mercoledì 10 agosto 2022

La mia Recensione: Final Body - Nothyng

 La mia Recensione:


Final Body - Nothyng 


Prendi una città, Seattle, e trattala male: il Grunge ha fatto bene solo a lei perché ha tolto visibilità per almeno tre anni a tanta musica che veniva prodotta all’inizio degli anni ’90 nel mondo. E i danni sono stati evidenti. Ora lo scriba arrabbiato volge lo sguardo, con fiducia e amore, a tutte quelle band che anni dopo quel periodo stanno cercando di uscire da quei confini, che cercano di legittimare la loro musica partendo dal desiderio di esplorare generi diversi, di prendere distanze da un’attitudine musicale che forse incomincia a essere una spada di Damocle.

Ciò di cui vi sto per parlare non sarà una band e tantomeno un album che vi farà gridare al miracolo, ma è comunque estremamente importante in quanto pieno di adrenalina, di riferimenti agli anni 80 senza per questo privarsi della possibilità di aggiungere qualcosa di nuovo e di diverso.

È un lavoro variegato, capace di esprimere attraverso le sue canzoni il desiderio di portare nel capoluogo della Contea di King fascinazioni e riferimenti diversi, di condurre i cittadini verso territori dove alcuni sentimenti possano trovare una forma espressiva diversa. Ed è per questo che la mia attenzione si fa intensa, scrupolosa, quasi maniacale. Nothyng è una porta mentale del porto di Seattle che spalanca percorsi, navigazioni e sogni per conoscere modalità che per decenni erano totalmente scomparse: il Post-Punk nella cittadina americana ha avuto accessi numerosi e validi verso la metà degli anni 80 per dover poi vivere l’abbandono e il disinteresse.

La produzione è stata affidata a Ben Jenkins, ingegnere musicale e musicista, che ha saputo dare ai quattro la volontà di curare il suono prima di tutto, di prestare attenzione agli arrangiamenti poi, per conferire al lavoro di debutto caratteristiche di freschezza e forza, con un approccio più inglese che americano.

Le canzoni sono coinvolgenti per lo stile, per l’attitudine di non cercare una hit, vettore dal facile accesso, quasi come se quello fosse il vero concept dell’album: la volontà di creare un discorso di protezioni nei confronti del proprio fare artistico. Non il successo, bensì le idee come minimo comun denominatore.

Inevitabili gli accostamenti, ma non possono togliere all’ascolto la fluidità e l’individuazione di contributi personali. 

La peculiarità più evidente è quella di essere riusciti a dare luce a una musica che ha il DNA ben piantato nelle tenebre: l’elenco di band che potrebbero ricordarci l’origine di questa cifra stilistica sono molte, ma nessuna di loro ha quote cosi alte di bagliori, di sguardi verso il sole.

Elementi di Darkwave, miscelati al rock, circondano le canzoni con in aggiunta, in alcuni momenti, un synth che sposta i luoghi di definizione, per dare maggior ossigeno e chance di allargare la propria radice che è ben affondata negli anni 80. Ed è consolante vedere che non sono dei truffatori, degli opportunisti come gli Interpol o i White Lies, che non hanno fatto niente altro che copiare e incollare senza apportare uno stile proprio come invece è facilmente individuabile con i Final Body. Sollievo, gioia, felicità che contagiano perché, per quanto siano riconoscibili le radici, i rami profumano di novità, le foglie hanno colori e sostanza diverse.

Poco più di mezz’ora di ascolto per dieci canzoni che danno l’impressione di essere velocissime: il tempo è una variabile che non appesantisce, ognuno può sentire l’incanto e il desiderio che si concentra su una composizione piuttosto che un’altra, ma non si ha mai l’impressione di essere imprigionati nella pesantezza. Le ombre dell’esistenza arrivano più nei testi che nella musica, perle di saggezza che considerano una realtà che si sta riempiendo di distanze nei rapporti, per rendere, alla fine dei conti, l’esistenza più pesante.

Allo scriba non resta altro che puntare le canzoni e mostrarle, per avere un quadro negli occhi e una mano salda nel cuore…



Song by Song



Agitated


La trama del synth scorre sino a quando tutto diventa Post-Punk, il cantato spinge gli occhi a danzare, sino a quando le chitarre si elevano e in certi momenti il fantasma di Adrian Borland emerge per scuotere i nostri nervi. La drammaticità attraversa i muscoli e la mente accende il cero in cerca di una calma interiore che non arriverà.



Satin


Se l’inizio il brano ricorda i Cure di Seventeen Seconds, poi tutto si sposta tra The Sounds e O.M.D., ma non temete: i quattro di Seattle sanno concedere a loro stessi per primi un bouquet di rose fresche, non troppo imparentate con quelle degli anni 80, basta saper ascoltare gli intarsi della tastiera, il basso nuvoloso che spinge la canzone verso la modernità.



Lose Health


Ed è magia, la stanza si riempie di mistero e dolore, la voce sale in cattedra, gli spazi vuoti sono sfiorati dalla chitarra in odore di Sua Santità Robert Smith e poi lo spazio che il synth si prende allarga il cielo con una nuova ferita. Incantevole, saprà sedurvi.



Save Your Breath


Il cuore si accende di rugiada con Save Your Breath: tutto qui profuma di prime ore del mattino, con un invito a salvare il proprio respiro e questo concetto, scritto prima dell’avvento del Covid, pare una premonizione. Dal punto di vista musicale, notevole il gioco di alternanza del lavoro della chitarra, con il basso che si contorce su un giro che offre echi di Killing Joke, mentre il synth offre alla band la possibilità di separarsi da facili accostamenti.



Curtains


Eccola la canzone che vive di se stessa, forse anche per se stessa: una rondine che vaga per il cielo di Seattle, offre il suo battito post-punk puro, quasi in modo morbido, sebbene il ritmo sia veloce, forse causato da un cantato sensuale.



Life Person


Un gattopardo sonoro avanza nella notte, la voce sembra quasi uscire dall’ultimo album dei The Doors mentre le note sono brividi di pace, sino a quando, alzandosi il ritmo, tutto sembra dirigersi verso Londra, anno 1981. Le linee melodiche sono diverse e perfettamente collegate tra loro, riuscendo a dare alla canzone la sensazione che un missile dalla faccia pulita sia passato a salutarci.



Shadow


Altro esempio brillante di quanto in questi anni chi decide di risiedere nella zona del post-punk possa escogitare il sistema per colorare il passato, navigando dentro le perle del passato per poter concimare le proprie illuminazioni emotive.



Devil


Aggressiva, dall’impeto vigoroso, Devil ci porta una band volenterosa di affrontare la parte più teatrale del cantato e di schegge di Australia che echeggiano chiaramente per questa tensione che sospende uno strumento al fine di dare spazio ad un altro e poi riunire il tutto in un movimento tribale.



Run Away


L’elenco qui potrebbe essere infinito, se viviamo solo della volontà di trovare dei riferimenti (vincerebbero almeno quattro band), ma poi, dato allo studio la possibilità di scovare materie prime, queste arrivano: il brano è una frustrata di aria fresca che riesce a paralizzare le quantità di elementi che arrivando dal periodo 1982-1983 potevano annullare il senso della scrittura di questa gemma.



Beg


La sorprendente Beg conclude questo album: si evidenzia chiaramente la volontà di scrivere una goccia di sangue con il sorriso, per un’atmosfera che pare essere quella di una gioia che sopravvive alle intemperie. Diversa da tutte le altre, questa stella finale sembra aprire al futuro della band scenari diversi, una decadenza solo accennata, concedendosi una delicatezza cucita con l’abito grigio.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Supino

10 Agosto 2022


https://finalbody.bandcamp.com/album/nothyng


https://open.spotify.com/album/515fpoV8n7A0gPjURLEPWo?si=g2tAEKfUQqa_3Dtti6Blsw






martedì 9 agosto 2022

La mia Recensione: Moonlight Meadow - Moonlight Meadow

La mia Recensione: 


Moonlight Meadow - Moonlight Meadow


La valigia della mente dovrebbe essere una risorsa: dove esiste anche solo possibilità di un viaggio i nostri pensieri dovrebbero già costruire sentieri infiniti.

Il viaggio della musica è multiforme, senza limiti, sospeso sino a quando non entri dentro i suoi confini. La maggior parte della musica non è conosciuta: questa è una tristissima verità e realtà, sfortunatamente connesse.

Prendiamo questa band Polacca, tre anime, cortocircuiti di nuvole fredde ma non pesanti, in movimento costante dentro la rassegnazione dei sogni, guerrieri senza tempo, mentre combattono il calore di un mondo incapace di una giusta comunicazione. Nel 2019, dopo quattro anni fatti di amalgama e la individuazione di baricentri essenziali, proposero il loro album di debutto che finì nel silenzio della maggioranza di persone disattente e incapaci di prestare attenzione a questo combo che invece aveva prodotto un insieme di perle di elegante tristezza, dai testi impegnativi, evocativi, disarmanti, alla fine davvero utili. E la musica scritta si muove su rotte già percorse in precedenza da lavori noti e famosi, ma i tre meritavano una chance: la qualità che si trova in queste undici tracce è spesse volte superiore a quelle band che invece hanno avuto successo.

La disperazione in questi solchi non soffoca, non deprime, non fa cambiare umore, piuttosto è una serie di raggi X che tolgono la voglia di parlare perché il loro referto è impietoso, veritiero, devastante.

Sono sogni che danzano dimessi, dentro recipienti di acqua che si sporcano di malinconia e assuefazione, divenendo getti di amore nero dirompente, gravità spesso in orbite di pensieri che si assentano. La voce, impostata e grattugiata da secoli di devastanti umori decadenti, infierisce, attacca e abbatte, mentre la musica che le sta attorno dimostra come i generi musicali con i Moonlight Meadow siano scuse prestigiose, atti di morte rigogliosi, che si spostano tra scintille di gothic Rock di stampo Fields of the Nephilim, nella marea della Coldwave di matrice belga, il Postpunk tedesco e alcune lievi presenze di Deathrock abilmente nascoste per non infierire.

Ma la Russia è sempre lì a dettare le linee guida della freddezza mentale, la lucidità che deve sempre troneggiare.

Se si cercano influenze precise (esercizio facile ma sterile, perché i tre dimostrano una grande varietà di qualità proprie), si decide preventivamente di non prestare un ascolto preciso che rivelerebbe le molteplici braccia, arti che accolgono i respiri e le capacità che vanno riconosciute. L’album ci porta in luoghi che conosciamo, offrendo però sorprese e la difficoltà di gestione: innumerevoli sono i momenti nei quali una sensazione violenta rapisce tutta la convinzione che abbiamo per ucciderla, perché la bellezza fa anche questo.

Il sentore che questo sia un gioiello sepolto dall’indifferenza si precisa di canzone in canzone, lasciando i pensieri sotto un maremoto di grande rabbia e frustrazione: album come questi dovrebbero suonare all’infinito nei circuiti dei nostri cuori pesanti per trovare nelle canzoni amici e compagni di frustrazioni, sempre più pericolosamente in aumento.

Ascoltandolo si percepisce come la musica elevi le nostre sensazioni specificandole, unificandole, portandole a spasso nel teatro della nostra follia non come consolazione, bensì come atto di vita ineludibile.

Le chitarre sono sirene con il burqa: fanno intuire una presenza bellissima ma non la svelano mai completamente, regole di disciplina che conducono alla struggente convinzione che vi siano impianti di luce confinati nel magazzino del vuoto, dove tutto muore. Infatti: la sezione ritmica si fa possente come atto consolatorio e la voce da una parte distrae e dall’altra santifica la bellezza di quei giri armonici che fanno di quello strumento la regina dell’album.

La fascinazione avvolge il tempo corrompendo i luoghi: si diventa tutti alunni delle ombre, corpi in fervente attesa di un dramma peggiore che arrivi per togliere definitivamente il dolore, ma i tre amano l’onestà ed esagerano nel loro campionario di frecce velenose dal ritmo scostante, nel movimento infallibile del campionario di sgomenti dei quali loro mostrano tutte le sfaccettature, rendendo l’album semplicemente perfetto.

È arrivato dunque il momento di spegnere le candele e di divenire il buio perfetto per illuminare queste undici folli dame dal sorriso obliquo…



Song by Song



Temptation


Misticismo e dolore aprono l’album, con sofferenti chitarre iniziali per poi divenire un lampo dal basso grasso, la batteria che disegna con semplicità e possanza il ritmo che travolge la pianura Polacca, in un paravento che lascia passare sguardi di tenebra. Drammatica, ossuta nel suo scheletro balbuziente, l’apertura di questo esordio è salvifica, perché conosciamo già la direzione e la specificità del terzetto.



An Old Dream and Love


Chitarra come una cesoia che ha l’appuntamento con la morte, la voce trova il suo respiro dentro un sogno che nasconde le sue storture, per conferire al brano blocchi di acciaio dal colore grigio, senza vento. Il basso è un animale preistorico, con le sue note rotolanti che mettono le mani su quelle della chitarra, per mostrare al cielo che il Goth è ancora una risorsa incommensurabile. 



Empty Waters


Le tenebre mostrano veli e denti, accarezzano e mordono con questo brano che sembra uscito dall’officina del mistero dei primi anni 80, dalla parte di Leeds. Un movimento sonoro breve circoscrive la drammaticità di presenze sconvolgenti nel testo che è un testamento, una cronaca dolorosa, la chitarra abbaia ai Cure di Faith con più drammaticità, mentre il silenzio vuole trovare rifugio ma queste note lo scavano e lo inchiodano con la sua nenia teatrale.



City of Nights


Il Post-punk cerca un anello di congiunzione con la Darkwave e lo trova: il matrimonio sarà lungo, perfetto, lancinante, pieno di polvere da sparo tenuta pericolosamente sveglia. Il ritornello è un groviglio di aperture con il registro della voce che si alza verso il cielo, aprendo le sue mani al Dio dello sconforto. Anche il nero ha una faccia Pop e qui indossa la maschera che connette il mistero alla visibilità.



…Lost Dream 


Si torna ad un ritmo più lento, Carl McCoy e i suoi vampiri suggeriscono la trama di questa chitarra che scava nella carriera dei Fields of The Nephilim per onorare la parte onirica dell’esistenza. Ed è perfezione che acceca, l’emozione è tutta nella chitarra che circonda la voce, che si astiene dal voler imitare quella di Carl, ma la suggestione musicale conduce proprio nella terra della band di Stevenage. La sorpresa arriva con il basso che pare una farfalla piena di acqua: pronto a precipitare riesce a stare aggrappato perfettamente alla chitarra.



Dance


L’unica canzone dei Moonlight Meadow che potrebbe vivere, stazionare, trovare spazio nelle radio gotiche: ha tutto per essere una cometa dal vestito elegante e capace di strutturare, nella nostra mente, la certezza di una danza piena di coltelli imbevuti di veleno perché questo brano ferisce per il suo testo, per le sue chitarre in odore di Banshees, il suo respiro vicino ai Red Lorry Yellow Lorry, ma con l’accortezza di non disperdere il suo primogenito impeto che è quello di essere prima di tutto un atto di devastazione.



Distant Memories


Psichedelia gotica, delirio che nei primi secondi ci porta all’horror rock e al vittimismo meraviglioso dei Cramps, per poi deflagrare nella corsia Darkwave senza temere di essere uccisa, in una bolla di mercurio che rileva temperature basse, si trema con i cambi ritmo, con il basso che spara missili di terra umida e la voce che dialoga con il tempo attorcigliandosi per non lasciarsi sconfiggere. Brano costruito in pieno controllo, dove le soluzioni minimaliste devastano per intensità.



Stranger


Los Angeles chiama, Lublin (Polonia), risponde: è tempo di Deathrock, che ha necessità di corrompere magnificamente le trame ipnotiche di note musicali che sono imbevute di morte e di disperazione. Mantra portato vicino ad una chiesa sconsacrata, dove non esistono preghiere o cori ma solo il canto di un ragazzo che ha deciso di esibire le sue litanie: operazione riuscita, con la musica che benedice questo viaggio nella città americana.



Moonlight Meadow


Il basso e la chitarra invocano il misticismo: c’è bisogno di un delirio, di una presenza che sia capace di dare da mangiare alla paura. E allora ecco il crossover di post-punk e Darkwave che trovano residenza in questi minuti per portare la nostra tensione ad albeggiare. È estasi che si scioglie nei sentieri di una melodia color cedimento strutturale definitivo. Quando la gioia ha le piume piene di petrolio.



Distorted Mirror


Quando l’anima, ferita e acciaccata, si guarda allo specchio, trova questa magnifica presenza ipnotica che ha il nome di Distorted Mirror, la ballata della consapevolezza dentro chitarre che odorano di pioggia, e si riesce ad intendere quanto ciò che è nato in Inghilterra negli anni 70, il Post-punk e la Darkwave, siano ancora i regnanti, capaci di intossicare ogni zona del mondo, compresa la Polonia. I tre bevono la lentezza in un calice pieno di olio, per poi gettarlo via e accelerare per ricongiungersi ai Fields of The Nephilim in un finale stratosferico.



Farewell to Childhood


L’album ci saluta con un neon che fa oscillare la luce in una chitarra poetica, quasi saggia, quasi unita alla dolcezza, illudendoci con magnifica qualità. É un faro, il brano, che riesce a far sembrare le canzoni precedentemente ascoltate un pericolo scampato, solo un brutto incubo. Abbiamo modo di danzare ad occhi chiusi senza temere di sentire qualcosa di disagevole: la chitarra ci pilota verso un raggio di luce che forse non è poi così male poter ascoltare…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Supino

9 Agosto 2022


https://open.spotify.com/album/0LIXIv3OkGyb6pOVKa1AtL?si=oS4szKBIS_uQVhvEsC1LMQ






lunedì 8 agosto 2022

La mia Recensione: The Smiths - Handsome Devil

 La mia Recensione:


The Smiths - Handsome Devil


Atto unico di perfezione umana.

Tutto è possibile quando quattro ragazzi di Manchester decidono di imbracciare la forza della melodia e annetterla ai loro territori precedentemente conquistati quali la fantasia, l’impegno, la determinazione, il furore di anime in opposizione al trend vuoto del momento.

Una delle prime canzoni ad essere state scritte, rivela sin dall’inizio un suono robusto e una forza notevole con un giro di basso esplosivo, il drumming efficace e la chitarra di Johnny che, ipnotica ed estroversa, cattura subito l’attenzione. Le sue sono acrobazie stilistiche di cui si sentiva l’esigenza: quando Johnny cavalca la sua chitarra le trame si fanno fitte e avvolgenti, figlio di un talento purissimo e di una ricerca che non può conoscere appannamenti.

Questa band, con Handsome Devil, mostra che si poteva scrivere musica che non fosse svuotata della capacità di essere impegnativa anche se considerata leggera.

In aggiunta: scrive un inno misterioso, dove la facile individuazione dell’enorme talento musicale viene controbilanciato da un testo che regala fatica nell’interpretazione, scomodità, fastidi, malesseri, come un’edera urticante che si sfoga dentro la pelle dei nostri pensieri, annichilendola.

Dimostrando, attraverso uno studio profondo, che anche Morrissey come talento non è secondo a nessuno.

Handsome Devil è la manifestazione più evidente del primo periodo degli Smiths: dove c’era una nevrosi, un’impellenza che non poteva essere fermata, loro la prendevano e la sbattevano in faccia, noncuranti, deliziosamente strafottenti. Arrivando a fare del nostro ascolto un deserto che doveva saltare in aria.

E allora spazio al tormento con il punto interrogativo, al mistero che passa attraverso una sessualità che non va dichiarata ma interrogata, raccontata attraverso una storia dove il soggetto ha mille maschere e non ne ha nessuna, perché tutto ciò che serve è elevare quelle zone d’ombra che scatenano riflessioni e impeti da circondare.

Non è un testo sull’autoerotismo, come da molti ipotizzato, bensì un racconto drammatico che, partendo dalla letteratura (può essere Wilde come DH Lawrence) ,entra nella storia di un ragazzo che cerca di annientare il coraggio per cibarsi di ulteriori confusioni. 

La tematica descritta dall’uomo occhialuto e curioso è l’esempio di una penna acida e polemica, ma il tutto è avvolto da una coperta di lino: senza dubbi Morrissey non voleva essere troppo chiaro, vuoi per gioco e vuoi anche per la sua sfiducia nella capacità delle persone di poter accettare un simile approccio.

E l’ambiguità trova un senso di sconcerto quando si arriva all’ultima frase: “There's more to life than books, you know

But not much more

Oh, there's more to life than books, you know

But not much more, not much more”sembra fuorviante, distante dal resto, ma si imparerà in fretta a capire la ricerca stilistica del bardo di Stretford, che riesce sempre a scombussolare le nostre poche certezze acquisite. 

È un senso di allergia quello che sanno provocare le parole di questo brano, perché, per quanto ci si sforzi di intenderle, si ha la convinzione che l’asso di picche sia rimasto nella penna di Morrissey per renderci maggiormente ignoranti. Lui può e lo fa benissimo: in fondo lo si ama anche per questo motivo.

Un brano epico, in odore di quella nostalgia che sembra una bandiera da sventolare con orgoglio e senso di sfida, pronta ad essere ammainata. La sezione musicale presenta la veemenza di un rock che, partendo dalle schegge velenose della chitarra di un diabolico Johnny Marr, aspira come una calamita Andy Rourke e Mike Joyce in un risucchio dove tutto esplode con la tensione elettrica che ci consegna fulmini, per poter vivere dentro una fetta di luce. Penserà Moz a equilibrare il tutto con la sua nebulosa, attraverso la scrittura di parole che sconfinano, escono dal radar interpretativo.

Brano magico ma privo di dolcezza: dove si esplora ciò che è considerato maligno non può esserci una mano che dondola una culla…

Il cantato, altezzoso e ironico, è una pozzanghera contenente le verità che vanno tenute accanto a una piccola candela: odora di antico questo approccio quasi isterico che plana su un falsetto che farà scuola. 

Una frusta, una scarica di adrenalina che dura meno di tre minuti, il tempo necessario per capire l’universo The Smiths: la band di Manchester avrà sempre modo di far emergere un sentiero nostalgico, anacronistico e ribelle e Handsome Devil ne è la summa perfetta.

La magia del brano viene resa evidente dalla capacità di astenersi da ogni forma di semplicità, di estremizzare la diversità, per tematica e stile, che alla fine potrebbe proprio essere il motivo di una difficoltà e diffidenza nei confronti di questi ragazzi pronti a vedere la musica come una crociata con armi desuete e diverse dalla logica del tempo: usi e costumi che vengono annientati.

Nella terra delle api, gli Smiths diventano calabroni: ti infilano il loro pungiglione per toglierti le forze e per farti preoccupare, perché una canzone non è efficace in quanto ci si può riconoscere, bensì perché è in grado di incutere paura e tremore. La storia del brano, acuta per intenzione e capacità, sa fare piazza pulita di ogni banalità, impolverando i pensieri con una fiammata che arreca una pesante allucinazione, mentre l’emotività, vibrante come il cielo pieno di temporali, rivela la spina del suo fianco…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Supino

8 Agosto 2022


https://youtu.be/fAHk-M2k5mM




domenica 7 agosto 2022

La mia Recensione: Binzantina - Anestesia

 La mia Recensione:


Binzatina - Anestesia


È il tempo del miracolo non più atteso perché non c’è verso che i desideri diventino materia condivisibile.

Forse no, un attimo: la musica sa ancora esplorare apparizioni, presenze, sogni dentro un involucro chiamato album. Occorre sgomberare il superfluo, denigrare convinzioni sbagliate che sono solo frutto del gusto. Chi è ancora in grado di capire ciò che è davvero valido? Altro miracolo sempre più raro.

Ma io sono qui, scriba dissociato dalla arrendevolezza, rabdomante musicale integerrimo, per parlarvi di un miracolo vero, per raccontarvi il personale gaudio e stupore, l’allegria, la leggerezza compensativa che dopo 5 anni ancora vegeta di brillii e guizzi.

Due anime, provenienti dal Cile che si distanzia dalle fascinazioni totalmente funeree del gothic, lanciano sprizzi di soluzioni sofisticate, non prive (quasi un obbligo, visto il luogo) di grigie nuvole, ma accatastate su livelli sonori che contemplano ricchezza di luce nutriente, tra vapori elettronici con contorni post-punk selezionati, ridotti ai minimi termini ma altamente volenterosi di irrorare tutte le ipotesi provenienti da menti davvero capaci di fare della musica uno spazio in cui i colori non sono arcobaleni, bensì finestre emotive.

Lya Godoy è il frammento di vetro con la voce come cascata di zucchero filato insieme a gocce di sale nella sua ugola capace di ospitare la bellezza di lacrime sorridenti, una fata anomala, un’anima votata al tormento senza la pesantezza: è tutto perfettamente situato nelle corde vocali che sono sicuramente figlie  della Dèa Euterpe, che l’avrà indubbiamente abbracciata sin dalla nascita.

Dal canto suo José Ramorino è un detonatore di alchimie verticali, manovratore di voli che scavalcano il cielo con i suoi trattati elettronici che baciano le chitarre per trasportare le percezioni nel circo della bocca spalancata, dove trip-hop, Darkwave, Post-punk e compulsioni moderne liberano il galoppo di un cavallo di razza purissima. Capace di dare ai suoi istinti la volontà di ipnotizzare le stesse note verso un bagno di luce facendo l’occhiolino alle tenebre, ma senza calcare troppo la mano, José stabilisce come sensata l’affermazione che ci troviamo davanti a un polo strumentista con le stigmate del fuoriclasse.

Insieme, i due spostano il baricentro emozionale per elevare quello mentale/attitudinale verso incroci di spazi famelici di vibrazioni cupe senza per questo esplorare la sacra grotta gotica. Ma ne hanno il polso, potrebbero facilmente diventare inquilini di miglia e miglia di tristezza senza briglie.

Il cantato dona a tutti i brani brividi e capitomboli: ci fa sprofondare nel fango, umile e leggera arteria del vento.

Tutto è omogeneo, frutto di una produzione eccelsa dello stesso José, per canzoni che si tengono per mano, uniti come diamanti in una scatola dove tutto brilla e a nessun brano è concesso il lusso di primeggiare, come una goccia d’acqua che non può essere migliore di altre. Le composizioni rivelano premure nelle strutture, nei suoni, nella capacità di assoli brevi e minimalisti, come una piccola missione esplorativa per sondare le nostre reazioni, che sono votate all’applauso più pieno e caloroso possibile.

Perfettamente equilibrato di suggestioni e vettore di sorprese strette e brevi come i respiri, il tracciato sonoro corrisponde alle intenzioni per poter farci viaggiare tra morbidezza e sperimentazione continua, tra abbracci e baci di meravigliose ombre umide, perché ci si commuove all’ascolto, si esplorano le emozioni e non ci si ferma se non con l’ultimo brano. Si traversano i corridoi del primo trip-pop senza aver copiato nulla se non l’umore, capace di essere una altalena vibrante e non intenzionato a dare spazio alla lentezza perché tutto deve continuare ad essere in movimento.

Se fossimo al cinema avremmo mondi da scoprire su immagini esplosive ma lente, come un rallenty che vuole farci vedere minuscoli particolari, con un megafono sonoro che diventa un imbuto in cui stringere le nostre percezioni. Tutto suona come una giornata da venerare senza gioia superficiale, per precisare la serietà che non vuole ingannare i nostri sogni. 

I testi viaggiano sui binari dove ironia e dolore condividono la stessa sorte, con una mano davvero matura nell’essere bilanciata, per dare anche alle parole quella pelle equilibrata senza righe come avviene con la musica. E allora le nostre orecchie possono sentire tutta la fantasia obbligata che abita in quella difficile parte del mondo dove solo il coraggio di certi pensieri possono tramutarsi in azioni concrete, come può essere ad esempio questa collezione di venti senza prigioni che preferiamo definire canzoni.

Si può avvertire fortemente il desiderio di stabilire un contatto tra le pillole sonore mostrate ed una base spirituale che attraversa il cantato e le peripezie tecniche che, pur sembrando devote ad un recente passato musicale, sa costruire uno slancio verso un futuro che saprà dimostrare quanta freschezza questo lavoro suggerisce. Il disco è di una bellezza fragorosa, disarmante, capace di esplorare, immettere zucchero e veleno nelle note che paiono sempre girovagare tra la pazzia e la timidezza, in un movimento che conosce spigoli e ricami di luce. Purtroppo è passato inosservato: la colpevolezza mostra sempre la sua faccia sporca e dovremmo imparare tutti a pentirci e a dare a questa coppia il giusto tributo. La sensualità di queste composizioni rasenta lo sconcerto, non sembra vero poter essere dentro queste rapine dei sensi che non smettono mai di presentarsi. In questo vortice di sequestri rimane la certezza che la musica sia ancora un oceano da esplorare, un’isola nella quale perdere i vizi per cibarsi solo di questo beneficio, tutto. 

Se si trovasse il coraggio di riscoprirlo e di proiettare su queste canzoni la nostra devozione, ciò porterebbe raggi di luce multipla sui nostri chiaroscuri irrazionali.

E ora la parte migliore: poter mettere ognuna di queste perle sotto il microscopio, perché non c’è nulla di più rilevante di uno smarrimento davanti alla comprensione di così tanta bellezza…



Song by Song 


REM


Come dentro una bottiglia di vetro, tutto si muove tra atomi di suoni vibranti e tetri, alleggeriti dal vocalizzo sensuale/singhiozzante di Lya, mentre José, partendo da una elettronica sospesa, dà spazio a gocce di note di chitarra che allargano la capacità del recipiente che vivrà di bellezza.



Midnight


I Morcheeba con i calici notturni: è una danza che ci riporta dentro le lame smussate della band di Londra, con spiragli elettronici che sospendono la tensione teatrale della voce di Lya, che, come se volesse vivere su un palco pieno di luce pop del ritornello, non desidera altro  che giocare con il synth per dare a se stessa un momento di serenità. 



Bloody Clay


Lo splendore che attraversa la notte si chiama Bloody Clay, pietra sulfurea dalla coda di ghiaccio che, con una drum machine di derivazione dub e la chitarra Darkwave, dà modo alla voce di ricordarci Alison Shaw dei Cranes nei giorni di sole cupo, con la capacità di evocare sogni pieni di grumi sanguigni. Spettacolare e avvolgente.



Anesthesia 


Chitarre dense aprono questa danza ipnotica su cui Lya trova una filastrocca moderna e i cori minimalisti, come una spugna piena di petrolio, anneriscono l’atmosfera musicale che pare propensa alla luce. Melodia pop incastrata dentro  un trip-pop che cerca collaborazioni per non rimanere puro: altro gioiello, un lampo a illuminare il dolore.



Between


Il momento più spettacolare dell’intero lavoro: si entra nella tristezza, tra echi di dolore e gocce di rugiada per tenere compattati i brividi. La tastiera scende sotto la pelle, compatta i sensi sino a quando la chitarra immalinconisce il tutto e la voce getta fascine di nero vestite per far convogliare il tutto in un respiro che pare soffocare dentro queste note costruite per un pianto a dirotto.



Fear


La psichedelia che suggerisce al trip-pop una camminata insieme. Tutto sembra lontano, come se la canzone volesse rimanere sola, senza dover scambiare i suoi liquidi magnetici. La fantasia porta braccia pitturate di giallo e nero dentro il cantato che, quando segue la drum machine, sembra correre dentro la bava della pioggia di cui è composta questa musica in bilico tra il paradiso e il purgatorio.


Fury


La parte iniziale della canzone sembra il respiro morbido dei Prodigy a cena con i Massive Attack. Poi Josè rende tetro l’ascolto e ci porta nella sua giungla mentale piena di ossido di carbonio, mentre Lya decide di dare alla sua voce trame piene di giochi ambigui e mistero.



Moth


Spettacolare connubio di tre generi musicali ad aprire il tutto: come connettere i sentieri delle possibilità  per far fluire nell’arcobaleno nuovi colori. Anche la chitarra acustica entra nel quadro ipnotico, per non parlare del loop di un synth incandescente  che con il cantato porta il tutto alla perfezione. Il vibrato di Lya è una carezza singhiozzante e tutto ruota intorno a una musica angelica nel giorno dell’inquietudine.



Bird


Volare dentro la paura, perdere i freni e vibrare per l’eternità: questo fa l’ultimo pezzo di quest’album, ennesima dimostrazione di contagi musicai per cui non vogliamo l’antidoto. José è un mago dai molti cilindri: riesce sempre ad assembrare suggestioni e accorparle dentro atmosfere che sintetizzano il suono e i suoi bisogni. E l’ultima dimostrazione di classe di Lya è  quella di consegnarci la voce di una bambina che gioca a fare l’adulta dentro l’orchestra di un circo che celebra la vibrazione dei trapezisti e dei loro voli. E la sorpresa del controcanto di José è meraviglia liturgica. E il crooning finale della cantante cilena è pura poesia oscura. 


Alex Dematteis

Musicshockworld

Supino

7 Agosto 2022


https://open.spotify.com/album/3YY5MSFRfoWiNw8fMQjGJA?si=IVy_I85tRXO0nOvA-QQHdw


https://binzatina.bandcamp.com/album/anestesia






giovedì 4 agosto 2022

My Review: Ataraxia - "Pomegranate - The Chant of the Elementals"

 Ataraxia - "Pomegranate - The Chant of the Elementals".


Immersed in a world that has been hosting us for thousands of years, we have lost respect, curiosity, awe and the propensity to study its immense and never fully known qualities. Nature is dying and with it our intelligence that has condemned it, first wounding and then mercilessly attacking it.

There are dreams that live in those few souls that instead continue that path of closeness full of love and understanding and throw millions of kilometres of sweetness into notes able to  envelop you in an embrace full of poetry. They come from Ataraxia who, with their twenty-eighth album, delight our listening as never before, taking us into a fairy tale that seems anachronistic, such is the immense romantic and subtle charge of an approach that, intimate and full of suggestions, delights us. 

Rather than a journey, it is a pause in the circumference of time, where we are seduced by characters and places in order to contemplate a pleasure within sight, an invitation to separate ourselves from deafness and blindness.

We enter into the art of enchantment that survives, gasps but resists, to give us its jewels again as a gift, and the band from Modena does nothing but show them to us with infinite grace, in its circumnavigation inside mental places, more than physical.

The musical blend seems to have the same marks as always, the ones that have put them on the podium for decades, without ever falling off.

But they have been able to raise the bar and travel within ancestral oscillations with magnets charged with magic never seen before: one enters the pre-medieval garden with effective temporal leaps, mixing that serene journey with their usual capacity for ethereal acts akin to baroque, classical and a gothic borderline that remains, like DNA that cannot be rejected.

Beauty is something one encounters by chance because it is piloted by the conservative gods: Ataraxia have met it within splendid obstacles and placed it in these tracks, aware that the choice to share it with all of us could be a lonely merry-go-round without eyes and ears to observe and hear the hypnotic sphere they have conveyed.

So we have bows, genuflections, prayers, odes, in a sensual approach that gravitates within the will to preserve the idyll of an encounter that is not only cathartic but above all beneficial, with songs like moon seeds that water the mystery on the boiling and panting Earth.


Like oil lamps that illuminate time without taking the present into account, so do these celestial whispers which would surely be an offence to call songs or compositions: they perform aware that even listening should have in itself ancient elements, free of those modern-day sound deflagrations that have little to do with musicality. But rather than listening, it seems more like a reading of a great encyclopaedia where everything is detailed, teaching us the good fortune of the dream and its transmitting channels that would thicken knowledge and maturity. Boredom is banished and instead an umbilical cord is laced with multiple forms of expression, to better define this fairytale that does not want to connect with the modern, protecting His Majesty Time from afar: to listen to it is to become effortless angels who, by seeing the beauties of the world, become eternal. Let us possess, then, forgotten tools to be able to understand and make fluid the encounters we have: from water, to fire, to the symbols that make our stay sacred, to the approaches of benevolent spirits who extend their hand, everything is a film that wants to preserve the natural expiration of life and its paths. Ataraxia seem like druids, sentinels of knowledge setting fire to the ash that becomes the pentagram of the dreamlike moment in perpetual state of motion, on which they feed. Everything is a chant, in its original meaning, devoid of confusion, capable of remaining elevated and full of power, from suggestion to poetry that is not written but comes out of the uvula and of hands on instruments that bless the light with divine aptitude.

Vittorio and Giovanni enter the lair of sound, in solitary apnoea, to condense in their veins all the benefits, the gems, the sparks that Francesca translates into melodic prayers, into vocalisations like trails of eels that escape capture: it is only by elevating oneself that one is preserved, and the three of them do it magnificently.

Everything is versatile: it could not be otherwise, because when exploring the infinite one cannot bind oneself to an attitude, to preferences, and here we are faced with craters and skies, eruptions and paths of contemplation that connect styles and needs under the banner of good taste.

Losing one's compass does not mean weakening: it is exactly the opposite and the trio shows us its value, its strength, taking us by the hand where the only reference is the magic palette on which to walk, like the mystical encounter with an odour without seeing where it comes from, since this album is to be sniffed with one's eyes closed. 

There was a time when people wanted to define their music by different styles and modes, but now the moment has come to separate ourselves from uselessness and become aware that it is above all a sensory and visual experience, the Art that snubs the vocabulary of mediocrity to fly through its motions as a cultural need able to refresh and comfort.

 Listening to Pomegranate - The Chant of the Elementals is the experience that makes us fly over the abyss, meeting the intoxication of the sunbeams that proceed in their path, oblivious to superstructures and banal clichés. They have succeeded in the arduous task of continuing their nomadism without losing an ounce of their class, in fact it seems that a breath of fresh air from the north of Time has led them to new energies and contemplative forms: this band is made up of pupils of existence with questions perpetually attached to their breaths, with no chance of getting bored. 

The more you listen to this record, the greater the conviction that they are protected from ageing and squandering their enchanting possessions.

Persuasive, erotic, energetic, contemplative: their heavenly vault is a keyless shell that can be accessed if one has the will to be oblivious to all that cripples our path. 

After finishing the album, one rises from a cloud with a full belly and the smile of an intoxicated and serene young soul: if this is not what we expect from art, then let us surrender to the darkness, because Ataraxia are exempt from mediocrity.

An incredible collective mantra is about to enter your minds: be curious since the spells here are the core of the whole that awaits you…



Song by Song 



Hlara Aralh


The heart immediately shows its mettle with the opening track: a slow breath that builds up strength, opening up the sky with an arpeggio and vocals that take us into the rays of the sun.


Oruphal


It is an invocation, a recognition of the meaning of the journey and nature drinking its beauty. A delicate atmosphere, transported by the smiling wind, where Francesca's voice becomes full of diadems and sparks, with a falsetto that nails, between Totem Bara's lightning and Vittorio's accurate work, for an enthralling lullaby that makes one travel relaxed.


Ozoonhas


The musical texture thins out, hands enter our chest for a composition that combines evocation with the metamorphosis of blissful sounds, devoted to enchantment. A basic motif seals it and then, slowly, we gather shining inlays.


Nevenhir


Pure vocals that lubricate the veins, Vittorio's subtle system is a God with a light touch. Rising emotionally, the combination of notes programmed to soften thoughts reigns securely. In the meantime, the band continues to make beauty visible with guitar notes that sound like silk spider webs and with Giovanni's keyboards weeping as an act of love. Everything is then made perfect by the interplay of voices that cross each other and make us slaves of dark joy.


Ode ad Afrodite 


If the goddess of beauty is paid the right tribute, one might fear failure. Impossible: Ataraxia take up the pentagram of sweetness and vision, writing images deposited on papyri of celestial enchantment. Not only everything comes to be ethereal, but above all it becomes a chorus of roses that open up, releasing the perfume of Aphrodite. 

And it is the renaissance of the senses floating over our blissful listening.


Ode a Dioniso


Greece enters in the song dedicated to a divinity who sanctioned the indissoluble bond between Nature and man, and in these times of absolute destruction of this relationship, Ataraxia show us a tense song, full of anger and powerful reflection. We descend into the womb of tension to correct our mistakes at least a little bit. 


Aura Magi


Ataraxia's sampling of artistic and stylistic possibilities also includes making music a vocabulary of languages and knowledge, methods that expand as in this sidereal, magnetic, hypnotic track, with electronica that with a minimal manner goes through the possibilities of this combo which reaches up to the foot of the sacred altar of the senses.


Hummingbirds


The whole album suggests listening to nature, where animals are not the outline of our fear but part of a divine design. With an enchanting crooning Francesca makes her visionary tale vibrate with musical notes that float in the air like splashes of truth to be held in the hand. 


Amethyst


In the country of Bel Canto, Francesca teaches how much is still lodged in the now distracted Italian national DNA, the way of making this activity a divine bill. Keyboards become a cloud of time to pull us away from ugliness and we are angels for three hundred and thirty seconds. The guitar sketches minimal strokes of echoes that permeate the 80s, suggesting celestial vibrations.

The album ends as it began: when you listen to it you are mute, to let the beauty pass through us.


Out on 21st September 2022

The Circle Music


Alex Dematteis 

Musicshockworld 

Torino

4th August 2022




Francesca Nicoli - vocals

Vittorio Vandelli - classical and electric guitars, programming, back vocals

Giovanni Pagliari - keyboards, piano, back vocals


Guest musician: Totem Bara - cello, timpani 






My Review: IAMTHESHADOW - So long, Lost

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