare: nessuna concessione alla pietà per un insieme di isteriche presenze verso suoni atti a demolire i demoni della superficialità. Una danza ipnotica che elimina il virus della imbecillità. E ancora una volta i The Fall anticipano tendenze, modalità e ingrossano le possibilità di fare della musica un cielo tremante e stordente. La malcelata delusione di Mark torna a presentare il suo volto scavato con un brano che conosce l’abilità di essere diretto, senza giri di parole, senza orpelli, pieno di crudezza che schiaffeggia e ci rende più consapevoli, l’ennesimo atto d’amore obliquo che rischia come sempre di non essere compreso. La band se ne frega e, in modo compatto, scrive un altro memorabile atto di guerra proveniente da una razionalità più viva che mai. Se il cuore può avere lacune gli vengono perdonate, Mark, il cavaliere con la mano che lancia sassi continuamente, non concede sconti alla mente e getta il suo sale velenoso con un’altra   grandiosa canzone. L’inimitabile mondo dei The Fall non concede spazio a cadute di stile: lo dimostra anche questo brano che con l’ascolto ci afferra i polsi e ci conduce ad una danza spastica, scomposta, assurda ma che scuote le nostre divagazioni. È tutto un privilegio continuo che aumenta secondo dopo secondo e averlo dentro di sé è come portarsi a casa una Gioconda: impossibile non immaginare il poeta dalla lingua acuta MES sorridere sornione, lanciare parole come birre in faccia a chi crede di ascoltare una semplice pop song.


 Si parla di plagio e i riferimenti sono molteplici, e Mark ancora una volta stabilisce che una corrente confusa possa essere il giusto percorso per fare del senso di colpa non un affare bensì un danno: punta il dito senza assolversi, incoraggia a rendersi conto davanti all’inevitabile viale di parole e musiche che possono già essere state presenti, ma conferisce al suo inimitabile stile la possibilità di considerare tutto autentico e non accostabile ad altri. È anche in questo che risiede il suo talento e che gronda di dolore e grandezze appicciate insieme, nel matrimonio artistico che concede un continuo prendere, saccheggiare con il motivo di rendere edotti, un Robin Hood (appunto) che agisce coscientemente non avendo paura di sporcarsi le mani: c’è da vedere il mondo come un posto diverso e migliore, dove la ricchezza e la povertà siano spartite senza differenze di livello. Il rock proposto dal lato di un servizio sociale, mostrando lineamenti comuni, dove nessuno spicca per bellezza bensì il contrario, per rendere ancora più chiaro che nella zona grigia dell’uomo di Salford (poi Prestwich), vivono progressioni diaboliche che lo rendono un Samaritano che chiude le mani per sferrare pugni: non è sempre la pietà il modo giusto per sistemare le cose e lui lo sa benissimo. E allora che l’ascolto di questo missile dalle rughe profonde sia un furto legalizzato e che dia ai vostri pensieri spazi per scrollarsi di dosso il puzzo di chi si crede salvo…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

22 Luglio 2022


https://youtu.be/rwdsyU2hzIQ






My Review: The Fall - Copped It

My Review


The Fall - Copped it


 The duty to have an ever-present mental backbone is a daily appointment for every evolved mind.

 In the busy, highly qualified career of The Fall, the wild, seductive and charming meteor, still unexplored given its incredible abundance of mysteries, came an exhaustive album like The Wonderful and Frightening World of..., China's new atomic bomb to make us bewitched, stunned, necessarily devoted to thought.

 This time I am telling you about a song included in this masterpiece of social consciousness entitled Copped It, the sonic whip that scratches and shatters, envelops and throws us into the mud.

 The Fall in resounding cacophonic form, a sound hive that mashes and suffocates, conveying pain that turns out to be pleasant as well. Here we can listen to class that divides time from space, where the musical representation succeeds in shattering, amidst 60's flashes with choruses towards the end, a fire-eating bass and a guitar pregnant with trained American rock, while the gift of Gavin Friday's voice makes the delirious gunpowder show even more tense and neurotic. 


 A theft, to be specified in the skill of the lyrics (a loose cannon between reality and fantasies turned on at the maximum of the available watts), and the tension of exposed electric wires that in turn steal magnetic waves left parked in American post-punk and the evolved madness of Devo as an attitude. Gavin's voice is perfectly at ease with the one of Mark E. Smith, here truly a representative and benefactor as if he were a modern-day Robin Hood. 

 The sound becomes a prophecy, between futurism and generational chaos of dusty suburbia, but intent on bringing any social stratum back to consciousness, with an unrepentant and impertinent bully attitude that is therefore artistically perfect. All of The Fall's extremism here finds a welcoming bowl where melody is a raspy bone that irritates the eyes: a chant amidst splashes of words and anarchic musical notes that gravitate tirelessly towards madness.


 The world, in the album's title, is perfectly represented in this song: poor, cheating, always on the run, a list that presents the bill for human precariousness. Mark's voice becomes a cleaver but gentle, sharp and strident, perfect on words thrown up to shrink our condition and shake us up. As usual, no room is given to easy listening and the Mancunian band's trademark once again provides us relief: futility and superficiality do not enter the circle of an increasingly unique and extraordinary class. 

 Copped It is a big blade that cuts the ears and makes them bleed: no concession to pity for a set of hysterical presences towards sounds suitable for demolishing the demons of superficiality. A hypnotic dance that eliminates the virus of imbecility. And once again, The Fall anticipate trends, modes and swell the possibilities of making music a trembling, stunned heaven. Mark's ill-concealed disappointment returns to present its hollowed face with a song that knows the ability to be straightforward, without mincing words, without frills, full of rawness that slaps and makes us more aware, yet another unclear act of love that risks, as always, not being understood. The band doesn't care and, in a compact way, writes another memorable act of war coming from a rationality that is more alive than ever. If the heart can have shortcomings it is forgiven for them, Mark, the knight with the hand that continually hurls stones, grants no concessions to the mind and throws its poisonous salt with another magnificent song. The inimitable world of The Fall concedes no room for lacks of style: this is also demonstrated by this track, which grabs our wrists as we listen to it and leads us into a spastic, unhinged, absurd dance that shakes our ramblings. It is a continuous privilege which increases second by second and having it inside you is like taking home a Mona Lisa: it is impossible not to imagine the sharp-tongued poet MES smiling slyly, throwing words like beer in the face of those who think they are listening to a simple pop song.


There is talk of plagiarism and the references are many, and Mark once again establishes that a confused current may be the right way to go to make guilt not a bargain but a detriment: he points the finger without absolving himself, he encourages people to realise the inevitable path of words and music that may have already been there, but he gives his inimitable style the ability to consider everything authentic and not comparable to others. It is also in this that his talent lies and that it drips with pain and greatness strung together, in the artistic marriage that allows a continuous taking and plundering with the reason of making us aware, a  Robin Hood (precisely) who acts consciously by not being afraid to get his hands dirty: it is necessary to see the world as a different and better place, where wealth and poverty are shared without differences of level. Rock proposed from the side of a social service, showing common features, where no one stands out for beauty but the opposite, to make it even clearer that in the grey area of the man from Salford (later Prestwich), diabolical progressions live, making him a Samaritan who clasps his hands together to throw punches: pity is not always the right way to fix things and he knows it very well. So may listening to this deeply wrinkled missile be a legalised robbery and give your thoughts space to shake off the stench of those who think they are safe...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

22nd July 2022


https://youtu.be/rwdsyU2hzIQ






martedì 19 luglio 2022

La mia Recensione: Faust’ò - Suicidio

 Faust’o - Suicidio

1978


Ci sono artisti e album che sono fondamentali, aprono finestre, cambiano le nostre vedute, sono sintonizzati con le nostre inconsce richieste, sono regali fissati nel tempo, destinati a non sparire, un abbraccio che silente o logorroico che sia circonderà per sempre le nostre esistenze.

Nella seconda metà degli anni 70 gli artisti italiani cosiddetti ( e allora davvero erano così ) Alternativi cercavano la loro strada consci o meno che tutto odorava di rischio, intriso di incertezza e di dubbi a volte anche opprimenti.

Poi Faust’o lui, si, davvero era un Artista unico per moltissimi motivi, avvolto nella sua profonda coscienza e conoscenza, con un punto di vista del Sociale e del Personale che non aveva pari in quel momento. Il suo album di esordio ancora oggi suona come un fulmine in un periodo davvero buio; fu un lampo non visto bene, incompreso, una occasione persa per ringraziarlo per un talento compositivo davvero unico, insieme a dei testi che davvero si contrapponevano ad un Sistema che ha avuto vita facile nell’ostacolarlo: Fausto era pericoloso perché diritto, diretto, sincero, una lente di ingrandimento che rendeva  visibile quello che accadeva in Italia, qualcosa che faceva il ben più famoso Giorgio Gaber in uno stile diverso ma con la stessa capacità e volontà di scoperchiare la sporcizia dilagante che nasconde il vero e fa passare per vero il falso.

Suicidio è un album punk nel concetto, post punk e new wave nei suoni e nello stile, sperimentale, che guarda indietro nel tempo solo dove serve, che sa essere al contempo un esempio di freschezza, uno stimolo pazzesco per molti Artisti e non solo Italiani. È un Artista dal talento puro, che ha pagato di tasca propria la sua penna tagliente; non è stato considerato come avrebbe meritato perché scomodo, un urto fastidioso per chi la musica la vedeva come un passatempo che non deve toccare certe zone del Sociale, del Comportamento e del Pensiero comune.

Io semplicemente adoro questo album che è divenuto sin da subito essenziale, il mio album Italiano preferito degli anni 70 senza dubbi.

Purtroppo ancora oggi può dare fastidio, essere una lama nel ventre perché non è poi cambiata molto l’attitudine nel voler conoscere solo ciò che non ci urta, sembra ancora inevitabile che le cose ci debbano solo piacere perché non scomode...

Se volete fare uno scatto verso un luogo nel quale imparare davvero qualcosa che si rivelerà prezioso e credo pure fondamentale allora non esitate, questo album è pronto ad essere ascoltato da quella maggioranza di persone che preferiscono non scottarsi...qui lo stomaco si appiccica al dolore, storie che svelano quello che è preferibile non conoscere, canzoni di solitudine, di tristezza, di sogni marciti e finiti nei rifiuti, un viaggio nella decadenza con lampi di speranza che è tesa, nervosa, insicura.

Io spero dal profondo del mio cuore che prenderete la vostra intelligenza e la renderete più cosciente: non è mai tardi per crescere, grazie Fausto🖤


Intro


L’album inizia con un telefono che squilla ed un pianto di un bambino e poi una risata mistofelica.

Un pianoforte ed un basso a prolungare l’introduzione dell’album, un basso funky con una tastiera che sembra un circo che richiama l’attenzione.


Suicidio


E l’album inizia per davvero con la prima staffilata, una voce sinuosa e sottile arriva quasi a deridere la drammaticità della parola Suicidio. Una canzone dal vestito cabaret ci porta ai bordi della noia e del terremoto, due estremi che tentano una congiunzione. Il primo fuoco artificiale arriva ai nostri occhi sbalorditi, la morte viene presa in giro, si parla addirittura di divertimento, ed il suicidio un luogo che vale la pena di visitare, straordinario.


Godi


Chitarra e basso si affacciano e poi le parole di Fausto arrivano a tarparci le ali, uno sciorinare sentenze, una Società che viene distrutta con arguzia, siamo tutti derisi e colpiti...le bestialità emergono con una musica che sembra scherzosa mentre le parole sono badilate in faccia.


Bastardi


La prima avvisaglia dell’amore per David Bowie e Brian Eno la si può comprendere in questa fotografia che si muove nelle nostre coscienze addormentate. È un dipinto in note che ci fa abbassare la testa, quei Bastardi che viene urlato accompagnato dalla parola Naive la dice lunga sul suo talento nell’associare immagini.


Piccolo Lord


Gli echi del prog arrivano su questa composizione che profuma di primi anni 70. Una chitarra piangente su di un piano che tocca note di dolcezza, per poi ospitare una descrizione perfetta sulla bassa qualità dell’educazione familiare, di come si prenda sotto gamba un aspetto fondamentale della nostra esistenza, di come certi ruoli siano stravolti e di come si difenda anche ciò che è indifendibile giungendo ad avere pezzettini da dover assemblare come un puzzle impazzito.


Eccolo quà


Fausto è inarrestabile, un faro notturno sui mali diurni, un trattato indiscutibile che fa male davvero, ed il posto al sole lo si può solo sperare. Una musica che sembra uscire dalla Boston degli anni 30, sensuale e dinamica che muore del tutto se prestiamo attenzione a parole che sono graffi amari.


Il mio sesso


Eccolo il nuovo quadro che devasta, che con la sua amarezza ci offre una solitudine ed una mancanza di amore, e l’amore diventa solo un resocontare con se stessi, in modo meccanico, come fanno i robot e quella tastiera immensa che dilata la tensione.

Il coraggio di parlare di un qualcosa di cui ancora oggi si fa fatica ad accettare. 

Fausto non ha pietà: non giudica ma apre i nostri occhi del tutto.


C’è un posto caldo


Un falsetto apre la danza, una finestra che rivela un mostro, la nudità che diversamente da 

Il Mio Sesso si rivela totalmente.

Quanto fa male questa storia? Una storia di molti che trova un palco, una visibilità, una sporcizia che corrode e contagia.


Innocenza 


Fausto canta l’amore sempre, con le sue mille sfaccettature, qui in modo più palese. La morte arriva senza un grido ne fantasia, arriva piatta per appiattire e togliere il quotidiano, fatto nella canzone anche di un semplice gesto come la masticazione dei popcorn.

Rintocchi di piano sembrano smorzare questo pianto, questo lamento, questa ricerca di tentare nell’essere vivo.


Benvenuti tra i rifiuti 


L’ultimo capolavoro, un vomito continuo, un depositare in modo inerme le nostre esistenze, una canzone che è una bomba atomica senza ritorno, il sole che non viene a portare luce positiva bensì un rivelatore della merda che ci ha invaso, dove tutto non viene gettato via perché la solitudine non è contemplata da chi vuole avere tutto, da chi non vuole farsi mancare nulla.

La chitarra è moglie e testimone di questa voce che è un grido che squarta, con la realtà che sotterra il sogno.


Alex Dematteis 

Musicshockworld 

Salford

20 Luglio 2021

https://open.spotify.com/album/0hL1QZ2GTU2EN9auyN4DcA?si=Y18_buDOSaCxGtpxrpX8OQ








lunedì 18 luglio 2022

La mia Recensione: Bauhaus - Bela Lugosi’s Dead

 La mia Recensione:


Bauhaus - Bela Lugosi’s Dead


Quando la giovinezza consegna un gioiello all’eternità: la brevità di questo periodo della vita di un essere umano rispetto a ciò che non muore mai, che non ha fine.

Questa è la canzone dei Bauhaus. C’è già tutto.

Esageriamo e forziamo la mano: proviamo a dire anche altro.

Non è difficile avere la mente che, pulsante, ci spinga a considerare tutti questi nove minuti e mezzo come la dimostrazione di un post-punk sperimentale, innovativo, efficace, col suo nugolo  di trame  striscianti e malate, su un ritmo balbettante, nevrotico e ticchettante.

Se sono le definizioni che vi servono potrebbero già bastare.

Come basterebbe pensare a questa chitarra feroce, dub, con le unghie scivolose e nerastre, il suo mantello inquieto e minimale, il suo tagliare il pentagramma con i sui graffi dagli echi vistosi e tentacolari, magnetici, gli accenni, i ripensamenti, le accelerate a grappolo di inquieta attitudine.

La batteria che sembra l’esaltazione della scuola tedesca e russa la cui caratteristica è di partire dalla semplicità e di rimanere in quei luoghi.

Si ascolta un basso con effetti di eco nell’anima più che nel suono, una definizione del tutto con poco lavoro sui polpastrelli: dove c’è l’ipnosi il resto è superfluo.

Evidente rappresentazione di una creatività senza catene e con la bava alla bocca, il brano nasce per non morire, avendo trovato nella sua partitura una complessa adunata di misteriose gemme che si sono inserite per evolvere l’ispirazione che sostiene e sosterrà sempre la convinzione dello scriba che solo la perfezione abiti nel cuore della notte che si coniuga con l’infinito.

In fondo la canzone è il palco di un teatro e anche l’esaltazione di un film, che sono gli esempi di come l’eternità appartenga solo alle arti rappresentative.

La morte non morte di un personaggio come Bela Lugosi.

Lui che aveva portato la sua eccentrica presenza in una pellicola che, pur nella sua essenza colma di imperfezioni, aveva reso il vampiro Dracula figlio dei luoghi diabolici destinato a vivere per sempre, sul palco e fuori dallo schermo di una sala cinematografica.

Ciò che questa canzone ha fatto nell’immaginario di molte persone (riuscendo spesso a invadere anche la corsia della realtà) non trova spiegazione logica seppur sia evidente che sveli originalità, innovazione, che sia l’esempio di come si potesse creare qualcosa di magico miscelato al mistero, all’inafferrabile.

Ancora una volta: basterebbe tutto questo.

Considerato come l’inizio del movimento gotico musicale, il vero start di una moltitudine espressiva che ancora oggi pulsa, anche se faticosamente, Bela Lugosi’s Dead è stata capace di offrire al post-punk una risorsa piena di gemme nuove, di sbeffeggiare la musica che sembrava essere alternativa.

In queste note si scavalcano i passi dolomitici, le onde del mare e si vive dentro un terremoto senza spegnimento. La foresta cerebrale dei quattro di Northampton trova un campo magnetico, sistematico, sovversivo e paralizzante dove far convergere follia e magia, dove dare al teatro il coraggio del cabaret che scende nelle note musicali come tempesta ormonale, malata, un latrato che fa morire solo chi l’ascolta.

Le parole del testo non sono certo un esempio di classe, di tecnica sublime, di manifesta superiorità letteraria, però evidenziano come, unite al cantato, all’interpretazione e alla musica diventino intoccabili, perfette, suggestive, madri, figlie e nipoti di un vestito che avvolge ciò che gli potrebbe essere anche superiore. Ma sono sillabe collegate alla notte, buie e spettacolari, e rendono gli occhi vittime di un sequestro ineludibile.

Divenuta la canzone iconica per eccellenza della loro intera carriera, dimostra anche la distanza da tutto il loro proseguo: l’unicità che non poteva duplicarsi, nemmeno in laboratorio.

Rimane anche il loro respiro migliore, quello che, oltre a influenzare generazioni su generazioni, renderà anche evidente come il tutto sia stato un fatto isolato. 

La presenza di una intimità che vuole uscire dal guscio per specchiarsi nella potente immagine di Lugosi è resa speciale minuto dopo minuto dal suo incedere verso una finta eruzione perché, magistralmente, i Bauhaus capiscono che dove c’è una esplosione muore tutto. Loro invece esaltano l’incedere senza dargli fuoco, tenendoci appiccicati agli amplificatori, come schiavi ubbidienti.

Quello che nacque dopo questo gioiello cavalcò il bisogno dei ragazzi di perseguire mutamenti Art-Rock e di segnare, sin dal successivo album di esordio, una notevole distanza da queste atmosfere e modalità di espressione: sono partiti da uno scheletro per arrivare a descrivere, nel loro diritto artistico, la pelle della loro arte.

Ed è vocazione, inchino, estasi, rispetto e attrazione quello che l’insieme di questo gioiello nero propone, offre, spalancando lo spazio per tremori, balbettii, passi incerti, sino ad immedesimarsi nello spettrale palcoscenico che è stato registrato in una sola sessione: nulla si poteva aggiungere alla perfezione macabra che aveva sequestrato già gli stessi autori.

Daniel Ash viene folgorato dalla chitarra di Gary Glitter del brano Rock and roll part. 2 e partendo da alcune sue parti fece un lavoro intenso e particolare sino poi a trovare una sua strada, lastricata di tempeste e ruggiti vaporosi, sciabolate oblique a ferire quegli accordi originali. Con l’incipit iniziale di David J, unito proprio a questa fase generata da Daniel, la canzone ebbe un punto di partenza che poi si allontanò per far nascere il mito di brano guida per nuove generazioni visionarie ed estreme.

Tutto ciò in una forma horror che elettrizza le cellule dell’ipnosi in una decadente manifestazione di delirio collettivo, nessuna delle parti risulta essere dominante ed è in questa compattezza che tutto trova il modo di dare al senso della coralità proprio la magia più grande.

Indubbiamente le capacità tecniche di ognuno dei quattro sono evidenti, dando però al sottoscritto la convinzione che Peter Murphy sia senza dubbi il miglior cantante di sempre per diverse qualità davvero particolari, specialmente perché unite in un unico contesto.

Con tale dimensione immaginifica, la sua propensione a compattare le parti, la tendenza a generare l’entusiasmo su un argomento che divertente non è di certo, ecco che si sono generate tutte le condizioni per divenire ascoltatori inebetiti, convogliati nei pressi di una proiezione che inchioda sulle poltrone di un cinema-teatro, dove la danza sepulcrea viene esibita e protetta per generare dipendenza.

La natura selvaggia e raggelante della struttura compatta modalità diverse, ma manciate di polvere magica hanno unito le parti per un combo che ha mischiato le carte di diversi generi per impastare il tutto con una stratificazione e il lusso di avere dato in quelle sei ore della registrazione del brano la certezza che una nuova entità aveva guadagnato lo status di intoccabilità, che dura da decenni. Può una sola canzone condurre una band su un trono? Può tutto questo generare seguaci e distribuire il dovere di rispettare la genialità che guarda alla morte e non alla vita?

Nessun dubbio nella risposta.

Il loro primo brano è stato sicuramente il vertice assoluto e purtroppo loro sono scesi da quel palco per la qualità compositiva che non è stata più a quei livelli di creatività e magia.

L’ascolto deve essere compatto, mai cedere alla tentazione di considerarlo troppo lungo, perché l’intenzione dei quattro è quella di sfibrarci, decomporci, entrare dentro la bara del Conte e aspettare nuovi eventi su cui sbavare.

La versione originale del singolo rimane nettamente la migliore di tutte: il rito viene congelato, stratificato, compattato, ogni influenza risulta presente come piccole ombre e gli aspetti originali dei quattro trovano risalto. E possono andare all’assalto ogni volta rimanendo fedeli a loro stessi. 

Tutto si fa vapore acqueo in un mare di sudore cupo, con i confini dei sentimenti presi a calci sui denti, dove la follia viene concessa per partito preso, in un delirio atomico che non genera conflitti esteriori e interni bensì conforto, rifugio, esaltazione.

Può esistere una sola perfezione per ognuno di noi e per i Bauhaus è proprio questa sciabolata che ci rende cuccioli e imbalsamati, nella giostra di una fascinazione che crea il mito e lo conserva.

Quando la bellezza ferisce gli argini delle nostre difese le diventiamo devoti, saldando i nostri debiti verso le caverne che custodiscono ogni atomo di questo flusso elettrico, ancestrale, polposo. 

Molto probabilmente è l’inno di ogni castello infestato di storia e cadaveri aggrappati a fantasmi ansiosi di risorgere: saranno le rose nelle mani dei quattro a benedire i loro sogni su queste note propense alla beatificazione gotica.

Tutto ciò che precede il canto di Peter al minuto sei e venti secondi è la sanificazione delle nostre menti impaurite: poi ci pensa il cantante scheletrico ma voluminoso di schegge ansiogene con la sua “oh Bela” a far deflagrare ogni timore per inglobarci nei cunicoli della sua maestosa potenza, non solo vocale, ma anche  sensoriale. Se l’estasi, l’orgasmo, la perdita di ogni rifugio mentale è possibile, questo è il momento perfetto per individuarlo. 

Se esiste una canzone in bianco e nero, come una statua sulle polveri commosse dei nostri ascolti, è sicuramente questa, con le punture velenose di chitarre paranoiche, il basso che sembra minacciare la caduta nel sepolcro e il canto di Peter a far alzare in volo ogni grido di voluttuosa remissione a ciò a cui è impossibile negarsi: la morte qui diventa il luogo della pace e della adorazione, niente di più artistico e credibile per un viaggio nelle corsie spiritate di menti soggiogate.

È un concorso di ego spaventosi che legano l’essenza dei quattro di  Northampton per una volta su un mantello di microchip funzionali ad una scarica elettrica/motivazionale senza possibilità di contestazione, e dove, come un miracolo temporale, riesce a divenire l’unica manifestazione di altruismo, perché con questo inno siamo tutti investiti da una generosità che, alzatasi da una cripta, infetta ancora i nostri desideri. Per fare del nostro ripetuto ascolto un sacrificio accettato sin dalle cellule più refrattarie, provocando sinapsi angeliche dal volto tumefatto ma felice…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

18 Luglio 2022


https://open.spotify.com/track/1wyVyr8OhYsC9l0WgPPbh8?si=OMKDYtkNQjOsjFN_GinoCg









sabato 16 luglio 2022

My Review: Slowdive - Souvlaki

 My Review:


Slowdive - Souvlaki


In the complexity of needs is necessary to explore and leave everything behind: the suitcase is in our mind, in the directions to take and in the will to reach the indefinite, the unknown.

That is probably what the shoegaze band with the sexiest sound did, those Slowdive that with Eps and their debut album had excited thousands of souls into dreams and led them to impulses close to rapture.

Just For A Day changed the musical sky, marked the need for many to rummage through its jewels and enjoy a breath of oxygen composed of atoms of velvet-skinned music to the ninth degree.

Then the band packed that suitcase I mentioned before and wrote a new chapter of amazement. 

Because it is by surprising oneself that one puts a distance between oneself and what one has done in the past, which is often the very mental limit for exploring new territories.

The sonic fairy tale writers from Reading have learnt to paint clouds by dancing, smiling, corrupting sadness towards the most determined melancholy with the handbrake on. And this is how Souvlaki has found a way to give the band freshness and more luminosity to their talent, which, I would like to remind and specify, is not caused by the beauty of the compositions, but by the agility with which they find the needs and ways to write songs that are the only expression of all this. For many, the five have lost the courage to experiment, whereas in my opinion, if this is the most important thought (not for me, let us be clear), they have done so precisely because they have created new clothes for themselves, in their approach and in their performance.

It is an album that represents difficult moments, especially for Neil, who managed to penetrate his soul by giving his hands structures that exchange affection between heaven and planet Earth.

It is a work full of colours, wide-ranging atmospheres, which move nimbly, making it a den of surprises and admirable insights: the compositional form is diluted, the sound becomes more important and gives the songs a soft but at the same time solid dress.

It feels like entering into a fairytale, a reading that becomes a movie for our eyes because of a sensation that grips us all in the poetry of sound architectures that are always agile and intimate. It is not only rarefaction of sound but also of one's own beats, of breaths that seek entrances. It is a way to leave this now dirty and dusty ground to raise our gaze into the currents of the sky: Souvlaki becomes just that, the set of heavenly vocalizations with sensory movements which paralyses and guides towards the ecstasy, that puts the right distance between boredom and the tribulations of existence. It creates a parenthesis, a chance to conjoin a limpid extreme that seemed unattainable. The guitars prove capable of bending sublime sound waves, moving everything towards a sound that glues us to listen, nourishes the psychedelic part by transforming it into pulsating paths of Shoegaze and Alternative, to balance the order of beauty towards the explosion.

The songwriting is breezy, pop, romantic, it strips away the idea and concept of Shoegaze to bring it to the banks of the melodic river contemplating new connections, thus distributing new spells and sprinkling the reservoir of this genre with new vibrant possibilities.

Everything seems to have been conceived in the hyperbaric room where playful and dreamlike activity meet, to create the defence of their creative process. Here we find acoustic guitars, unreleased stop-and-go, new sound assemblages that enter the heart with their lightness and brightness.

I define it as an album that integrates and creates distance in the first part of their career, a robust (and successful) attempt to separate a sound that is multiple and capable of being stimulating, relevant and fundamental to many new bands, to make it a drop and a feather and begin a new flight, that trespasses and leaves us behind, open-mouthed. It is not easy to grasp and even more to take possession of all its beauty without being calm and methodical in studying it, because we are faced with new exercises in style and the magnets that are released from their past must be loved, without fear.

There is a notable identity push, a divergence, a proceeding towards an emotional impact that grows, track by track, with the hourglass smiling happily, since it witnesses a path that certifies clear ideas, driven not only by talent but above all by a structural work that is in any case avant-garde of Shoegaze.

A really effective listening not only reveals the content of the album but also puts us in a position to see our thoughts stratified, amplified to bring out our needs for a continuous afflatus, towards what releases all toxins inside emptiness. Once this happens Souvlaki becomes a generous and precious friend.

And then swimming in the placid, clean waters of these tracks will be not a pleasant pastime, but a precious ally for our mental and physical balance.

Like a bouquet from the end of the millennium, Souvlaki is able to carry the scents of a time that, although fatigued, is still capable of inebriating: not everything is to be thrown away in the last decade of the 20th century and this album offers surgical brushstrokes of diamonds in perennial form, without wear and tear. Bass lines like rubber hammers not to hurt, shadowy guitars, massive without overflowing and silvery and restless.

One experiences the gallant introspection of a flow of energy channelling towards extreme latitudes. With its visceral approach, this group of candles with their faint flames succeeds in making possible a listening experience that turns out to be a carrier of frost and rainbows held by a thread: only ignorance could let them escape.

So let there be room for the fluctuating wanderings of atoms connected to the candid and forbidding abundance of melodic, almost nostalgic lines, a modality that would seem illogical from such young guys. But there is a conscious maturity in them: they are elected by the state of grace and the gods. Their dreamlike distortions are the handmaidens of the marriage between perfection and enchantment, amidst non-stop acrobatics.

And when the notes seem sad, we discover their own happiness: it is all situated in dynamics that suspend feelings to make them subtle and volatile. They seem capable of fading the typical manner of those years that tended to make shoegaze a cliché. They go further. 

A precious album, conceived with love for love, that is a supernova not only in the sky of Reading, as from this work many suggestions become inspirations, aspirations for new bands aimed at having the same way of controlling the evolution and specification of an artistic path, with the strength of a fragility that becomes a feather in our fears.

In the delicacy of this musical advent, one arrives at the lucid sensation of being overwhelmed by dreams and realities that have managed to locate themselves in those notes, clinging to the band's need to get married with this row of blue-faced beats. 

But if all this doesn't convince you, because you are too bound to their debut, please be honest and curious listening to Rachel's voice: she who has created a new way of singing surpasses herself and makes her presence even smaller, but even more shining is the meaning, the capacity of a song that kisses fragility, exhaustion, fear and becomes a heartbeat with reverberation in the heart. A girl who knows how to be powerful without vocalizations, who is able to make you dream and feel all the lightness of the world even in moments of difficulty, because she is capable of making her instrument agree with the infinity of the universe. And the new compositions, more intimate and dilated, are perfectly compacted by this inclination of hers to be the girl who sings with her voice just hinted, almost hiding it, so as not to disturb. With Neil, the amalgam has grown and the interplay of alternating and sharing singing parts reaches the throne of perfection, unquestionably. There is no need to give the power of the record exaggerated singing because Souvlaki lives inside the heartstrings and radiates the mind with ease, gliding over magical guitars that become the airport from which to separate from all the other bands for a unique flight. Souvlaki was released when the flame of grunge was extinguishing and thus made people feel the need to listen in order not to forget Seattle and its surroundings. Britpop was coming out as a healthy illusory catastrophe and on average everything that was extraordinarily unique about the record of the guys from Reading was not approached in the right way. Revolutionary (many would have realised this guiltily late), the guitars came to Ambient music, with the pedals adept at creating carpets of new and innovative magic, displaying miles and miles of versatility, still capable of remaining extremely valid today. They were able to deceive the pressure of the second album, which for many had to repeat the amazement generated by the first (Brian Eno's self-imposed presence was reduced to a minimum, a sign of an immense and confident character), writing songs like oxygen cylinders of their own treasure chests, new stars elected by the heavens for eternity, making this second act the most loved by the vast majority of people who adore these impenetrable guys. The reasons lie within the mystery that three decades have yet to explain. And when you can't explain a mystery, the attraction, the devotion become the combination for eternal life.

Through it all, what follows will not be a true description of each of their songs, but an act of love with open arms, because you can embrace these heavenly whispers, learn them by heart, play them, but you will always be kept away from understanding their richness, and that is the attraction you cannot escape...




Song by Song


Alison



It is traditional 60's pop in a soft dress, able to bring the gaze into Neil's sly cat voice. In the refrain, Rachel's effective contribution launches the song towards a meeting between psychedelic The Byrds and the clouds of Reading.


Machine Gun


Pure rarefaction: the debut here returns in its evidence, a unique episode that reveals how DNA cannot be forgotten, even if only for a moment. Moving, it vibrates inside guitars full of sulphur and sunshine, in the afternoon in need of magic, while Rachel fascinates us forever with her enchanting coloured uvula.



40 Days


And here we have a new example of this evolution: pop fragments, a predisposition to the verse in which to cradle the melody like a waiting sowing, then creating the instrumental part as a true attraction towards the full abandonment of the senses.



Sing


A composition that detects the experimentation necessary to approach new shores, it sees the presence of Brian Eno, who probably picked up signals of life on Mars. We gravitate into the astonishment of an unexpected hypnosis, a surfing on drumming made ethereal and almost distant, with Rachel's voice revealing a smile from that planet, with the electronic part advancing between psychedelia and new age. 



Here She Comes


This track knocks on Brian's angelic keyboards, with slide guitars pregnant with subtle, liquid, melancholy glimmers, for a journey inside the thin line of the glimpsed fairytale.



Souvlaki Space Station


With a beginning reminiscent of the mighty riffs of Héroes Del Silencio, the song soon travels inside the bubble of dust and sweetness blended perfectly, to make this long demonstration of class the base for the unattainable voice of Rachel, Goddess of the heart, mother of dreams made of kisses. A sea of guitars like divine waves to allow pauses and new beginnings to keep the tension of joy at incredible levels.



When the Sun Hits


The gods return to decide that a song can be their breath, amidst the melancholic lanes of descriptions that are transparent-faced paintings. Rapture, the magnet of every dream made real, a pulsing globe of blessed magnificence, this is the point from which ideas and impressions separate to compact, together with powerful brushstrokes and riffs, towards the garden of absolute pleasure. And the place to experience the impulses of a sun in need of affection: Slowdive give it in incredible quantities with the perfect song.



Altogether


The waters slow down, the senses remove the frost from their skin and play in the decadent but at the same time very sweet ballad that sees the guys legitimise the remarkable impact of a crescendo that doesn't need to explode to contaminate our listening pleasures: it remains a sweet caress of two hundred and twenty seconds, essential to share their delicate propulsions.



Melon Yellow


Neil dresses his voice in salt and honey, the music, subtle and delicate, like a sleeping thunderbolt, manages to feel the urgency of visiting chills by whispering its presence, bewitching the atmosphere with magnificent effectiveness.



Dagger


The first idea of what will become the Mojave 3 project, giving space to the need to make the movement of clouds acoustic, the track is a breath of light, among the voices that combine with the need to sink dreams into welcoming lungs.



Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

16th July 2022


https://open.spotify.com/album/53eHm1f3sFiSzWMaKOl98Z?si=G6X80XcTT4WeyxgnPlbdbg





La mia Recensione: Slowdive - Souvlaki

 La mia Recensione:


Slowdive - Souvlaki


Nella complessità dei bisogni occorre esplorare e lasciarsi tutto alle spalle: la valigia è nella mente, nelle direzioni da prendere e nella volontà di raggiungere l’indefinito, lo sconosciuto.

Deve aver fatto così la Shoegaze band dal suono più sexy, quegli Slowdive che con Eps e l’album di esordio avevano eccitato migliaia di anime in sogni e condotto verso pulsioni vicine all’estasi.

Just For A Day ha cambiato il cielo musicale, segnato la necessità per molti di rovistare dentro i suoi gioielli e di godere di una boccata di ossigeno composto da atomi di musica dalla pelle di velluto alla ennesima potenza.

Poi la band ha fatto quella valigia di cui parlavo e ha scritto un nuovo capitolo dello stupore. 

Perché è sorprendendosi che si mette la distanza con ciò che si è fatto in passato, che costituisce spesso proprio il limite mentale per sondare nuovi terreni.

Gli scrittori di fiabe soniche di Reading hanno imparato a dipingere le nuvole danzando, sorridendo, corrompendo la tristezza verso la più determinante malinconia col freno a mano tirato. Ed è così che Souvlaki ha trovato il modo di conferire alla band freschezza e maggior luminosità al talento, che, vorrei ricordare e specificare, non è dato dalla bellezza delle composizioni, bensì dall’agilità con la quale si individuano necessità e modalità per creare canzoni che siano l’unica espressione di tutto questo. I cinque hanno per molti perso il coraggio di sperimentare, mentre a mio avviso, se questo è il pensiero più importante (non per me, sia chiaro), l’hanno fatto proprio perché si sono confezionati abiti nuovi, nell’approccio e nella resa.

È un album che rappresenta momenti difficili, specialmente per Neil, che è riuscito a penetrare la sua anima donando alle sue mani strutture che si scambiano affetto tra il paradiso e il pianeta Terra.

Un lavoro pieno di colori, di atmosfere ampie, che si muovono agilmente, che rendono il tutto un covo di sorprese e ammirevoli intuizioni: dilatata la forma compositiva, il suono diventa più importante e conferisce alle canzoni un abito morbido ma al contempo solido.

Sembra di entrare dentro una favola, una lettura che diventa un film per i nostri occhi a causa di una sensazione che ci stringe tutti nella poesia di architetture sonore sempre agili e intime. Non è solo rarefazione del suono ma anche dei propri battiti, dei respiri che cercano ingressi. È lasciare questo suolo ormai sporco e impolverato per elevare lo sguardo dentro le correnti del cielo: Souvlaki diventa proprio questo, l’insieme di vocalizzi paradisiaci con movenze sensoriali che paralizzano e guidano verso l’estasi che mette la giusta distanza tra la noia e le tribolazioni dell’esistenza. Crea una parentesi, una chance di coniugarsi ad un estremo limpido, che sembrava irraggiungibile. Le chitarre si rivelano in grado di piegare le onde sonore sublimali, spostando il tutto verso un suono che ci incolla all’ascolto, nutre la parte psichedelica trasformandola in sentieri pulsanti di  Shoegaze e Alternative, per equilibrare l’ordine della bellezza verso l’esplosione.

La scrittura è spigliata, pop, romantica, spoglia l’idea e il concetto dello Shoegaze per portarlo sulle rive del fiume melodico che contempla nuove connessioni, distribuendo in questo modo nuovi incantesimi e irrorando il serbatoio di questo genere di nuove vibranti possibilità.

Tutto sembra essere stato concepito nella stanza iperbarica dove si incontrano l’attività ludica e quella onirica, per creare la difesa del proprio processo creativo. Ecco allora chitarre acustiche, stop and go inediti, nuovi assemblaggi sonori che entrano nel cuore per leggerezza e luce.

Lo definisco un album che integra e crea distanza nella prima parte della  loro carriera, un robusto tentativo (riuscito) di separare un suono multiplo e capace di essere stimolante e rilevante e fondamentale per molte nuove band, per renderlo goccia e piuma e iniziare un nuovo volo, che sconfina e ci lascia indietro, a bocca aperta. Non è facile intuire e peggio ancora impossessarsi di tutta la sua bellezza senza avere calma e metodo nello studiarlo, perché ci troviamo innanzi a esercizi nuovi di stile e i magneti che vengono sganciati dal loro passato vanno amati, senza paura.

Vi è una notevole spinta identitaria, un discostarsi, un procedere verso un impatto emozionale che cresce, di brano in brano, con la clessidra che sorride felice, perché testimone di un percorso che certifica idee chiare, pilotate non solo dal talento ma soprattutto da un lavoro strutturale che è in ogni caso avanguardia dello Shoegaze.

Un ascolto davvero efficace non solo rivela il contenuto dell’album ma ci mette nella condizione di vedere i nostri pensieri stratificati, amplificati per andare a far emergere i nostri bisogni di afflati continui, verso ciò che libera tutte le tossine dentro il vuoto. Una volta accaduto tutto questo Souvlaki diventerà un amico generoso e prezioso.

E allora nuotare nelle acque placide e pulite di questi brani sarà non un passatempo gradevole, ma un prezioso alleato per il nostro bilanciamento psico-fisico.

Come un bouquet di fine millennio Souvlaki è in grado di portare i profumi di un tempo che seppur affaticato ancora sa inebriare: non tutto è da buttare dell’ultimo decennio del ‘900 e questo album propone pennellate chirurgiche di diamanti in forma perenne, senza usura. Linee di basso come martellate di gomma per non ferire, chitarre umbratili, massicce senza strabordare e argentee e inquiete.

Si vive l’introspezione galante di un flusso di energia che convoglia verso latitudini estreme. Con il suo fare viscerale, questo gruppo di candele dalla fiamma tenue riesce a rendere possibile un ascolto che risulta essere portatore sano di brina e arcobaleni tenuti per un filo: solo l’ignoranza potrebbe lasciarsele scappare.

E allora sia spazio al fluttuante peregrinare di atomi connessi all’abbondanza candida e proibita di linee melodiche, quasi nostalgiche, una modalità che da parte di ragazzi così giovani parrebbe illogica. Ma in loro vi è una maturità consapevole: sono eletti dallo stato di grazia e dagli Dèi. Le loro distorsioni oniriche sono le ancelle del matrimonio tra la perfezione e l’incanto, in mezzo ad acrobazie senza sosta.

E quando le note sembrano tristi ecco che scopriamo la loro stessa felicità: è tutto situato in dinamiche che sospendono i sentimenti per renderli sottili e volatili. Sembrano capaci di far sbiadire la maniera tipica di quegli anni che tendeva a fare dello Shoegaze un cliché. Loro vanno oltre. 

Un album prezioso, pensato con amore per l’amore, che è una supernova non solo nel cielo di Reading, in quanto da questo lavoro molte suggestioni diventano ispirazioni, aspirazioni per nuove band volte avere lo stesso modo di controllare l’evoluzione e la specificazione di un percorso artistico, con la forza di una fragilità che diventa una piuma dentro le nostre paure.

Nella delicatezza di questo avvento musicale si approda alla sensazione, lucida, di essere travolti da sogni e realtà che sono riusciti a localizzarsi in quelle note, appiccicandosi al bisogno della band di convolare a nozze con questa fila di battiti dalla faccia blu. 

Ma se tutto questo non vi convince, perché troppo legati al loro esordio, siate onesti e curiosi nell’ascoltare la voce di Rachel: colei che ha creato un modo nuovo di cantare supera se stessa e rende ancora più piccola la sua presenza, ma ancora più lucente è il significato, la capacità di un canto che bacia la fragilità, la spossatezza, la paura e diventa un battito di ciglio con il riverbero nel cuore. Una ragazza che sa essere potente senza vocalizzi, che riesce a farti sognare e sentire tutta la leggerezza del mondo anche dentro momenti di difficoltà, perché capace di fare del suo strumento l’accordo con l’infinito dell’universo. E le nuove composizioni, più intime e dilatate, vengono compattate perfettamente da questa sua inclinazione a essere la ragazza che canta con la voce accennata, quasi nascondendola, per non disturbare. Con Neil l’amalgama è cresciuto e i giochi di alternanza e di condivisione delle parti cantate raggiunge il trono della perfezione, indiscutibilmente. Non è necessario dare alla potenza del disco canti esagerati perché Souvlaki vive dentro le corde del cuore e irradiando la mente con facilità, planando sulle chitarre magiche che diventeranno l’aeroporto da cui separarsi da tutte le altre band per un volo unico. Souvlaki è uscito quando la fiamma del grunge si spegneva e quindi ha fatto provare alla gente la necessità dell’ascolto per non dimenticare Seattle e dintorni. Il Britpop veniva fuori come una sana catastrofe illusoria e mediamente tutto ciò che era straordinariamente unico nel disco dei ragazzi di Reading non è stato approcciato nella giusta maniera. Rivoluzionario (molti lo avrebbero capito in colpevole ritardo), le chitarre arrivano all’Ambient, con i pedali abili nel creare tappeti di magie nuove e innovative, mostrando chilometri e chilometri di versatilità, ancora oggi capaci di rimanere estremamente validi. Hanno saputo ingannare la pressione del secondo album che doveva per molti ripetere lo stupore generato dal primo (la presenza auto-imposta da Brian Eno venne ridotta al minimo, segno di un carattere immenso e sicuro), scrivendo canzoni come bombole di ossigeno dei propri scrigni, nuove stelle elette dal cielo per l’eternità, facendo alla fine di tutto questo secondo atto di bellezza il più amato dalla stragrande maggioranza delle persone che adorano questi ragazzi impenetrabili. I motivi sono dentro il mistero che tre decenni non hanno ancora avuto modo di spiegare. E quando non sai spiegare un mistero, l’attrazione, la devozione diventano il connubio per la vita eterna.

In tutto questo quello che seguirà non sarà una vera descrizione di ogni loro canzone, ma un atto d’amore con le braccia aperte, perché questi sussurri celestiali li puoi abbracciare, imparare a memoria, suonarli, ma sarai sempre tenuto lontano dal capirne la ricchezza ed è questa l’attrazione a cui non si può sfuggire…


Song by Song


Alison



E’ pop da tradizione 60’s, in un vestito morbido, capace di portare lo sguardo dentro la voce da gatto sornione di Neil. Nel ritornello l’efficace apporto di Rachel lancia il brano verso l’incontro tra i Byrds psichedelici e le nubi di Reading.


Machine Gun


Rarefazione pura: l’esordio qui torna nella sua evidenza, un episodio unico che rivela come il DNA non lo si possa dimenticare, fosse anche solo per un attimo. Commovente, vibra dentro chitarre piene di zolfo e sole, nel pomeriggio bisognoso di magia, mentre Rachel ci rapisce per sempre con la sua ugola color incanto.



40 Days


Ed ecco un nuovo esempio di questa evoluzione: frammenti pop, una predisposizione alla strofa nella quale cullare la melodia come semina in attesa, per poi creare la parte strumentale come vera attrazione verso il pieno abbandono dei sensi.



Sing


Composizione che rileva la sperimentazione necessaria per approcciarsi a nuovi lidi, vede la presenza di Brian Eno che probabilmente avrà captato segnali di vita su Marte. Si gravita dentro lo stupore di una ipnosi inaspettata, un navigare sul drumming reso etereo e quasi distante, con la voce di Rachel che si rivela un sorriso di quel pianeta, con la parte elettronica che avanza tra psichedelia e new age. 



Here She Comes


Bussa alle tastiere angeliche di Brian questo brano, con le slide guitars ingravidate di sottili bagliori, liquidi, immersi di malinconia, per un viaggio dentro la sottile linea della favola intravista.



Souvlaki Space Station


Con un inizio che ricorda i poderosi riff dei Héroes Del Silencio, il brano viaggia presto dentro la bolla di polvere e dolcezza miscelate perfettamente, per rendere questa lunga dimostrazione di classe il basamento per la voce irraggiungibile di Rachel, Dèa del cuore, madre di sogni fatti di baci. Un mare di chitarre come onde divine per consentire pause e nuovi avvii sempre in grado di mantenere la tensione della gioia a livelli incredibili.



When the Sun Hits


Gli Dèi tornano per decidere che una canzone può essere il loro respiro, tra le corsie melanconiche di descrizioni che sono dipinti dalla faccia trasparente. Estasi, calamita di ogni sogno divenuto reale, un globo pulsante di magnificenza benedetta, questo è il punto da cui si separano le idee e le impressioni per compattarsi, insieme a pennellate e riff potenti, verso il giardino del piacere assoluto. E il luogo in cui vivere gli impeti di un sole bisognoso di affetto: gli Slowdive gliene regalano in incredibile quantità con la canzone perfetta.



Altogether


Le acque rallentano, i sensi si tolgono la brina dalla pelle e giocano nella decadente ma al contempo dolcissima ballata che vede i ragazzi legittimare la notevole forza d’impatto di un crescendo che non necessita di esplodere per contaminare i nostri piaceri all’ascolto: rimane una carezza dolce di duecentoventi secondi, essenziale per poter condividere le loro delicate propulsioni.



Melon Yellow


Neil veste la sua voce di sale e miele, la musica, sottile e delicata, come una saetta addormentata, riesce a sentire l’urgenza di visitare i brividi sussurrando la sua presenza, stregando l’atmosfera con magnifica efficacia.



Dagger


Prima idea di quello che diventerà il progetto Mojave 3, dando spazio al bisogno di rendere acustico il movimento delle nuvole, il brano è un respiro di luce, tra le voci che si coniugano al bisogno di affondare i sogni dentro polmoni accoglienti.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

16 Luglio 2022


https://open.spotify.com/album/53eHm1f3sFiSzWMaKOl98Z?si=G6X80XcTT4WeyxgnPlbdbg







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