lunedì 31 ottobre 2022

My Review: My Raining Stars - The life we planned

My Raining Stars - The life we planned

There are fascinating stories in the paths of some artists, that should be known and embraced. They are made up of great passions, obstinacy and a will to live music that should be popular to become an example.

One of these is called Thierry Haliniak, a musician from Saint-Sauveur-en-Puisaye, now domiciled in Auxerre, who, starting from his passion for the musical genre named C-86 (later turned into Dreampop), absorbed all the love (as the scribe) for the fabulous independent label Sarah Records and afterwards for Creation Records, to live, as a consequence, an experience in the band Nothing To Be Done.

These members shared the stage with artists such as Moose, Adorable and The Boo Radleys. After that period, Thierry continued to play his songs until he formed his own project under the name My Raining Stars. He found in his path the support and contribution of Danish musician Casper Blond, thus being able to work serenely on the development of his songs and, after a debut LP in 2008, he saw some Eps clearly manifest his qualities. Until arriving at this last record, The Life We Planned, which is the epitome of his limpid talent, full of poetry and lightness, harmonic flights where nothing is synthesised but rather evolved and rendered capable of reaching heights from which all his worth dominates our need to listen to brushstrokes of sweetness combined with his delicate and penetrating voice.

Here comes What Can We Do, a sensual demonstration of lightness blended with enveloping harmony.

With Mirror his old love for Sarah Records bands is highlighted, with this afternoon fresco of aptitude in playing enveloping rhythmic guitars, supported by keyboards that work almost covertly but do so delightfully.

When Summer's Gone arrives, the heart leaps with joy and becomes addicted to this poignant composition with a seductive guitar and a bass work which underlines its value. A resounding gem that must be loved without question.

On His Own brings the love of the evolution of 90s Dreampop, gliding with agility in a well-shaped Alternative that gives two musical genres the possibility of perfect coexistence.

The title song completes the Ep. And it is an emotional addiction, the senses embrace in this splendid photograph of the mood where life presents itself with shyness, almost with petals of sadness that is dominated but to which space is not denied. And Thierry's voice is perfect for giving it the face of a caress that can then pick up rhythm to fly within us.

A great work that deserves an enthusiastic approach from those who will fall in love with it. The scribe has succeeded and is now filled with gratitude and has no doubt that it will be the same for you.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

1st November 2022


Out on Friday 4th November 2022 on Bandcamp









La mia Recensione: My Raining Stars - The life we planned

My Raining Stars - The life we planned

Ci sono storie affascinanti nei percorsi di alcuni artisti, andrebbero conosciute e abbracciate. Sono fatte di grandi passioni, ostinazioni e di una volontà di vivere la musica che dovrebbero essere note per divenire un esempio.

Una di queste ha come nome Thierry Haliniak, musicista di Saint-Sauveur-en-Puisaye, ora domiciliato ad Auxerre, che, partendo dalla sua passione per il genere musicale denominato C-86 (trasformatosi poi nel nome Dreampop), ha assorbito tutto l’amore (come lo scriba) per la favolosa etichetta indipendente Sarah Records e successivamente per la Creation, per vivere, come conseguenza, una esperienza nella band Nothing To Be Done.

Quei ragazzi divisero il palco con artisti del calibro di Moose, Adorable e The Boo Radleys. Finito quel periodo Thierry continuò a suonare pezzi propri sino ad arrivare a formare un proprio progetto scegliendo il nome My Raining Stars. Trovò nel suo cammino il sostegno e il contributo del musicista Danese Casper Blond, potendo così lavorare serenamente allo sviluppo delle sue canzoni e, dopo un Lp di esordio nel 2008, vide degli Ep manifestare in modo evidente le sue qualità. Sino ad approdare a quest’ultimo, The Life We Planned, che è il sunto del suo limpido talento, colmo di poesia e leggerezza, voli armonici dove nulla viene sintetizzato bensì evoluto e reso in grado di raggiungere vette da cui tutto il suo valore domina il nostro bisogno di morbida propensione ad ascoltare pennellate di dolcezza coniugate alla sua voce delicata e penetrante.

Ecco giungere What Can We Do, una sensuale dimostrazione di leggerezza connessa a una armonia avvolgente.

Con Mirror si evidenzia il suo antico amore per le band della Sarah Records, con questo affresco pomeridiano di attitudine nel suonare chitarre ritmiche avvolgenti, con il supporto di una tastiera che lavora quasi segretamente ma lo fa in modo delizioso.

Quando arriva Summer’s Gone il cuore salta con gioia e diventa dipendente da questa struggente composizione con una chitarra seducente e il lavoro di un basso che ne evidenzia il valore. Chicca clamorosa che va amata senza dubbi.

On His Own porta in dono l’amore dell’evoluzione del Dreampop degli anni 90, planando con agilità in un Alternative ben plasmato e capace di dare a due generi musicali la possibilità di una perfetta convivenza.

Completa l’Ep la canzone che gli dà il titolo. Ed è dipendenza emotiva, i sensi si abbracciano in questa splendida fotografia dell’umore dove la vita si presenta con timidezza, quasi con petali di tristezza che viene dominata ma a cui non si nega lo spazio. E la voce di Thierry è perfetta per darle il volto di una carezza capace poi di prendere ritmo per volare dentro di noi.

Grandissimo lavoro che merita un approccio entusiasta da parte di chi avrà modo di innamorarsene. Lo scriba ci è riuscito e ora è colmo di riconoscenza e non ha dubbi che sarà così anche per voi.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

1 Novembre 2022


Data di realizzazione: Venerdì 4 Novembre 2022 sulla pagina Bandcam






DEAR DEER - We can play in a living room

 DEAR DEER - We can play in a living room


Follia. Intercapedini violate. Suoni macrobiotici. Veleni puri in voluminosa presenza. Stratosfera bucata da impeti essenziali e dinamitardi.


Il duo Francese DEAR DEER impazza, ingovernabile, in queste 16 tracce dal vivo, con maestosa potenza che si attacca alle caviglie, mordendo tra suoni schizzati, melodie acidamente elettroniche, pregne di tossicità che ci rende schiavi delle loro composizioni.


Se volete essere schiavi del piacere di vagare tra le loro stanze e portarli nelle vostre siate attenti: i confini saranno violati per sempre perché la loro forza evocativa non può conoscere adeguata resistenza.

I due sono artefici di schizzi ipnotici ed invasivi, corrieri di tensioni e trame intense che spaccano le mura.

Copritevi bene, siate rifugi antiatomici ma sappiatelo: non basterà.


Andiamo ora ad impattare le nostre futuribili distrutte difese, addentriamoci nel loro cannibalismo elettronico.


DISCO DISCORD


Fuoco alle polveri, la danza cupa si alza e siamo già corpi in spostamento, partiamo dalla living room, e siamo cani che abbaiano alla paura.


CLINICAL PSYCAL


Atmosfera glaciale all’inizio, industrial e synth-punk a cambiarci connotati, ossessione sonora, mantra bastardo e corpi disuniti. Federico e Sabatel sconquassano.


STRACILA


Synth-punk e Post-punk a rapporto, tutto viene a devastarci con una elettrica danza .


DEADLINE


Siamo in cucina, tra verdure fatte  a pezzi da una acida elettronica, tastiera maliarda e assassina, un drumming completa l’inizio di una nuova stanza che salterà in aria. Entrambi cantano e tutto si fa ancora più compatto.


DOGFIGHT


Loro all’inizio ridono: beata cattiveria, possono permettersela! Un basso come fungo allucinogeno anticipa i due esseri impegnati nel cantare come artigli senza più sangue. 


JOG CHAT WORK GULA GULA


Noise e elettro-dark si impastano nella cucina ormai simile ad un campo di battaglia.

Preparano un menu musicale che guarda alla Francia sanguigna elettronica più sanguinolenta.


CLAUDINE IN BERLIN


E siamo alla canzone dell’abbattimento finale, se mai avevate dubbi: follia, crudeltà, cattiveria nascoste da una tastiera che chiaramente ci prende in giro. Sublime!


THANATOMORPHOSIS


Ultima tappa in cucina e siamo raggiunti da una new wave pietrificata, immersa di synth-wave caricata non a salve...Tritolo tra le orecchie, drumming che parte cupo perchè i beats sono ovattati e le voci si fanno malate. Echi di Virgin Prunes nel loro salmodiare.


NADIA COMANECI


Ora, confusi, tramortiti, senza sapere come, siamo nella Dining Room. Altro che Natale: siamo all’inferno, preceduti da un inizio che ci ricorda gli EINSTURZENDE NEUBAUTEN per poi salutare I CABARET VOLTAIRE. Ipnosi infinita.


ARNOLFINI


Chitarre e basso si fanno vive per pochi secondi e poi scattiamo, sedotti e maltrattati da suoni storti e malvagi, un altro  capolavoro ci martella il cranio, siamo senza difese.


STATEMENT


Ma quanto è bella e selvaggia la confusione? Altra traccia a tramortirci, una drum machine imperiale, chitarra chimica e siderurgica, ci acchiappa lo stomaco, echi Arabi a farci sentire altrove e confusi.


CZEKAJ NA NAS


Forse che questo sia il Santo Gral? Il momento più dissacrante e compatto, chitarra bastarda a bastonarci le orecchie, lei, isterica, indomabile, in un ritmo assassino.


DEAR DEER


Ultima tappa, siamo in bagno.

L’album incomincia a finire con claustrofobia e gin tonic.

La frusta ci colpisce nella vasca, siamo immobili e sanguinanti, le voci si fanno più lontane e maledette. E lei ancora ride ma poi si eccita in un cantato ripetitivo e isterico. PERFEZIONE RAGGIUNTA!


OZOZOOZ


Parte come Coldwave ma poi frantuma ogni dubbio e diventa cattiveria: electro synth-punk a suturare, ma niente da fare, sanguinanti, moriamo danzando nella cacofonia più celestiale.


JJR


Va bene, accettato: moriamo in bagno sotto i colpi di una canzone con fare quasi pop, stupefacente, sorprendente, ma con una elettronica che ci colpisce ai fianchi.


LIFE IN REWIND


Ultima tortura: esanimi, storditi, frantumati, il duo ci assesta l’ultima sciabolata, senza pudore, oscenità elettrica, calano l’ultimo asso, un basso semplice ma pesante, tastiera subdola ne anticipa un’altra che spacca lo specchio e la vasca, è delirio finale: morti in felicità.


Alex Dematteis

Musicshockworld 

Salford

3 Maggio 2020

https://deardeerfr.bandcamp.com/album/we-can-play-in-a-living-room-live-2020




domenica 30 ottobre 2022

La mia recensione: POPOL VUH - Nosferatu ( Soundtrack )

 La mia recensione:


POPOL VUH - Nosferatu  ( Soundtrack )


Popul Vuh - Nosferatu


La Germania rock che si muoveva nei sotterranei, cupa e mistica, con vocazione esotica, diede alla luce i Popul Vuh, combo partorito da un amante del cinema e notevole regista.

Un pulsare in direzione diversa dalle altre band che completavano il percorso di rinnovamento della Cultura musicale tedesca.

Un rock metafisico costantemente alla ricerca, pulsante, gonfio della volontà di mischiare il sacro ed il profano con un fare assolutamente innovativo al tempo.

Ricercatori folli nel portare quella ricerca all’estremo e noti, ai meno, per l’uso di quel Moog, strumento di struggente bellezza, capace di enfatizzare e scolpire gli ascolti con un suono unico e spettacolare.

E da Monaco ad arrivare alla cultura Maya per il leader è stato un viaggio veloce e facile, ma complesso per la sua particolarità nell’unire tempi e culture diverse, Florian Frikie arriva ad un completo distacco dal suo circostante e come un viaggiatore ostinato porta a noi scrigni di bellezza non paragonabile, un precursore, un esteta dei suoni ricercati, un’anima devota all’estraniamento.

E se il nome della band deriva da un antico libro sui morti di quella civiltà, la musica pulsa di vita e di gioia particolare, segni tangibili di agglomerati sonori di notevole fattura.

Poi, lentamente, l’approfondimento definitivo nel collaborare con un favoloso regista, Herzog: il cerchio sacro che si chiudeva e che suggeriva la connessione definitiva tra Cinema e Musica, in un connubio di grandi evocazioni e di totale estraneità da tutto il resto, rabdomanti, Pellegrini degli spiriti, sciamani silenziosi, vulcani a coprire il superfluo con musiche ad esaltare la Spiritualità.

E questa colonna sonora certifica tutta la loro Maestosità: ritmi blandi che però accelerano il battito e si installano come magneti oscuri nella mente per inchiodarci stupiti.

E per l’ennesimo volta la loro Musica anche qui si fa esploratrice, si insinua con notevole capacità, è la nuova valigia che scende nelle nostre mani e ci conduce al cospetto della Sacralità in religioso silenzio.

Sono Inni che svuotano il superfluo e ci rendono ubbidienti, noi diventiamo apostoli che seguono le spaventose linee melodiche e sosteniamo la voracità dell’oboe, pianoforti seminascosti, chitarre languide che odorano di Oriente, tamburi anestetizzanti, sapori di India e Asia allineati per fare centro nel nostro stordito Sistema Nervoso Centrale...

È Musica come tappeto: ascoltandola siamo spettatori dei luoghi, non solo fisici, di un mondo segreto che necessita i nostri sguardi e le nostre riflessioni.

È Musica con andamento notturno che nasconde i raggi per poter nutrire le nostre paure, è una frusta sottile, lenta, tinta da un inchino ribelle che conosce il frastuono con Alta modalità, non affidandosi al rumore ma alla contemplazione.

E non è difficile capire quanto Klaus Kinski e l’algida Isabelle Adjani abbiano potuto giovarsi nelle loro roboanti recitazioni di questo ruscello crescente per fissare nei loro corpi movenze più sicure determinate da queste composizioni, che sono anche aghi purificatori che separano la bellezza dalla superficialità.

Una colonna sonora che porta tensione, palpable, facendo della lentezza e delle suggestioni il teatro della vita che rifiuta un certo caos sonoro.

Imprescindibile.


Alex Dematteis 

Musicshockworld 

Salford

20 Giugno 2020


https://open.spotify.com/album/4RQd1vHdJwnRPbGCPBCHpD?si=zQIJchr-RQWrRdDLSHc5TQ



https://open.spotify.com/album/4RQd1vHdJwnRPbGCPBCHpD?si=u59u6mUrTIykM24J-xojGw

sabato 29 ottobre 2022

La mia Recensione: Blocco 24 - Blocco 24

Blocco 24 - Blocco 24


Domani è troppo tardi: la vita è bersagliata da prospettive, sogni, ipotesi, ma ciò che conta è lo slancio del presente che partendo da se stesso semina fiori che si vedranno domani. Non bisogna aspettare.

La musica, ad esempio, sa farlo benissimo. È uno slancio del momento che ci invoglia ad ascoltare per sempre raggiungendo il futuro rimanendo fedele alla propria identità.

La musica che proviene dalla provincia ha una marcia in più. Saranno i limiti dati da minori possibilità, sarà per via di una rincorsa spesso inutile verso modelli cittadini che spesso poi rivelano pochezza.

Da una di loro giungono i Blocco 24, cavalieri del tempo sui loro cavalli che portano sismi e vibrazioni, scendono da colline e vallate come inseminati da mari e oceani ipotetici ma palpabili. Cavalcano le onde del bisogno, non come terapia bensì come samaritani delle nostre dispersioni. Le loro composizioni sono abbracci monolitici, un abbraccio enorme ma non pesante. Pesante è ciò che li circonda e che loro trasformano in preziosità, evidenti e generose, come concime e naftalina: all’interno del loro sacrato marmoreo si sviluppano battiti e impeti che scaldano i muscoli dei pensieri, trascinando in danze dai vortici sublimi, reattori musicali dentro milioni di poesie immaginifiche.

Cinque cavalieri per un blocco di undici Martelli di plexiglas, di stoffa antica piena di chip giusti, nel valore elettronico che fa sudare i pensieri e i corpi nella ballata della necessità.

Davanti alla scelta di imitare, copiare modelli di riferimento sicuramente validi, optano per una forma italiana della bellezza, dove lo stivale, che è la culla del bel canto e delle forme culturali per eccellenza, cammina con buon gusto nei tratti fisiognomici di strutture al cento per cento della terra di Dante e Pavese. Di loro due i Blocco 24 hanno il senso della lievità e del dolore in un sapore shackerato per espandere significati e permanenza nel girone del grigio che tenta la disintegrazione.

Loro impediscono la vittoria del male, per dare al non funzionante la possibilità di trasformazione.

Sono complici di ritmi contaminati di ondivaghe e nomadi trasfusioni di grammi di ombre, necessarie come lo sono le fatiche del vivere.

Viaggiando tra le confinate terre aride e persone morte per le strade, si assumono la responsabilità di filmare l’assurdo, il veleno e le traiettorie delle follie con musiche che scrivono messaggi universali, mentre i testi sono bagliori sonori pregni di maturità che, viaggiando tra le crisi, sviluppano discorsi di cronaca emotiva e razionale.

Adoperano scelte di suono per conquistare consapevolezza, tra generi diversi che una volta amalgamati si espandono come un  blocco di forze da versare nei torrenti dei nostri balbettii.

Le canzoni non sono episodi volti a rappresentare capacità di annessione e connessione verso modelli stilistici già confezionati, piuttosto portatori sani della possibilità di sviluppo.

Nella forza non c’è limite e loro cavalcano il flusso del passato per donarlo: il presente non può essere solo una biblioteca dove trovare quello che è già stato creato.

La vita è fatta di dipendenze, di tragedie, di esagerate pulsioni fisiche, di dispersioni in genere, di dispersioni politiche che snervano, di approssimazioni e intolleranze, e se volete saperne di più addentratevi nei testi di Carlo: ha saputo scriverne divinamente, baciato dagli esseri che vivono nella tempesta della volta celeste. La musica fa lo stesso, per una condivisione che sublima il tutto.

Per capire questa cascata di fulmini bisogna decifrare le loro tumultuose corse tra i vicoli colmi di sbagli. Nel Blocco 24 il fiato si perde per trovare verità e nuvole che aspettano un nuovo rimbocco. L’album è una foresta ipnotica che ci capisce più di quanto siamo in grado di fare noi con la sua forza dialettica di parole concatenate al desiderio di creare prospettive dal sapore amaro. A loro lo zucchero non serve e ce lo dicono dentro le loro vuote prigioni. Non hanno la necessità di rappresentare una generazione, non sono stupidi, bensì, perché questo fanno i cavalieri, portano pergamene tra i villaggi delle nostre menti. Loro non meritano il successo, l’applauso, la forma stupida di adorazione.

Ci donano invece la possibilità di guardare dentro noi stessi, di abbattere i nostri muri, di trasportare la forma di mutismo in un parlare ragionato.

Quello che meritano è il nostro grazie mentre impariamo che nella musica si possono trovare migliorie per uccidere forme di odio palpabili.

Non amici, non eroi, non idoli ma un lancio propositivo verso una formazione morale che sia una visita dentro il sentire più alto. 

Ed ecco che questo disco diventa pane quotidiano, un pasto dove il gusto è l’ultima cosa che conta, ma le calorie che offrono con generosa propensione per mirare a fare del nostro benessere psico-fisico una delle loro priorità sono davvero molte.

Non è difficile vederli con gli strumenti davanti alle potenzialità che cambiano pelle, mentre dentro i loro cavi trovano scosse di vibrazioni come micce che illuminano il momento dell’ascolto.

Gli impeti sono i loro imperi curiosi che viaggiano tra le sponde minate della cultura post-punk, come il sentiero da cui partire, con la letteratura che diventa appiglio e approdo, dove si muove il ventre amniotico di una spirale dinamica in cerca di un altrove da inventare.

Madre tastiera e transistor, bpm e coniugazioni sensoriali fagocitano il già fatto: sia dato spazio al ritmo corposo, a flessioni motorie come mezzi di indagine, per dare all’elettronica il senso di partecipazione all’interno di una formazione che va oltre gli strumenti che hanno deciso di depositare dentro le loro mani creative. Le caverne entrano in locali pieni di gente ma a loro la lentezza e la confusione servono solo per descrivere la folla: la sfuggono e la fottono con fulgida precisione.

Nulla pare esordiente in questo lavoro: si sente un camminare nel tempo da molto, i sensi e gli argomenti dimostrano abilità e profondità, uno sviluppo per forme che sono in grado di non consumarsi con gli ascolti ma di proliferare come onde gentili, programmate per farci stare bene.

Nessuno strumento prevale, la coesione è la coperta coerente che dà a tutti la luce, il rispetto toglie agli ego possibili sconvolgimenti e tutto diventa vena con sangue fluido che scorre nell’ascolto che si trasforma in un miracolo da abbracciare.

Ciò che ascoltiamo è una corsa di classe che sblocca le nostre gambe immobili, siamo nel loro fiato, nella loro alba che, mistica, sensuale, precisa, fa del nostro sentire un abito propedeutico per capire le loro composizioni.

Ci denudano, ci vestono, ci tramortiscono con labirinti dove le complicanze sono risorse, mentre la danza ci porta fuori della nostra stanza per baciare le stagioni tra la polvere di percorsi possibili.

Non perdete tempo a cercare comparazioni, background che vi intossicherebbero l’intelligenza: fatevi cuccioli, vergini, aperti verso i loro nascondigli, i loro geroglifici sonori sono opportunità per imparare e non per confronti che svilirebbero il loro operato.

Non è bello ciò che sorprende piuttosto è sano ciò che conferma che certe cose sono possibili, questo album lo dimostra pienamente: sono stati abili nel fare quello che dovremmo fare tutti, impegnarsi per disegnare il cielo, che ci fanno toccare, perché la realtà con loro supera i sogni.

Lo consiglio a chi si concede la sanezza di ascolti caldi, di volersi approvvigionare di forme artistiche compiute, ben saldate davanti al tempo, dove la luce e l’amore si guardano, si scrutano, si amano, per dare il benvenuto più fragoroso al Blocco 24, cavalieri di pazzie che invece di consumarci dentro mettono a galla il fragore della vita che va specificato, sempre!

E con questo album noi abbiamo un pasto completo: starà alla nostra intelligenza non scartare nulla, nulla…


Song by Song


1 Non mi muovo


Dalla decisione di un immobilismo acclamato si attraversa un ritmo feroce, tra echi di Prodigy dentro una synthwave travestita di grandine, per una canzone che sviluppa detriti comportamentali su sfere cilindriche di importazione Killing Joke nel ritornello, ma, attenzione: nessun furto con scasso, piuttosto miscele di guaiti che allarmano ed espandono un bolo alimentare dalla peristalsi nevrotica. La parte elettronica assaggia il dolore delle chitarre e ne rimane contaminato, mentre il basso e la batteria frustano il brano per renderlo incandescente.


2 Difendimi


Vecchie ossessioni umane pascolano nella insicurezza, nella durezza dei rapporti. E cosa fanno i cinque cavalieri? Creano antichi fasci luminosi, fatti da un piano girovago sui tasti, con annesso un brillio di chitarre accennate, il cantato affannoso e sublime, la sfera della tristezza dentro il basso che spinge verso la dissoluzione, con tutta la nevrosi post-punk che fa della darkwave una favola tesa. 


3 Berlino in autunno


Ecco il brano che potrebbe far storcere il naso ai puristi: che se lo grattino pure! Dopo un inizio vicino a cose conosciute, trite e ritrite (detto senza offesa), i Blocco 24 generano una canzone maestosa, per la capacità di spostarsi subito da quel territorio darkwave che li avrebbe resi prevedibili. Scrivono un muro semovente che accarezza l'acqua, con petali dance su basi elettroniche che sfociano in un synth dal vapore classico, per rendere la canzone inavvicinabile, sfuggente, unica, un purosangue per prestazione. 


4 Canzone per Mark


La saggezza passa attraverso metafore, coda velenosa di rapporti in grado di rendere fragile il respiro, ma non la memoria, non la lezione. Arriva un rallentamento del ritmo, un cantato più scandito, in grado di specificare il testo che viaggia nel sangue. La band rivela il lato melodico senza fretta, poche note su una struttura di sampler, effetti e una chitarra finale che ghiaccia il respiro.


5 Ghiaccio


Tornano i Killing Joke, avanzano i  Pink Dots, si presentano puntuali le chitarre acide degli X, perché devono vedere cosa ne faranno i cinque cavalieri. Semplice: ringraziano e salutano, sono impegnati a far prendere la scossa dentro mulinelli elettrici di grande fattura, al fine di dare al sogno la forza per sciogliere il freddo. Ma nella musica bruciano fiamme di bellicose capacità, nel gioco della alternanza dello spazio degli strumenti, tutti capaci di azzannare.


6 Stringimi


L'unico brano dell'album a mettere in difficoltà lo scrivente. Gli vuole bene, lo apprezza, soprattutto perché si è liberato abbastanza in fretta di ciò che i primi secondi avevano stimolato, e cioè trovare riferimenti troppo evidenti nella modalità alla band di Salford/Manchester che governa il suo cuore da quarant'anni. Seppure con innesti che prendono distanze dai quattro di Unknown Pleasures, per chi scrive è il momento del disco che non mostra tutte le loro abilità innovative, seppur non manchino colpi geniali da esibire. Credo che sia solamente un limite del sottoscritto.


7 Lenti e confusi


La band Romana preferita dello scriba, gli Elettrojoyce, riecheggia nel cantato e nel testo che allaccia la memoria alla band di Filippo Gatti. Ma l'impianto di note è strutturato verso altri porti, altra attitudine, dove l'elettronica annusa la leggerezza, per una canzone che mette fianco a fianco dolcezza e ritmica, strati di rock che fluttuano nel pop, per avvolgere la preziosità della confusione, che bacia la lentezza.


8 Barriere


Quello che hanno fatto nella loro carriera formazioni tedesche come i Blutengel e i Namnanmbulu (i riferimenti sono più nell'aspetto mentale che non artistico) entra incoscientemente dentro il gruppo nato a Palestrina: evolversi come necessità immediata e non come frutto di conseguenze date da risultati buoni o meno raggiunti. Qui i cinque superano loro stessi, per il diamante più puro, più originale, più sorprendente, con cambi, sviluppi, tracce e percorsi stilistici perfetti per intenzioni e capacità.

È acqua che nasce dagli Appennini e sale su al nord, a mostrare il suo corpo sensuale, controllando con facilità le proprie movenze artistiche, perché esplora il futuro creandolo subito. I Blocco 24 sono spaventosamente  capaci di precedere se stessi. 


9  Elettrica


Il cantato segue orme che arrivano dagli anni 80 (con i primissimi Bluvertigo che riecheggiano) ma senza legarsi troppo, mentre la musica è un abbraccio di tastiera che fa avanzare i giochi di chitarra sublimi. Un crooning improvviso bacia la perfezione mentre il ritmo torna a farsi vivace per trascinarci nella gioia di un ascolto che si fa umido di lacrime.


10 Sintesi


Con il testo maggiormente capace di compattare ogni possibile distanza tra chi scrive e chi legge, in un gioco di specchi naturale e consequenziale, il brano ha l'abilità di percorrere i suoni, la tecnica, in un impasto che odora del circo di Felliniana memoria.


11 Sono ancora vivo!


Lo scriba non si permette mai un percorso critico nei confronti dei testi, non è questa la sede, questa è una recensione. Mi si permetta però di complimentarmi: stile, argomento, modalità e qualità qui sono di altissima fattura. Con questo approccio le note sono mogli capaci di creare tappeti su cui sfiorare i corpi e i sensi, per poi divenire un trascinante loop che inghiotte e ci lascia esausti e contenti. Se si riavvolge l'ascolto, partendo dai primi secondi, ci si accorge del bellissimo percorso di agglomerazione stilistica, labirinti da cui estrarre strumenti e modalità per scrivere un brano che conosce la perfezione...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

29 Ottobre 2022


Carlo Marzari Voce e synth
Stefano Moroni Basso
Luca Puliti Chitarra e voci
Roberto Nosseri Batteria
Andrea Giuliano Chitarra e voci


https://www.blocco24band.it/Blocco24-booklet.pdf


https://open.spotify.com/album/3BNEyGqpLhIUFCpw0mHuMd?si=X--otWjWQJWtrOyUVuKVXQ


















venerdì 28 ottobre 2022

La mia Recensione: Lalli - Tempo di vento

 Lalli - Tempo di vento


Carcassonne

“L’unico castello costruito
 verso l’orizzonte è quello degli uccelli.

L’altro è un rifugio per i poveri
 che sempre esigono autorità

mettendo in scena il teatro delle cameriere
 nelle voci nascoste della sera.

Il trovatore inzuppava il pane nelle fontane,
nelle taverne più nascoste,

beveva da quell’altro campo,
 prelibato come la merda dei re.”

Juan Arabia


Esistono anime protette, perché non possiamo infierire su di loro. Per volontà celeste. 

Anime pregne dell’essenza del tutto cosmico che hanno avuto il compito di illuminare gli stolti, di seminare la verità degli abissi, di glorificare i doni avuti.

Uno di quelli è la voce, la prima porta di comunicazione. 

Poi la scrittura che passa attraverso quella voce.

Lalli è piccola, come Samira (una sua canzone), di quella statura che ti porta a guardarla dall’alto verso il basso vedendone i piedi per primi, la radice di ogni gravità. Lei ti porta alla genuflessione della coscienza, particella siderale il cui destino è quello di abitare le anime profonde. 

Lalli.

L’inizio di un canto che è preghiera pagana, spirituale, generosa, calda, scuote e abbraccia e genera il bisogno di abbandono.

Donna dalla carriera immensa ma poco nota, ha sbeffeggiato il successo sin dalla tenera età: altri erano i cieli a cui lei ambiva e ancora li segue, raggiunge, descrive.

E dopo la formidabile palestra di vita dei Franti e alcuni passi in altri progetti, eccola aprire i suoi forzieri, metterci le mani e pilotare l’arcobaleno verso la perfezione. In una fascina dove i colori della temporalità vengono accesi, sparsi verso acute osservazioni, riportati dentro il suo cuore e poi direzionati verso Lei, la sua voce, impianto al di fuori di ogni definizione.

Lo fa con un album che continua a sconquassare, a nutrire, un uragano che con la sua maestosa bellezza concima mentre straripa nel cuore, nella mente circondata da una umanità unica e quindi intoccabile.

Perché non si tocca il vento.

Lalli lo prende e lo incolla dentro noi con canzoni come fiori di assalto, una sommossa per far scongelare le nostre pochezze. Sono undici folate atte a svegliare i sentieri fatti di diverse guerre e dove uguaglianze e mancanze di rispetto attraversano la sua penna per erudirci, informarci, svegliarci.

Perché il tempo non dorme mai e lei sveglia il vento per farcelo sapere.

Un album scritto da un’adulta con la saggezza di una bambina, una scrittura che mostra tutte le diramazioni che un sole nasconde solitamente, per desolata complicità di esseri umani così lontani dalle vicende quotidiane che loro stessi causano.

Lalli mastica e sputa pallottole, la forza delle donne che hanno rughe più marcate perché chi partorisce la vita soffre di più. Lalli cammina e lascia orme, mentre Pollicino mangia la sua maturità che viene sparsa dal vento…

E allora la sua potente propensione a non disperdere le gravità dell’animo umano la conduce ad abitare dentro la responsabilità di essere un respiro che alza per un attimo lo sguardo con testi che, tra poesia e mistero, arrivano alla nostra mente, sperando che il tempo del vento sia in grado di far nascere una scintilla intelligente.

Canzoni come bombe, che finiscono sulla neve che nulla può fare se non testimoniare la follia lasciando tracce di sangue sulla sua pelle. 

E poi l’amore.

Sceglie e prende Marlene. 

E basterebbe già questo.

Invece lei cammina lenta, dentro ogni rosa, per mostrare l’orgoglio e il diritto di esseri con identità mai davvero conosciute del tutto.

Racconta la vita con storie antiche dentro questa attualità violenta e ossessionata, dove ogni contrasto sembra generare entusiasmo e perdizioni. Come sempre, l’artista Astigiana si oppone, come una fiaccola dentro una bufera, destinata allo spegnimento, ma lei ha la forza di riaccendersi ogni volta, in ogni canzone, in ogni nota che la sua voce permette. Ed è un delirio di incanto struggente, la consapevolezza che in quella donna dalla bassa statura fisica esiste un infinito di concreta capacità di analisi che la rende vasta e immensa come la volta celeste.

"Tempo di vento" è il miracolo che la canzone italiana quasi quasi non merita: dove tutto è fatto per stupire, per portare consensi, qui invece abbiamo la maturità che vive da sola e si dissolve nel silenzio dell’indifferenza generale. Talmente potente che viene abbandonato sui pochi scaffali dove faticosamente è arrivato, al limite ascoltato e poi lasciato nella polvere, che mangia l’anima. Ma di cosa è fatto questo viatico?

Degli elementi della natura che si stringono dentro la necessità di una convivenza con l’unica bestia che ha distrutto il sogno, quell’uomo capace di creare catastrofi non necessarie. E lo spirito anarchico di Marinella continua a esistere, per una necessità che la rende sempre più piccola, sempre bella, sempre ostinata nel non cedere di un passo, malgrado quegli elementi sempre di più cancellati dal vento umano.

Simboli, immagini, racconti, memorie, l’amore che fa impazzire, la crudeltà: lei ne rimarca la validità, la presenza, per seminare speranze che arrivano solo dopo attente riflessioni. 

La musica di questo album è un vestito di perle, di scorie, di arpeggi, di arrangiamenti celesti, di schegge che lacerano la pelle, di generi musicali che attraversano i versi per portare la sua interpretazione verso l’eternità, in un matrimonio artistico che ha l’appuntamento con l’autenticità e la speranza. Ogni nota entra chiedendo permesso, un gran lavoro di limatura trasferisce un’unicità dentro il nostro abbraccio, tra oriente, occidente e il sud del mondo. La storia parte con la guerra e la musica non fa che evidenziarne le gravità, le bassezze. Quando è il futuro che necessita respiri, ecco che l’apparato sonoro dipinge l’atmosfera e le giuste propensioni per donare agli occhi di Lalli il terreno che si fa ancora più fertile. La luce e l’ombra entrano nell’aria dagli strumenti che sanno perdonare i nostri fragori illuminati dalla violenza, per riuscire a perfezionare ogni intenzione che l’ex cantante dei Franti cerca di fissare.

Gradevolissimo l’ascolto anche quando le lacrime accendono gli occhi e i battiti si fanno irruenti e spaventati, ma tutto di questo album profuma di amore, perché capire come vanno le cose è l’atto più grande che lo riveli. 

Lalli sa come fare, ci sa fare per davvero, e i suoi pugni sono poesie che cercano un orecchio, perché la sua voce, vellutata come un tuono che seduce invece di creare timore, ha il compito di spalancare l’anima. 

Non si può negare come gli argomenti trattati, la modalità, siano la legittima conseguenza di uno spirito indomito, e anche questo è l’insegnamento che ribadisce la sua forza. Non spreca un centimetro della sua esistenza, continua con l’elmetto e i fiori a calpestare le chiavi dei nostri guai, per farci vedere oltre lo specchio, che non va usato per riflettere una identità che non viene mai discussa seriamente. Lei lo fa con parole come sequoie, resistenti al vento, al tempo, alle banalità. Vocaboli attaccati a esigenze comunicative che hanno una scadenza, perché tutto precipita, e in queste undici tracce lo evidenzia perfettamente, mettendo gentilmente fretta ad ogni nostro gesto sbagliato, tracciando nella mappa dell’insistenza l’appuntamento con un agire diverso.

Genitori, donne in attesa perenne di un cambiamento che non arriva, bambini impolverati dalla violenza adulta, città squartate, bombe che precipitano senza sosta , giardini che si spengono tra quindici e più pietre, i sorrisi e i gesti che lei immortala meglio di un fotografo.

Questo è solo un milionesimo di ciò che si trova in questo album, terremoto allucinante per gli egoisti, l’opportunità di accendere il sole del futuro per altri, per un viaggio che cambia l’identità, un passaporto morale che va rivisto, mentre la sua ugola vibra di pioggia e polvere da sparo, esempio unico di un sentire universale condannato a essere privilegio per pochi. Nel tempo in cui i petali sono senza profumo, lei ci porta l’odore del vento, testimone di quello che accade in questo pianeta sempre più brutto. Lalli, guardiana della verità, scrive ciò che va assolutamente scritto, con il groppo alla gola e lo sguardo sempre vigile. Nulla cambia dentro la sua anima attenta e queste canzoni confermano che la sua abilità non possa avere un sorriso largo, debba divenire un fiume in piena in punta di piedi, con la fragilità che giocoforza deve trasformarsi in una proposta che scombussoli il gioco delle prepotenze.

Lei non è alla finestra per vedere il tempo passare: sale sul vento e ci porta tutto ciò che vede, dove sono certo che non vorrebbe parole ma un abbraccio silente, il migliore dei pentagrammi possibili.

La cosa che l'autrice evidenzia maggiormente in queste tracce è la necessità di vocaboli che consentano la convivenza tra l’agio e il disagio, per un processo di impegno che possa dipingere le brutture di colori colmi di sole, con la temperatura che veicola respiri morbidi e agili.

Da quel processo si arriva alle canzoni che devono essere preferite, basta che nascano al mattino anche se impazzite, ma con l’intenzione da parte di chi canta di vederle volare serene.

Indubbiamente un lavoro che farà fatica ad avere l’ingresso facilitato, dovrà alzare i gomiti delle persone che cercano nella musica il territorio del conforto, del disimpegno, di benedizione del vuoto. L’arte della musica per Lalli è cultura, opportunità di messaggi viandanti che devono atterrare, e il suo vento è proprio questo che fa. Ce li porta, tutti.

Abbiamo post-punk, alternative, respiri sudamericani, parvenze pop, jazz e blues sapientemente mascherati e incrociati a tutto il resto, echi di musica classica tra le pieghe del vento di note bisognose di essere un mappamondo stilistico senza bavagli. Del Rock si sente l’urgenza e il sudore che finisce sulla sua pelle consumata da fatiche alle quali Lalli ci dà l’accesso, e in certi momenti è proprio lui che sembra il guardiano del tempo e del vento che lei descrive perfettamente con canzoni che odorano come un incontestabile raccolto di frutti che dobbiamo saper masticare.

Ma, ancora una volta: tutto questo costituisce solo una parte, perché gli ascolti qui vanno ripetuti e precisati, senza dispersioni.

In alcuni frangenti però giunge qualcosa di morbido, di sostenibile senza dover gocciolare tensioni e paure.

E tutto questo è posto in modo vistosamente leggero, per consentire alla sua voce di volare dentro “cieli più sottili”…


Song by Song


1 Brigata Partigiana Alphaville (A mio padre)


È subito magia, tra violoncello, chitarra, basso e batteria, per un incrocio stradale di melodie e parole piene di riconoscenza. Un grazie per una memoria che costruisce rispetto e identità, dove la Storia va imparata e codificata attraverso un contatto umano che renda le anime vicine.


2 Tempo di vento


Buia, quasi cupa, la parte iniziale del secondo brano è una finestra rotta che lascia entrare panorami esistenziali pregni di fatica e abitudini che svelano il cuore mentre impazza. Quasi trip-hop, dal vestito mutante, la voce delinea la faccia triste della poesia quotidiana, per un’immersione intima che, attraverso la modalità cantautorale, ci fa ascoltare il tutto con grande partecipazione.


3 Aria di Buenos Aires


Le civiltà si incontrano sebbene esistano distanze pesanti e ingombranti. Lalli unisce Torino e Buenos Aires in un gemellaggio intellettivo attraverso arcobaleni fermi, la musica sottile, chitarre accennate e la storia che lei disegna tra le nuvole. Ci penserà quello che potrebbe essere un desueto lungo ritornello o, meglio, una strofa che cambia pelle, a dare un nerbo improvviso a un brano che gridava già dentro la testa.


4 La mia faccia


Leonard Cohen anticipa la cover che più avanti prenderà posto nell’album e lo fa per via di una brano proprio di Lalli: è magia cupa che inonda le strade, quelle delle identità che soffocano dentro i giorni. Per farlo bene la musica è un ronzio, un sibilo, con la batteria che batte pesantemente sulle verità che escono fuori dalla poetica della cantante. E la voce è una richiesta di aiuto, per scacciare la solitudine, in una modalità dirompente e raffinata. La perfezione esiste e dura duecentosettantuno secondi.


5 Fuochi I


Rintocchi di piano che galleggiano sul fiume e sui coralli, un cerchio drammatico, intimo, un canto quasi Navajo, una invocazione che diventa evocazione, sino a divenire una corsa che coinvolge gli strumenti, come una sciabolata progressiva, con il compito di amalgamare il terremoto emotivo che Lalli descrive con incredibile precisione.


6 Mostar


Quando la crudeltà sanguina sul bianco della neve…

È ipnosi che fagocita l’ascolto, tra un organo, un suono soffocante e la storia di una guerra che graffia il confine tra la gente e i potenti. Un frastuono che ghiaccia la nostra resa davanti all’inesorabile per una canzone che disegna ombre e orme in cui sprofondare. Una marcia che stanca ogni euforia, mentre la neve si ingolfa di macchie rosse e i suoni penetrano l’anima. 


7 Famous Blue Raincoat


Lalli prende il cantautore dalla penna più eccelsa e interpreta, canta, piange sul microfono dentro la poesia che veste la malinconia e la nostalgia. Ed è jazz camuffato, pieno di un'anima blues che si nasconde pure lei, mentre il sax di Stefano Giaccone viaggia sornione tra note sensuali. Si chiudono gli occhi, si viaggia dentro ciò che non si può catturare ma solo avvertire: è la poesia che dal suo trono ci guarda e racconta ciò che non siamo pronti a perdere.


8 Fuochi II (Occhi lucidi nella notte)


Il secondo tempo di fuochi che stavolta conoscono la modalità di un crooning che ci solleva dalla percezione verso la conoscenza di una storia che si conficca negli occhi nostri, pesti. Magnetica, gravemente pregna del connubio tra poetica sublime e una storia fatta di sofferenza. Tutto pare accennato, sul piano musicale, con la convinzione che l’ascolto ci porti dentro il Virus, centro sociale chiuso e che determina l’ennesima sconfitta.


9 L’uomo col braccio spezzato


Una chitarra quasi perversa lascia posto a una melodia che si ingentilisce per far entrare gli occhi di Lalli che viaggiano nell’abisso del mare. Poi accenni di arpeggio, le bacchette della batteria che battono quasi gentilmente sui tamburi sino a quando tutto si fa tempesta, per pochi, interminabili secondi. Il registro della voce sale nel cielo e noi davanti a questa bellezza ci facciamo piccoli.


10 Le donne quando restano sole


Una delle canzoni più belle di sempre arriva con l’amarezza ai lati della bocca, per sprofondare dentro la pochezza maschile e la sua violenta propensione a spegnere la lealtà. Una donna nasce e cresce con consapevolezze che la rendono estranea davanti ai giochi di potere dei maschi, e l’amore nasce proprio lì, nello stringersi senza aver bisogno di loro. Musicalmente siamo davanti ai soffi, ai sussurri di note che sanno aggravarsi al momento giusto per meglio definire certe pesanti precarietà. Un alternative rock efficace e perfettamente cucito addosso a parole che sono di piombo solo per chi è insensibile con uno dei lati della identità umana…


11 A Donatella


Questo capolavoro trova la perfetta conclusione con una ninnanna disegnata da un pianoforte essenziale, comprendenti il cantato caldo di Tommaso Cerasuolo e Rosalma per un finale toccante e profondo. Tenco  entra nella sensibilità di Lalli e l’abbraccia, consentendole l’ennesima prodezza stilistica con una interpretazione sicura, che salda l’amore mancante.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

28 Ottobre 2022


https://open.spotify.com/album/2WgWu9df1Wu4Cldrj8Ai7W?si=Eh6i-aO3T2mpgckINMsqeg





giovedì 27 ottobre 2022

La mia Recensione: Alice Cooper - Love It to Death

 

La mia Recensione:


Alice Cooper - Love It to Death


Bettie David e Anita Pallenberg.

Dee degli anni 60 che hanno fecondato bellezza e importanza, gravitando nei pruriti fisici e mentali di uomini in cerca di ossessioni.

Poteva mancare di fare lo stesso Vincent Furnier, da Detroit, anima nascosta dal credo cattolico genitoriale? Certamente no!

Come una lumaca che sale su uno skateboard, il ragazzo baldanzoso forma un gruppo e scrive singoli, cerca attenzioni dando in cambio stratagemmi visivi uniti a percorsi mentali demenziali, farciti di bolle di pazzia ad alto voltaggio.

Crea la band Alice Cooper e fa di tutto per disintegrare il talento con dischi confusi e approssimativi, seppur macchiati qua e là già di  bellezza e di vibrazioni metalliche. Questo vale per i primi due lavori.

Poi Frank Zappa vende la sua Label alla Warner e tutto cambia per la formazione Statunitense. C’è bisogno di chiarezza, disciplina, di quella incisività mancante ma che con un buon lavoro può essere ottenuta. Arriva un musicista, arrangiatore, giovane e inesperto alla produzione, il cui impegno (non privo di scazzi e tensione) darà però al terzo album una forma e un valore immensi.

Bob Ezrin è colui che sfiora il vaso Alice Cooper e il serpente che esce questa volta, seppur addomesticabile, si rivela velenoso e letale, stravolgendo la sfera musicale per creare uno spartiacque che risulterà decisivo.

Arriva Love It to Death e finzione, realtà, mistero, crudeltà e una forte immaginazione daranno al rock dell’epoca una lezione, sapendo succhiare linfa contemporanea per ampliarla e inocularla in quella scena rock americana così desiderosa di un passo avanti.

Eccoci: Glam Rock, Psichedelia, semi Garage, presi e liofilizzati, dentro papà Rock che mette su muscoli, adrenalina, entrando a teatro e al cinema con cambi di abito, una scrittura che rispolvera la poetica decadente ma alla quale viene data una sferzata con i fervori giovanili. Si crea uno shock totale che accerchia i fianchi mentali di persone consumate dagli abusi ma senza più coscienza.

Vincent non ci sta e coinvolge i membri nella scrittura dei brani (metà saranno totalmente suoi, gli altri dei 4 funamboli) più una cover meravigliosa.

Manicomi, insicurezze, favole gotiche col trucco sbavato e colante, grumi di terrore: tutto compattato per portare in scena non il disagio bensì una presenza che desidera acculturare, diversificare e ampliare il raggio di azione della potenzialità delle giovani leve che vogliono fare qualcosa di più decisivo.

Gli Alice Cooper scavano nel torbido e trovano uno scettro dal quale escono raggi che sprigionano paura ma soprattutto curiosità e senso di novità più che mai necessario.

E qui la maestria di Bob si rivela la mappa del tesoro e non il tesoro stesso: lui indica le coordinate per trovarlo e disciplina la truppa di pirati musicali verso il target, che viene raggiunto pienamente.

La voce è una Toxicodendron radicans (edera velenosa) che graffia le nostre orecchie per creare ferite, come ugualmente fanno le chitarre: un modo selvaggio di assestarsi e di poter dominare, senza rinunciare a una forma estetica che conosce eleganza e dolcezza.

Ma saranno semi che si allargheranno dentro il tempo che verrà e che li consacrerà come tra i più validi e importanti maestri non solo di generi musicali, bensì di attitudini.

Su queste corde vocali le melodie sono più ordinate e coordinate rispetto al passato: tutto ne beneficia e lo spettro allarga il suo macabro sorriso all’interno di un meccanismo perfettamente oliato con erbe magiche che si rivolgono agli spiriti del ventre terrestre.

La vita diventa un pretesto per oscenità da nascondere con la pia illusione che la musica sia un messia, un viandante che insegna la forza del sole.

Si percepisce invece il contrario: le divagazioni e le dilatazioni degli anni 60 qui sono un piccolo riflesso che viene tramortito per essere schiacciato da una veemenza espressiva che tende a fagocitare l’inesplorato. 

Prendi i Doors, gli Stones più sfrenati e ti sembreranno poppanti al confronto: l’età adulta incomincia con il constatare che non si può scegliere ma inondare ogni particella frustandola, facendola sanguinare per finire con il regalarla.

Strafottenza ma anche gusto artistico convivono, perché la polvere che esce dagli amplificatori va dritta nelle narici della mente, come un complotto ordito da chi non si può discutere, per renderci passionali a nostra volta, ebbri di sregolatezza ed euforia.

Un album che anticipa generi musicali, fotte il passato mostrandosi superiore e un nuovo modus operandi viene conosciuto ed esplorato per contaminare luoghi comuni e ascolti ormai a rischio di essere démodé.

Si entra come serpenti assatanati nel fiume delle droghe, deglutendo liquidi fangosi, quintali di sesso scrutandone le devianze, e altri argomenti che giocano contro la mentalità benpensante che li definisce tabù.

I quali, invece, per Vincent sono pane quotidiano, un alimento che fagocita e di cui, siamo certi, nell’album trovano posto solo le briciole, in quanto sarà nella dimensione Live che tutto troverà l’ampiezza, rivelando in toto dimensioni enormi.

Non più patologia ma uno stato d’essere, legittimato da una volontà forte come un credo biblico.

C’era da sostituire il power flower, non più credibile, sostenibile, incapace di determinare comunione e pacificazione. Lo scenario era cambiato e Vincent lo sapeva bene, perché crea uno spirito umoristico notevole e si addentra con intelligenza, in lirismi oscuri e nella volontà di non essere asservito all’establishment che invece formava soldatini ubbidienti, con escamotage che parevano dare libertà.

Quella che invece gli Alice Cooper realizzarono con sapienza, dinamicità e spruzzi di cattiveria che approdavano alla derisione di alcune forme di potere. Bisognava parlare alla giovane generazione con inni rock, con immediatezza e senza rimbambire i cervelli di sostanze dal potere anestetizzante. La musica come trampolino di lancio di nuove psicosi, chiaramente liberate da ogni pastoia mentale. Tutto questo vive nei solchi di un album che a 51 anni mostra ciò che ha generato con grande orgoglio.

La sfacciataggine dei riff è eloquente, programmata, finendo per inoltrarsi nei bisogni di semplicità che il rock stava perdendo. Il combo ritmico, asfissiante e poderoso, conferma l’intenzione che la musica, affinché possiamo subirne il fascino e diventarne dipendenti, debba partire dai brividi, dall’immediatezza che fa scattare i corpi in piedi e correre e danzare come cavallette senza ordini precisi di lavoro. La musica contenuta in queste nove tracce sarà educativa malgrado ossessioni e maleducazioni evidenti, perché un nuovo linguaggio doveva produrre l’omicidio del già noto. Nessuno inventa nulla, nella totalità del termine, ma sicuramente qui si trovano miniere evidenti di nuovi metalli, diamanti e oro da estrarre e da mostrare per creare un nuovo principio di appartenenza. Il futuro, grazie a questo album, diventa l’improvviso parto che genera una creatura che trucca il senso della vita, sconquassa, illumina e sin da subito schernisce la realtà con stilettate seminascoste. Non più canzoni di protesta, di rifugio psichico, di benessere perché assenti da ciò che crea disagi, bensì l’universo dell’incerto che ha nuovi nomi e cognomi da studiare, da capire, nuove eccentricità da far spostare, nuovi sensi da scoprire.

Musica come omicidio del conformismo, elemento patogeno da indossare con fierezza per sconfiggere il senso di salute che, attraverso il capitalismo, aveva affossato anche i musicisti, sicuramente vittime dell’industria musicale così devota alla forme di controllo. 

Troviamo quindi una galoppata di cliché usati per essere derisi, ammirati, lasciati in un angolo, adorati e odorati, in una giostra contraddittoria che affascina e porta allo stordimento, facendo in modo che alla fine dell’ascolto ciò che avrà generato sarà stupefacente e nutriente. Si sentiranno riferimenti parziali, diretti (David Bowie su tutti, in un paio di episodi), Jimi Hendrix, la psichedelia inglese delle vie eleganti dei quartieri chic di Londra e tutto il caos statunitense che, mettendosi un mantello e appesantendo un pò il corpo di ferraglia, si trascina con leggiadria fra ritmi sostenuti, ballads ipnotiche e divagazioni che risultano in questo trambusto sonoro perfettamente sensati.

Geniale nella sua esagerata energia, nei suoi fiumi fumosi degli anni 30 a cui sono stati tolti polvere e grasso, ecco che Love It to Death è un capolavoro ineccepibile di cui oggi pare difficile capire il senso. Ma molto proviene proprio da queste canzoni, dai suoi autori, da quel produttore e dal fato musicale che concede sempre spazio alla ricchezza, sotto forma di una genialità senza tempo…


Song by Song


1 Caught in a Dream


È un Glam che sembra essere pulito, ma che contiene croste maligne al suo interno, mentre viaggia spedito nei suoi riff brevi e precisi. La forma Rock nella sua veste più semplice, apparentemente, ma preparatoria per il suo proseguo. Trova motivo della sua presenza un solo di chitarra che regala adrenalina e melodia per un brano che diverte e fa riflettere.


2 I’m Eighteen


La traccia che spalanca il successo è costruita su un arpeggio accattivante, una chitarra solista bella in modo osceno e il cantato di Vincent che farà nascere imitazioni a non finire. Accordi Power sul ritornello creano la semplice unione tra esaltazione e liriche critiche di un mondo adulto che genera sconquassi. Una rullata di batteria sul finale e la tastiera di Michael Bruce concludono un vero e proprio inno ipnotico, ma con le stigmate di un brano vivace.


3 Long Way to Go


Se rallenti Ziggy Stardust di David Bowie nei primi secondi, ti pare di immaginare il Duca Bianco vestito di nero. Ma quella canzone nacque dopo questa. Andiamo avanti e vediamo i prodromi di un futuro che sta nascendo dentro queste note, tra il rock ’n roll incatramato e i trucchi ritmici del Glam, che sanno utilizzare un piano ritmico su chitarre piene di pioggia pesante.


4 Black Juju


Si entra in una processione con i sensi pitturati di catastrofe, tra psichedelica propensione a seguire i Black sabbath dell’album di esordio e il teatro che scompone il tutto per generare una piacevole confusione. Poi i Doors fanno capolino, ma il cantato qui è lontano da quello di Jim Morrison. Piuttosto: tutto pare intenzionato a generare timori, paure, in un viaggio lavico dove il basso scivola con agilità sul manico mentre il drum continua il suo lavoro tribale. La chitarra pizzica le corde come in un viaggio nella parte nord-orientale dell’Africa. Poi Vincent prende la modalità vocale di Jim e battezza un crooning nero e perfetto.


5 Is It My Body


La dolcezza vive nella modalità del canto iniziale (pur sempre insanguinato), per poi trovare prototipi hard Rock che prendono ritmo e robustezza per scivolate sonore dove tutto è perfettamente connesso grazie al lavoro di Bob Ezrin, nel raggiungimento evidente di un piano conoscitivo che esalta e comprime, attraverso la perfetta sincronia tra chitarra e basso, che permettono ascesa e discese, mantenendo elevato il senso di seduzione.


6 Hallowed Be My Name


Ennesimo capolavoro di sintesi dalla propensione futura: fraseggi Hard-Rock lasciano spazio a dettami psichedelici chirurgici, per una composizione che pare seguire i fumi dei Deep Purple e dove il contagio dei generi può favorire un divertissement inaspettato ma geniale. Per brevi secondi (dal quarantesimo al quarantacinquesimo) sentiremo in anticipo una chitarra amata poi molto dai Sex Pistols e da molte punk band. Ma sono i 60’s i genitori della strofa, mentre il bridge è pura follia del gruppo che registrò l’album a Chicago. Brano essenziale per capire la drammaturgia e il filone di questi cinque cavalieri del gioco d’azzardo


7 Second Coming


È il cabaret che apre lo scenario del pezzo per poi proseguire su chitarre graffianti e stacchi continui di batteria, come un veleno che segue ordini di uccisione, cercando e trovando uno stile che si rivela essere piacevole almeno alla vista… Palestra per il futuro da solista di Vincent, la canzone conosce attimi di approcci alla musica classica (sempre Bob…), per fare di questo brano un capolavoro assoluto, spesso incompreso. E il colpo di teatro finale della voce del bambino alla ricerca del padre è davvero esaustivo per definire la fiumana inventiva.


8 Ballad of Dwight Fry


Bela Lugosi (dal film Dracula del 1931), attraverso il suo schiavo Dwight Frye, entra nell’album e non poteva mancare per il brano più suggestivo. Una lacrima che si schianta in un dialogo, dove frustrazione, rabbia e tristezza consentono a Vincent una interpretazione strabiliante, tra chitarre e la trovata di una tastiera che paralizza, come se fosse giunta improvvisamente, per far detonare completamente il brano. La voce, beffarda, secca, graffiante (caro Stiv Bators so quanto hai amato l’artista di Detroit), nuota nei circuiti chitarristici per poter volare rancida e scostumata.

L’indefinito viaggia nel mistero e qui ne troviamo il perfetto esempio.


9 Sun Arise


Bisognava trovare un contrasto per l’atmosfera di questo album e la canzone giusta non era annoverata tra le proprie della band. Ecco in aiuto quella splendida di Rolf Harris, per l’ennesimo colpo di teatro. Realizzata dieci anni prima dall’autore Australiano, i cinque trovano una forma ludica efficace e fenomenale, per scintillii nevrotici di chitarre su un gran lavoro ritmico del duo basso-batteria e la voce di Vincent che si alleggerisce e mostra ottime capacità nel volare su una melodia allegra e scanzonata.

Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

27 Ottobre 2022


https://open.spotify.com/album/6p7jHbG5Bd6z2JgfKx0um7?si=C-HPda24SwmKZUFoElMTig






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