Sinéad O’Connor - Troy
Storie che entrano nella vita, spesso non verificate, compiono un salto verso la volontà umana di creder loro, senza tentennamenti. La mitologia aiuta, amplifica, genera un campo in cui tutto rotola. Dobbiamo andare all’interno del più grande inganno delle esistenze terrene, entrare nella prima vera Matrioska, un cavallo dentro il quale la strategia aveva il suo nido, per vincere una guerra, sconcertante il fatto che la si debba definire d’amore. Ma una donna fu rapita, strappata dalla sua realtà e portata via.
Nell’album di esordio di Sinèad O’Connor, abbiamo la praticità dell’arte che connette i fili, li disintegra, camuffa, per gettarli nel sacro tempio del dolore, del più grando affronto che si possa subire: la menzogna.
Un impianto emotivo che corre indietro nel tempo, probabilmente attingendo anche al dolore della stessa autrice irlandese che in questa composizione libera i cavalli della sua natura, selvaggia come loro, per puntare la sua ugola nei cuori come un graffio doveroso, utilizzando una vicenda come un passaporto che lega l’identità della verità a un destino conciato male. L’amore viene mostrato, affrontato, sfidato, perso, non lasciando nell’ascolto la possibilità di rifugiarsi in un sogno con un destino diverso. Emerge la dote più sconcertante, toccante, dal volume pari all’ampiezza dell’universo: l’abilità di interpretare le parole come se fossero nate in quell’istante e gettate dentro la storia, per sfiorare il respiro della città di Troia, pretesto e metafora della dannazione che ancora pulsa in noi, suoi legittimi eredi. Un taglio, un pianto, urla come edera infuocata dal nero morente che sbeffeggia le vicende umane. Le luci lei le accende sul suo talento risolutore, permeato di una bava che appiccica la vergogna e la salda nel pulsare di metodi spesso apparentemente innocui. Giornalista della miseria e della viltà, Sinéad fa iniziare il brano rievocando, musicalmente, l’Iliade e l’Odissea, portandoci nell’emisfero cronologico con cui non abbiamo molta dimestichezza. L’orchestrazione è una tomba che si apre in attesa del suo canto, che non è solo potente bensì, più di tutto, un pianto cosciente che penetra e costruisce il cavallo di legno pieno di segreti pronti a uccidere l’apatia di chi vive male l’assoluta capacità della musica di essere ponte, autostrada e tergicristallo per spostare i detriti. Sussurra, accelera, urla, geme, pianta ossigeno come gramigna mentre gli occhi visitano per noi ogni peccato da espiare. Un tumulto orchestrale come un tuono che cerca un’educazione momentanea per trovare una pace che invece, con il passare dei minuti, precipita, cercando tentacoli nello spazio vuoto del tempo e del cielo. Faide antiche subiscono il lavaggio, tutto si compie con una partitura che si fa elettrica, con la melodia sequestrata dagli archi e poi da un drumming secco, metallico, che sembra punire ancora di più, consegnando al cambiamento del ritmo uno dei sette scettri di cui la canzone pare avere bisogno per mantenere un equilibrio.
Nella storia della musica, le cantanti hanno sempre premuto il tasto verso l’ostracismo tra il vero e il falso, creando mute resistenti alla diffamazione e alle bugie. La cantante dal capo lucido, fa scivolare al suo interno (in un cappotto intimo che non riuscirà mai del tutto a nascondere) una lunga serie di riflessioni per poter legare il passato (la vicenda di Troia) e farlo combaciare, senza baci, con la maldestra e problematica situazione del mondo in quella fine degli anni Ottanta che facevano della approssimazione l’avamposto di quello che sta accadendo ora. Il brano consente alla cantante irlandese di cucire la visionaria attitudine al progressive (non è un caso che la trama melodica del canto ci ricordi Peter Gabriel, con il quale poi farà un tour), sia nel testo che nel tappeto musicale, vera catapulta temporanea, lanciando proiettili, ferendo, senza nessuna anestesia. Tutto conosce la sacralità e l’imbarazzo: nei suoi sospiri, nel fiato che cade greve nelle parole non possiamo che appassire. Pratica che può accadere solo se siamo provvisti di sensibilità e se davvero conosciamo la storia raccontata. Glicini i sospiri, edera gli acuti, per un portale di sconvolgimenti che oltre a far sbandare ci tolgono l’equilibrio. Quando la sua voce sprofonda nel registro basso la morte sembra sotto i nostri piedi e le orecchie tremano, come un terremoto inevitabile. Ci pensano gli archi a riportarci verso il cielo e a farci provare meno paura.
“You should’ve left the light one”: una invocazione che spacca il cielo e come un vento senza timone ci porta via la gioia e ci lancia dentro il temporale di una orchestra ottimamente diretta da Gavyn Wright. Una corsa dovuta, necessaria, verso l’appuntamento della menzogna, rende improbabile il perdono: Sinéad ha le idee chiare e come una torcia accende la verità e la inchioda, per sempre, con questa canzone, che distribuisce il fare peccaminoso, di derivazione cattolica, per dare al senso di colpa scusanti improbabili. Se si riflette sulla sistematica riproduzione circolare delle parti musicali, si capisce come il cantato sia un rastrello, una alabarda per grattare e ferire l’ingenuità di chi invece trova sempre modo di far finta di niente: lunga, per i canoni pop del tempo, il brano è un atto teatrale che abbisogna di una luce sola e di molte finestre per espandere il racconto e appiccicarlo al tremore, inevitabile, di cui le ultime parole si nutrono.
“But you’re still spitting fire”: ecco la presa di posizione che rende visibili i personaggi, i ruoli, le misfatte. Attenzione: nella storia abbiamo solo un punto di vista, l’altra persona non ha voce, nessuna replica. Mentre ci si domanda il perché, ecco che Sinéad ci regala una verità assoluta, un gomitolo di saggezza incontrastabile: anche se ci avesse raccontato un sacco di bugie avrebbe la nostra empatia, in quanto di sicuro il dolore non ha bisogno di allargarsi per legittimare se stesso… Colpo di scena, la tempesta sul cielo di Dublino (all’inizio del brano) è un esaltante esercizio per portarci sin da subito ben lontano dall’epicentro dei fatti e delle intenzioni. Architettura antica, non più conosciuta ai giorni nostri, consente al testo di fare un po’ come il canguro, un po' come il gambero, riuscendo a esercitare pressione nella capacità di individuare dove sia il nesso. Ci pensa la voce, un impasto bellico di poesia assoluta, a sciorinare versi e a lanciare pietre, a sconfiggere Troia, l’amore, riuscendo a mascherare il tutto…
Le oscillazioni microtonali sono sentieri di rose selvagge sino all’eccesso: niente ha perimetro, sia nel testo che nella musica, per poter ottenere l’effetto di una cavalcata, malata e perdente.
Cosa aggiungere se non che il senso polifonico, la trave sinfonica, la sbarra della musica classica non sono altro che ennesimi miracoli dentro questo pulcino che oggi bacia Troia con le stesse e pesanti lacrime…
Non resta che l’amore per tenerti in vita, Sinéad…
Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
1 Agosto 2023
https://www.youtube.com/watch?v=0c4v7fp5GC8&t=90s
Traduzione testo
Lo ricorderò
A Dublino durante un temporale
E seduto sull'erba lunga in estate
Al caldo
Lo ricorderò
Ogni notte inquieta
Eravamo così giovani allora
Pensavamo che tutto ciò che potevamo fare fosse giusto
Poi ci è stato rubato dai nostri occhi
E mi sono chiesto dove sei andato
Dimmi, quando è morta la luce?
Risorgerai
Tornerai
La fenice dalle fiamme
Imparerai
Risorgerai
Ritornerai
Essendo ciò che sei
Non c'è altra Troia
Per te da bruciare
E non ho mai voluto ferirti
Giuro che non intendevo dire quelle cose che ho detto.
Non ho mai voluto farti questo
La prossima volta terrò le mani a posto, invece.
Oh, lei ti ama?
Cosa vuole fare?
Ha bisogno di te come me?
La ami?
È buona per te?
Ti abbraccia come faccio io?
Mi vuoi?
Dovrei andarmene?
So che mi dici sempre che mi ami...
Ma a volte mi chiedo se dovrei crederci
Oh, ti amo
Dio, ti amo
Ucciderei un drago per te, morirei
Ma risorgerò
E ritornerò
La Fenice dalle fiamme
Ho imparato
Risorgerò
E mi vedrete tornare
Essendo ciò che sono
Non c'è altra Troia
Per me da bruciare
E avresti dovuto lasciare la luce accesa
Avresti dovuto lasciare la luce accesa
Così non avrei provato e tu non l'avresti mai saputo
E non ti avrei tirato più forte
No, non ti avrei tirato più vicino
Non avrei gridato: "No, non posso lasciarti andare".
Se la porta non fosse stata chiusa