sabato 4 maggio 2024

La mia Recensione: Piero Ciampi - Piero Ciampi


 

Piero Ciampi - Piero Ciampi


Ma che bella responsabilità assistere al talento, al lavoro, alle qualità di un altro e non fare nulla, se non scendere dentro la polvere aspettando la sua essiccazione. Che cosa strana è l’ascoltatore medio, afflitto dal desiderio di essere felice all’interno della massa per trovare forza, solidarietà, senso e posizione. Tutto ciò gonfia il petto e sgonfia l’apprendimento, atrofizza la genuflessione che non è segno di paura ma di devozione, di uno slancio che sublima il tutto.

Quando nella mente arriva la possibilità di potersi trovare all'appuntamento con la bellezza che sporca le vene, si vive un ascesso del cuore e tutto bolle, ribolle, si amplifica, dilata, spaventa, deterge e assorbe l’incomprensibile e l’inimmaginabile. Questo accade nel momento in cui nelle orecchie della percezione arrivano le corse lente di un maestro senza la laurea, non  attribuitagli da un corpo docente sempre più spavaldamente ignorante. Insegnanti del niente che vivono in modo corsaro nelle case di un’Italia sempre più analfabeta, almeno per quanto concerne l’arte di sicuro.

Piero Ciampi è una croce mobile, un tatuaggio dell’altrui sbaglio, un abbaglio da cui fuggire in quanto non esiste la possibilità di un confronto con chi non ha caveau, sogni segreti, racconti segregati nei bauli delle cantine. Lui no, scava, porta e riporta ancora ogni resa che abbia un dettaglio, minimo, che possa respirare nell’inconsapevolezza che fa arrendere il suo talento senza limiti, proprio lui che con essi ha giocato una sfida enorme, vincendola, senza nessuna medaglia sul petto. Canzoni? Per nulla! Siamo davanti a delle pepite, a dei graffi ingestibili, a degli accorati accorgimenti, fallaci in modo stupendo, con una dignità perfettamente legata solamente alla sua identità, e di nessun altro, in un girone unico dove approcciarsi significa immergersi in un buio che riporta in voga il periodo in cui l’uomo scappava solo dentro le corsie del cielo. In questo secondo album l’artista, a cui dare una residenza significa sconfiggerlo definitivamente, compie una serie di imprese capaci di mettere fuorigioco l’ascoltatore, il passante, l’essere perennemente rinchiuso in una stanza, l’intellettuale con la verità in tasca, tritola il sognatore romantico, prende a pugni il metodico, chi è maniacale, chi cerca negli altri domande e risposte. Quattordici anestesie, amnesie, lampi, poesie, afflizioni, contrizioni, fughe sghembe, speranze mute e sorde,   esagerazioni per nulla fuorvianti, fantasie come stelle mai come le immaginereste, tavoli e baldorie ipnotiche, sconvolgimenti, assoluzioni, benedizioni, invettive sottili in bianco e nero, favole robuste come carta assorbente. Magneti coi poli ubriachi a confondere la rotta, onde che ascoltano i battiti ribaltandoli nelle illusioni più sconsiderate, amori balbuzienti e sconfitti in anticipo, figli assenti, dolori sempre presenti come gittate ineluttabili, amici da curare come un’anima imprigionata da una ricerca che crea danni a prescindere e tanto altro, in un calvario che spossa e droga chi le ascolta.

Piero trita le convenzioni e, con il lavoro sapiente, elegante, commovente di Gianni Marchetti, le canzoni diventano approcci visivi, metafore e incudini, dove il jazz, il progressive più contenuto e moderato, i respiri leggiadri di un approccio a quella musica classica ancora bacino di ispirazioni, il folk che salta nei luoghi e nel tempo, consentono una variegata parata stilistica, nella quale le combinazioni diventano scintille lente, capaci di essere viste per l’eternità, in cui non è il crescendo che galvanizza ma il dover ascoltare con estrema attenzione. Non è solo nella velocità che si possono sentire fuggire le cose…

Le chitarre acustiche, gli archi, la batteria, il basso sono la base per le scorribande delicate di un pianoforte ribelle, educato alla bellezza senza bavagli, anzi, un foulard rosso che vola sulle note per annettersi alla volta celeste celebrando una natura che, in modo spavaldo, indietreggia e avanza nella storia di impianti musicali non solo italiani, per un delirio che tocca le pareti del cuore.

Una collaborazione tra due geni che fanno dei propri campi espressivi un baluardo, un raggio di azione, un limite, una esasperata e deliziosa libertà di non avere impicci dentro queste flessioni di incanti senza catene. Non c’è nessun compromesso bensì due corpi solidi che, quando vengono uniti, rendono l’ascolto un fiume che bacia il mare senza cambiare il colore della propria pelle. Si piange, ci si sente sgomenti, si ride amaramente, ci si ritrova all’interno di correnti che non ascoltano le altre e si entra nelle diagonali delle stagioni della vita, avvertendo gli enormi grappoli vitali di testi che baciano le fascine musicali per trovare una perfetta definizione della solitudine che vive di transiti, approcci e malinconie che quando escono dalla sua ugola paiono moltitudini senza il fiatone, perennemente in viaggio.

La sincerità è l’impronta digitale di un’anima che non soltanto sonda, scava, ma soprattutto porta alla luce il calore dell’inferno, le sue diramazioni, con l’arguzia di momentanee anestesie, per dare al dolore qualche piccola possibilità di riposo. Piero è un operaio della verità, e, da poeta prestato alla canzone, pone le domande che scomodano l’intellighenzia, le classi sociali meno strutturate alla felicità, e intere categorie di anime intente a essere leggere e che, dopo averlo ascoltato, precipitano nell’onda plumbea del disagio. Pone quesiti dentro storie nelle quali si danza a fianco del peccato, scompone le sicurezze e manda a quel paese il cattivo gusto nel tempo in cui l’Italia vede addormentare la ragione che conduce al vero benessere. Lui spoglia tutto, come gesto di stizza, come atto necessario, inequivocabile, con parole che sono diserbanti naturali, attrezzando paragoni con la vita animale, tra purosangue che avanzano buffamente, conoscendo la metamorfosi e l’inquietudine del cambiamento. 

Aleggia nei suoi versi una timidezza fotonica, per riuscire a rendere il pensiero un oggetto, gretto, pesante, adiacente all’impossibile,  libero di ingannare ogni tentativo di caccia: solo ai veri poeti è consentito fare questo, spiazzando, come conseguenza, chi si pone di fronte con l’intenzione di capire. È proprio con la poesia che gli studiosi si garantiscono l’ignoranza e il fallimento. Piero Ciampi rifiuta le gabbie e nelle sue parole ci sono i princìpi di Michael Bakunin, la follia di Edgar Allan Poe che cattura l’ignoto, la suadenza di una pellicola muta francese degli anni Venti e le campagne piene di fattorie cadute in miseria. Non le vedi ma le percepisci queste situazioni, in un marasma di ipotesi che lui controlla per renderle inattaccabili. Quando ci si commuove si conosce sempre la perdita e, se esiste un guadagno, è quello di fare della sua esperienza un monito per la nostra.

Crea distanze, sobborghi dove far stagnare le colpe, dando alla inutilità un raggio di azione in cui ci immerge, con la sua risata invecchiata a congelare ogni pseudo entusiasmo. 

Un disco purtroppo troppo vero, immenso e immerso in un vapore che solo la stupidità ama veder dissolvere e invece dovremmo farlo divenire una enciclopedia comportamentale e attitudinale che renda gli sbagli scevri della volontà di posizionarsi…

La mancata presenza di una forma canzone insistente fa intendere come costruzione e improvvisazione siano due cardini entrati in contatto per non dare fieno da mangiare alla stupidità crescente che ha inghiottito questa forma artistica popolare. I due insabbiano i trucchi, danno alla magia la bacchetta per essere custode dei segreti e si beffano delle definizioni, compiendo passi da giganti, portando avanti nel tempo quello che ancora oggi non si riesce a intendere. Coniugando il sapere e dando spazio ai guitti, questi artisti hanno trovato il modo di essere spavaldi e irruenti, con uno stile unico, raschiando pellicole di vita in luoghi sospetti, dando dignità a strutture che spesso non venivano considerate, con una sintesi quasi cabarettistica per passare ancora di più come una eruzione folle senza possibilità di essere creduta. Eccoci, quindi, al cospetto di raggi dentro i miraggi di appunti come spartiti nel vento: non lo si cattura e non si cattura questo insieme di canti e note in continuo stato di spostamento, cancellando baricentri e scomponendo le forze per conoscere il colore dell’urto. Sono lividi queste composizioni, sono rantoli, sono il canto di un perdente mentre fa calare la tristezza dentro il pozzo dove i desideri non possono sistemarsi. Piero e Gianni diventano il valzer dell’addio, il jazz che ossida, il blues che è attento a non paventare la sua presenza, per rovistare nelle carni di un pentagramma che sembra spesso uscire dai balli a palchetto degli anni Cinquanta per garantire la memoria e il rispetto. La drammaticità vive, come una forma rinascimentale gravida di allucinazioni: non creano dipendenza se non a chi sta nei loro paraggi per quattordici appuntamenti con l’ampiezza, le offerte, in una scrittura che è pura forma giornalistica, quella che entra nella ricerca di ciò che è vero e reale, per descrivere anche ciò che può voler stare lontano da tutto questo, in un carrozzone mai confusionario bensì preciso, come un intervento che serve a estirpare il cancro più grave di tutti che è l’illusione.

Quando ascolti questo album i libri e la vita si aprono, con riferimenti non sempre ovvi, con stupori, con rimembranze, con citazioni nascoste per legittimare genialità che stuzzicano e invitano gli spari a far fuggire i mediocri, mentre la famiglia, il lavoro, i piaceri vengono condotti nella stanza della resa, per essere meno spavaldi e boriosi. Non alza mai la voce Piero, casomai, raramente, il registro del cantato, sempre come se fosse un atto gentile. È tutto facilmente riassumibile in pochi versi: “Quando t’ho vista seduta accanto a me, le labbra aperte ai suoni del mattino, volevo tacere, porre fine al ricominciare”. Una fucilata poetica disarmante, inequivocabile, che rende le parti unite e disunite, nel gioco perverso di una distanza che vorrebbe essere diversa. Perché nulla della bellezza serve se non viene inseguita con un disagio paralizzante, nutrendo il linguaggio e le immagini di una catarsi che dopo aver spossato il pensiero lo getti nel fango. 

Canzoni che rimorchiano, graffiano la vita nell’estate immaginaria di un viaggio dove gli affetti sono abiti che conoscono spesso il ricambio, per sincronizzare i desideri nuovi con quelli privi di luce. La solitudine rende povera solo la parte della pelle che si vede e che Piero ci consente di odorare, tra portate piene di zuccheri e abbracci richiesti.

I sapori sono l’ebbrezza che attraversa lo champagne e il vino rosso, in un tripudio che odora di imbarazzo e necessità che avanzano, in un palco pieno di giornali, goffi movimenti e i dolori a un fianco messi sotto l’occhio di bue per conferire una circonferenza logica al tutto. L’amore nell’album è un arredo che non consola gli occhi, non profuma di pace, attraversa invece lo sconforto, l'inadeguatezza, avvilisce e fa smarrire i sogni, sparge veleni senza rifiutare l'ipotesi di un benessere minimo. Le creature musicali diventano appunti da leggere dopo cena, in modo distratto, durante una passeggiata tra vicoli acclamanti la luce mentre nell’anima il buio si assesta e rovista, per trovare quello smarrimento che spossa e ingigantisce la pigrizia e il pentimento. 

Le sue composizioni le viviamo come l’autore nato a Livorno quando per vederci un minimo beve “un litro molto amaro”: uno sconvolgimento necessario per uscire dalla finzione di anime posate, mai in affanno. Ecco che l’eccesso rivela la vera natura della nostra incoscienza.

Una detonazione continua che solamente la poesia del suo vagabondare permette di accettare, perché la pelle ricoperta da quella polvere è la sua: lui riesce a farci provare l’incanto di questa visione lasciando alla nostra coscienza la facoltà di decidere se sia una colpa o meno.

Quando ci troviamo nei sogni di una donna con la follia esibita nei suoi versi, il brano riesce a regnare, a diffondere le note di un piano di New Orleans e a farci ritrovare fuori zona, fuori luogo e fuori dal tempo, come la magia sa fare senza balbuzie.

Conosce, questo sipario mobile, la modalità che rifiuta di divenire un’attrazione, dando ai versi il potere di spostare i bisogni, senza la possibilità di riconoscersi, per rendere la sua e la nostra solitudine incompatibili. 

Gli archi sembrano prendere questo potere per esaltarlo, in voli e danze che sfiorano l’epicentro di un terremoto nel cuore dell’universo, lontano anni luce dal nostro comprendere. 

La vera genialità non comprende condivisione, rendendo ancora più cruda la distanza delle differenze: l’album più intenso, perverso, incandescente, libertario, raccapricciante nell’accezione positiva, più seducente e pesante di tutti gli anni Settanta e, probabilmente, non solo.

L’unico augurio che possa fare il Vecchio Scriba è di fare una grande indigestione di questo raro capolavoro globale e di soffrire di spasmi che conducano alla grande verità: “è successo un fatto strano” e siamo ancora qui a non capire quale sia, dentro una meravigliosa merda…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
4 Maggio 2024

https://open.spotify.com/intl-it/album/02kbC96fGDCaGS1a7tynHC?si=xvtA_mo4Q-6empSdnRxm2Q

giovedì 25 aprile 2024

La mia Recensione: Sinéad O’Connor - The Lion and the Cobra

 




Sinéad O'Connor - The Lion and the Cobra



In un mondo che cerca la perfezione, i capolavori, lo stupore garantito senza dover fare fatica, preferirei affermare che almeno nella musica bisognerebbe porsi con un approccio umile, finendo per provare anche imbarazzo nel non saper maneggiare la bellezza e la profondità, la diversità e il clima interiore creato.

Poi ci sono i momenti in cui diventa sconvolgimento, tormento, valanghe di domande a ruota libera, smottamenti dei sensi con la sicurezza di creare e vivere un legame terreno, pronto a diventare eterno. E quando le note, le parole, le voci, gli strumenti ci fanno sperimentare tutto questo si diventa intimi, complici, riconoscenti, effervescenti, gabbiani in volo senza perimetro nel cielo.

Nel 1987 usciva un disco capace di fare questo, una porta sbattuta in faccia, con splendidi dolori a colorare di amianto le pareti del cuore, con una energia che non ha conosciuto esaurimento in quanto la perfezione esiste solo nella maniera in cui cavalca il tempo senza smarrirsi: Lion and the Cobra lo fa benissimo, come un bacio eterno di Apollo, Dio della musica e dell’arte che diede il suo beneplacito consenso per fare di questo disco la colonna sonora delle giornate di un paradiso parallelo, che si specifica nella possibilità di dare spazio a tormenti, follie, esagerazioni, molteplici flussi di coscienza propulsiva.

Queste canzoni sono frecce rabdomanti che cercano di entrare nel cuore dell’ascoltatore, senza l’esigenza di trovare concordia, bensì un luogo nuovo dove sperimentare gli effetti causati da queste nove nuove droghe diverse, in un pomeriggio che si dimentica di se stesso e sperimenta effetti: nel cuore del Vecchio Scriba durano ancora oggi, trentanove anni dopo. 

Come una barca che affitta la storia di un intero Paese e la porta in viaggio verso facce che parlano lingue diverse, così fa questa opera, un debutto fragoroso e micidiale, un assurdo che crea congegni per una masticazione che non darà mai totale gioia, perché questo non è necessario: Sinéad non cura le ferite, le causa in modo delizioso, ci mostra i nostri moti ingenui, incoscienti mentre dormono e lei si premura di svegliarci, con tattiche e pianificazioni che riescono nell’obiettivo. Battaglia con se stessa, con demoni, angeli, personaggi veri, finti, in un crescendo straordinario per la fattura della scrittura e dell’interpretazione, all’interno di un apparato davvero molto vasto, che scavalca i geni dei generi musicali e si accorda con la sperimentazione, con il riprendere concetti attitudinali del passato, shakerando ogni cosa nel centro del suo ventre, luogo di partenza e di distribuzione della sua enorme sensibilità. Nulla è affidato all’ipotesi, al calcolo, tutto viene invece registrato per essere messo nel vento, l’unico modo per assicurarsi la possibilità di un viaggio che possa toccare le coscienze. La giovane età, al momento della scrittura dei brani, non le ha impedito di mostrare forza, idee compatte, qualità plurime, di riuscire a definire il mancante, quello che nel 1987, inconsapevolmente, si stava aspettando ed è proprio questa la capacità più grande: dare ciò che non si sa ancora di desiderare…

Una fata travestita da strega, favole come l’incubo per la cronaca nera, analisi psicologiche che si affrettano a essere inserite nella memoria, stravaganze multiple in grado di assestarsi nel conscio, l’inconscio che viene stimolato a prendere una strada: è solo l’inizio, una infinitesima parte di ciò che accade mentre ciò che pulsa, nell’ascolto, diventa radice, capace di scendere in profondità, ribellandosi alle convenzioni, usando il linguaggio diretto della sincerità, sempre più sconveniente per chi ama nascondersi. Lei trova questa massa e la ribalta, con delle canzoni: ma che potere meraviglioso è questo?

Troviamo il romanticismo pelvico di un'Irlanda che sa come sfuggire al logorio del tempo, per rimanere indenni e poter raccontare le storie che si tramandano in una splendida abitudine, per accompagnare le giornate dentro un labirinto verde, sempre fresco, roboante, rotante, in perlustrazione perenne, e lo fa attraverso una sensibilità folk che bacia il rock, con  spruzzi di elettronica, contemplando petali di world music disseminati sotto pelle, non rinunciando a far danzare, con la testa che è un alveare sorridente, in cerca di spazio, creandolo e definendolo. L’adolescenza, nel disco, è una vibrazione verace, propositiva, che si ambienta benissimo nelle direzioni che spostano continuamente i sogni e la realtà, sempre un metro più avanti. 

Grida, sussurra, abbaia al pentagramma, si contorce nei suoi moti, non indugia mai, non zoppica, cammina sulle note come se nel suo dna questo non fosse un appuntamento ma la sua casa, da sempre. Muovendosi con agio, distribuisce pillole di saggezza, contempla una ribellione dei sensi, travolge la noia con la sua freschezza e colora la mente con artigli dalle molte piume: graffia e fa cadere dalla nostra pelle le nostre consolidate abitudini.

Un disco profetico, poetico, malinconico, mai attendista, mai volenteroso di sprecare il tempo e, con molta umiltà, capace di mostrare piani culturali in cerca di un approdo, di nuove partenze che con questi brani diventano obbligatori. Lei non permette l’indifferenza con questo album, ci trascina nel baratro ingannando la falsità con la sua totale sincerità. Disarma, mettendoci nelle braccia della mente fiori, idee, strisce di ribellioni da contemplare, come un compito a casa a cui non negarsi mai.

Leonessa, cobra, ma anche camaleonte, renna, gatta, gazzella, aquila reale, delfina, orso bruno, furetto, in un elenco infinito che mostra le molte anime in cammino tra i versi, i caratteri sempre ben visibili che riempiono il terreno mentale pieni di appigli, in un quadro che con il passare degli ascolti definisce la giungla umana, rendendo possibile lo scambio con il mondo animale. E poi ci sono spiriti mobili, che premono, coinvolgendo in modo autoritario, un bacino di pensieri pronti a scattare in piedi. 

E poi lei, la voce, un miracolo continuo, una cascata vibrante di gocce tra il dolce e l’amaro, che, iniettando indiscutibili capacità tecniche, si plasmano in modo straordinario nel suo sentire, nel suo tratteggiare le parole con spinte continue, in saliscendi affascinanti, toccanti, finendo per abbellire la nostra mediocrità. Una passeggiata, un corteo di qualità che non conosce debolezze, vivido, fulminante, sensuale, un terremoto che scuote i timpani e li rende utili nel comprendere che oltre la forma c’è una sostanza indiscutibile.

Quando urla, geme, sembra mostrarci il suo parto nel momento in cui non può più trattenere il corpo che per una vita ha avuto dentro di sé: una nascita continua, con il sudore che si appoggia alle corde vocali allenate per spazzare via l’indifferenza e nutrire gli stupori.

La sua natura è strabordante, avanza, sequestra, benedice, chiede aiuto, volge le spalle alla stupidità, affronta la crudeltà, immerge la sua devozione nell’amore che l’ha ferita e lei, come un angelo sapiente, sa insegnare a trasformarlo, a erigere il tutto su un piano meritocratico. 

Semina, incendia, polverizza, attende, mostra disincanto e sfiducia, nutre dubbi, e sale sulla carrozza dell’impegno affrontando tematiche urgenti, paralizza l'inutile e diventa Dea senza paura, battezzando sperimentazioni alari per insegnarci nuovi voli. 

Suona, questo incredibile debutto, come un classico che si attacca alla modernità, spesso annunciando un futuro che non tarderà ad arrivare, per colloquiare (doverosamente non sempre in modo positivo), con una realtà che non si accorge che è compito anche dell’arte fare da metronomo, indicatore, consigliare, sbrigare pratiche, per non sprecare il tempo. L’insoddisfazione personale delle prime registrazioni le hanno permesso di prendere il controllo in modo totale, come un flusso antidemocratico necessario: astuzia, capacità, un’indole furibonda, l’accortezza di un calibro per misurare tensioni, spasmi e dolcezze sempre in agguato, alla ricerca di un timbro che facesse crollare ogni opposizione. È stata una battaglia per lei quel periodo ma l’ha vinta, ha preso le canzoni e le ha inchiodate, insieme a chi non le aveva capite, nella parte dove la vittoria ha sempre un ghigno ferocemente soddisfatto. 

E quando la voce fa visualizzare le immagini, con il supporto di musiche che scavalcano ogni ritrosia, ci si ritrova infagottati in un manto ricco di muschio scivoloso, come il risultato di un giorno di pioggia a presa rapida sui nostri battiti. Quando canta le caverne provano sgomento: le ha scoperte e vi ha immerso fili elettrici che sconquassano le pareti. Rifiutando spesse volte le tradizioni che ritiene superflue, mette granite nei pensieri come soffici batuffoli di lana, ma si ha come l’impressione che in lei siano sempre presenti le esplosioni di Nagasaki e Hiroshima. La tranquillità non vive assolutamente nella sua testa, che germoglia e sparpaglia nevrosi senza temere contraddittori.

La sua passione per la musica diventa una sedia elettrica. Ammazza quello che il pop usa per abbellire uno spazio ridicolo e superfluo, e lo trascina nell’esercizio di brani costruiti con arrangiamenti che da soli spiazzerebbero il più narcisista degli artisti, facendo splendere la metodologia di una scrittura polivalente, attaccata alla espressione che deve contenere disciplina e regole. Una punk che non usa il punk per opporsi bensì la fantasia, la ricerca: il dito medio si insinua nelle onde amare di traversie continue, con una rabbia che non diventa sfogo ma una zolla di terra nel cielo.

Fa da madrina a Lisa Germano, Fiona Apple, Pj Harvey, Tracy Chapman, Liz Phair, Dolores O’Riordan: a tutte loro insegna qualcosa, perché è innegabile che la libertà di Sinéad ha pagato un prezzo personale altissimo, ed è confluito negli scenari di queste cantanti, al di là degli stili musicali, una impronta in grado di allargarsi nelle coscienze. L’artista irlandese ha portato in dono qualità che si sono compattate nel macroscopio della considerazione altrui, divenendo una contadina che ha sparso i suoi semi nei territori di altri.

Se partiamo dal titolo, dalla copertina, veniamo subito catapultati nella storia, nella religione, nella modernità dai colori sfavillanti, trovando per strada guerre, odio, favole contorte, miscele esplosive di consapevolezze stratificate, con allegorie, immagini fosforescenti, ambientazioni che fanno scricchiolare le convinzioni, attacchi alla politica in mano ai politici e non ai cittadini, relazioni sentimentali dove il terrore e le bugie non smettono di far versare lacrime, con l’incredibile sorpresa di vederla maneggiare il tutto con grazia e rispetto. Altro che capolavoro: qui lei è andata oltre, dove non esistono parole giuste per specificare e asserire. Si può solo dire Grazie e chinare continuamente la testa per imparare, senza distrarsi… 

E ora piangiamo per questo disco, non per la sua dipartita: in questo album risiede la sua immortalità, che potrebbe, di conseguenza, essere anche la nostra…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

25 Aprile 2024



My Review: Sinéad O’Connor - The Lion and the Cobra

 


Sinéad O’Connor - Lion and the Cobra


In a world that seeks perfection, masterpieces, guaranteed amazement without having to make an effort, I would prefer to say that at least in music one should take a humble approach, ending up even feeling embarrassed at not knowing how to handle beauty and depth, diversity and the inner climate created.

Then there are the moments when it becomes upheaval, torment, avalanches of freewheeling questions, landslides of the senses with the security of creating and experiencing an earthly bond, ready to become eternal. And when the notes, the words, the voices, the instruments make us experience all this, we become intimate, complicit, grateful, effervescent, seagulls in flight without a perimeter in the sky.

In 1987 an album was released that was capable of doing this, a door slammed in your face, with splendid pains colouring the walls of your heart with asbestos, with an energy that has never known exhaustion because perfection exists only in the way it rides time without going astray: Lion and the Cobra does this very well, like an eternal kiss from Apollo, God of music and art, who gave her approval to make this record the soundtrack to the days of a parallel paradise, which is specified in the possibility of giving space to torments, follies, exaggerations, multiple streams of propulsive consciousness.



These songs are dowsing arrows that seek to enter the listener's heart, without the need to find concord, but rather a new place to experience the effects caused by these nine different new drugs, in an afternoon that forgets itself and experiences effects: in the heart of the Old Scribe they still last today, thirty-nine years later. 

Like a boat that rents out the history of an entire country and takes it on a voyage to faces that speak different languages, so does this work, a thunderous and deadly debut, an absurdity that creates devices for a chewing that will never give total joy, because this is not necessary: Sinéad does not heal wounds, she causes them in a delightful way, she shows us our naive, unconscious motions while we sleep and she takes care to wake us up, with tactics and planning that succeed in the objective.



She battles with herself, with demons, angels, real and fictitious characters, in an extraordinary crescendo for the craftsmanship of the writing and interpretation, within a truly vast apparatus, which bypasses the genes of musical genres and tunes into experimentation, with the resumption of attitudinal concepts from the past, shaking everything in the centre of her belly, the place of departure and distribution of her enormous sensitivity. Nothing is left to hypothesis, to calculation, everything is instead recorded to be put into the wind, the only way to ensure the possibility of a journey that can touch consciences. Her young age, at the time of writing the songs, did not prevent her from showing strength, compact ideas, multiple qualities, of succeeding in defining the missing, what in 1987, unconsciously, was expected, and this is precisely the greatest capacity: to give what one does not yet know one desires



A fairy disguised as a witch, fairy tales as the nightmare for crime news, psychological analysis that rush into memory, multiple extravaganzas capable of settling in the conscious, the unconscious that is stimulated to take a path: it is only the beginning, an infinitesimal part of what happens while what pulses, in listening, becomes a root, capable of descending into the depths, rebelling against conventions, using the direct language of sincerity, increasingly unbecoming for those who like to hide. She finds this mass and turns it upside down, with songs: what wonderful power is this?

We find the pelvic romanticism of an Ireland that knows how to escape the wear and tear of time, to remain unscathed and to be able to tell the stories that are passed down in a splendid habit, to accompany the days inside a green labyrinth, always fresh, bombastic, rotating, on a perpetual patrol, and does so through a folk sensibility that kisses rock, with sprinkles of electronics, contemplating petals of world music scattered under the skin, not renouncing to make people dance, with a head that is a smiling beehive, in search of space, creating and defining it. Adolescence, in the record, is a true, purposeful vibration, which settles well in the directions that continually move dreams and reality, always a metre further ahead. 

She shouts, she whispers, she barks at the pentagram, she twists in her motions, she never lingers, she does not limp, she walks on notes as if in her DNA this was not a date but her home, always. Moving with ease, she dispenses pills of wisdom, contemplates a rebellion of the senses, overwhelms boredom with her freshness and colours the mind with many-feathered claws: she scratches and knocks our established habits out of our skin.

A prophetic, poetic, melancholic record, never wait-and-see, never willing to waste time and, with great humility, capable of showing cultural plans in search of a landing place, of new departures that with these tracks become obligatory. She does not allow indifference with this album, she drags us into the abyss by deceiving falsehood with her total sincerity. She disarms, putting flowers, ideas, strips of rebellion in the arms of our minds to contemplate, like a homework assignment never to be denied.

Lioness, cobra, but also chameleon, reindeer, cat, gazelle, golden eagle, dolphin, brown bear, ferret, in an endless list that shows the many souls walking among the verses, the ever-visible characters that fill the mental terrain full of grips, in a framework that defines the human jungle as the list goes on, making exchange with the animal world possible. And then there are mobile spirits, pressing in, authoritatively engaging, a reservoir of thoughts ready to spring to its feet. 

And then her, the voice, a continuous miracle, a vibrant cascade of drops between the sweet and the bitter, which, injecting unquestionable technical skills, mould themselves in an extraordinary way in her feeling, in her outlining of words with continuous thrusts, in fascinating, touching ups and downs, ending up embellishing our mediocrity. A promenade, a procession of quality that knows no weakness, vivid, fulminating, sensual, an earthquake that shakes the eardrums and makes them useful in understanding that beyond the form there is an indisputable substance.

When she screams, groans, she seems to show us her childbirth at the moment when she can no longer hold back the body she has had inside her for a lifetime: a continuous birth, with sweat resting on her vocal cords trained to sweep away indifference and nourish astonishment.

Her nature is overflowing, she advances, she seizes, she blesses, she asks for help, she turns her back on stupidity, she confronts cruelty, she plunges her devotion into the love that has wounded her and she, like a wise angel, knows how to transform it, how to erect it on a meritocratic plane. 

She sows, she ignites, she pulverises, she waits, she shows disenchantment and mistrust, she nurtures doubts, and she gets on the chariot of commitment by tackling urgent issues, she paralyses the useless and becomes Goddess without fear, christening winged experiments to teach us new flights. 

It sounds, this incredible debut, like a classic that attaches itself to modernity, often announcing a future that will not be long in coming, in order to converse (dutifully not always in a positive way) with a reality that does not realise that it is also the task of art to act as a metronome, a pointer, an advisor, a paperwork, so as not to waste time. The personal dissatisfaction of her first recordings allowed her to take total control, like a necessary anti-democratic flux: cunning, skill, a furious temperament, the shrewdness of a gauge to measure tensions, spasms and sweetnesses always lurking, in search of a timbre that would make all opposition crumble. It was a battle for her that time but she won it, she took the songs and nailed them, along with those who did not understand them, in the part where victory always has a fiercely satisfied grin. 

And when the voice visualises the images, with the support of music that overrides any reluctance, we find ourselves enveloped in a mantle full of slippery moss, like the result of a rainy day fast-acting on our beats. When she sings the caves feel dismay: she has uncovered them and plunged electric wires into them, disrupting the walls. Often rejecting traditions that she deems superfluous, she puts slush into her thoughts like soft balls of wool, but one gets the impression that the explosions of Nagasaki and Hiroshima are always present in her. Tranquillity absolutely does not live in her head, which sprouts and scatters neuroses without fear of contradiction.

Her passion for music becomes an electric chair. She kills what pop uses to embellish a ridiculous and superfluous space, and drags it into the exercise of songs built with arrangements that alone would displace the most narcissistic of artists, shining the methodology of a polyvalent writing, attached to the expression that must contain discipline and rules. A punk that does not use punk to oppose but rather imagination, research: the middle finger creeps in the bitter waves of continual travails, with an anger that does not become an outlet but a clod of earth in the sky.

She is a godmother to Lisa Germano, Fiona Apple, Pj Harvey, Tracy Chapman, Liz Phair, Dolores O'Riordan: she teaches them all something, because it is undeniable that Sinéad's freedom has paid a very high personal price, and an imprint capable of spreading in the consciences of these singers, beyond musical styles. The Irish artist has brought as a gift qualities that have compacted in the macroscope of others' consideration, becoming a peasant woman who has sown her seeds in the territories of others.

If we start from the title, from the cover, we are immediately catapulted into history, into religion, into modernity in glittering colours, finding on the way wars, hatred, twisted fairy tales, explosive mixtures of layered consciousnesses, with allegories, phosphorescent images, settings that make convictions creak, attacks on politics in the hands of politicians and not citizens, sentimental relationships where terror and lies do not stop making people shed tears, with the incredible surprise of seeing her handle it all with grace and respect. Far from a masterpiece: here she has gone further, where there are no right words to specify and assert. One can only say Thank you and continually bow one's head to learn, without getting distracted... 

And now we mourn for this record, not for its demise: in this album lies its immortality, which could, as a consequence, also be ours...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

25th April 2024


domenica 21 aprile 2024

My Review: Duran Duran - The Chauffeur


 

Duran Duran - The Chauffeur 


When fairy tales are tinged with black, burdened with drama, sinking their hands into the sacrilege of pain, confusion becomes the only clarity, in a frantic race towards that love that denies to open wide, to be consumed without evil waves.

We are lucky enough to be able to think about all this while listening to a gem that resists wear and tear, that still wounds today, for a strange apologia that cannot be scratched by opposing theories. A jewel full of glitter that does not suffocate the magnificence that dwells in its depths, a realm where magic and secret continue to pulsate. The Birmingham band, who deposited this deathless comet on its back in the treasure chest of time, wrote this song in the maturity of its adolescence, vessel, train and above all car, to bring moral concepts aboard a story where love, passion, annoyance, the inescapable consumption of desires could become a thorny message, a mental sting that, creeping in listening after listening, would cause paralysis, as the only true act of devotion to a circuit that was already capable of generating addiction. Knowing how to conjugate the pop sensation to a bundle of greyish tensions with the use of synths (the true drivers of this slow ride), is a truly remarkable operation, with the ability to leave a bitter and sweet taste in the listener's mouth, in a combination that cancels out all competition. The piano in flanger mode, the sensual bass, the work of programming, of the drum machine and then of the drums all converge in a lyric, in the voice, to head into the belly of the night, the perfect setting in which to relate to meditation, a fact, in itself, to be experienced as a disarming event if one takes Duran Duran for what they were, young men in search of success and unjustly not considered musicians of talent and great ability. This song takes care of clearing up doubts, plunging the class into the hourglass of time, where nothing can have an expiry date. What magnetises the whole thing is the poetic flow of this text, a story that reeks of frustration, of a secret love that spies with no chance of being reciprocated, in a flagrant rational detonation that engages the heartbeats, in a pulsating drama that sees musical genres converge in a hall where reception and study are crossed to complete the perfection of a project. In this scenario, the fun disappears, dissolved by these sonic textures and Simon's nasal voice that seems to suffocate the words with its high register and then fades into the final crooning.


 Traces of Baudelaire, of Ian Curtis, of the insane theatre that tries to paint the walls of the brain with dark colours, descend in the hypnotic waves of the track from the very beginning, with dramatic piano notes that already exhibit heavy breathing, to channel the magnet with no possibility of release towards our listening: the whole is a push towards the bowels of desire, its attraction towards the impossibility that exalts death.

The synth arpeggio is the real devilish drop that descends on our eardrums: deceptive in that it is apparently pleasant, with the passing of seconds it becomes a torture that leaves no escape, allowing a synthetic flute to bring momentary relief, a new form that captures the auditory apparatus.  The synthpop nerve is able to patrol the decadence typical of post-punk, for a mesmeric miracle, a 'pleasant' straitjacket, a loop from which running away is impossible, like from the Alcatraz penitentiary. In this context, the unsettling approach in the writing of a commitment becomes evident, qualifying the band and putting them in a position to be worthy of being heard by those who turn up their noses: all swept away by these three hundred and twenty-one seconds of Hamlet-like propensity, where everything gets complicated, becomes an adult metaphor that clings to the sceptre of undeniable qualities. Here we are in the stark reality, there is nothing prophetic, no lie, but a long ordeal that does not disclaim responsibility, in fact, it does the opposite, to generate conscious motions that obscure the future... 


Minutes like insects take their place in the alchemic form of a song that also flees from itself, having on its ankles tenebrous notes that emphasise the feeling that in the 1980s even being a voyeur of love meant being part of the team of suffering, in which the object of desire, so coveted, became the only culprit. Duran Duran took him and locked him up in the song that attests to his guilt, for eternity...

One has the feeling that the five of them took drops of water and deposited them in the notes, filtered them, cuddled them, and then let them go towards their destiny, as if everything was just a foretaste of a new artistic mode that would soon be fully revealed. And it did come to pass: from this pearl have sprung not only unhinged imitations, but also artists capable of trying to repeat the miracle of this rational and sensory procession.  The refinement, the production, the work of synergies stretched towards the candlelight that makes the scene gloomy make one shudder, ending up with handkerchiefs full of tears slowly dancing in the pockets while listening, alone.

When music has no chance of denying itself permanence in the vault of heaven, becoming succubus remains the only viable joy, despite the context...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

21st April 2024

La mia Recensione: Duran Duran - The Chauffeur

 


Duran Duran - The Chauffeur 


Quando le favole si tingono di nero, si caricano del dramma, affondano le mani nel sacrilegio del dolore, la confusione diventa l’unica chiarezza, in una corsa affannata verso quell’amore che nega di spalancarsi, di essere consumato senza onde malefiche.

Abbiamo la fortuna di poter pensare a tutto questo ascoltando una chicca che resiste all’usura, che ancora oggi ferisce, per una strana apologia che non può essere scalfita da teorie opposte. Un gioiello pieno di brillantini che non soffoca la magnificenza che alberga nella sua profondità, regno dove la magia e il segreto continuano a pulsare.

La band di Birmingham, che ha depositato nello scrigno del tempo questa cometa senza morte sul suo dorso, scrisse nella maturità della sua adolescenza questo brano, vascello, treno e soprattutto auto, per portare concetti morali a bordo di una storia dove l’amore, la passione, il fastidio, l’ineluttabile consumo dei desideri potessero divenire un messaggio spinoso, una puntura mentale che, insinuandosi ascolto dopo ascolto, causasse una paralisi, come unico vero atto di devozione a un circuito che già di per sé era in grado di generare dipendenza. Saper coniugare la sensazione pop a una fascina di tensioni grigiastre con l’uso dei synth (veri piloti di questa lenta corsa), è un’operazione davvero notevole, con la capacità di lasciare nella bocca degli ascolti un gusto amaro e dolce, in un connubio che azzera ogni competizione. Il pianoforte in modalità flanger, il basso sensuale, il lavoro di programming, della drum machine e poi della batteria confluiscono tutti quanti in un testo, nella voce, per direzionarsi nel ventre della notte, lo scenario perfetto dove relazionarsi con la meditazione, fatto, in sé, da vivere come un avvenimento disarmante se si prendono i Duran Duran per quello che erano, ragazzi alla ricerca del successo e ingiustamente non considerati musicisti di talento e grandi capacità. Ci pensa questo brano a sgombrare dubbi, a immergere la classe nella clessidra del tempo, dove nulla può avere data di scadenza. Quello che magnetizza il tutto è il flusso poetico di questo testo, una storia che puzza di frustrazione, di un amore segreto che spia senza avere possibilità di essere corrisposto, in una flagrante detonazione razionale che coinvolge i battiti del cuore, in una pulsante drammaticità, che vede convogliare generi musicali in un atrio dove l’accoglienza e lo studio sono incrociati per completare la perfezione di un progetto. In questo scenario il divertimento sparisce, dissolto da queste trame sonore e dalla voce nasale di Simon che sembra soffocare le parole con il suo registro alto per sfumare poi nel crooning finale.


Tracce di Baudelaire, di Ian Curtis, del teatro folle che cerca di dipingere le pareti del cervello con cupi colori, scendono nelle onde ipnotiche del brano sin dall’inizio, con note drammatiche del piano che già esibiscono il respiro pesante, per convogliare il magnete senza possibilità di sgancio verso il nostro ascolto: l’insieme è una spinta verso le viscere del desiderio, la sua attrazione verso l’impossibilità che esalta la morte.

L’arpeggio del synth è la vera goccia diabolica che scende sui nostri timpani: ingannevole in quanto apparentemente piacevole, con il passare dei secondi diventa una tortura che non lascia scampo, concedendo a un flauto sintetico di recare un sollievo momentaneo, una nuova forma che cattura l’apparato uditivo. 

Il nervo synthpop è in grado di perlustrare la decadenza tipica del post-punk, per un miracolo mesmerico, una “piacevole” camicia di forza, un loop da cui correre via è impossibile, come dal penitenziario di Alcatraz. In questo contesto, si rende evidente lo sconvolgente approccio nella scrittura di un impegno, che qualifica la band e la mette in condizione di essere meritevole di essere ascoltata da chi storce il naso: tutto spazzato via da questi trecentoventuno secondi di amletica propensione, dove tutto si complica, diventa una metafora adulta che si appiccica allo scettro di qualità innegabili. Eccoci nella cruda realtà, non c’è nulla di profetico, nessuna bugia, ma un lungo calvario che non declina responsabilità, anzi, fa l’opposto, per generare moti consapevoli che oscurano il futuro…


Minuti come insetti prendono sede nell’alchemica forma di una canzone che fugge pure da se stessa, avendo sulle caviglie tenebrose note che rimarcano la sensazione che negli anni Ottanta anche essere dei voyeur dell’amore significava far parte della squadra della sofferenza, in cui l’oggetto del desiderio, così agognato, diveniva l’unico colpevole. I Duran Duran lo presero e lo rinchiusero nella canzone che ne attesta la colpa, per l’eternità…

Si ha la sensazione che i cinque abbiano preso gocce d’acqua e le abbiano depositate nelle note, filtrate, coccolate, per lasciarle poi andare verso il loro destino, come se tutto fosse solo l’anticipo di una nuova modalità artistica che di lì a poco si sarebbe palesata del tutto. E avvenne: da questa perla sono nate imitazioni sghembe, ma anche artisti in grado di cercare di ripetere il miracolo di questa processione razionale e sensoriale. La raffinatezza, la produzione, il lavoro di sinergie protese verso la luce della candela che rende cupa la scena fanno rabbrividire, finendo con l’avere nelle tasche fazzoletti pieni di lacrime che danzano lentamente durante l’ascolto, da sole.

Quando la musica non ha possibilità di negarsi la permanenza nella volta celeste, ecco che divenire succubi rimane l’unica gioia praticabile, malgrado il contesto…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

21 Aprile 2024

La mia Recensione: Midas Fall - Cold Waves Divide Us

  Midas Fall - Cold Waves Divide Us La corsia dell’eleganza ha nei sogni uno spazio ragguardevole, un pullulare di frammenti integri che app...