sabato 24 dicembre 2022

La mia Recensione: Tricor - Last Christmas

 

La mia Recensione:


Tricor - Last Christmas


Scendere nel passato, salire nel futuro: ecco un’immagine esplicativa di una modalità che riguarda molti, dalla quale non potersi discostare.

Poi esistono altri sistemi: basterebbe, nella densa foresta musicale, incontrare per un whiskey i cavalieri teutonici Tricor e una nuova magia allargherebbe le chance di attitudini diverse.

Siamo nei pressi di un ibrido che si rende fattibile e oscillante, tra consensi e forse anche perplessità ipotizzate da chi non ha la mente aperta. 

Esce però un singolo illuminante, devastante per ciò che riesce a dimostrare, e che rischia l’emarginazione, perché chi è avanti alla fine rimane da solo, dal momento che chi è coraggioso spesso incontra l’esclusione…

Il problema è lo status della versione originale, in quanto una nuvola di persone contrarie potrebbero gridare lo sconcerto più convinto e il rifiuto più profondo.

Una canzone che è entrata nella storia della musica pop, ben lontana dalle mie corde, è stata ripresa e mostrata sotto una luce diversa, quella perfetta per lo scriba che, riconoscente, apprezza e propone, per rendere le menti capaci di fare lo stesso percorso della band tedesca: trovare un abito perfetto per la propria pelle.

Ed è decadenza leggera, non invasiva, quasi consolante e del tutto accettabile, per rimanere perfettamente liberi di stare a metà tra qualcosa che si apprezzava nascostamente e la sensazione perfetta che questa versione sia molto più accessibile.

Confortante e consolante vedere la Darkwave rendersi leggera per consentire allo Shoegaze di fare lo stesso, in un gioco delle parti eccitante e catatonico, deviante e programmato per generare nuove forme di seguaci sotto l’albero di Natale. L’approccio del combo germanico è rispettoso proprio perché non c’è festa senza tristezza, anche nascostamente, ma reale.

Il cantato è sciamanico nel tempo della modernità, con suoni lontani da quelli delle tribù ma in grado di generare la stessa obbedienza. 

Le chitarre e il basso sono volenterosi nel gioco di ruoli diversi ma obbligati a generare un senso di complicità che alla fine risulta essere perfetto. Il ritmo, lontano parente di quello dei Wham!, è la calamita danzante che potrebbe rivelarsi, alla fine, la chiave di un innamoramento, perché questa versione consente l’incontro che forse, sotto sotto, avremmo sempre voluto poter vivere con il brano. 

Le parole del testo qui trovano più credibilità ed efficacia e questo aspetto genera una grande gioia, perché finalmente si può ascoltarle con un atteggiamento migliore.

Ed è abbandono epocale, il ribaltamento del senso originale con questo, dove si può rendere possibile un abbraccio a questa fenomenale cover…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

24 Dicembre 2022


https://tricor.bandcamp.com/track/last-christmas

https://www.youtube.com/watch?v=dKoP2-K8UU0




giovedì 22 dicembre 2022

La mia Recensione: Roxy Music - For Your Pleasure

Roxy Music - For Your Pleasure 


La Storia ha creato Favole che hanno riscritto il valore dell’Arte.

Per necessità, svelandone il piacere.

E come tutte le favole, pure questa ha avuto la difficoltà di veder tributato il proprio merito attraverso altre che sono state scritte dopo.

Perché esistono album e band che non hanno immediato riconoscimento, e questa è quasi una tragedia, altro che favola.

E la band Londinese, rappresentante perfetta di che cosa sia l’imprevedibilità all’interno di una costante sperimentazione, sforna l’album che cambierà la musica di lì a poco: un merito innegabile non subito inteso nella sua straordinaria capacità. Canzoni come vocabolari immensi, poesia che inventa il futuro più che ricordarne i fasti, perché i tempi lo richiedevano e una pletora di artisti di quella fulgida contemporaneità avevano già stabilito la necessità di un cambiamento più che essenziale. Ma i cinque cavalieri mutanti, Brian Eno, Bryan Ferry, Paul Thompson, Andrew Mackay e Phil Manzanera ebbero il merito di trovare la vernice migliore per fare del mondo artistico, musicale e culturale un luogo magico, profondamente diverso e necessariamente nuovo.

Dopo l’album di esordio, altrettanto seminale ma meno preciso, questo secondo lavoro (da qui il folletto Eno salutò la compagnia e intraprese una più confortevole camminata tra le sue adorate scorribande con le sue amate manopole) sentenziò, definì e conclamò una svolta epocale.

Partendo dal riassumere il cammino più fosforescente del Rock e di tutte le sue piume incantevoli, i Roxy Music con For Your Pleasure fecero un salto in avanti di cui ancora oggi si sente il profumo e la precisione con cui la storia della musica da loro ha avuto i doni più grandi: il merito, la capacità, la magia, la perfezione. Facendo pure in modo che certe particelle delle canzoni contenute diventassero addirittura generi musicali destinati a creare fiumi di generose propensioni, che perdurano e lo faranno per sempre.


Riascoltarlo oggi, con orecchie attente, non può che definire uno spazio dentro il quale la musica ha trovato sia ramificazioni che specificazioni, continuative, per disegnare specificità essenziali, in costante proliferazione. Otto brani intrisi di un tutto che non smette di essere perlomeno intravisto, percepito, ma non ancora colto: è proprio questo aspetto a renderlo immortale, un generatore di dinamicità senza possibilità di bavaglio, senza che nessuno possa fermarne la corsa. Si dovrebbe consegnare la medaglia d’oro a questo strato spesso di suoni unici in contesti di proliferazioni inarrestabili con l’ipnotica capacità di fare della notte un cammino felpato e sensuale, del mattino un respiro robusto e del pomeriggio una produzione immensa di esercizi sonori tesi ed effervescenti.


Inevitabile pensare che gli abitanti celesti siano riusciti a mandare ai ragazzi della capitale britannica segnali di vita, pulsioni e attrezzature melodiche e ritmiche fuori dal limite umano: queste sono canzoni figlie di alieni ma non alienanti, sono scintille monocromatiche con un gas sconosciuto a portarle in giro per il pianeta culturale musicale senza possibilità di negarne il mistero: ciò che è stato possibile fare con le otto canzoni di questo disco è tuttora per molti è praticamente impossibile. Non tutti possono essere figli delle stelle…

Ed è nostro e di tutti il Piacere dell’ascolto, una matrioska di infinite dimensioni dentro la quale tutto si fa sottile, immenso, catartico e devastante: come un unico imprevisto che regala ossigeno e dona l’imprevedibile dono della immortalità, ecco che ci ritroviamo infanti al primo giorno di scuola, totalmente sopraffatti e già distrutti al cospetto di cotanta diversità.


Si dovrebbe fare l’ecografia, una tac total body, immergere queste canzoni dentro l’acido più portentoso per scoprire la scorza infinita di queste pillole incantevoli che fanno viaggiare la mente come nemmeno massicce dosi di droghe potrebbero fare. 

E poi lo stile: un capitolo nuovo della letteratura dovrebbe riempire i nostri giorni per intenderne la potenza, la dinamicità, perché è forse questo elemento che maggiormente sgomenta e produce moti di godimento indiscutibili. Ne sono sicuramente intrisi con dimensioni che ancora oggi paiono sfuggenti a ogni descrizione. Se il glam ha dei meriti è quello di aver fatto dello stile una propensione, molto di più che una capacità, ecco allora che i Roxy Music (sicuramente non estranei a questo genere musicale ma proprietari, inconfutabili, di molti altri) inventano il peso massimo di questa capacità e diventano i principali creatori di infinite gemme. Producono la moda all’interno delle canzoni, abiti e tessuti che non si trovano nei mercati, nei negozi, nelle fabbriche. 

Riscrivere la Storia dell’eleganza, nei primi anni Settanta poi, è di fatto qualcosa di straordinario: incomprensibile è intenderne la modalità, spudoratamente comprensibile invece è goderne la morbidezza, l’intensità, provare piacere nel trovare il garbo con il quale la somma delle note diventa sempre una passerella radiosa, dove il nero fa sorridere e dove è il blu a renderci tutti inebetiti. 

Ma qui c’è molto altro, perché la perfezione è un cielo che non si accontenta dello stile, cerca particelle flessibili per generare l’incontestabile, per dar modo al futuro di non conoscere siccità, rendendo possibile l’assoluta esigenza di trovare nella pancia dell’album un pozzo di San Patrizio.


Si diventa utenti anonimi di un ospedale psichiatrico quando si mette la mente nei percorsi di queste canzoni: uno sciame di sirene provenienti da Atlantide salgono sul velo del tempo e scendono in questi solchi per facilitare l’abbandono della nostra lucidità, rendendoci devoti schiavi di ogni possibile piacere. Perché, indiscutibilmente, nuove modalità sensoriali apparvero, generando sconvolgimenti, e occorreva tempo per capirne il valore. E poterne, conseguentemente, godere i frutti. 

L’ensemble Londinese ridefinisce i movimenti e la storia delle canzoni, nel contesto storico dove soprattutto il Progressive aveva mostrato questa necessità: l’alta produzione di canzoni e canzonette a uso e consumo dell’immediatezza avevano incominciato a rendere insoddisfatti molti musicisti, creando imbarazzo e noia, rabbia e frustrazione. Sembrava che tutto questo potesse solamente generare la modalità della creazione di nuovi generi musicali. Ma i Roxy Music fecero molto di più e molto meglio ed è già tutto in queste composizioni, respiri ribelli ma che tenevano conto dell’importanza della storia musicale. 


Con questo album tutto diventa provocazione, essenza pura di inquinate tossicità rivestite di delicatezza, di una pornografica attitudine a fare dell’ascolto un amplesso osceno, sconnesso rispetto a quella che era la musica in quegli anni. Pose e ammiccamenti, sferzate nevrotiche, corse a perdifiato, palpabili idiosincrasie, fughe da schemi rifiutati prima e ridefiniti poi, con l’assoluto bisogno di fiammate tribali che ispessiscono il delirio. For Your Pleasure è il lungo momento nel quale l’inferno e il paradiso si sfidano, inventando continuamente le regole e i luoghi non di uno scontro, bensì di generosi ammiccamenti che sfiniscono l’ascoltatore, rigenerando il presente.


Tutto si fa dominio nel giardino della schizofrenia, dove il pathos circonda il respiro, catatonico per definizione, logorando la possibilità di rinunciare alla perversa volontà di cibarsi di queste splendide fotografie oscene perché questo in realtà è l’album. La psichedelia malata di Eno disegna la follia dei polmoni di MacKay, le contorsioni metalliche di Manzanera spargono spasmi, le pelli di Thompson sconquassano il cielo e la voce di Ferry è l’acqua santa che scende dal cielo per regalarci i cancelli aperti che ci introducono nel bordello scostumato del nuovo paradiso.


Ma poi: ciò che era la magia maggiore e prioritaria era la perfetta adesione alla promiscuità musicale tra i componenti della band, in continua elaborazione spontanea e studiata, l’appuntamento ideale di una complicità senza precedenti. Le idee musicali qui sono campi di funghi in un bosco fertile, dove tutto pullula di magie a noi umani non comprensibili, ma grazie a Dio nella condizione di un ascolto masticatore. Tutto ha una direzione nell’album: dieci mani che pescano dall’oceano quintali di luce e vapori di una intensità mai sfiorata prima perché le note sono dardi, piume, eretiche dimostrazioni di valori assoluti che agitano i battiti portandoli verso il volto celeste. Tutto è miscela, un carburante colorato come nemmeno un arcobaleno sa essere, come se fosse impossibile proseguire il percorso tracciato nella musica prima di loro. Lo si capisce dalle fiammate, dai cambiamenti di scenari, dalle progressioni cavalcanti che, come temporali impavidi, non arrestano il loro dipinto. Altro che crossover e cose varie e maldestramente assortite: un vinile sacro che si eleva e si discosta, conducendo tutti verso la bellezza. 


Il lusso, la passione e la volgarità si incontrano, dentro un prisma di suoni confezionati a misura, nati e vissuti come il lavoro metodico di un sarto nella sua piccola stanza che, una volta finito, renderà più bello il mondo. A partire dall’artwork, si ha l’impressione che un’esperienza sublime stia per invadere le nostre vene e così sarà: si incontrano molteplici forme espressive, con una scenografia che cambia in continuazione dentro la recitazione da premio oscar, per un fascio interstellare che fa capire come le idee siano generatrici di piaceri multipli, ridisegnando il senso del tutto. Allora note come un circo senza tempo circondano gli stili che cambiano il passo, si sciolgono e rinascono  diversi.


Rumori, cacofonie leggere, malinconie e sottili e clamorosi sbandamenti dalla pelle dorata rendono questo album il genitore che ogni figlio dovrebbe avere: creativo, disciplinato, strabordante, enigmatico, trasversale, efficace, incontenibile, capace di suscitare curiosità a bocca aperta, For Your Pleasure è uno dei pochi album che hanno stravolto la musica, e non solo, come uno starter talentuoso prima di una gara dei 200 metri piani. 


L’incontro della genialità, in cinque esseri umani, è oggettivamente una incredibile casualità, che bisogna saper governare e conservare: a questo serve registrare la musica, per renderne possibile la fruizione mentre il tempo si allontana da quella situazione. Sono passati quarantanove anni da quell’incontro, da quella semina, e tutto è vivo, lucidamente e splendidamente, affinché nulla possa impedire lo studio e l’apprendimento. 

Ascoltare qui è lezione di classe, di armonia e piacevole solitudine, dove la gelosia vorrebbe creare piaceri individuali e solitari, per non condividere con nessuno questo orgasmo: l’amore è anche questo, innegabilmente, e si vorrebbero concerti di questo album nelle nostre singole stanze, in un solo, infinito lungo applauso.

Un’opera robusta, che sostiene e genera proliferazione non può che essere ammirato. Il gruppo musicale più influente degli anni ’70 è stato proprio questo e l’incantevole progetto di cui lo scriba sta parlando è ancora oggi un brivido dal quale sgorgano semi. 


Allora l’elettronica diventa non un atteggiamento sonoro ma una impronta, il punk nasce con una maschera perfetta, il glam mette la freccia e sorpassa la sua stessa storia, il progressive lascia le tracce perché vengano fotografate senza la necessità di metterci interamente le scarpe dentro.

Via i ritornelli e via la consuetudine di fare della canzone un fischio e/o un canto sotto la doccia: occorreva una bastonata piena di charme ed eccola qui, possente. 

Non solo dei generi sono nati da qui (post-rock, ambient, world music, post-punk, e altri ancora) ma soprattutto un concetto nuovo del tutto, dal pensiero alla musica, dove il baricentro (la genialità) avesse il ruolo e il dovere di immergersi in un tuffo continuo.


Potrei scrivere un libro, ma mi fermo qui.

Un disco del genere non si spiega: lo si vive con ascolti continui, essendo consci del fatto che ci fa arrendere tutte le volte e ci rende piccoli, ma con la certezza che si nasce con lui per poterci regalare l’illusione che prima o poi potremo farne uno simile.

Proprio vero: ci nutriamo dell’impossibile… 


Alex Dematteis 

Musicshockworld 

Salford

23 Dicembre 2022


https://open.spotify.com/album/6gKMWnGptVs6yT2MgCxw29?si=dE5vzh_vRnyaVmO48cJ-cwSi 




mercoledì 21 dicembre 2022

La mia Recensione: Tout Debord - Ça ne veut rien dire

 La mia Recensione:


Tout Debord - Ça ne veut rien dire


Ci sono città che dormono respirando la follia degli allori che impediscono agli arti della mente di muoversi, di ossigenarsi, di continuare a produrre cibo essenziale per giustificare il presente.

Parigi invece no: instancabile, intelligente, prosegue il suo cammino creando arte in tutti i settori, con quella dimestichezza che sicuramente è albergata nel suo DNA.

Poi, in quanto a originalità, possiamo benissimo chiudere entrambi gli occhi: la qualità non manca e la vittoria del movimento sulla pigrizia è accertata, verificata, sublimata.

Lo scriba scruta, bussa alle porte della città, tutte, ed entra soddisfatto in quella aperta da Leonid Diaghilev, colui dietro e dentro il quale vive l’idea di portare la musica di Tout Debord nella stratosfera sopra il polo artico.

In questa poltiglia di elettronica propensione alla danza schematizzata ed essenziale, vi sono schizzi sublimi di pennellate estasianti, un cercare il trucco per far pendere l’ascolto verso il sacro cerchio della dotazione crescente.

Sedici minuti scarsi, cinque composizioni e la certezza che siano più che sufficienti per inquadrare musica raffinata e potente da essere in grado di instaurare una felice dipendenza grigia. 

Sì, grigia, come l’atmosfera che circonda le nuvole sopra i camini di fabbriche operative ventiquattro ore al giorno. L’elettronica basilare e contemplativa inglese della seconda metà degli anni ’70 sembra aver attratto Leonid, portando fuori asse il solito nazionalismo francese.

Quindi? Stupore in armoniosa proliferazione si presenta e cementa i grazie che abbracciano queste canzoni, che spaziano attraverso i generi musicali ma sono sempre pulsanti di buongusto e precipitazioni emotive.


La musica proposta è quindi generosa, vivace, dentro le particelle velenose di un presente che dimentica il sole, viaggiando sulle dance floors della capitale francese, come energetica dimostrazione di un ribaltamento nei confronti della concezione di quale sia la parte più desiderata di ogni giornata. Qui sicuramente è la danza, il desiderare occhi chiusi che producono sogni che sembrano essere stimolati da questo esercizio sonoro sempre attaccato alla minimal wave più contemplativa, alla Coldwave più raffinata, al Synthpop meno avvezzo alla facile digestione e ai parallelepipedi di un elettrofunk sublime.


Facile immaginarlo con gli occhi verso le sue tastiere, ricoperte di riflessi ’70 e ’80, instancabile, mentre studia la mappatura dei suoni di quegli anni per cercare libertà di manovra, indipendenza, per potersi staccare da paragoni che gli toglierebbero poesia, perché è proprio quest’ultima a regnare violentemente in questo Ep. E si presenta nella tessitura di trame spesse di storie, con strumenti e stili che già da soli sanno riempire gli occhi di acqua in movimento.


 Ci si ubriaca di impalcature essenziali ma potenti, efficaci, mancine di sicuro, perché in questi brani il diavolo non ha bisogno di provocare facilmente dolore: altri sono gli obiettivi e te ne accorgi alla fine dell’ascolto, quando l’energia ti ha abbandonato. 

Con richiami evidenti a fare dei loop i fedeli alleati per attirare consensi e slanci, tutto trova posizione nel delirio del piacere che modifica continuamente direzione e modalità.


Corriamo a guardare queste canzoni da vicino e potrete sicuramente celebrarne la bellezza…


Song by Song 


1 Les gens sont les gens


Ed è subito Synthpunk a livelli acidi, in una pozzanghera dove al posto del fango vediamo danzare farfalle piene di bracciali Synthwave: tutto è robotico e gelido, la melodia però presenta il volto nel finale.


2 Ça ne veut rien dire


Si prosegue con un ritmo e uno schema apparentemente simili, ma in questo frangente il synth disegna volti cupi e il cantato fa da contrasto solo per quanto concerne le linee melodiche. Ma è un momento che viene anestetizzato da un suono metallico, capace di circondare i fianchi della canzone.


3 Aveugle


La canzone divina arriva ed è estasi glaciale, lo sbarramento del potere del sole. La parte ritmica è incessante, i toni bassi della tastiera sostengono il cantato che è un grumo di sangue ripetuto. 


4 Le miroir 


Il livello qualitativo si conferma a quote alte: il brano raggiunge le zone di una Darkwave timida ma robusta, un tracciato di attesa crea il pathos che governa e strega il nostro respiro. Il cantato si abbassa ulteriormente per scavare il terreno dove si balla tra gocce di nero.


5 QCH


L’ultimo visibilio sorprende: si cambia panorama, mood, saltando nella Yugoslavia dei primi anni ’80 e nel Belgio fertilissimo. È la testa che pilota il tutto, in un sentire l’ebm come un flash che si contamina con bisturi elettronici di grande capacità nel tagliare la pelle e concedere spazi al prurito di una selvaggia Coldwave francese.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

22 Dicembre 2022


https://tout-debord.bandcamp.com/album/a-ne-veut-rien-dire-detriti


https://open.spotify.com/album/2zcnVLuMRh5h36iYTFTkv2?si=phzhk5YxTR-DCckZ8eypBA











martedì 20 dicembre 2022

La mia Recensione: Left for Pleasure - Human Contract


 La mia Recensione:


Left For Pleasure - Human Contract


Germania 


Synthwave - Darkwave - Postpunk 


C’era una volta l’abbondanza di generi musicali, un via vai continuo di nuove scoperte, che creavano come conseguenza stupore, assimilazione e gioia, per poi tramutarsi in genitori capaci di generare parti plurigemellari.

Ma ciò che fa più male al vecchio scriba è la mancanza della ricerca del suono, il suo sviluppo e una precisa collocazione stilistica.

Tutto è appiattito, uguale e noioso: il digitale, l’ignoranza musicale e il disinteresse nei confronti di un approccio serio e professionale hanno un fatto il resto.

Ci sono eccezioni e una di queste è rappresentata da questa band tedesca (toh, guarda caso, che casualità vero?), che arriva dopo quattro singoli all’esordio sulla lunga distanza.

Ed è alba, primavera, gioia, seduzione circolare, all’interno di atmosfere cariche di tristezza, agitazione controllata, spargimenti di lacrime a presa rapida.

Questi suoni poi: sia data alla felicità una porzione di cielo e a noi il compito di un rispettoso inchino. 

Andiamo a vedere un po’ meglio da dove vengono e cosa fa di loro una band così interessante.

Halle è una città dalla storia tormentata, difficile e di cui si parla poco anche musicalmente: sembrerebbe costretta a chiudersi in se stessa perché luoghi troppo importanti e famosi le stanno vicino (Berlino, Dresda, Lipsia), togliendole forse quella visibilità che meriterebbe.

Con una cattedrale gotica che è bene visitare come l’autore della recensione fece nel 1997, questo posto ha creato lavoro con l’industria chimica. 

Ed è proprio quest’ultima ad aver generato paura, desolazione, resa, frustrazione come i due tedeschi sono riusciti a dimostrare con questo sublime esercizio musicale.

Siamo di fronte a strutture che vagano tra spazi sonori concepiti con precisione, riferimenti stimolanti e ingressi verso circuiti di polvere di amianto che cade dentro movimenti robusti, paradisi desolati, abbandonati, per precisare la vivacità della mediocrità umana.

Le menti del duo diventano laboratori di immagini, ostinazioni, scariche voluminose di fiori appassiti, dove tutto si rende necessariamente in grado di ingravidare la tetraggine, per condurla, spalle al muro, alla conseguente fucilazione.

I Sintetizzatori dominano, nel volo torbido dell’affanno che qui viene posizionato come l’ultimo ostacolo prima del decesso.

Le voci provengono da entrambi i membri della band, capaci di stimolare suggestioni maliarde, nel doveroso esercizio deprimente, che esalta la qualità di musiche avvolgenti, rigide, robotiche e in grado di condurci verso danze che piegano gli arti. 

Le arterie si riempiono di una certificata abilità di propagandare un delirio artistico con il suono che domina la struttura delle composizioni: si viaggia continuamente avanti e indietro nel tempo, un falò che viene congelato dalle impronte Coldwave sapientemente quasi nascoste, come per certi frammenti Ebm. 

Si riscontra l’immensa attitudine a cambiare ritmi, dando alla preposta sezione un notevole raggio di azione, rendendo più semplice alle trame melodiche il compito di infierire sui nostri rapiti ascolti. Ed è un matrimonio perfetto per associazioni di necessità che mettono radice canzone dopo canzone: solo nella splendida Germania musicale poteva nascere un album così intenso e deflagrante. Non c’è bisogno di distorsioni per sentirsi crollare il cielo addosso: i due lo prendono con le loro dita nere e lo abbassano, generando frastuoni e lampi nei nostri cuori frementi.

Le atmosfere sembrano greggi multipli in un’adunata a fine esistenza: qualcosa di profondamente sacro sgorga dalle composizioni per certificare l’assenza di una via di fuga. Ed è un funerale celebrato in un anticipo così lontano. Ma noi, commettendo l’imperdonabile errore di danzare, crediamo di metterci al sicuro senza voler concedere spazio a testi apocalittici, tenebrosi, dove il disincanto diviene il sovrano assoluto. 

Ne pagheremo il prezzo il giorno in cui, invece, i nostri occhi si chineranno su queste parole pesanti come lastre di marmo.

Pazienza: al tempo sia concesso il potere di punirci.

 Se vogliamo essere un minimo attenti allora diamo almeno spazio all’osservazione, nell’economia degli strumenti, di come il basso sia determinante, con la sua propensione a fare del Postpunk il suo maestro, punto di riferimento e attore eccelso nella recitazione di tutto il suo campionario. 

E la chitarra? Compare molto meno, ma sa farlo come se al futuro volesse concedere un ricordo minimo ma straordinario.

Al synth ho già accennato ed è bene non dimenticare gli arrangiamenti, come comete sbrigative in attesa dello schianto nel vuoto.

Questo disco riesce a suscitare entusiasmo dentro una nube tossica ed è ora di descriverlo, canzone per canzone.


Song by Song 


1 Vortex


Ed è tuono iniziale, il tremore e la profezia che si annusano, un ipotetico luogo che viene mostrato tra fumi infreddoliti e la voce intensa di una donna che soffia, balza con toni suadenti all'interno di questo ritmo lento e sincopato.


2 Rainy


Selvatica esibizione di suoni lucidi ma cupi, la danza acquatica scende dal cielo per allarmare i nostri occhi, con una chitarra periferica che circonda il respiro. Ed è Darkwave e Postpunk in congiunzione perfetta, per annebbiare i sensi dentro le polveri dilatate di una musica che resiste all’attacco del tempo.


3 Blue Eyes


Basso e chitarra in entusiasta parata aprono la danza di occhi blu solo in apparenza: la malinconia vince il duello e si posiziona, convinta, sul viso, mentre un synth straziante bacia note come tergicristalli attivati perché bisogna far scomparire le lacrime.


4 Vase


Giunge una voce con un riverbero maligno, nella marcia che avanza ipnotica, lenta. Il cantato sequestra le forze e piazza un attacco vincente. Ed è terremoto al rallenty, glaciale.


5 Feel


La voce maschile arriva dopo pochi secondi ed è stupore. Una liturgia ritmica ci fa danzare come marionette stravaganti e inebetite, tutto si fa cupo e drammatico, il cantato opprime, abbatte la resistenza per lasciare spazio al gioco erotico della chitarra e del synth in stato di grazia.


6 Banish Sorrows


Nuova chicca balistica: il duo crea un altro edificio dai suoni perfetti, equilibrati, per venire a contatto con uno splendido crescente, un loop che solo la tastiera può generare. Ed è rincorsa nei corridori delle paure.


7 Angeldust


Gli anni ’80, ripuliti, disinfettati, aggiornati e corretti, trovano pace in questo brano, dominatore assoluto, capace di farci abbreviare il fiato. Come un rimbombo apocalittico, la voce accarezza atomi di secondi col suo registro alto ed è pura follia sensoriale.


8 Your Skin Turns Blue


L’inganno dei primi secondi sembrerebbe portarci verso le atmosfere drammatiche dei Joy Division. Poi, però, si va altrove, con in dono uno strazio simile a quello della band Mancuniana. Caos e visibilio si baciano.


9 Hinter Schweren Gedanken


Echi dei primi bagliori ebm dei Pankow paiono volenterosi di ribadire lo stupore, l’amore per il presente disco. Poi si corre con gli anfibi dentro l’acqua fredda di questa musica che si fa emblematicamente ancora più gelida.


10 Phantom


Il respiro sprofonda sotto la cupola di Phantom, il crocefisso che cade lentamente dentro il nostro sentore che non vi è più il tempo per sognare. Il congedo di questo strategico e stratosferico album avviene con un cantato decadente, come il pianto di una sirena ferita. E le note musicali sono il luogo di ogni scioglimento, il crollo totale, l’addio perfetto.


Alex Dematteis

Musicshockworld 

Salford

21 Dicembre 2022


https://detritirecords.bandcamp.com/album/left-for-pleasure-human-contract


https://open.spotify.com/album/1KYEQvojuIn6ufSjNpDuv0?si=7IVnATqRTbypkmzgcmW8hw







My Review: Left for Pleasure - Human Contract

 My Review:


Left For Pleasure - Human Contract


Germany 


Synthwave - Darkwave - Postpunk 


Once upon a time there was an abundance of musical genres, a constant bustle of new discoveries, which created astonishment, assimilation and joy as a consequence, and then turned into parents capable of generating multiple births.

But what hurts the old scribe most is the lack of sound research, its development and a precise stylistic position.

Everything is flattened, equal and boring: digital, musical ignorance and disinterest in a serious and professional approach has done the rest.

There are exceptions, and one of them is this German band (look, what a coincidence, right?), which arrives after four singles on its long-distance debut.

And it is dawn, spring, joy, circular seduction, within atmospheres laden with sadness, controlled agitation, shedding of quick-setting tears.

Then these sounds: let happiness be given a portion of the sky and us the task of a respectful bow. 

Let's take a closer look at where they come from and what makes them such an interesting band.

Halle is a city with a troubled, difficult history that is also little talked about musically: it would seem to be forced to turn in on itself because places that are too important and famous are close to it (Berlin, Dresden, Leipzig), perhaps taking away the visibility it deserves.

With a Gothic cathedral that is well worth visiting as the reviewer did in 1997, this town has created jobs with the chemical industry. 

And it is the latter that has generated fear, desolation, surrender, frustration as the two Germans have managed to demonstrate with this sublime musical exercise.

We are faced with structures that wander through precisely conceived sonic spaces, stimulating references and entrances to circuits of asbestos dust which falls within robust movements, desolate, abandoned heavens to specify the vividness of human mediocrity.

The duo's minds become laboratories of images, obstinacies, voluminous discharges of wilted flowers, where everything necessarily makes itself capable of impregnating bleakness, to lead it, back to the wall, to the consequent shooting.

Synthesizers dominate, in the turbid flight of shortness of breath that is positioned here as the last obstacle before death.

Vocals come from both members of the band, capable of stimulating seductive suggestions, in the dutifully depressing exercise which enhances the quality of music that is enveloping, rigid, robotic and able to lead us to limb-bending dances. 

Arteries are filled with a certified ability to propagate an artistic frenzy with sound dominating the structure of the compositions: one continually travels back and forth in time, a bonfire that is frozen by Coldwave imprints which are cleverly almost hidden, as with certain Ebm fragments. 

One finds the immense aptitude to change rhythms, giving the preposed section considerable range, making it easier for the melodic textures to rage on our enraptured listening. And it is a perfect marriage by associations of necessity that take root song after song: only in splendid musical Germany such an intense and deflagrating album could be born. There is no need for distortion to feel the sky crashing down on us: the two take it with their black fingers and bring it down, generating din and lightning in our quivering hearts.

The atmospheres sound like multiple flocks in a gathering at the end of existence: something deeply sacred gushes from the compositions to certify the absence of an escape route. And it is a funeral celebrated in such distant anticipation. But we, by making the unforgivable mistake of dancing, believe we are securing ourselves without wanting to give space to apocalyptic and gloomy lyrics, where disillusionment becomes the absolute ruler. 

We will pay the price on the day when, instead, our eyes will bend over these words as heavy as slabs of marble.

Oh well: may time be granted the power to punish us.

 If we want to be a bit attentive then we have at least to give space to the observation, in the economy of the instruments, of how the bass is decisive, with its propensity to make Postpunk its master, point of reference and sublime actor in the recitation of its entire collection of samples. 

And the guitar? It appears much less, but it knows how to do it as if to grant the future a minimal but extraordinary memory.

I have already mentioned synth and it is good not to forget  arrangements, like hasty comets waiting for the crash into the void.

This record manages to arouse enthusiasm within a toxic cloud and it is time to describe it, song by song.


Song by Song 


1 Vortex


And it is initial thunder, tremor and prophecy sniffing each other, a hypothetical place being shown amid chilled fumes and a woman's intense voice blowing, leaping in persuasive tones within this slow, syncopated rhythm.


2 Rainy


A wild display of lucid but somber sounds, the watery dance comes down from the sky to alarm our eyes, with a peripheral guitar surrounding the breath. And it is Darkwave and Postpunk in perfect conjunction, to cloud the senses within the dilated dust of a music that resists the onslaught of time.


3 Blue Eyes


Bass and guitar in enthusiastic parade open the dance of blue eyes only in appearance: melancholy wins the duel and sits, victorious, on the face, while a heartbreaking synth kisses notes like windshield wipers activated because tears must be wiped away.


4 Vase


A voice with a malevolent reverberation comes, in the march that advances hypnotic, slowly. Vocals seize the forces and place a successful attack. And we have an earthquake in slow motion, glacial.


5 Feel


The male voice arrives after a few seconds and it is astonishment. A rhythmic liturgy makes us dance like extravagant, inebriated puppets, everything becomes dark and dramatic, vocals are able to oppress, breaking down resistance to leave room for the erotic play of guitar and synth in a state of grace.


6 Banish Sorrows


New ballistic gem: the duo creates another edifice of perfect and  balanced sounds to come into contact with a splendid crescendo, a loop that only keyboards can generate. And it is a chase in the hallways of fears.


7 Angeldust


The 80s, cleaned up, sanitized, updated and corrected, find peace in this track, absolute dominator, able to make us shorten our breath. Like an apocalyptic rumble, the voice caresses atoms of seconds with its high register and it is pure sensory madness.


8 Your Skin Turns Blue


The deception of the first few seconds would seem to take us towards the dramatic atmospheres of Joy Division. Then, however, it goes elsewhere, with an agony similar to that of the Mancunian band as its gift. Chaos and rapture kiss each other.


9 Hinter Schweren Gedanken.


Echoes of Pankow's early ebm flashes seem willing to reiterate the awe, the love of the present record. Then one runs with combat boots into the cold water of this music that becomes emblematically even colder.


10 Phantom


The breath sinks under the dome of Phantom, the crucifix slowly falling inside our feeling that there is no more time to dream. The end of this strategic and stratospheric album comes with a decadent singing, like the cry of a wounded siren. And the musical notes are the place of all dissolution, the total collapse, the perfect farewell.


Alex Dematteis 

Musicshockworld 

Salford

21st December 2022


https://detritirecords.bandcamp.com/album/left-for-pleasure-human-contract


https://open.spotify.com/album/1KYEQvojuIn6ufSjNpDuv0?si=otbNk95CR9SUL1mud-yGFg







domenica 27 novembre 2022

La mia Recensione: Leech - Live 06.06.2020


Leech - Live 06.06.2020

 Spesso il desiderio è figlio di un’ipnosi inconscia, il territorio sospeso tra ciò che vorrebbe nascere e la sua inconsapevolezza. Lì e solo lì nasce ogni cosa. Ci risiedi senza conoscere ancora nulla e può durare un attimo come un’eternità.

Nella musica può capitare tutto questo e quando lo scopri esci da una trance che ti fa uscire le note dalla pelle e te le ritrovi sparse, mentre ti osservano e reclamano il tuo sguardo. Anche i sogni sanno ballare…

Partecipare a un concerto degli Svizzeri Leech conduce proprio a vivere questo marasma emozionale, senza attrito, con la materia di sconvolgimenti che generano purificazione continua. Uno shock gentile che regala elettricità nei circuiti di desideri sconosciuti: nel bel mezzo del tuo ascoltare sei immerso nella loro profonda ricerca di trame melodiche e ritmiche per una danza degli occhi e dei pensieri dal vestito più lucido che esista nei tuoi battiti sbigottiti. Definiti Post-Rock  per il genere musicale che suonano, lo scriba non ci casca e va oltre, si riduce e si rifugia a un silenzio che non disturbi la loro messa limpida di voli angelici, terrificanti per profondità e suggestioni. Perché con loro si sogna, si freme, si precipita nella bellezza di un incanto, tra le nuvole e la polvere.

Sì, chiamatelo Post-Rock, Instrumental, perdetevi pure nelle certezze che possano far stare insieme tutte le vostre fameliche esercitazioni di bravure raggiunte, io sono altrove, completamente, beatamente perso nei loro valori sonici, nei circuiti onirici di storie che non necessitano di parole. Tutta la storia musicale di un genere trova il suo momento più alto (non mi pare possibile che ciò non esista), la sua perfezione indiscutibile, ma il fatto più eclatante sono le anime poco attrezzate alla intelligenza  che debbono affannarsi nella ricerca, per vivere pacificamente questa condizione. Se volete per forza limitarvi a definire quello che fanno questi angeli delle montagne svizzere allora avete già trovato tutto. Questo Live è assolutamente l’esaltazione che trova il palco del cielo perché certa musica la si ascolta, la si vive guardando all’interno di nubi gonfie di miracoli irresistibili e irripetibili. Si viaggia per strade mentali piene di ricette per l’estasi, con le loro atmosfere imbevute di sfumature desolate e melanconiche, fiumi di delicata propensione alla ricerca di quella vibrazione che annetta e faccia dimenticare tutto. Musica che fa sospendere i pensieri e diventa immagini, film continui per  sceneggiature mutanti, attori che si scambiano sguardi e ruoli, per divenire la colonna sonora di brividi multipli. Trame mai sfocate, tantomeno frammentate, vi sedurranno conferendo a queste undici pillole di trasportare il nucleo originale lontano, trasformandosi in liquidi bollenti, colmi di fascino, ci si perde, come conseguenza non programmata, nella accattivante storia di un percorso dove tutto rimbalza continuamente nello stupore, nel buio che accende i fari di deliri che conoscono la ripetizione. Le chitarre, la tastiera, il basso e la batteria sono corpi creati per dare all’azzurro un colpo di tosse, facendo uscire molecole contagiose di quella parte del rock che non puoi controllare. La sfrenata collezione di fantasie divaricate, generose, si materializza nella magia: chiudete gli occhi, il loro magnetico esercizio di sublimazione cancellerà la noia producendo respiri e sospiri imprigionati dalla intensità e dalla bellezza, nel giardino della profondità. Conoscerete filastrocche, pastiche sensuali, morbosità antiche con la forza del fragore moderno. Sperimentatori audaci dell’impossibile, disegnano la perfezione in trame lunghe e continuamente aperte alla manipolazione, ricordando a tutti che non esiste solo il Prog a fare questo. Miscugli di surreali percorsi ipotetici qui trovano concretezza: vibrazioni ammalianti che fanno sentire le loro canzoni come se fossero lo starnuto perfetto di un angelo in cerca del sonno eterno. Ogni composizione tesse trame che non conoscono sosta, con loop che convincono a divenire ubbidienza implacabile perché siamo pure noi musicisti ascoltandole, non paresi ma pennelli a nostra volta. Raggiunta l’epicità, la riflessione, il vibrato interiore che fortifica l’età adulta, si può trovare agio nella loro identità selvaggia ma ragionevole: solo il nomade cambia la pelle, così facciamo noi ascoltando questo concerto, il loro primo dopo il disastro pandemico. Sapendo spaziare nei decenni, negli stili, mettono la benda ai cliché per respirare la libertà espressiva maturando continui sconvolgimenti. Ecco arrivare le condizioni attraenti del surreale a favorire la curiosità e gli estremi che si danno appuntamento in questi minuti benedetti dal Dio della musica, della ricerca interiore e della gioia più spavalda. Pennellate liquide, languide, nervose ed erotiche per un disegno di legge che stabilisce completo abbandono, per incontrare la violenza di emozioni fortissime. Tutto si fa marziale, abrasivo, lancinante e piacevolmente insostenibile: regalatevi cento minuti di follia totale, farete la più bella doccia emotiva degli ultimi anni…

Struggenti, nervosi, pacifici con interezza sublime, un concentrato di contraddizioni ribelli ma educativi, i Leech sono il guanto perfetto per toccare ogni instabilità uscendone intonsi, senza possibilità di infezioni bensì guariti da ogni male interiore, perché capaci di spazzare l’inutile.

Il migliore Live degli ultimi vent’anni per il vostro scriba: sono talmente sicuro che la vostra intelligenza coglierà questi fiori meravigliosi da potermi congedare felicemente… 


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

27 Novembre 2022


https://leechofficial.bandcamp.com/album/live-06062020


https://open.spotify.com/album/3cc8yjj31E6toviqZsLoo4?si=djpFQAgpR7eN30-hbdA8eA







sabato 26 novembre 2022

La mia Recensione: Claudio Baglioni - La vita è adesso

Claudio Baglioni - La vita è adesso


Ci sono pozze di fango che cercano poesie: di solito sono i poeti a concedergliele, ogni tanto gli scrittori di canzoni, ma a regalargliele sono sempre le anime sensibili e solitarie. C’è un abbraccio da donare a chi non ha ascolti, a chi non ha parole da offrire. 

Esiste però la sorpresa di chi sa farlo a distanza attraverso versi che donano entrambe le cose, che si incollano perfettamente. E certi cantanti permettono questo raro idillio, facendo divenire quelle persone fortunate, equilibrate, finalmente nella condizione di sentirsi vive in una migliore propensione verso il presente.

Tra i solchi più generosi in tutto questo vi sono quelli de La vita adesso, un crocevia di scrittura elevata e suoni perfetti, per un combo che resiste all’uscita, perché la vita più che adesso è per sempre, con le sue magagne, le sue storie appese agli alberi dei bisogni, a quegli istinti che possono donare un bacio come un proiettile in testa. Ciclica, è uno spazzacamino dell’anima che in più mette dentro di noi piume e mattoni.

Claudio Baglioni nel 1985 ha completato il suo cammino fatto di un meritato successo scrivendo però (sino a quel momento) il suo album più riuscito, centrato, in grado di rendere gli italiani uniti non solo nelle spiagge bensì nelle autostrade dei sogni, nella coscienza sveglia per dovere, senza scuse, e nei quadri emozionali con la cornice perfetta. Ed è stato un botto di capodanno anticipato: era l’8 giugno, il caldo era ancora equilibrato, la stagione quella giusta e l’Italia viveva un momento critico con la modifica dei patti Lateranensi, il Presidente era Sandro Pertini, capace di vigilare come poteva sulle malefatte di una classe politica sempre in forma per fare del proprio peggio. Per quanto concerne la musica, quella internazionale del  momento  favoriva We Are The World e la finta della solidarietà viveva quasi come se fosse vera…

A Roma il Claudio nazionale mise in commercio l’album che avrebbe fatto il record del più venduto della storia italiana, valido tuttora, testimoniando che il successo fa incontrare molte anime, ma lasciando forse ancora più sole molte altre che non potevano nuotare a proprio agio tra quelle note, quello stile e quelle parole. È sempre un poco contro il molto, la guerra delle insoddisfazioni davanti alle gioie.

Però lo scriba viveva su quelle canzoni la contraddizione di trovare un oceano incantevole e pulito e la rabbia per quella musica che preferiva e di cui in quell’album non vi era presenza alcuna. E oggi sceglie di parlarne per dare voce a quella parte soddisfatta: di quell’altra lo fa già tutti i giorni.

Inquadrare questo lavoro senza pensare a ciò che ha rappresentato è una fatica assicurata ma, tant’è, ho deciso di provarci. Risulta decisamente di appartenenza molto di più a chi l’ha amato e addirittura a chi lo ha contrastato (ed erano molti) che non al suo autore, sempre impegnato a disegnare tavolozze nuove per non sentirsi legato al suo successo. Ma ha messo radice nei cuori, nei gesti, nella modalità di osservare le persone, le relazioni, gli oggetti, e tutto l’ammasso che popola la nostra esistenza. Ha generato frenesie, brividi, pianti, specchi di sole a pettinare il buio del nostro affanno quotidiano, ed è diventato motivo di una festa da recitare ad ogni evenienza, continuamente. Disegnando il tempo, inserendolo totalmente in ogni piccolo dettaglio, Baglioni è divenuto così, velocemente, il centro di spartizione dei segreti, delle verità e finanche dei dubbi che in quelle canzoni emergono con rara raffinatezza e garbo. I quadri appiccicati al cuore consolano e accompagnano i battiti nella nostra incoscienza, avendo però il merito di lasciare un sorriso nella mente, sempre fresco. Abbandonata l’abitudine di fare fotografie alla vita con decine di canzoni che, come racconti precisi, creavano una pellicola mentale sempre disponibile alla visibilità dei ricordi, con questo disco Claudio dipinge la contemporaneità mentre decide il suo destino e indaga sul fatto che in questo la tecnica fotografica possa essere solo imprecisa. Quello fu il momento nel quale si sono aperte nuove possibilità di espressione nel suo percorso artistico, la prima davvero notevole, ed è proprio questo aspetto a stupire per il successo ottenuto: decisamente un  evento atteso da una massa di ascolti che sino ad allora ancora si spartivano liberamente, ma anche confusamente, gli ascolti. Lui avvicinò, compattò, mise le mani del suo sentire nella stretta di acquirenti che trovavano nella sua musica un appuntamento doveroso, generoso, essenziale, dove l’impegno più importante si rivelò quello privato, personale, e non quello sociale.

E il suo ruolo di cantautore tornò alla radice del tempo, ai suoi prozii, cioè i cantastorie, i primi a coniugare la necessità di un racconto di istanze personali con l’impegno. La vita è adesso è un collante, una matriosca che spazza via le convenzioni, i pruriti egoistici, ed è anche un sottofondo per pensieri confusi, una distrazione, un tuffo sospeso senza avere nel cielo l’infinito perché le canzoni, una dopo l’altra, offrono una volta celeste diversa, piena delle sue storie. Piante di note che come sempre hanno il groppo in gola, tracciano la tristezza senza mancare la precisione, in un crescendo che però sa incontrare il sogno e la necessità di smarcarsi. La capacità di precisare gli stati d’animo appartiene ai fuoriclasse e non importa lo stile, la musica utilizzata, perché ciò che è preciso avvicina le persone, le mette a contatto con la verità. Certamente l’aspetto musicale non è da meno: si assiste a un grande cambiamento, a chitarre dal piglio rock e alle orchestrazioni di Celso Valli che si amalgamano perfettamente, generando una opposizione intelligente all’elettronica del Synthpop e del New Romantic, così vivaci e onnipresenti. Fior di turnisti diedero qualità e sostanza a note, accordi, linee melodiche che, seppur avendo una tecnica decisamente distante da quella italiana, ponevano incredibilmente in risalto le peculiarità della musica nostrana, spesso avvezza a scimiottare quella di altri paesi negando la propria natura. La scrittura di Claudio Baglioni conobbe nuove necessità, nuovi agganci nel cielo, che sortirono l’effetto di un binomio non prevedibile perché lui è sempre stato legato a uno stile compositivo più classico e riconoscibile. Il suo romanticismo innato questa volta trova sede nella splendida Monte Mario, che gli consente un clima interiore perfetto, con la giusta brezza nella sua mente affamata di immagini e storie che fossero adatte al suo progetto di scrivere un album che avesse la forza dell’eternità, incentrato sull’argomento che si rivelò vincente. Ha saputo coniugare la sua modalità così profondamente legata agli anni ’70 con tutta la tecnologia della metà degli anni ’80, trasferendo la sua romanità nel centro di Londra, trovandosi così al cospetto di musicisti abituati alla grandezza, a rendere preciso ogni atomo di suono. Prese la giornata di un uomo qualunque (vittoria assoluta, senza favoritismi da contestare) e lo buttò al centro del racconto del suo percorso umano, tra incontri, soddisfazioni e lamentele, preoccupazioni varie, giochi d’amore in serie e gli inceppi di un’anima comunque turbata perché questo fa la vita con ognuno di noi. E qui viene fuori un tratto coerente e continuativo che metterà a proprio agio gli ascoltatori, potendo trovare una culla, un vestito e una scarpa da appoggiare sulla propria pelle perfettamente. Quando si scrive un disco sui singoli attimi dell’esistere il rischio di tediare, ingolfare e saturare è elevato, ma Claudio ha saputo destreggiarsi, superarlo: alzata l’asticella, le gambe della sua bravura si sono allungate compiendo un salto stratosferico verso il cielo conferendogli il mito, obiettivo che forse albergava nella sua ambizione più privata, senza la quale non si cresce. Arrivano metafore, idee di appartenenza, squilibri che ricevono il supporto di una penna dorata che dona a tutti loro la pace, dentro la pelle della sua notte avvolgente e rassicurante, perché in questo album la positività trova modo di mettere radici nella terra quasi arida delle esistenze, pericolosamente ai piedi del baratro. E quell’uomo, il protagonista che soffia in queste canzoni la sua poesia esistenziale e il suo impegno, ha il sorriso obliquo, su labbra che baciano la consapevolezza che la vita vada vissuta. Il racconto si fa illuminante, tenero, con le immancabili presenze di bolle colme di amarezza a rendere credibile il tutto. Decide di conferire trasparenza alla solitudine, baciando la sua esistenza con la possibilità di valutarne la forza e pulendo il senso della contigua sofferenza: sì, ha scritto miracoli umani dentro molti versi, donando energia elettrica ai pensieri degli uomini grigi, ops, persi. Offrendo le coordinate musicali che potessero contenere una varietà indiscutibile, l’orecchiabilità rispetto al passato è data da rime baciate perfettamente e assonanze sensate, ma esistono anche episodi nei quali l’ascolto deve essere attento perché meno facilitato, riuscendo a far sposare la semplicità e la complessità: forse anche questo aspetto spiega il perché del suo successo. Il linguaggio usato potrebbe essere risultato meno comprensibile a un pubblico più giovane, ma è stato in grado di suscitare interesse e affetto in ogni caso, perché le canzoni regalano sensibilità e intelligenza che, anche se non percepita del tutto, sono semi pronti a crescere e sappiamo bene che nella adolescenza certi appuntamenti sono solo rimandati. Altra chiave di lettura per capire questo suo dilagante arrivo alle generazioni più distanti, ognuna con il proprio tempo di assimilazione. La sfera di persone più adulte trovavano immediatamente la necessità di connettersi al lungo discorso di Baglioni, una spartizione di averi che necessitava l’assimilazione, in un momento nel quale i testi in generale stavano divenendo contenitori vuoti e inservibili. Conseguentemente lo spazio era stato preso da questo cantautore sempre più immerso nel precisare, nello sferrare calci educati alla pigrizia e alla banale contentezza che andava fermata. Un servitore socialmente utile che prestava però attenzione alla necessità dello slogan, di idee che potessero fratturare un bisogno generale. Le voci dovevano trovare un unisono e lui lo creò, lo fece trovare a nostra disposizione. Diventò capace di sperimentare l’idea di una maturità quasi obbligatoria e la formò con abilità, un tenero addio al decennio precedente dove si concesse i limiti di storie d’amore che in molti faticavano ad accettare. L’identità reclamava l’accesso verso una mutazione e affidò tutto questo non per caso alla storia quotidiana di un uomo e non di un ragazzo dal cuore acceso da impulsi ed eccitazioni varie. I brividi consegnatici sono quelli di consapevoli capogiri, di esperienze che hanno eretto il pensiero, seppure a fronte di un corpo ingobbito. Questo non fu altro che la madre di un’intesa crescente, il doveroso appuntamento di un obiettivo al quale non si poteva sfuggire: congedarsi dal passato senza dimenticare, ma maturando la doverosa esperienza per costruire basamenti concreti per il presente che divenne per la prima volta il suo bisogno primario. Un muro alzato verso la ripetizione di cliché congeniali solo per chi lo amava follemente, dal  momento che in lui emergeva una necessità di descrizione totalmente devota a un argomento specifico. Da lì partire come un sarto del pensiero per sviluppare il tutto.

Difficile è il lavoro che Claudio ci obbliga a fare: la memoria è messa sotto pressione sia per la quantità di parole che ci troviamo addosso, sia per i ritornelli che tendono a non ripetersi, sfiancando una delle caratteristiche storicizzate delle canzoni. Tutto trova una forma molto varia nelle modulazioni, nei periodi lunghi delle strofe, nel suo bisogno di scrivere un libro per ogni brano perché nulla doveva essere impreciso, per non concedere fughe ai particolari che si riveleranno essere i veri tesori di questa sua metodica. Può risultare indigesto questo percorso, capisco chi non riesce a masticare il suo stile (tra l'altro in questo album molto cambiato, quindi parrebbe stupido agli occhi dello scriba muovere accuse...), in quanto non mi pare complicato accettare l'invito a separarsi dalle convinzioni, lo faccio perché credo nel messaggio proposto, nello stile di una musica adulta, vivace il giusto, mai melensa, determinata ad avere lo sguardo fiero nei confronti delle star internazionali. Non dimentichiamo che questo disco riuscì a battere nomi altisonanti, procurando una notevole sorpresa. Per questo forse bisognerebbe concedergli almeno una opportunità, poiché le canzoni aprono il cielo verso uno sguardo scevro dai limiti che non sono i suoi ma quelli di altre persone. 

Ma la musica che troviamo? Non si può negare il lavorio mirato, curato, specializzato verso un'apertura a cui in quel momento pochissimi artisti e band avevano il coraggio di pensare, figuriamoci proporla. Il coraggio qui presente è manifestato nelle architetture, negli strumenti utilizzati, nei campionamenti, nelle teorie che conobbero la capacità di divenire realtà, dove il respiro classico delle arie ottocentesche non si chiusero timidamente, ma decisero di palesare le loro grazie davanti a quella tecnologia che sembrava essere così spavalda, piena di sé. Un matrimonio di modalità che ampliò il mare delle accoglienze e di una intelligenza che voleva essere ancora umana e non artificiale. Quando la musica vive la necessità di contemplare il nuovo e l'antico crea conseguentemente messaggi nuovi, dando l'esempio, forza, possibilità e La vita è adesso lo fa davvero molto bene. Abitare la luce nei suoni magnificamente espressivi di queste dieci composizioni è un dono e non un regalo, sottile differenza ma importante da recepire: dono perché esistente e accolto solamente se c'è necessità e interesse, non un regalo, la musica non deve esserlo, e chi lo riceve spesso ha la memoria corta.

Aggiungo che ascoltarlo, oggi nel 2022, non dovrebbe solo essere una cavalcata nella nostalgia, nei ricordi che si sa svuotano il senso e il valore principale della musica, vale a dire la sua evidente connessione con l'eternità, sempre in grado di insegnare, bensì l'occasione per evidenziarne le qualità. Stimola ancora pensare che per una volta non ci troviamo davanti a un album infarcito di misteri, ma a un raggio di sole che illumina le esigenze di anime alla ricerca di luoghi, cancellando il bisogno di legarsi alla modalità interpretativa per concedere quella libertà che un ascolto profondo non dovrebbe mai avere.

Capitolo voce e interpretazione: non vi è dubbio che il range, notevole e come sempre valido, qui trova il picco della sua carriera, esse sono legate a parole maestre e quindi desiderose di avere l'interpretazione e l'intonazione corretta. Non una di loro offre esitazioni, sono perfettamente centrate, dando una sensazione di coesione e non quella di iati che in passato avevano mostrato il volto. Una modalità che si affida a zone per lui nuove, con le tonalità basse che non congelano, anzi, sono quelle maggiormente preposte a scaldare il cuore. Il suo registro alto, la sua estensione, i suoi acuti sono ancora capaci di far vibrare i lampadari del nostro padiglione uditivo, e in un paio di episodi direi ancora di più. Interprete efficace, sicuro, mai spavaldo, sempre in grado di dare verità e credibilità a quegli esercizi raffinati che sono quelle parole magicamente incastrate tra loro.

Non scriverò la descrizione canzone per canzone, non è necessario questa volta, non voglio toccare la vostra storia con loro, rispettando anche solo l'idea di un mio esercizio sterile e privo di senso.

Concludendo: non è un supermercato questa uscita discografica, non una lista di cose dove prendere ciò di cui necessitiamo, bensì l'occasione di accendere la luce delle nostre intelligenze, perché è come se lo scrivessimo ogni giorno noi questo disco, adesso...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

26 Novembre 2022

https://open.spotify.com/album/07gMifgQGXzeoHjo7b1wbj?si=vJm1ixu-TQ2slElxtZrkpg




My review: Eirēnē, Paris Alexander & The Stave Church - Inner Sanctum

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