sabato 9 luglio 2022

La mia Recensione: Diavol Strâin * Elegía del Olvido - Elegía del Horror

 La mia Recensione:


Diavol Strâin * Elegía del Olvido - Elegía del Horror


La città cilena affacciata sul porto ha incantato gli italiani così tanto che l’hanno denominata Valle del Paradiso: dove c’è una conquista esiste sempre una gentilezza stupida. Che poi quei luoghi siano incantevoli non lo si può negare, ma lasciamo che siano i cittadini a deciderne il nome. È da qui che parto: dal nome, l’inizio di una vita con tanto del suo destino già determinato sin da subito. 


Qui stiamo parlando della bellezza cupa, quella che non nega le altissime capacità espressive di un combo votato allo splendore dentro una grotta dove vivono misteri e faccende legate tra di loro.


Le due corsare gotiche creano un lavoro più complesso rispetto al precedente Todi El Caos Abita Aquí, confezionando una scatola magnetica colma di innovazioni e contaminazioni: si sorprendono e fanno diventare tutto questo una nostra conquista.

L’energia esce da garage pieni di simboli e polvere sacra, benedetta dal Dio del dolore, per conferire al suono cupo una forza notevole. Energia e melodia diventano una necessità che spiega vicende capaci di produrre brividi e constatazioni amare ma sagge. Il suono del basso è ovattato, gravido di destini molecolari capaci di produrre potenza e suggestioni.  La chitarra è un covo di zanzare laboriose, intenso, con la propensione ad essere avvolgente, guardando al cielo e ai cumuli di macerie del mondo. 

Canzoni compatte, con impronte di virus mentali fuori controllo, con le stigmate Deathrock che non si fanno imprigionare e sanno visitare la gamma di possibilità di cui abbisognano. Intelligenti, dalla propensione innata a espandere il loro sentire, sono Sacerdotesse del mistero umano che eleva alla massima potenza il sacro tempio della fragilità dei luoghi, di storie apparentemente senza gioia: reali, concrete, possiamo solo benedire la loro attitudine a scovare gli amplessi della fragilità. Sogni eterei per le nostre orecchie da convertire in file preziosi per i nostri ragionamenti: ogni canzone di questo album definisce una perdita da cui apprendere la realtà.

Con queste gemme si vive l’esperienza di una minaccia sonora aggraziata da musiche che consentono inchini e preghiere, come lunghe giornate sui libri della storia del mondo. Sul sipario luci imbalsamate dal nero più seducente contemplano idee di aggregazione con lampi grigi, come cristalli corrotti da una necessaria e splendida giostra di complicità. Uno sfociare continuo in lande combattive, con passi decisi, dove nulla è malfermo ma dove il sogno a volte conduce ad atmosfere stratificate e corrotte dalla bellezza del loro sentire in espansione continua.

Si rimane impressionati da tracce che sanno rivelare una dinamica propensione alla malvagità non violenta ma educatamente rude, giusto  il necessario, in giochi altalenanti di semi austeri e poliedrici. Sono chicchi di grano attraenti, smarriti per la loro stessa bellezza, maestri di versatilità e candore. Con la capacità di un suono derivativo dal Post-Punk e dalla zona californiana del Deathrock, la band scrive canzoni per dare alle voci la possibilità di essere fiamme di gas letali, dalle ridondanze gotiche degli anni 80, evidenti, ma edulcorate.

Un mare viscerale e magmatico, percorsi sonori che rendono precisa la bellezza, una poesia sulla pelle divenuta ripida da vicende umane pregne di incandescenze multiple. C’è la vita delle anime sbandate ma non per questo prive di senso: i polmoni, all’ascolto di queste rapine mentali, si contorcono sognanti, con sorrisi dai coriandoli neri, per un processo catartico con il tappo leggero in superficie. Si è costretti a una sofferenza piacevole, si intuisce e poi si capisce che le due sono incantatrici di riti che espletano un percorso analitico di grande fattura, ci si ciba di briciole di felicità otturate.

Alla mortalità si applaude, la disperazione e l’ansia sono compagne di respiri obbligatorie e loro sanno convivere, dando l’impressione che la notte spenga la paura che viene invitata ad emergere. Sono canzoni siderurgiche, lamiere fragili che hanno fantasmi che le proteggono, per divenire riti di  danze nevrotiche perfette.

Si vive in una necropoli più che mai confusa, in un collasso della felicità non più necessaria: tutto questo non rende però l’album una esclusiva delle anime nere perché concede accesso a tutte quelle desiderose di indagare sui flussi irregolari della difficoltà, del mondo in costante abbandono della capacità di creare serenità. L’ascolto dovrebbe essere imposto per legge: camici neri da indossare, univoci, per decretare sapientemente la realtà di esistenze ormai prossime alla caduta delle speranze.

Si esce dalle tombe non come zombie ma come essere viventi che riprovano a vivere diversamente constatando l’inevitabile ripetersi di errori da cui siamo soggiogati. Diavol Strâin è fiamma reale, una matassa di nervi spastici necessari per la coscienza che prova l’inganno ma che con loro fallisce.

Sono streghe con le mani velenose, rapide, lente, succulente, coniugate alla loro scrittura geroglifica, tempeste emotive che travolgono per separare la nebbia dai finti raggi che invadono le strade. Il Cile qui trova apostole precise nel volere la loro autonomia espressiva, dove l’eleganza si sposa alla rabbia dai sorrisi storti, decadenti, sublimi.

Sono gangsters dagli abiti neri, antichi, brancolanti, ma non scevri di coscienze che smuovono gli arti della mente, come peristalsi violentemente sospesa: ascoltare questo fascio di tenebra significa divenire consapevoli del traffico di dolore che si sparge nelle corde del loro cuore.

Sono vampire affacciate sulla luna, anime roventi che penetrano con un album che grattugia il vento e spazza via le confusioni: metodiche, precise, alienanti, abbondanti nei loro mantra sonori, regine del regno della insoddisfazione, fanno in modo che le loro canzoni siano pagnotte di pane senza mollica. Il gusto è amaro, come certi sogni, che aprono il cielo funesto della zona notturna in cerca di pace, trovando invece dannazione.


Ci sono scorie Darkwave che stanno nelle dita delle due musiciste: Ignacia e Lau non sembrano impaurite nel circondare il loro carico emotivo con schiume aggrappate a quel genere musicale che ha saputo arrivare anche in quella terra generosa nell’accoglienza. E allora eccole immergersi verso confini che sanno esaltare e meglio specificare una innegabile duttilità, quell’apertura concessa solo a chi fa della conoscenza un punto di partenza e non di arrivo. 

Guerriere degli enigmi, in un mondo colmo di notizie ma non di informazione, queste turbolenze accoppiate sanno generare domande, offrire dubbi, con malinconica propensione, sino a farci piangere bolle di disperazione, comprensibile. Una band selvaggia che parte da Edgar Alan Poe, per via di una scrittura che affronta il terrore dell’esistenza con chilometri di incubi messi in fila, di un orrore che diventa linfa letteraria, sino a incontrare la religiosa appartenenza della propria identità, annettendo insicurezze che veicolano impeti propedeutici. Ci si può arrendere alle difficoltà, ma con questa band si impara ad amarle, rifiutando i piagnistei per darsi una scrollata e iniziare il percorso dentro le tenebre.

Sembrano lanciare pietre acide, pesanti, per poi ritirarsi dentro la loro intimità, senza indugi. Brani magici, quasi ingenui, molto potenti, che vivono nella periferia dei nostri sogni con la marea, quando l’acqua sembra congedare i polmoni. Di loro ci si può fidare. Perché sono necessarie, compagne di solitudini che migliorano i nostri respiri. Mettono l’eye-liner ai nostri flussi privi di energie per rincuorarci, come un apparente inganno. Scavando in questi quarantasette minuti abbiamo però la certezza della loro autenticità. Che diventa l’altare dove posare la nostra mediocrità e consegnare loro un papiro di antiche velleità, bruciandole innanzi ai loro occhi, con devozione.

Spesso le chitarre sono degli strilli che si muovono con giri di note di basso (figlie degli spiriti dell’Araucania), per danzare piene di sollecitazioni irreprensibili verso il luogo della perdizione. Come una collina dei peccati in cerca di perdono, i brani sono spesso schegge che fuggono dalla speranza, come rivali delle sciocchezze, per respirare ogni realtà come prova di capacità che trovano l’applauso del sacro fuoco del sole.

Gli arpeggi distorti creano metafore, lampade di vento obliquo, il basso invece melodie gravi e oscure, pulsanti di ossigeno malato: incandescenze necessarie per capire cosa siamo nei giorni dell’inganno.

Musica come whiskey di qualità, a stordire, inebriare, corrompere ogni tentazione. Musica che sgombra il passato da ogni equivoco: c’è anche del nuovo che vive nei respiri di canzoni senza tempo, valide per l’eternità. È fluido ipnotico che sa riempire le borracce del nostro bisogno gotico, come una cascata effervescente di salutare bramosia.

Direi che è venuto il momento, per  meglio intendere questo album pieno di alghe e acuti voli di coscienza, di una completa scorribanda tra le sue tracce, armandoci di apertura mentale e di un rossetto nero tra le mani…


Song by Song 


Caida Libre


Tenebrosa, veloce, un attacco al cuore con la sua limpida connessione tra Darkwave e Post-punk che si baciano nella corsa di un lampo.


Destino Destrucción


Con un approccio stilistico che ricorda molte band della scena di Oakland, il brano vive dell’esplosiva connessione tra il basso distorto e la chitarra piena di nebbia gotica.


Lilith


Mostra tutta l’abilità del duo di rendere magnetica la loro musica: il ritmo diminuisce e aumentano le suggestioni, lenta ascesa al cielo con un volo malinconico.


El Reflejo de Mi Muerte


La drum machine sincopata, il basso che preme sulla pancia e poi via: le chitarre portano tutta la tristezza e la vitalità della consapevolezza, con la voce magnificamente capace di essere isterica e maligna.


Herz Der Niemand 


Il Deathrock si mostra con impronte leggere, sulla voce che esplode di magneti conficcati nella nebbia. Un intarsio elettronico quasi nascosto si presenta, in questa che alla fine risulta essere la canzone più elaborata e misteriosa dell’album.


Ruinas


L’inferno si veste per un attimo di dolcezza, quasi Shoegaze, con la chitarra che culla il sogno di essere per pochi minuti una carezza nera.


Nacidas del Fuego


Spilli di grotte piene di muschio, il ventre gotico pulsa liquidi sanguinolenti per un brano che crea un’atmosfera tesa, morbida, ipnotica.


Cotard 


Sorprendente e stupefacente, tutto il talento fantasioso del duo getta i propri semi in un fiato che sfiora i coralli della poesia.


El Ansia


Tra Xmal Deutschland ed Esses, Diavol Strâin si lancia in una danza ansiosa, grattugiando tutto lo scenario Darkwave che si affaccia sul Deathrock con religiosa devozione. Il basso e la chitarra sembrano a volte alternarsi per sedurre il fantasma che ride mefistofelicamente.


Ylak 


Regina delle nuvole dense di pathos, la canzone dichiara tutte le possibilità creative della band cilena. Un ululato gentile, la chitarra che graffia rispettosamente e le voci che seducono come il miele fa con le unghie dell’orso.


Inferno


Dopo un inizio che lascia semi di Banshees, ecco lo scatto e la corsa nella Los Angeles che accoglie chiunque abbia nelle proprie vene la necessità di pulsioni Deathrock. 


Uroboros


Tutto approda verso il congedo nel modo migliore: ancora qualcosa di nuovo, stupefacente, con echi del lavoro di Hannett con i Joy Division. Qualcosa si frantuma mentre la tastiera prende il palcoscenico per un brano magnetico, pieno di loop continui. Canzone stratificata, con zone sapientemente collegate che regalano piacevoli connessioni con la band di Anja Huwe e la Germania scura degli anni 80. Le voci spariscono e a cantare è un’atmosfera avvolgente e sensuale.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

10 Luglio 2022












martedì 5 luglio 2022

La mia Recensione: S.M.S. - Da qui a domani

 La mia Recensione:


S.M.S. - Da qui a domani


Ci sono distanze che si subiscono, che si creano, per necessità, per volontà, per un’attitudine spesso ingovernabile. Vi è chi le coglie, spesso guardando il tutto da un albero, osservando la caduta di foglie perplesse e stanche, mettendo all’erta i propri sensi. 

Monica Matticoli, una piuma Molisana che con la sua sensibilità vive le approssimazioni di questo mondo, ha raccolto le sue grazie mettendole su fogli gravidi di precise e acute osservazioni, permettendo a Miro Sassolini di divenire una voce che vola dentro le nostre disattenzioni.

I due artisti hanno preso le distanze e le hanno infagottate, cucite nei loro respiri e portate su scintille dolci di suoni elettronici e sensuali.

Quello che si ascolta è una coperta che avvolge il silenzio, per bluffare le paure e i vuoti.

Con le mani sapienti di Cristiano Santini e Federico Bologna, i quattro incantatori fatati hanno scritto sul cielo melodie e parole fradicie di bellezza, generando stupore nel cuore dello scriba, dove la fragilità del genere umano diventa un luogo di lavoro, una risorsa, un arcobaleno poetico su cui poter ancora scommettere sulle possibilità di un tempo favorevole. La parola, attraverso Monica, diventa gazzella leggera e la voce baritonale di Miro incredibilmente non fa abbassare la quota su cui vive. È il primo miracolo di un disco sorprendente. Una stanza che esce lenta di casa per visitare il vulcano del mondo: non c’è affanno, tensione o tristezza tra queste pareti, bensì un senso di tranquillità che sa come opporsi al tutto e sa porgere la propria guancia sulla quale sono dipinte scie di saggezza, stancando il buio. Miro protegge, incanta, traduce con maestria il cammino vorticoso di Monica, in una unione artistica che consente a Federico Bologna di far spaziare le sue linee melodiche dentro un palcoscenico fatto di suoni equilibrati, con l’abilità di tastiere e sintetizzatori come seducenti ancore sulle quali trovare un equilibrio.

Dal canto suo Cristiano Santini è un mago nel dare alle canzoni la forza e l’identità di essere parte di una vera e propria band, abile nella sua sottile presenza per compattare questo flusso di luce che rende le composizioni moderne senza rinunciare a evocare un tempo che sembra ormai troppo lontano. Si sente che l’esperienza con i Disciplinatha gli ha donato l’intuito di avere la mano leggera, di sapersi coniugare con Federico per un combo in grado di fluttuare con eleganza tra note leggere.

Dodici sogni, dodici albe, dodici segreti a portata di ascolto, dodici bussole del cuore per poterci dare una direzione nella quale raggiungere il sentiero del conforto.

Quanto splendore in tutto ciò che si può constatare: i quattro non cercano il brano pop, la forma canzone né provano di planare nell’apparato di ascolto con ruffiane manovre per strappare l’applauso. Non si concedono alla banalità e la loro sostanza è un vocabolario moderno, capace di perlustrare movimenti nuovi, per spegnere l’impeto di ritornelli scontati. Si discostano. Trovano l’autenticità che spavalda li sostiene, diventando corsari in delicato assalto, portando sogni e fantasie molto più che consolatorie: ci sono idee da scoprire, da interiorizzare. 

L’infinito dello spazio accoglie i quattro, li abbraccia e tutti insieme sembrano essere un romanzo ottocentesco, dove le nostre orecchie diventano occhi per leggere queste pagine, per vagare e trovare segni precisi dove indirizzare le proprie necessità.

La sensualità dei testi di Monica si bagna di umida propensione verso immagini libere di sorvolare i confini del mondo e della mente. E la voce di Miro magicamente smista i flussi percettivi della poetessa verso la coda di arcobaleni applaudenti.

Le riflessioni, le propensioni verso la captazione di Monica rendono evidente la sua connessione con il reale, il moderno che lei tende a volere esente dalla stupidità. Tutto, conseguentemente, si fa serio e preciso, in un viaggio in cui Miro semina forza, magnetismo e una inossidabile propensione a scavare le parole. I due musicisti sono i comandanti supremi di forme espressive che permettono una rotta che conduce al raggiungimento della vita notturna delle comete, visitando l’universo come necessità vitale.

L’amore nell’album è una distanza, un palo della luce che vorrebbe muoversi, che trova comunque nell’attesa una forma, un motivo, un senso attraverso i respiri della scrittura che Monica sa vestire di luce mentre Miro li salda per l’eternità, con il tempo che si astiene dal giudicare e mostra, altresì, la sua collaborazione per rendere tutto meno complicato. Sono canzoni che non abbisognano di scintille di ritmo, di fare piroette artistiche per poter arrivare al cuore: hanno nel loro nucleo la potenza minimalista che sa conquistare senza artefici, curandosi dei messaggi e privandosi, felicemente, di sovrastrutture. Non sono nate per essere uno spettacolo del circo pop, ma piuttosto pillole di saggezza musicali per condurre alla salvezza.

Fa estremamente piacere vedere associata la figura di Miro agli altri tre artisti: più libero, più vero, più a suo agio con la musicalità della sua voce, riesce a penetrare l’anima con il suo tono potente ma alleato alla dolcezza, allineato perfettamente alle vibrazioni che il suo passato non sempre gli ha concesso. Sa diventare ipnotico, sinuoso come un’onda del cielo che nuota nel suo petto, architetto e muratore di una casa melodica che lo rende snello, anche pungente, meno sacro ma più crepuscolare e in questo aspetto le musiche sono alleate perfette. 

Notevole è pensare che questi flussi musicali sanno essere magnetici perché passano attraverso le parole come fossero loro stessi vocaboli, in un incrocio che lascia in dotazione una morbidezza totale che trasporta il tutto lontano da una dimensione già nota. Le dosi di novità e di amalgama col già sentito elettrizza l’ascolto, come brina autunnale su montagne che attendono il vento e la neve. Tutto sembra sospeso, come una poesia di Ungaretti, con la sensazione che chi ascolta legga il presente dentro una matrioska smussata da una elettronica che la riveste di luce sinuosa. Vince la sensazione di un ripostiglio all’interno di una grotta dove la musica ha trovato la sua temperatura ideale: non più l’elettronica come forma gelida di espressione, bensì un vestito di cotone miscelato alla lana. 

Se deve essere Pop allora è di alta montagna: si muovono agili gli echi di David Sylvian, Brian Eno, Mark Hollis, Massive Attack, e l’idea che Miro sia stato affascinato come Ferretti da sonorità distanti dal Postpunk, guardando dentro il vascello del Nord dove la linfa è ancora abbastanza vergine.

La clessidra lascia passare la sensazione di una sabbia lenta nei versi di Monica che, essendo alleata della calma, veste deliziosamente trame che, erette e fiere, si muovono dentro pennellate che sgombrano il nero per svelare segreti sussurrati. 

L’ascolto migliore nasce dalla predisposizione a guardare le fotografie del booklet e sognare di incastri di mare e di cielo infinito. Perché poi si arriverà proprio lì, grazie ai flussi lucenti di Cristiano e Federico, i custodi di questa meraviglia che conquista ascolto dopo ascolto, sino a diventare occhi sordi per orecchie sognanti.

Ora possiamo entrare dentro questi dodici luccichii per trovare compatta la gioia di un tuffo nel cielo della poesia.



Song by Song



Sul limite


L’album incomincia con una suggestione strumentale che sembra condurre al Digiridoo, anche se non lo è. Ma da qui, da questa tribale danza addomesticata che Monica Matticoli ci porta fiori di forme e distanze che il canto di Miro specifica su una tavolozza elettronica baciata dalla dolcezza del pianoforte.



Leonard 


Il silenzio e il tempo entrano dentro un vetro, il drumming ci fa danzare mentre dovremmo andare via. Monica scrive parole come unghie che accarezzano la saggezza, con Cristiano e Federico a lasciare a un minimalismo elettronico l’indispensabile che seduce.



In quiete


Onde di world music e sinfonia mediterranea sembrano coniugarsi a un trip-hop atipico, come un salto nello sconfinamento di generi musicali, per dare al cantato di Miro la possibilità di essere libellula che alza e abbassa il registro della  voce con grande maestria. 



Disvelo


È un miracolo che abita le zone di Garbo, per ipotetica similitudine, ma riservandosi il diritto di esaltare un testo amoroso come se ne scrivono pochi: la poesia trova la voce in parole vere e piene di rugiada. E la notte vola sulla tastiera che seduce quasi come se fosse anch’essa muta.



Rimane addosso la veste lacerata del risveglio


Uno dei titoli di canzoni più bello di sempre genera un capolavoro di morbidezza e un groppo in gola ci fa risvegliare emozioni limpide, veloci, su una chitarra che sussurra alla tastiera che farà del suo meglio per sembrare quasi muta. La musica è un loop che strega, la voce di Miro, che viene raddoppiata, per meglio conquistare la sorte di un brano che rimane addosso tutta la notte, diventa un abbandono di luce. 



Semel heres 


Ipnotica, quasi Ferrettiana nel canto, magnifico esempio di teatralità sonora con la parte finale affidata a un pianto dal sapore tetro.



Idea dell’alba 


Spettacolare esibizione di classe da parte di tutti e quattro i pittori di fiabe: brano che vede una parte cantata breve ma suggestiva e poi una  strumentale che visita l’alba e mostra gli odori di un giorno che attende di trovare energia. Un fine lavoro di elettronica che ammalia e suggestiona consegna un pathos notevole.


A nudo


Su un testo intimo, sensuale, potente, David Sylvian sembra visitare i quattro con una base musicale magica invitando gli angeli a benedire la voce di Miro, con una modalità di canto sorprendente, calato perfettamente nel perimetro di parole che sono  dentro il contatto più crudo, in attesa della forza della resa…



Petit mort


La dolcezza che veste la malinconia, un piano sonoro che ricorda i Madreblu come capacità di fare delle note un fine trattato di melodia affidato ad una veste elettronica ermetica e calorosa, armoniosa e seduttiva.



Da vetro allo specchio


Sospeso, sognante, essenziale, brano capace nella sua limitata espansione di trasmettere la sensazione di viaggio nel tempo, passando attraverso uno specchio che conta le rughe.



Mai troppo chiuso il tempo


Monica Matticoli rivela ancora una volta una penna spaventosamente capace di intimità e profondità, un microscopio di vicinanza alla realtà di ogni molecola di verità. E su queste parole la musica è un formicolio elettronico di bagliori sul quale la voce di Sassolini trova una dimensione di grande commozione, sottile e delicata, quasi vicina al cielo, volante e sognante.



Oltremodo 


Si chiude questo viaggio tra le albe del mondo con un brano quasi orchestrale elettronico da una parte, quasi ambient House dall’altra, per conferire al tutto una verace sensazione di essere una fionda che sa colpire il Tempo, delicatamente.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

5 Luglio 2022


https://open.spotify.com/album/2LDu7tRMjFPNSqaKecJsom?si=iPvZCwb0SMikwLYy22mS6g








domenica 3 luglio 2022

La mia Recensione: DETOXI - First Flesh

 La mia Recensione:


Detoxi - First Flesh


L’anima sfocata cola stancamente sul tempo dell’appassimento. Urge una scossa non elettrica bensì sepolcrale, che affondi ciò che non vuole affondare. Vi è bisogno di spazi, di campi da arare, da seminare, di schiene curve e al diavolo ciò che toglie la fatica, la prima sorella gemella della morte, consanguinea dispettosa della vita.

Ci ritroviamo dunque con l’indelicata ricerca di ferite che raccontino, contemplino il passato sonoro di una decadenza che era più autentica, quindi maggiormente incontrastabile. E di una voce che ricordi il fallimento del futuro, reso cieco dallo spreco di un mondo che produce ma non può capire.

Eccola la voce, che sente il bisogno di unirsi a massacranti compagni ribelli, tenuti insieme da dissacranti incesti musicali, di alienanti strutture depressive, malate dal concetto fino alla coda che esce magmatica dagli amplificatori.

La storia di questa band californiana è recente, semplice, piena di grazia in caduta vorticosa sulle nostre spaiate sicurezze, magnetico quartetto capace di rendere solido il loro getto sonoro, una unità inferma su gambe piene di graffi, polvere da sparo sulla nostra mente avvezza alla punizione.

Loop putridi: il basso come una morsa al collo, la chitarra maligna piena di croci pericolose, la tastiera più presente che in passato e madre del dolore, e la batteria come un canto luccicante e oscuro che stordisce per lasciarci orfani.

La loro dimensione oscura non tergiversa, non trema, bensì, come carro armato notturno nel silenzioso rumore dell’affanno, ci deterge il cuore stanco in un liquido sonoro che imbratta tutto. L’atmosfera dell’album è piovigginosa ed evocativa, come un vociare estremo di anime lupesche. Indossano il buio per smarcarsi dalla società che inventa luci fasulle e premono sul ritmo affinché si affianchi al Sacro monte denominato Tempo.

È la vendemmia dell’uva dai grappoli neri, nettare aspro, come una lamiera sul viso, che deforma e ci fa sentire la pulsione delle ossa. Musica che strega, che si espande in decadente abbondanza per farci diventare sordi, muti, interrotti e piegati.

Come pronipoti dei Christian Death, sospendono la gioia per nutrirla di pillole mortali: la vita come una saracinesca sui sogni non abbisogna di ulteriori illusioni.

Le orecchie accolgono, i pensieri separano, il corpo riassume in scatti diabolici questa slavina per trovare il baricentro di suggestioni meditative scacciando ciò che è prolisso e noioso: i Detoxi non vengono sfiorati da questo rischio perché sono quattro brividi continui in cerca di fuochi fatui. Il rock si mette il trucco solo in superficie: la pelle fa posto velocemente ai piloti dell’incubo che sparano i loro proiettili nella gramigna sconvolta dei pensieri. E allora è Deathrock in parte, in parte è Postpunk tumultuoso, soprattutto è una lampadina che illumina il sepolcro attitudinale di anime che si trovano a loro agio nella foresta, dove la musica flirta con il silenzio.

Boccate di tenebra annaffiano i corridoi della paura, la disperazione ci mette le mani addosso e la favola del disprezzo viene leggermente smussata, solo per etica, ma la rabbia ruggisce e sgretola ogni nostra attitudine alla calma. Litanie come manipolazioni punitive trovano il centro di un equilibrio sempre e solo desiderato, ma mai messo in condizione di celebrare la sua possibilità. Non è musica, è uno splendido delirio che rivela la disumanità quotidiana, un bisogno chirurgico di aprire la follia e ucciderla. Senza testimoni.

Si dovrebbe sempre concedere il corteggiamento di simili aggressioni, farsi uccidere un poco, secondo dopo secondo, mentre queste canzoni possono dilapidare i nostri stupidi ascolti: qui si fa sul serio, nulla assomiglia a una forma artistica, è un corpo malato che ringhia, graffia, sbeffeggia la propensione al gusto.

Ipotesi annientata.

Si deve morire, e farlo bene, ascoltando la celebrazione degli sprechi, le vittorie fasulle. Stanno scrivendo la verità i quattro ed è probabile che si preferisca la falsità di una sordità incosciente per consentire la sopravvivenza. Ma lentamente i Detoxi arriveranno a farci genuflettere.

Le melodie sono il ghigno di questi quattro diavoli: nascoste, rivelate, scorticano la massa di musica simile che al confronto non può essere ritenuta tale perché la classe, la purezza, l’approccio assolutamente crudo non può appartenere a tante band. Loro infatti sono i sovrani dell’unicità. 

Con momenti in cui l’horror punk visita i loro passi e il teatro della decomposizione lascia nei solchi il loro dna, ci si ritrova anche danzanti, piangenti, sfiniti, tramortiti da soluzioni che tolgono il dubbio e ci fanno capire che un lavoro come questo causa effetti collaterali magnifici. Non ci sarà uno strizzacervelli che potrà metterci su un lettino. Saranno loro a farlo, per ucciderci nel buio della nostra paura.

Album altamente sconsigliato per chi fa della musica una medicina, una consolazione, pane per l’anima, un passatempo, una cura: qui c’è spazio per la consapevolezza che lo schifo abbia vinto e loro evidenziano lo stato di questa sconfitta generazionale, dove il tempo è servito solo per fare ulteriori danni. Se siete alla ricerca della esaltazione delle note musicali andate altrove: qui non esistono maschere e trucchi gotici perché questo invece è il luogo della consapevolezza che finirà per sconfiggere ogni prassi egoistica. 

Ci ritroviamo ad essere ascoltatori di parole che sembrano provenire dal mondo occulto di Gustav Meyrink, estremizzando il tutto verso un soffocamento che pare incorruttibile, come se fosse un romanzo musicato senza essere obbligatoriamente un concept album perché le nostre esistenze sono slegate da una storia univoca. E ciò che leggiamo/ascoltiamo sgretola, chiede l’aiuto di una cultura che non ha intenzione di supportarci. Detoxi fa proprio bene tutto questo frapponendosi tra il bisogno e l’accoglienza con canzoni come muri, imponenti, capaci, destrutturando il tutto e confinandoci nelle loro linee grigie, dove si esibiscono e attendono la nostra resa.

Il tempo di bere assenzio e coprire il futuro con un ventaglio appiccicoso e si entra dentro queste spade maligne, dieci, che è il numero dei fuoriclasse, perché sono i quattro di Ventura, California.



Song by Song



Grey Lines


Il mondo dei Detoxi in una canzone: tutto l’impeto del Postpunk, che trova la complicità della chitarra Deathrock di Derek e il drumming di John che vola tra le paludi, pare aprire un nuovo confine, mentre il testo ci porta davanti a uno specchio con le ombre a separare il falso dal vero.


Modus Operandi


Il basso di Oscar prepara l’assalto liturgico di chitarre antiche prive di polvere che sanno ferire ancora molto bene e poi Derek, con il suo canto lunare ci porta dentro un testo che visita il caos del futuro e rende indispensabile il sacrificio di chi si ama. Saetta del cielo Californiano, atterra avendoci fatto sudare per far stancare le nostre illusioni.



Death of a Nation


È tempo di ripartire, di creare un futuro, con le lacrime ben accese. Tutta la sfera della sfiducia entra tra queste note graffianti, con un rimando iniziale ai Belfegore, con l’attitudine a uscire dal torbido, consapevoli dei dettagli di messaggi da decodificare e la musica aiuta, moltissimo. I leader hanno distrutto il linguaggio e hanno condotto alla morte, e Derek ci dice che è tempo per noi di ripartire di nuovo. Senza scusanti.



Cult Culture


Matt, principe delle dita su tasti pieni di orrori, per fare della tastiera un paradiso sporco, introduce i Detoxi nel teatro delle facce irrilevanti, della maleducazione, con la caduta della cultura, della quale loro celebrano la funzione funerea. Ed è Deathrock con il vestito nuovo, un sentiero che, aperto dai Christian Death, qui trova i legittimi eredi e una evoluzione necessaria. Si respira il fallimento del progresso che dimentica l’anima per i suoi tentacoli egoistici. La bellezza intossicata dalla inutilità viene celebrata in questo brano che ristabilisce l’importanza della verità.




Shape Shifters


Gli occhi di Derek si riempiono di sfiducia, per questo brano che trita il torto e la ragione e li costringe a guardarsi in faccia. Canzone contagiosa per i suoi stop and go essenziali, mentre chitarre e tastiere fanno l’amore sul tappeto della tristezza gravida di metamorfosi con l’intenzione di ricordarci l’orrore di un teatro che non vuole morire…




Black Square


Quando non si riesce a dormire, si ha bisogno della Regina dei veli tetri, in una ballad gotica che rassicuri. Ed eccola che, nuda e volgare nella sua sincerità, ci inchioda con i suoi echi anni 80 a ricordarci che sarebbe ora che la coscienza conoscesse un po’ di paura del fallimento. Ed è musica che diventa un fantasma pronto a cullarci, per fare addormentare il prezzo che la nostra follia deve pagare. 



Crooked Smile


I Bauhaus si sporcano le dita, per divenire finalmente capaci di credibilità. Per farlo devono chiamarsi Detoxi ed avere la purezza di una mente schiava e soggiogata dalle bugie di un mondo in caduta libera. Potente, evocativo, il brano vede i quattro druidi impazziti, malati di una avventura  pericolosa  per una canzone che spazza via il superfluo.



Masks


Senza ombra di dubbi la traccia più spettacolare: figlia dei Lords of The New Church, gravita dentro l’abbandono del tutto per un doveroso cambiamento umano. Conduce a uno slancio benefico, magnetico, per farci danzare mentre l’identità si abbandona. Spettacolare esibizione di melodia gotica.



Lesser Retreat


Canzone guerriera, che ha voglia di mostrare il mondo che brucia, con il suo fare apocalittico: la chitarra diventa un lamento dolce, il basso un sacerdote della pressione necessaria per schiacciare l’esistenza, il drumming un cratere nel quale finalmente cadere. Misteriosa, lacrimevole, avalla tutto il talento di una band cruda e crudele: si può solo gioire, piangendo.



Nonsense 


Le rose vengono calpestate da una corsa di note acute, volenterose di assecondare un testo abominevole e necessario, per fare del brano di chiusura dell’album un monito, un bisogno di sgridare chi non ha apprezzato lo show delle marionette assassine. Poderoso, violento, capace di portare le attenzioni nel centro del palco della vita, è il testamento della bellezza nera che applaudiamo stremati.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

3 Luglio 2022


https://open.spotify.com/album/1Z3Hcspbi0enellEYrs5dj?si=p6Rf5IDMS02aFE0U28xtUA


https://detoxi.bandcamp.com/album/first-flesh




My Review: DETOXI - First Flesh

Detoxi - First Flesh


The blurry soul drips wearily over the withering period. There is an urgent need for a shock that is not electric but sepulchral, that sinks what does not want to sink. There is a need for space, for fields to be ploughed, to be sown, for curved backs, and to hell with that which takes away fatigue, death's first twin sister, life's spiteful blood relative.

So we find ourselves with the indelicate search for wounds that narrate, contemplate the sonorous past of a decadence that was more authentic, therefore more incontestable. And of a voice that recalls the failure of the future, made blind by the waste of a world that produces but cannot understand.

Here is the voice, which feels the need to join exhausting rebel comrades, united by desecrating musical incest, of alienating depressive structures, sick from the concept to the tail coming out in a magmatic way from the amplifiers.

The story of this Californian band is recent, simple, full of grace in a swirling fall on our disjointed certainties, a magnetic quartet capable of making their sonic jet solid, an infirm unit on legs full of scratches, gunpowder on our mind accustomed to punishment.

Putrid loops: the bass like a vice around the neck, the malignant guitar full of dangerous crosses, keyboards more present than in the past and mother of pain, and the drums like a shimmering and gloomy chant that stuns to leave us orphans.

Their dark dimension does not stall, does not tremble, but, like a night tank in the silent noise of breathlessness, cleanses our weary heart in a sonic liquid that soils everything. The album's atmosphere is rainy and evocative, like an extreme chatter of wolfish souls. They wear the darkness to break free from society that invents fake lights and they press on the rhythm so that it joins the sacred mountain called Time.

It is the harvest of grapes with black clusters, sour nectar, like a sheet metal on the face, which deforms and makes us feel the pulse of the bones. Music that bewitches, that expands in decadent abundance to make us deaf, dumb, interrupted and bent.

Like great-grandchildren of Christian Death, they suspend joy to feed it with deadly pills: life as a shutter on dreams needs no further illusions.

The ears welcome, the thoughts separate, the body summarises in devilish jerks this avalanche in order to find the centre of gravity of meditative suggestions, chasing away that which is prolix and boring: Detoxi are not touched by this risk because they are four continuous thrills in search of fatuous fires. Rock only puts on make-up on the surface: the skin quickly makes way for the nightmare pilots who fire their bullets into the distraught weed of thoughts. So it's part Deathrock, part riotous Post-punk, above all it's a light bulb illuminating the attitudinal sepulchre of souls at home in the forest, where music flirts with silence.

Mouthfuls of gloom water the corridors of fear, despair lays its hands on us and the tale of contempt is slightly blunted, only ethically, but rage roars and crumbles our every aptitude for calm. Litanies like punitive manipulations find the centre of a stability that is only ever desired, but never put in a position to celebrate its possibility. It is not music, it is a splendid delirium revealing everyday inhumanity, a surgical need to open up madness and kill it. Without witnesses.

One should always indulge in the courtship of such aggressions, get killed a little, second by second, while these songs can squander our stupid listening: here it is serious, nothing resembles an art form, it is a sick body that snarls, scratches, mocks the propensity to taste.

Hypothesis annihilated.

One must die, and do it well, listening to the celebration of waste, the fake victories. They are writing the truth and it is likely that they prefer the falsehood of unconscious deafness to allow survival. But slowly Detoxi will make us genuflect.

Melodies are the sneer of these four devils: hidden, revealed, they flay the mass of similar music that by comparison cannot be considered as such because the class, the purity, the absolutely rough approach cannot belong to so many bands. For they are the kings of uniqueness. 

With moments in which horror punk visits their steps and the theatre of decomposition leaves their DNA in the grooves, one also finds oneself dancing, weeping, exhausted, stunned by solutions that remove doubt and make us realise that a work like this causes magnificent side effects. There will be no shrink who can put us on a couch. They will do it, to kill us in the darkness of our fear.

An album that is highly inadvisable for those who make music a medicine, a consolation, bread for the soul, a pastime, a cure: here there is room for the awareness that filth has won and they highlight the state of this generational defeat, where time has only served to do further damage. If you are looking for the exaltation of musical notes go elsewhere: here there are no masks and gothic tricks, because this is instead the place of awareness that will eventually defeat all selfish practices. 

We find ourselves being listeners to words that seem to come from the occult world of Gustav Meyrink, taking it all to a suffocation that seems incorruptible, as if it were a novel set to music without necessarily being a concept album, since our existences are unbound by a single story. And what we read/listen to crumbles, calls for the help of a culture that has no intention of supporting us. Detoxi does this very well by standing between need and acceptance with songs like walls, imposing, capable, deconstructing everything and confining us in their grey lines, where they perform and await our surrender.

The time to drink absinthe and cover the future with a sticky fan and we step inside these malignant swords, ten, which is the number of champions, because they are the four from Ventura, California.


Song by Song



Grey Lines


The world of Detoxi in one song: all the impetus of Post-punk, with the complicity of Derek's Deathrock guitar and John's drumming flying through the swamps, seems to open up a new boundary, while lyrics take us in front of a mirror with shadows separating the false from the true.


Modus Operandi


Oscar's bass prepares the liturgical assault of dustless ancient guitars that still know how to wound very well, and then Derek, with his moon vocals, takes us inside lyrics that visit the chaos of the future and make the sacrifice of those one loves indispensable. A lightning bolt from the Californian sky, it lands having made us sweat to tire our illusions.



Death of a Nation


It is time to start again, to create a future, with tears always alert. The whole sphere of mistrust enters amongst these scratchy notes, with an initial reference to Belfegore, with the attitude of coming out of the murk, aware of the details of messages to be decoded and the music helps, a lot. Leaders have destroyed language and led to death, and Derek tells us it is time for us to start again. Without excuses.



Cult Culture


Matt, prince of fingers on keys full of horrors, to make keyboards a dirty paradise, introduces Detoxi into the theatre of irrelevant faces, of rudeness, with the fall of culture, of which they celebrate the funeral function. And it is Deathrock in a new dress, a path that, opened by Christian Death, here finds legitimate heirs and a necessary evolution. One breathes the failure of progress that forgets the soul for its selfish tentacles. Beauty intoxicated by futility is celebrated in this track that restores the importance of truth.




Shape Shifters


Derek's eyes fill with distrust, for this track that shatters right and wrong and forces them to look at each other. Infectious song for its essential stop and go, while guitars and keyboards make love on the carpet of sadness pregnant with metamorphosis with the intention of reminding us of the horror of a theatre that does not want to die…




Black Square


When you can't sleep, you need the Queen of gloomy veils, in a reassuring gothic ballad. And here it is, naked and vulgar in its sincerity, nailing us with her 80s echoes to remind us that it's about time our conscience knew a little fear of failure. And it is music that becomes a ghost ready to lull us to sleep with the price our folly must pay. 



Crooked Smile


Bauhaus get their fingers dirty, to finally become capable of credibility. To do so they must call themselves Detoxi and have the purity of a mind enslaved and subjugated by the lies of a world in free fall. Powerful, evocative, the track sees the four druids gone mad, sickened by a dangerous adventure for a song that sweeps away the superfluous.



Masks


Undoubtedly the most spectacular track: daughter of The Lords of The New Church, it gravitates towards the abandonment of everything for a dutiful human change. It leads to a beneficial, magnetic outburst, to make us dance as identity abandons itself. Spectacular display of gothic melody.



Lesser Retreat


A warrior song, eager to show the world burning, with its apocalyptic attitude: the guitar becomes a gentle lament, the bass a priest of the pressure needed to crush existence, the drumming a crater into which we finally fall. Mysterious, tearful, it endorses all the talent of a rough and cruel band: one can only rejoice, weeping.



Nonsense 


Roses are trampled by a rush of sharp notes, willing to indulge abominable and necessary lyrics, to make the album's closing track a warning, a need to scold those who did not appreciate the show of murderous puppets. Powerful, violent, capable of bringing attention to the centre stage of life, it is a testament to the black beauty we applaud exhausted.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

3 July 2022


https://detoxi.bandcamp.com/album/first-flesh


https://open.spotify.com/album/1Z3Hcspbi0enellEYrs5dj?si=p6Rf5IDMS02aFE0U28xtUA









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