lunedì 30 maggio 2022

La mia Recensione: The Mission - Butterfly On A Wheel

La mia Recensione:


The Mission - Butterfly On A Wheel




Non ci resta che perdere la testa del tutto e credere ad angeli che si erigono a controllori della nostra esistenza, in un gioco fatto con il fuoco dove la complicità è l’unica consolazione.

Non è possibile rilevare dove inizi la tristezza ma spesso in una canzone riusciamo a vederne la forma, dove vive, a volte addirittura quando si spegne. E non è detto che si sia sempre spettatori. 

Tutto ciò accade per questa traccia dei Mission che hanno rivelato finalmente la capacità di non essere solo e specificatamente una band di genere. Saputa conservare la loro tipica decadenza, hanno finalmente scritto una piuma sonora che si eleva e ci eleva su un piano riflessivo e suggestivo, con una storia seducente ed una musica capace di connettere anche elementi di cui loro, precedentemente, erano privi. Rimane un episodio unico ma bellissimo in una carriera che non ha mai entusiasmato lo scriba. Questa eccelle, invece, per diversi motivi.

Non esiste reticenza, resistenza, piano strategico, motivazione che possa condurci nella scatola trasparente dell’indifferenza ascoltandola: come un aspirapolvere ci si ritrova nella trappola, immersi dentro un magico labirinto incosciente, dove la nostra mano preme sul pube. Tutto convoglia nella zona regina del sentire. 

Brano che placa, avanza, scava l’elenco infinito di connessioni romantiche/decadenti per dare all’ascolto un abbraccio che profuma di rassegnazione, con gocce di fantasie senza catene, in un circolo piacevolmente vizioso.

Il drumming che col passare dei minuti si ispessisce, come il basso, consente di dare alla tastiera piangente una posizione specifica, libera di straziare insieme al cantato di Wayne che, dopo aver scritto un testo magnetico, lancia la sua voce tra le braccia di una farfalla soddisfatta.

L’atmosfera è piacevolmente soffocante, una cantilena che mette in contatto il desiderio di una melodia ridotta nei centimetri ma perfettamente connessa ad un trasporto coinvolgente dove ritrovarsi sudati, scossi, imbambolati è cosa buona e giusta.

È una trappola, un volo di cui si conosce in anticipo lo schianto: solo nell’aria si apprezza il cielo delle emozioni, e dove esiste una data di scadenza tutto vive in una forzata coalizione. Si avverte l’unicità, l’appuntamento con la deliziosa propensione ad un incanto che travestendosi da strega ci costringe ad un canto che imprigiona il mondo in una storia dai sogni spezzati.

Si scopre la perfezione di una euritmia che circonda questo delirante ascolto, nel quale la storia raccontata attraversa l’inverno per inchiodarlo nel volo sterile di una testimone che è al contempo la vera protagonista di un rimbalzo emotivo, trasportato in una storia per trovare l’infinito.

È un abbandono totale verso il cerchio magico e simbolico di elementi che sono strutturati per creare la dipendenza che fa escludere il resto: l’ascolto ripetuto è garantito per la vistosa gamma di semi caduti nella perfezione di un pozzo dove la farfalla ci invita, sorniona e cattiva, per farci ammirare le stelle di un cratere emotivo.

Alla sezione ritmica viene ordinato lo stretto necessario, i frammenti di arrangiamenti volutamente limitati liberano la mente verso la concentrazione che nel ritornello si ritrova messa al tappeto da una intensità di difficile comprensione ma dalla resa efficace, intensa, perfetta, trascinandoci verso la constatazione che si possa urlare un amore dalle ali insanguinate.

Segreti nella voracità di un freddo autunnale, non ancora severo ma che già limita il volo, sono gli arcieri magnetici di parole che aprono il consenso di dolori dalla faccia pulita. Non si può che essere anime devastate nello spettacolo di un vento che schiaccia le ali di un insetto che, con grazia infinita, ci muore tra le braccia.

E siamo tifosi di una resurrezione primaverile per ridare alla farfalla un battito, un impulso di vita, per restituirle la bellezza del volo. Il tutto tra le nostre lacrime scomposte. 

Wayne dà all’amore il ruolo di guaritore, con parole generose di intensità atte ad essere generatrici di speranza: nel testo la morte non deve essere concepita, perché nella farfalla si contempla la bellezza e la perfezione. 

Un sibilo feroce apre la canzone per paralizzarci sin da subito, delineando la zona musicale che viene sostenuta dal ritmo che avvolgendoci protegge le immagini, per renderle capaci di vivere nella nostra commozione vera, audace, devastante. 

Butterfly On A Wheel è un tuono delicato, con piani sonori complici, quasi nascosti, posizionati perfettamente in una forma canzone che equilibra l’intensità della strofa con quella del ritornello, in un insieme dove la straziante infelicità unisce entrambe.

Nell’ascolto si prova la felice sensazione di non dover vivere e subire interruzioni ellittiche o invenzioni di sorta che banalizzino questo accadimento dallo stupore immenso. Tutto è progettato nella zona terrestre che si riempie di gocce celesti per accoglienza, per tributare all’amore la sua fedeltà nel desiderare l’esistenza della farfalla che vola magneticamente tra le corsie di note musicali pregne di credibilità, come un amplesso che ne determina consistenza e valore, oltre che integrità.

Esiste un microcosmo sociale, su un tappeto metaforico evidente, che conquista e spaventa per quanto il soggetto della storia sia il valore dell’amore, che in questo brano ha il sorriso di una sconfitta preventivabile.

La voce di Wayne è un’ala dalla traiettoria consapevole della sua caducità, costruita per essere robusta e romantica seppure nella sua ugola siano evidenti segni di una morte che felicemente attende la fine del suo canto magnetico.

Se le canzoni possono essere viaggi questa si rivela essere un qualcosa di più: scavalca l’attualità di un inizio ed una fine per renderlo eterno…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

30 Maggio 2022


https://open.spotify.com/track/2d1vGDzaGWbCkupDsPniA7?si=B7SGsnfmTAmnXLiNSb4C3Q






domenica 29 maggio 2022

My Review: Rita Tekeyan - Green Line

 My Review:


Rita Tekeyan - Green Line


Columns of smoke, in the eyes of men already blind, because they are devoted to see what is not there, for convenience. It is usually men who invent wars and then ask others to make them concrete.

Splinters and tears remain that they will never see nor can they see: there are people who experience losses within their wounded dignity. 

There are records that are born to bring on the table of the powerful with colored buttons the feedback of those secrets, deliberately armed with determination not to let them remain as such. And they are songs like hand grenades, loaded with blanks.

For their will is to make people understand and not to kill.

Rita Tekeyan has now come to her second album and has unfortunately not run out of stories to throw, along with hand grenades, before the blindness of the powerful, and also before us. 

How she can create poetry, melody and rhythm with those wrinkles in her soul is an intense and beautiful mystery, yes, beautiful, because it reveals a force capable of illuminating. They are 12 nails that trace the boundary of a hidden Lebanon, though paths of tense and damaged lives. 

The not famous Green Line, where atrocities pierced the sky of desperate existence: Rita brought light to those streets, to the stories of homes always lit by daily terrors.

She uses her voice like an antelope that still has energy to escape, that does not lose heart and has breath to be the messenger of hope, to finalize her desire for flowery streets.

But at the same time her singing has the desire to take those stories and erase their wrinkles.

The music is a procession of notes through clouds and the melody of a still-living dove, through piano scores and a necessary electronic music, deliberately kept on an evocative plane. These are minutes of magic within tragedy, revealing an energy that encircles our minds. The traumas, wounds and deaths in the album are those of human beings, but especially of women, who know the rays of the sun, and Rita, with her high-pitched singing, with the register of her voice that is sharp, imbued at times with crooning that shakes, makes us aware. We find ourselves with an artistic project that only in its lyrics, for those who are superficial and disinterested, could be indigestible: we should rack the brains of these  people, through the lanes of selfish mental attitudes. 

But I am convinced that the music can be received with less difficulty, given its propensity for interesting and certainly digestible melodic lines.

Rita's voice is white, in touch with the angels: soft yet robust, vibrant, trembling breaths.

Her singing is lyrical and vibrational, conscious and eclectic, portentous and magnetic. It surely makes harmony a dance with a powerful language that fixes our gaze among the rubble of a city brought to its knees.

Electroacoustic, crystalline ballads, syncopated rhythms, trajectories that bring dust which sticks to the mud make these songs a sampler of cues, insights, with ramifications like breaths of wind in the heart of a music that is also wounded, but that has the strength in itself not to be sad.

She does not deny herself dreams, moments of sweetness, but she wants to encircle the burden of pain in front of consciences with low, closed ears.

This musical journey offers us magnets to find atoms of melancholy, kilos of experimentation, miles of an East that was very close to our world. One can hear her deep work on the voice that is capable of moving, of making our emotion intimate. The inner gasps that come are able to activate the senses confining us in the space of a sacred silence, which we feel the need to respect. A passionate singing permeated with spectacular sharp lights, acting on the stage of a theater of confusion and reason. In her deep cuts of poetry connected to drama find place rows of insights and flashes of remarkable dynamism, for a purpose that while being challenging teaches and perfects us. 

A heroine who on the front lines offers her soul to make us understand how the gift of life can be wasted by violence: for this reason alone she deserves our deepest Thanks.

Pack your bags: we leave for Beirut's Green Line, to visit the 12 nails and understand the wounds of others...



Song by song


Once we have presented our boarding pass, we are ready to fly to Beirut: B.L EXPRESS awaits us and we are immediately in Rita's intense expressiveness, with a musical movement that recalls the atmospheres of the Middle East, including European fragrances for a truly evocative whole.

With FORÊT NOIRE the roughness gives way to a more delicate tension, as the Lebanese singer thickens her gaze within the reality of a tormented area.

The poignant ROOFTOPS takes us into a particularly vivid dimension near an esotericism hinted at with her singing that recalls Lene Lovich. 

The tragedy of that city turns out to be no longer questioned with ABRI, with its clear propensity for an ascetic-philosophical rancour that strikes us in full. A song that mutates, a hungry snake shooting venom inside our mouths.

NORA'S TREE, a furious daily dance that seems to act out its suffering on the theater of conspicuous cuts, is a blood clot basing on a piano only to find support from a lineup that pushes toward autumnal-flavored rock.

Drops of gunpowder in the drizzly DEVIL'S OB, the saddest of the twelve nails: the recitative vocals reveal contact with the devilish hemisphere which seems to turn into the smile that flies over our mediocrity. All the blackness of a city that cries out for help not to lose its mind.

DIAMANDA GALAS seems to begin YOUR SIN, a neo-Gothic ballad with an Arabian flavor, with a license to paralyze, because of its dominant theatricality and with killer strings leaning on Rita's voice which once again dominates.

With WEIGHT OF PAIN we come to an apparent gentle music, but after a few seconds a tear-starved violin allows the entry of heavy words sung with a residue of immense pain, an invoked return that proves to be the prayer of those who can achieve nothing more...

Like a timeless ritual the enthralling DK arrives, a necklace of silent visions that envelop the sounds making the song majestic, slowly picking up pace to become a dance among the rubble.

Y: calling Virgin Prunes to vision the situation, the artist creates a cantilena that seduces until her voice register, amid roaring discharges, goes in search of heaven, reaching it.

The lullaby that is about to make us close our eyes, amid sighs and sobs, is titled WHITE ANGEL and is a torrent of spirits held back with the string of courage, the voice seems to generate a gothic reverberation, with Rita's uvula painting the screams. The singing then becomes agitated towards the end to achieve perfection.

The album is concluded with the title song of her second album: GREEN LINE is the author’s farewell from a hospital bed. With its almost neofolk nature, the song sounds like a procession with a wounded face through increasingly silent streets. Declamatory and theatrical, elegant, it succeeds in consoling the inhospitable and corrupt world. Until the final guitar solo that breaks up any remnant of hope, to make way for the explosive, sharp voice, and it is precisely the latter that leaves us helpless among its streets.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

29th May 2022


If you want buy the Cd you can contact directly the Artist


https://soundcloud.com/rita-tekeyan/sets/green-line?utm_source=mobi&utm_campaign=social_sharing










La mia Recensione: Rita Tekeyan - Green Line

 La mia Recensione:


Rita Tekeyan - Green Line


Colonne di fumo, negli occhi di uomini ciechi a prescindere, perché dediti a vedere quello che non c’è, per convenienza. Di solito sono gli uomini che inventano le guerre, e poi demandano ad altri di renderle concrete.

Rimangono schegge e lacrime che non vedranno né potranno mai vedere: ci sono popoli che vivono lutti dentro la loro dignità ferita. 

Esistono dischi che nascono per portare sul tavolo dei potenti dai bottoni colorati il feedback di quei segreti, volutamente armati di determinazione per non lasciarli tali. E sono canzoni come bombe a mano, caricate a salve.

Perché la loro volontà è quella di far capire e non di uccidere.

Rita Tekeyan è giunta al suo secondo album e non ha purtroppo esaurito le storie da buttare, insieme alle bombe a mano, davanti alla cecità dei potenti, e pure davanti a noi. 

Come possa creare poesia, melodia e ritmo con quelle rughe nell’anima è un mistero, intenso e bellissimo, sì, bellissimo, perché rivelatore di una forza che illumina. Sono 12 unghie che tracciano il confine di una Libano nascosta, tra sentieri di serenità affannate e colpite. 

La non famosa Green Line, dove le atrocità squarciavano il cielo di esistenze disperate: Rita ha portato luce in quelle strade, nelle storie di case sempre accese dai terrori quotidiani.

Lei usa la sua voce come un’antilope che ancora ha energia per scappare, non si perde d’animo e ha fiato per essere la messaggera di speranze, per finalizzare il suo desiderio di strade fiorite.

Ma allo stesso tempo il suo canto è di permanenza, con il desiderio di prendere quelle storie e cancellare loro quelle rughe.

La musica è una processione di note tra le nubi e la melodia di una colomba ancora viva, tra spartiti di pianoforte ed una elettronica necessaria, tenuta volutamente su un piano evocativo. Sono minuti di magia dentro la tragedia, rivelando una energia che accerchia le nostre menti. I traumi, le ferite e le morti nell’album sono quelle di essere umani, ma soprattutto delle donne, che conoscono i raggi del sole, e Rita, con il suo cantato acuto, con il registro di voce che è tagliente, imbevuto a tratti da un crooning che scuote, ci rende consapevoli. Ci troviamo con un progetto artistico che solo nei testi, per chi è superficiale e disinteressato, potrebbe risultare indigesto: a queste persone bisognerebbe spremere bene le meningi, tra le corsie di atteggiamenti mentali egoisti. 

Ma sono convinto che la musica possa essere accolta con meno difficoltà, data la sua propensione a linee melodiche interessanti e sicuramente digeribili.

La voce di Rita è bianca, in contatto con gli angeli: soffi morbidi ma al contempo robusti, vibranti, tremanti.

Il suo canto è lirico e vibrazionale, cosciente ed eclettico, portentoso e magnetico. Sicuramente rende l’armonia una danza dal linguaggio potente che fissa il nostro sguardo tra le macerie di una città messa in ginocchio.

Ballate elettroacustiche, cristalline, ritmi sincopati, traiettorie che portano polvere che si appiccica al fango fanno di questi brani un campionario di spunti, intuizioni, dalle diramazioni come soffi di vento nel cuore di una musica anch’essa ferita, ma che ha la forza in sé di non essere triste.

Lei non si nega sogni, momenti di dolcezza, ma le preme circondare il peso del dolore davanti alle coscienze con le orecchie basse, chiuse.

Questo percorso musicale ci offre magneti e calamite per trovare atomi di malinconia, chili di sperimentazione, chilometri di un Oriente che era a due passi dal nostro mondo. Si sente il suo profondo lavoro sulla voce che è capace di commuovere, di rendere intima la nostra emozione. I sussulti interiori che arrivano attivano i sensi confinandoci nello spazio di un silenzio sacrale, che sentiamo la necessità di rispettare. Un canto appassionato permeato di spettacolari luci taglienti, di recitati sul palco di un teatro della confusione e della ragionevolezza. Nei suoi tagli profondi di poesia connessa alla drammaticità trovano posto file di intuizioni e guizzi dalla notevole dinamicità, per un fine che pur essendo impegnativo ci erudisce e perfeziona. 

Una eroina che in prima linea offre la sua anima per farci capire come si possa sperperare il dono della vita con la violenza: già solo per questo merita il nostro Grazie più profondo.

Fate la valigia: si parte per la Green Line di Beirut, per visitare le 12 unghie e capire le ferite degli altri…



Song by song


Con il boarding pass consegnato, siamo pronti a volare a Beirut: ci attende B.L EXPRESS e siamo subito nell’espressività intensa di Rita, con un movimento musicale che richiama le atmosfere del Medio Oriente, comprese di fragori Europei per un insieme davvero suggestivo.

Con FORÊT NOIRE il ruvido lascia spazio a una tensione più delicata, mentre la cantante Libanese ispessisce il suo sguardo all’interno della realtà di una zona martoriata.

La struggente ROOFTOPS ci porta in una dimensione particolarmente vivace nei pressi di un esoterismo accennato con il suo cantato che rimanda a Lene Lovich. 

Il dramma di quella città risulta non più messo in discussione con ABRI, con la sua chiara propensione ad un livore ascetico-filosofale che colpisce in pieno. Una canzone che muta, serpente affamato che spara il veleno dentro la nostra bocca.

NORA’S TREE, furibonda danza giornaliera che sembra recitare la sua sofferenza sul teatro dei tagli vistosi, è un grumo sanguigno appoggiato ad un piano per poi trovare sostegno da una formazione che spinge verso un rock dal sapore autunnale.

Gocce di polvere da sparo nella piovigginosa DEVIL’S OB, la più triste tra le dodici unghie: il cantato recitativo rivela il contatto con l’emisfero diabolico che sembra trasformarsi nel sorriso che sorvola la nostra mediocrità. Tutto il nero di una città che reclama aiuto per non perdere la propria mente.

DIAMANDA GALAS sembra incominciare YOUR SIN, ballata neogotica dal sapore arabo, con licenza di paralizzare, per la sua dominante teatralità e con archi assassini appoggiati alla voce di Rita che ancora una volta domina.

Si arriva con WEIGHT OF PAIN ad una apparente musica dolce, ma dopo pochi secondi un violino affamato di lacrime consente l’ingresso di parole pesanti cantate con uno strascico di dolore immenso, un ritorno invocato che si rivela essere la preghiera di chi non può ottenere più nulla…

Come un rito atemporale si affaccia la coinvolgente DK, collana di visioni silenziose che avvinghiano i suoni rendendo maestoso il brano, che lentamente prende ritmo per divenire una danza tra le macerie.

Y: chiamati i Virgin Prunes a visionare la situazione, l’artista crea una cantilena che seduce sino a quando il suo registro di voce, tra scariche roboanti, va alla ricerca del cielo, raggiungendolo.

La ninnananna che sta per farci chiudere gli occhi, tra sospiri e singhiozzi, si intitola WHITE ANGEL ed è una fiumana di spiriti trattenuti con lo spago del coraggio, la voce sembra generare un riverbero gotico, con l’ugola di Rita a pitturare le urla. Il cantato poi si fa concitato verso il finale per raggiungere la perfezione.

L’album termina con la canzone che dà il titolo al suo secondo album: GREEN LINE è il congedo da un letto di ospedale da parte dell’autrice. Con il suo carattere quasi neofolk, il brano pare una processione con il volto ferito tra vie sempre più silenziose. Declamatoria e teatrale, elegante, riesce a consolare il mondo inospitale e corrotto. Sino al solo finale di chitarra che spezza ogni residuo di speranza, per fare spazio alla esplosiva e tagliente voce, ed è proprio quest’ultima che ci lascia inermi tra le sue strade.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

29 Maggio 2022


Se volete comprare il Cd potete contattare direttamente l'Artista



https://soundcloud.com/rita-tekeyan/sets/green-line?utm_source=mobi&utm_campaign=social_sharing






sabato 28 maggio 2022

Recensione di Calliope Tamara Macera: Quarto movimento della nona sinfonia di Beethoven


 Beethoven e la sua “nona onda”

 

Il quarto movimento della nona sinfonia di Beethoven è un oceano in burrasca. Sembra di osservare  uno di quei quadri di Ivan Konstantinovič Ajvazovskij, in modo particolare “ La nona onda”. Secondo leggende nautiche la nona onda è quella del destino, del fato avverso, ma anche l’incarnazione del sublime e della potenza distruttrice della natura. Strana coincidenza riguardo il numero in questione? Tutto è possibile. Eppure questo quarto movimento è spuma che si infrange sugli scogli, in un pomeriggio di tempesta. Un accordo dissonante, i contrabbassi che sono la voce delle nuvole a coprire il cielo. Pian piano arriva una schiarita, i fiati è come se spazzassero via l’oscurità circostante. Ed ecco il tema della gioia , dal nulla, un’ eco in lontananza: è la voce dei marinai di ritorno al porto.  La sezione degli archi si scambia questo canto fino ad accompagnare il tema.  Il sole sta per salutare il giorno, ormai lontano dall’immagine della nona onda. Quando irrompe il baritono dopo il tuono dei timpani, sembra che il panorama voglia tornare ad eclissarsi, ma è solo un rimasuglio della tempesta: dopo un’esclamazione viene nuovamente ripreso il tema della gioia. I solisti si rincorrono su queste note e il coro è uno stormo in picchiata sulla superficie dell’Orchestra, che enfatizza una composizione tanto elevata. Come elevata era la visione di Beethoven della vita e della musica, unica e vera arte suprema capace di racchiudere in sé tutte le arti.  Nonostante l’esistenza del compositore sia stata segnata da innumerevoli onde anomale, fino al silenzio più assoluto,il rumore del suo genio non ha smesso di far tremare il mondo. Su un ritmo danzante il tema viene cantato poi dal tenore, e ve lo immaginate questo marinaio che a babordo intona parole tanto gioiose e l’intera ciurma rispondere? E magari issare le vele durante il fugato che segue. Infine i marinai ripetono per l’ultima volta il tema nella sua forma originale per poi abbandonarsi all’ispirazione di un altro tema, adagio. A fine giornata, quando le ore lasciano spazio all’imbrunire, le voci del porto si inseguono concludendo in un trionfo finale.


Calliope Tamara Macera

Pescina

28 Maggio 2022


https://youtu.be/a5oRDitf0Kc



venerdì 27 maggio 2022

La mia Recensione: Juliet Mission - Surren

 La mia Recensione:


Juliet Mission - Surren 


Si è sempre distratti con le cose degli altri, anche quando diciamo di amarle. La musica non sfugge a questa amara constatazione, non potrebbe, visto che gli essere umani sono portati ad esaltare se stessi e non a prendere in considerazione ciò che fanno gli altri.

Metti sull’impianto stereo questo EP che si chiama Surren, della band di Denver e ti rendi conto che la considerazione è l’atto d’amore più notevole, lo start che rende la corsa una reale e concreta possibilità di incontrare luoghi, sentimenti e riflessioni perfettamente connesse. Tutto si plasma, fortifica, amplifica, nella zona spirituale colma di contenuti artistici e una spiccata attitudine a far evaporare la loro irruenza per rendere solido il succo di composizioni sempre dotate di elementi multi visivo / sensoriale.

Nel 2006 nacque la band Sympathy F., poi i tre membri, Andre Lucero, Doug Seaman, Tony Morales decisero di cambiare il nome l’anno successivo apportando sostanziali cambiamenti climatici al loro pentolone sonoro, dove le emozioni incominciarono a bollire.

Quello che ho scelto di resocontare è al momento il loro ultimo fascio di elettrica pulsione, premiato da me come EP dell’anno 2020.

Al suo interno i tre spalancano melodie, ritmi, voci, immagini, coltivando la passione bellica per dare segnali di pace necessari con storie dalle lacrime solitarie ma coinvolgenti. Gli impasti strumentali vigorosi sono congeniali ad una scrittura lirica di grande impatto, che trova nel cantato la zona della poesia melodica con concetti di ispirazione letteraria. Si fortifica, con l’ascolto dei quattro brani, la sensazione di un progetto che scavalca il confine musicale. Folgori dal voltaggio impressionante, vuoi per chitarre che fanno addormentare l’irruenza scontata, vuoi per un basso che sembra sotterrare ogni impulso di grave preponderanza, e vuoi anche per una batteria che ossida e ossigena il tutto rendendo le creazioni dinamiche e compatte. Una capacità notevole di risultare sognanti e al contempo dinamitardi nell’ambito emozionale, mentre, dall’alto dei loro voli, il tutto prende residenza nei nostri battiti terrestri.

Tutto diventa un cunicolo celeste con aspetti prettamente musicali capaci di essere degli invasori senza timori: nati per coinvolgere, ramazzano le nuvole facendo scendere la bellezza vestita di movimenti eleganti e, altrettanto vistosamente, potenti. Sono tensioni spirituali che con grazia sanno generare la danza del beneficio e dello stupore, senza didascaliche confusioni, perché notevolmente capaci di andare dritti come fusi nel centro del nucleo espressivo. Come poeti guerrieri dalla pelle levigata, costantemente intenti a farci chiudere gli occhi come spiriti imbambolati e quasi assenti, la band americana assesta ad ogni brano colpi che non procurano dolore, se non movimenti emozionali sempre gravidi di una sostenibile e sempre crescente ospitalità.

Le loro scosse vorticose illuminano il cielo dei nostri battiti, come una vacanza improvvisa nella quale impari che non c’è fine a sospiri dalla faccia bisognosa di magia.

Incursioni dal nerbo potente, inclinazioni a fare del loro blando Shoegaze l’uscita di sicurezza di un Post-Punk dai sogni ancora accesi e magistralmente tenuti a margine delle loro costruzioni elettriche, fanno di questo disco l’esempio di musica che pur ribellandosi rivela una propensione onirica.

Forza, è ora, non si perda tempo: mettiamoci a pancia in su a visitare le loro acrobazie per la necessaria lezione quotidiana di bellezza.



Song by Song 


Falling


Partenza a razzo: chitarra coinvolta nel ritmo di una melodia primaverile che sostiene un cantato che avvolto dalle nuvole conosce l’apnea. Il basso trascina i due riff di chitarra, uno in controtempo, e la batteria prosegue solida sino a quando un solo di chitarra spinge gli occhi verso l’estasi.



Surren


Iniziando con un basso alla Pixies in stato di forma, la chitarra ci porta il Post-Punk degli anni 80 che si tuffa nello Shoegaze meno pieno di feedback per un brano articolato, con rintocchi di tastiera minimalista ma efficace per compattare la melodia verso il delirio di note sospese nell’aria.



Hush


Prendi i Cure di Simon Gallup del periodo di Kiss Me Kiss Me Kiss Me e rendili schizofrenici con un cantato vicino alle corsie di Marilyn Manson, mantenendo l’atmosfera nevrotica con la batteria che rotola pesantemente sino ad accogliere sibili di chitarra in apnea. Estrema, rumorosa, con un arrangiamento di archi che può felicemente stridere insieme a un feedback “pulito”.



Never Last


Per l’ultimo brano si torna nella zona dell’apertura dell’Ep: tra il sognante e uno Shoegaze che viaggia su tracce Indie Rock, tutto si fa abbagliante con la chitarra in progressione capace di portarci verso una corsa all’interno del perimetro celeste. 



Veloce e compatto, l’Ep dimostra la poliedricità di talenti che smussano i cliché tipici di generi musicali che sembrano aver esaurito la fantasia. 

Questa band si oppone: le variabili che hanno a disposizione li rendono effervescenti e, mentre scoprono le carte del loro talento, noi ci ritroviamo sorridenti e completamente immersi tra la gioia e l’allegria.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

27 Maggio 2022


https://julietmission.bandcamp.com/album/surren


https://open.spotify.com/album/3IWLcGdkB0IzWzxqwjopSe?si=8npASZpjSriHlSU0XlH7RA






 


My Review: Juliet Mission - Surren

 My Review:


Juliet Mission - Surren 


We are always inattentive with regard to other people's things, even when we say we love them. Music does not avoid this bitter realisation, it could not do it, since human beings are prone to exalting themselves and not taking into account what others do.

You put this EP called Surren, by the Denver band, on your stereo and you realise that consideration is the most remarkable act of love, the start that makes the ride a real and concrete possibility of encountering perfectly connected places, feelings and reflections. Everything moulds, fortifies, amplifies, in the spiritual zone filled with artistic content and a pronounced   attitude to evaporate their impetuosity to make solid the juice of compositions always endowed with multi-visual/sensory elements.

In 2006 the band Sympathy F. was born, then the three members, Andre Lucero, Doug Seaman and Tony Morales decided to change the name the following year, bringing substantial climatic changes to their sound pot, where emotions began to boil over.

What I have chosen to report on is currently their latest bundle of electric pulse, awarded by me as EP of the year 2020.

Within it, the three guys unleash melodies, rhythms, voices, images, cultivating a warlike passion to give necessary signals of peace through  stories with lonely but addictive tears. The vigorous instrumental mixtures are congenial to a lyrical writing of great impact, which finds in vocals the zone of melodic poetry with concepts of literary inspiration. Listening to the four tracks strengthens the feeling of a project which crosses musical boundaries. Thunderbolts with an impressive voltage, either because of guitars that put to sleep the predictable impetuosity, or because of a bass which seems to bury any impulse of serious preponderance, and also because of drums that oxidise and oxygenate everything, making the creations dynamic and compact. A remarkable ability to be dreamy and at the same time dynamic in the emotional sphere, while, from the heights of their flights, the whole takes up residence in our earthly beats.

Everything becomes a celestial burrow with purely musical aspects capable of being fearless invaders: born to involve, they sweep the clouds bringing down beauty clothed in elegant and, equally conspicuously, powerful movements. They are spiritual tensions that gracefully are able to generate the dance of benefit and amazement, without didactic confusions, because they are remarkably capable of going straight to the centre of the expressive core. Like smooth-skinned warrior poets, constantly intent on making us close our eyes like dumbfounded and almost absent spirits, the American band delivers blows with each track that do not cause pain, but only emotional movements always pregnant with a sustainable and ever-growing hospitality.

Their swirling tremors light up the sky of our beats, like a sudden holiday in which you learn that there is no end to sighs with a face in need of magic.

Incursions with a powerful backbone, inclinations to make their mild shoegaze the emergency exit of a Post-Punk with dreams still burning and masterfully kept on the sidelines of their electric constructions, make this record an example of music that while rebelling reveals a dreamlike propensity.

Come on, it's time, let's not waste time: let's get comfortable and visit their acrobatics for the necessary daily beauty lesson.


Song by Song 


Falling


A quick start: the guitar is involved in the rhythm of a spring melody which supports a song that, wrapped in clouds, knows apnea. The bass drags the two guitar riffs, one syncopated, and the drums go on solidly until a guitar solo drives the eyes to ecstasy.



Surren


Beginning with a bass in the style of Pixies in top form, the guitar brings us 80s Post-Punk diving into less feedback-filled Shoegaze for an articulate track with minimalist but effective keyboards chimes to compact the melody towards the frenzy of notes suspended in the air.



Hush


Take The Cure of Simon Gallup of the period of Kiss Me Kiss Me Kiss Me and make them schizophrenic with vocals close to Marilyn Manson, keeping the atmosphere neurotic with drums rolling heavily until apnoeic guitar hisses are welcomed. Extreme, noisy, with a string arrangement that can happily screech along with "clean" feedback.



Never Last


For the last track we return to the area of the Ep's opening: between a dreamy atmosphere and a Shoegaze that travels on Indie Rock tracks, everything becomes dazzling with the guitar progression able to take us towards a run inside the celestial perimeter. 



Fast-paced and compact, this Ep demonstrates the versatility of talents that blunt the typical clichés of musical genres which seem to have run out of imagination. 

This band opposes it: the variables they have at their disposal make them effervescent and, as they show the cards of their talent, we find ourselves smiling and fully immersed amidst joy and merriment.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

27th May 2022


https://open.spotify.com/album/3IWLcGdkB0IzWzxqwjopSe?si=eQi6BoQuT4K6F9iyhI1T2Q


https://julietmission.bandcamp.com/album/surren






 




mercoledì 25 maggio 2022

La mia Recensione: Marlene Kuntz - La fuga

 La mia Recensione:


Marlene Kuntz - La fuga


Condizione umana attuale? Un diluvio incontrastato di elementi sparsi, senza direzione, senso, dove la disciplina cade dal vocabolario, in una condanna legittimata da incompetenza, disinteressi e incuria; dove il meschino ha lo scettro sul volto scavato dal ghigno come atto liberatorio e cosciente del nulla che porge.

Sul fare del mondo si può discutere, prendere posizione con opinioni che sanno di muffa scadente, senza luce né intensità. Se le cose devono andare così, la resa totale, il consegnarsi diventa l’unico cambiamento che possa generare miglioria.

Marlene visita il mondo dalla natura, da montagne capaci di regalare pensieri dentro silenzi urlanti, vogliosi di creare il presupposto della fuga, come primi testimoni dell'ambiente circostante che suggerisce, prima, e che urla poi come stanno le cose, nella sua suggestiva e roboante realtà.

Arriva una sberla che affascina: ci si deve chiedere che fine farà questa considerazione, se sarà il custode di un nuovo impeto. Costruttivo.

Intanto si ascolta una dolorosa meraviglia artistica, un’impronta lucida che conferma che l’abito sensoriale dell’ormai Signora Marlene è sempre la congiunzione perfetta tra la finzione e la realtà. Un groppo in gola consegna anche un fremito, lo spavento consapevole che tutto sia andato perso: la situazione non è come quella che il più ottimista potrebbe affermare dicendo “dai che abbiamo speranza”.

Chi fugge vuole cambiare scenario: il proprio gli sta stretto, lo considera un carceriere al quale togliere la licenza del comando. Un imbroglio continuo che semina la morte della libertà, della soddisfazione, del senso delle cose.

I Marlene Kuntz abbassano lo sguardo, ancora una volta perché necessario, sulla Terra, parlando del suolo da calpestare senza più spazio per quelle cose che un tempo erano site dentro di noi. Una canzone come la necessità di mostrare la nostra attuale condizione, la carta d’identità di un fallimento che vuole farci arrivare il messaggio di una fuga come ultimo atto, estremo. Un brano che circonda il pensiero umano annichilendolo, dimostrando come nessun territorio sia la capanna nella quale vivere i sogni, progettando il futuro, vestirli perché liberi di poterlo fare, in quanto si è deciso alla fine di dare in pasto a una collettività priva di capacità il nulla. Senza soffi di intelligenza le cellule si perdono davanti al chiacchiericcio sterile, i pensieri si piegano e muoiono.

Canzone drammatica, severa, sconvolgente, più che giustificata e purtroppo, per questi motivi, clamorosamente bellissima.

Ma morirà presto perché vera. 

E la Natura, la Dea del tempo che governava le nostre vite, si ritrova senza poter dialogare con noi, tornerà a vincere e stavolta lo farà per sempre, sconfiggendo il nostro inquinamento fisico e morale. Le colpe avanzano per prendere il sopravvento: è questo il torto più grande che l’uomo compie. E a pagare sono tutti.

La tristezza e lo sgomento aumentano dopo ogni ascolto, non potrebbe essere diversamente, la città dei pensieri è un agglomerato di vomito e rovina che uccide se stessa. 

Persa una certa libertà, da chi ce l’ha sottratta, tentiamo la fuga, sperando in uno spazio libero che la Signora Marlene non accenna a rivelarci: non era il suo compito. Doveva invece farci vedere i nostri passi cercare di essere capaci di avere dignità e forma, un tentativo, riuscito, di spalancare i nostri occhi. Testo e musica compatti, determinati a fare del messaggio qualcosa di chiaro e ineccepibile, nel tempo della confusione e dello smarrimento. È arte allo stato puro questo perfetto connubio: non ci rende liberi di fuggire da un eventuale tentativo di nascondere lo sguardo e diventa un vento dalle sbarre pesanti capaci di raggiungerci dall’alto, precipitando sulla nostra meschinità. Il pianoforte rende drammatico il tutto, come lo fa il drumming, tra beat e pelli vere a rimbombare dentro le parole. Le chitarre sono nascoste, la melodia rivolge il pensiero verso il cielo e gli chiede il proprio silenzio…

Sorprende quanto la band di Cuneo sappia sempre essere capace di comporre musiche che già da sole fanno intendere il percorso della penna di Cristiano. Conferendo in questo caso specifico alla composizione la libertà di sfuggire a un cliché di definizione stilistica.

Non si può che svenire all’ascolto, senza forze, senza occhi che possano vedere il guaio in cui ci siamo messi. La nuvola sopra le montagne scende verso i nostri sensi corrotti, senza che niente possa correggere la postura dei nostri pensieri.

La direzione della musica è quella di una coralità, estrema e perversa nella sua crudele capacità di essere autentica come lo sa essere il testo: inquina ciò che non vogliamo essere capaci di vedere inquinato. Si vola verso l’assoluzione, per convenienza, mentre il pulsare del cuore del brano vorrebbe accendere un barlume di consapevolezza. Fallirà solo perché i falliti siamo noi, semplicemente è così.

Il senso caotico del finale del brano non è altro che il premio alla prepotenza del menefreghismo davanti a ciò che non conosce intenzione di arresto, cioè la propensione all’indifferenza di quello che è il dna umano. Come premio abbiamo questo dono, che ci piacerà, senza minimamente pensare di usarlo, per capire la fuga o addirittura creare il presupposto di un cambiamento radicale senza doverla compiere. Non hanno mai scherzato i Marlene Kuntz con la vita: circondata, scandagliata, vivisezionata, amplificata, hanno sempre tracciato un percorso cosciente di malefatte, intuizioni, spinte, impulsi, dettagliando e determinando la loro qualità di sguardi intensi.

Ora sono feroci, aggressivi e arrabbiati: altro che Sonica, Il Vile, Cara è la fine, 111: niente di più fragoroso è mai uscito dalle loro vene salienti e capienti.

Ora si sta davvero rovinando tutto.

E questo brano/verità certifica, marchia la pelle di un cervello ormai nebuloso e inconcludente, villano, schifoso.

La cura prestata a questa esplosione morale ha coinvolto la musica.

Il cantato è una ferita senza fine, con il fiato raccolto tra le spine. 

Negli occhi di Cristiano, che dai monti fa rotolare il suo pensiero insieme ai suoi compagni, tutto sembra divenire un ambasciatore di liquidi nerastri e contaminanti come virus subdoli. È un crescendo inquietante, ingombrante, fastidioso, ma prezioso, una camera iperbarica per recuperare energie dalle fatiche delle nostre idiozie infinite. E non ci restano che le campane di mucche al pascolo, con sibili tetri e l’atmosfera pesante della fine che arriva con quella della canzone. Il mondo visto coscientemente è più piccolo, più brutto e spaventoso.

Ecco.

I Marlene Kuntz spezzano la fuga con il loro ridimensionarci, non presentano una cura bensì il conto. Non vi è estraneità, tantomeno bugia in questa impietosa analisi che forse sarà creduta meno perché viaggia su note (splendidamente pesanti e conturbanti) che sembrano poter far apparire il tutto una favola, una esagerazione per la cosiddetta licenza poetica che si annette alla libertà.

Ma quale libertà?

Da questo brano risulta evidente che siamo tutti, nella vita, lucidamente prigionieri. 

Senza via di fuga…


Alex Dematteis

Musicshockworld 

Salford

25 Maggio 2022


https://open.spotify.com/track/550Vv0MsdKOSgOEkTiSDJK?si=Jie0qqXVQKSUjU9ZT7lkyQ



https://music.apple.com/gb/album/la-fuga/1623243644?i=1623243647









 


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