martedì 5 marzo 2024

La mia Recensione: Sacred Legion - The Silent Lineage

 



Sacred Legion - The Silent Lineage


“Ero un bambino, cioè uno di quei mostri che gli adulti fabbricano con i loro rimpianti”

Jean-Paul Sartre


Una corsa corsara, le vie buffe di un passato che flirta con le ferite si catapulta nel groviglio nevrastenico di musiche col rossetto, perfettamente fissato al mistero che resoconta se stesso, nell’impermeabilità assordante che frattura attese e pretese.

Dalla provincia di Frosinone tre figure adulte lavorano al tornio, circondano i fianchi dei luoghi comuni che vorrebbero avere sempre la certezza che ogni definizione non possa essere scorretta. E allora la fantasia povera al potere parla di  “Death-Rock, Dark-Wave, Post-Punk”, come impeto di volgare approccio. Ma la band ciociara non ha nel repertorio la necessità di viaggiare con l’identità definita dagli altri: il terreno di manovra è assolutamente improntato su una libertà obbligatoriamente limitata perché necessaria a descrivere le derive umane, dove la consolazione e la cultura, di derivazione letteraria, favoriscono confini maggiormente precisi. Il sacro spazio temporale governa gli spasmi liturgici di composizioni che fanno arrendere ogni circolo vizioso. Sono molto distanti quei gruppi di riferimento ai quali la band di Fabiano, Mirko e Tony vengono associati. L’album è uno scatto da centometrista (data la brevità dei suoi ventiquattro minuti) ma vive della propensione del maratoneta, visto che l’ascolto, quello ripetuto attentamente, mostra l’attraversamento della storia, con la geografia che costruisce fattezze fisiche, sino a dare ai volti una luce che rivela complessità. Tutte le otto canzoni preconizzano un futuro da marchiare nei loro percorsi intellettivi. I tre puntano le proprie raffinate abbondanze stilistiche per accerchiare la realtà, frenando i postumi della sbornia stilistica di diversi generi musicali. È attesa orgasmica, è precipizio di un raffinato combo abrasivo, con le chitarre che martoriano il vascello di impulsi nati nella ricerca. Fabiano articola i pensieri con impeto luculliano, scartavetrando le banalità.

I suoni curano la strafottenza, si dipanano nella scuola di una modalità che favorisce una strana forma di “orecchiabilità”: alcuni ritornelli sembrano favorire l’espressione di “pop gotico in cerca di sbavature imprecise”, una modalità che può far avvicinare anche chi è meno avvezzo a queste inclinazioni climatiche e sensoriali, a questi testi che sondano e portano alla luce un bisogno famelico di congelare le verità.

Cinque parole si ripetono due volte, generando una planimetria degli indirizzi mentali.

Heart - Eyes - Life - Back - Dream.

Eccole, queste regine mastodontiche, che pilotano nel marasma di un lieve cut-up un ordine preciso di intenzioni.

La musica non compie panegirici, non potrebbe: rivela, rappresenta, seduce, martella, graffia, collega l’umore e gli odori di quella scrittura con cui dialoga, combatte, stabilisce patti sanguigni. Il basso di Tony, con fare querulo, riesce ad avvicinare l’apparato uditivo al martellamento con il fiato grosso. La batteria di Mirko è scaltra, usa toni di lancette impervie, caparbie, dove la fantasia di contro-ritmi, stop and go e percuotimenti indagatori stabiliscono l’effervescenza di un tutto che sembra sfuggire a se stesso. Allora si riscontra la notevole dose di spazi che si concedono i musicisti, le pause, gli ingressi e le uscite che fanno da colla alle intenzioni. 

The Silent Lineage non segue il pellegrinaggio di band vedove del passato, non torna indietro a rovistare tra le stelle e i rifiuti, né tantomeno salta nel futuro come un canguro ubriaco. Definisce l’immediatezza, documenta, sapendo molto bene che gli stupidi cercano riferimenti, impedendo di individuare la verità e la realtà.

Ed è qui che la band evidenzia la propria lealtà, la capacità di cadere nell’imbuto restrittivo dei generi musicali, preferendo  adottare il sudore, il silenzio, il caos che unisce le anime nei territori famelici delle sessioni di prova. Assistiamo, dunque, all’uscita del seme della loro grandezza, quella unicità che collega la ricerca e che sodomizza l’indifferenza. 

La brevità delle composizioni offre la possibilità di meglio storicizzare i graffi, gli urti, gli inchini ai sogni, fraudolenti, tiepidi, che si tuffano nella vita con poco fiato.

Giocano, dipingono, pastrocchiano con la storia indirizzandosi verso una modalità restrittiva: non abbisognano di ridondanze, di effetti boriosi ad annullare i sentimenti. Ecco, sottolinerei che la compattezza nasce dal cancellare l’ipotesi che la loro musica sia una passeggiata sonora, come abiti in cerca di applausi.

Assolutamente no: chi ascolta queste otto canzoni vede pochi raggi, ma nella loro potenza la verità viene colta ed esposta alle torture, che sono magie (non bianche, tantomeno nere), permettendo all’apparato artistico di essere una profilassi precisa di una ricerca che cura il dolore.

Quando ciò che si sperimenta è privo di istruzioni lo sbandamento diventa la gioia più sublime: perdersi diventa una risorsa e i Sacred Legion sanno come raggruppare i sensi, nel disarmonico e meraviglioso peregrinare notturno,  con sottili ma potenti intuizioni. L’album interroga, esorta, non pretende, offre sciamaniche propensioni al rifiuto della storia nella sua manifesta violenza e per meglio indicizzare l’ascolto struttura la musica nei pressi di stagioni che miscelandosi, cadendo, diventano irriconoscibili. L’inverno è la stagione di queste perlustrazioni. Andiamo ora a seguire le loro impronte e le spine, una ad una…


Song by Song


1 - Flower Phantoms 


L’ingresso di questo vulcanico processo è lento (il brano con il minutaggio maggiore), come una strategica mossa nucleare, incanta con un arpeggio della chitarra e una marcia marziale della batteria, per ossequiare il suono nei tintinnii che circondano le percezioni. Poi, come una scimitarra che scivola nelle vene, si assiste all'accelerazione ed è un salto nel ventre. Si gettano i semi, nel ritornello, di una modalità che prevede due voci nel canto, quasi a gonfiare l’ascolto per una migliore accoglienza. Pilastro, piombo, indice di una direzione che amplierà la propria energica propensione ai suoni roventi.


2 - Back to Nowhere


I tre diventano corsari, la chitarra e il basso sposano l’elettrica danza, con il tappeto ritmico che riduce le rullate e offre battiti potenti e secchi. Sono graffi epidermici che creano una collisione, frantumando lo spazio cognitivo, tornando, alla fine, in un luogo capace di disperdere ogni punto cardinale.


3 - Purify


La ricerca melodica, iniziale, presenta un avvicinamento alla cortesia, alla facilità di chi patisce questo tipo di propensioni sonore. Ma la band si rifiuta di risultare semplicistica e scaraventa via l’inizio nel turbinio di suoni famelici, feriti, mentre perdono la gravità. Proprio qui, in questi pochi secondi, il drumming torce i passi del ritmo e diventa il sovrano che governa la chitarra e il basso. Il cantato conosce la discrezione, si tuffa nella disgrazia con eleganza, senza urlare, seguendo il piombo delle parole…


4 - Dig Me No Grave


Centimetri e metri di glam rock precedono la progressione, consentono al basso di struggersi in una distorsione epica e poi via, come in un giorno di dolore senza termometro, nei confini esponenziali di un rock orrorifico che martella le caviglie.


5 - A Taste of Turmoil


Scivola la gravità, il brano diventa una recita post-mortem, un calvario di sbalzi, che portano alla memoria i graffiti del secondo album dei Killing Joke e i primi vagiti dei Southern Death Cult, ma niente si stabilizza in quei pesanti macigni e, come scelta obbligata, i tre marinai decidono di inventare onde sonore che li conducano nel sottosuolo terrestre: la velocità, che pare il pilota di questo naufragio, in realtà è data dalla scrittura di un testo pieno di miracoli radioattivi.


6 - Black Sun Ritual


Echi di Punk Islam dei CCCP aprono le danze, mettendo distanze tra loro e la band emiliana. Tutto diventa mistero, il sangue esce scosso, la lentezza, il crescendo sonoro stabilisce un piano strategico: tutto deve arrivare come un’ipotesi e divenire preciso come una forma di preghiera. Un sibilo pilota il fare impetuoso e la rarefazione sonora scende sino a incontrare il basso che scoperchia il passato di questo impeto sonoro. Invece della chitarra, a essere grattuggiato è proprio lo strumento di Tony che marchia la pelle. Come una sfida, per essere decisiva, la canzone offre ampie sfide musicali, con il cantato di Fabiano che scompare verso la fine, come risucchiato in uno strano e mefistofelico rituale.


7 - Hole In The Heart


Il botto sopra il cielo di Frosinone: con l’attitudine di un grappolo di centimetri hard-core, il brano presenta la coesistenze tra l’ardore e il rifiuto, con i suoni che circoscrivono perfettamente le parole. Nella ricerca stilistica, si noti come il brano si autosospenda, per tornare al graffio del giro armonico iniziale sino a ospitare una brillante voce femminile che spiazza e conquista.


8 - Shards


Si giunge alla fine di questo affresco maledetto in stato di grazia con la canzone che offre i propri fianchi a diversi, probabili e scontati accostamenti, ma il Vecchio Scriba li rifiuta. I tre non cercano originalità, vette dalle quali guardare con boria eventuali colleghi sconfitti. Si gettano, invece, nel labirinto lavico per lasciare la scia di ruvidità sibilanti, per stordire, non di certo per ammaliare conferendo così alla composizione un brillio, che la distingue dalle altre. Esperimenta, coglie la chance di un divenire e scrive il futuro di questa band che ha esordito facendo tremare la notte…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

6 Marzo 2024


https://batcaveproductions.bandcamp.com/album/the-silent-lineage





My Review: Sacred Legion - The Silent Lineage




Sacred Legion - The Silent Lineage


"I was a child, that is, one of those monsters that adults fabricate with their regrets"

Jean-Paul Sartre


A corsair race, the funny ways of a past that flirts with wounds catapults itself into the neurasthenic tangle of lipstick music, perfectly fixed to the mystery that accounts for itself, in the deafening impermeability that fractures expectations and pretensions.

From the province of Frosinone, three adult figures work at the lathe, encircling the flanks of the clichés that would always like to be certain that every definition cannot be incorrect. And so the poor fantasy in power speaks of 'Death-Rock, Dark-Wave, Post-Punk', as the impetus of a vulgar approach.   But the band from Ciociaria does not have in its repertoire the need to travel with an identity defined by others: the terrain of manoeuvre is absolutely marked by a freedom that is obligatorily limited because it is necessary to describe human drifts, where consolation and culture, of literary derivation, favour more precise boundaries. The sacred temporal space governs the liturgical spasms of compositions that make every vicious circle surrender. They are far removed from those reference groups with which Fabiano, Mirko and Tony's band are associated. The album is a hundred-metre runner's sprint (given the brevity of its twenty-four minutes), but it lives with the propensity of the marathon runner, since listening, the carefully repeated one, shows the crossing of history, with geography constructing physical features, to the point of giving faces a light that reveals complexity. All eight songs foreshadow a future to be marked in their intellectual paths.  The three aim their refined stylistic abundance to encircle reality, curbing the stylistic hangover of different musical genres. It is orgasmic anticipation, it is the precipice of a refined abrasive combo, with guitars battering the vessel of impulses born in research. Fabiano articulates thoughts with luculent impetus, scraping away banality.

The sounds curate the overkill, unravelling in the school of a mode that favours a strange form of 'catchiness': some refrains seem to favour the expression of 'gothic pop in search of imprecise smears', a mode that can bring even those less accustomed to these climatic and sensory inclinations closer to these lyrics that probe and bring to light a ravenous need to freeze truths.

Five words are repeated twice, generating a planimetry of mental addresses.

Heart - Eyes - Life - Back - Dream.

Here they are, these mammoth queens, piloting a precise order of intentions in the chaos of a slight cut-up.

The music does not perform panegyrics, it could not: it reveals, represents, seduces, hammers, scratches, connects the mood and smells of that writing with which it dialogues, fights, establishes blood pacts. Tony's querulous bass guitar manages to bring the auditory apparatus closer to the hammering with big breath. Mirko's drums are sly, using impervious, stubborn hand tones, where imaginative counter-rhythms, stop-and-go and probing percussions establish the effervescence of a whole that seems to escape itself. Then there is the considerable amount of space that the musicians allow themselves, the pauses, the entrances and exits that act as glue to the intentions. 

The Silent Lineage does not follow the pilgrimage of widowed bands of the past, nor does it go back to rummaging through the stars and rubbish, nor does it leap into the future like a drunken kangaroo. It defines immediacy, it documents, knowing full well that fools seek out references, preventing them from identifying truth and reality.  And it is here that the band shows its loyalty, its ability to fall into the restrictive funnel of musical genres, preferring to adopt the sweat, the silence, the chaos that unites souls in the ravenous territories of rehearsal sessions. We witness, therefore, the release of the seed of their greatness, that uniqueness that links research and sodomises indifference. 

The brevity of the compositions offers the possibility of better historicising the scratches, the bumps, the bows to dreams, fraudulent, lukewarm, diving into life with little breath.

They play, they paint, they mess around with history by addressing themselves to a restrictive mode: they do not need redundancies, bumpy effects to nullify feelings. Here, I would emphasise that the compactness stems from erasing the assumption that their music is a sonic promenade, like clothes in search of applause.

Absolutely not: whoever listens to these eight songs sees a few rays, but in their power the truth is grasped and exposed to torture, which is magic (not white, let alone black), allowing the artistic apparatus to be a precise prophylaxis of a search that cures pain.  When what is experienced is without instructions, disorientation becomes the most sublime joy: getting lost becomes a resource and Sacred Legion know how to regroup the senses, in the disharmonic and marvellous nocturnal wanderings, with subtle but powerful insights. The album interrogates, it exhorts, it does not pretend, it offers shamanic propensities to the rejection of history in its manifest violence and, to better index the listening, it structures the music around seasons that, as they mix, fall, become unrecognisable. Winter is the season of these perceptions. Let us now follow their footprints and thorns, one by one...


Song by Song


1 - Flower Phantoms 


The entrance of this volcanic process is slow (the song with the longest minute count), like a strategic nuclear move, it enchants with a guitar arpeggio and a martial march of the drums, to obsequious sound in the tinkles that surround the perceptions. Then, like a scimitar slipping through the veins, the acceleration is witnessed and it is a leap into the belly. The seeds are sown, in the refrain, of a modality that envisages two voices in the song, as if to swell the listening for a better reception. Pillar, lead, indicative of a direction that will expand its energetic propensity for scorching sounds.


2 - Back to Nowhere


The three become privateers, the guitar and bass marry the electric dance, with the rhythmic carpet reducing the snares and offering powerful, dry beats. These are epidermal scratches that create a collision, shattering cognitive space, returning, in the end, to a place capable of dispersing every cardinal point.


3 - Purify


The melodic, initial search presents an approach to courtesy, to the ease of those who suffer this kind of sonic propensity. But the band refuses to be simplistic and tosses off the beginning in the swirl of ravenous, wounded sounds as they lose gravity. Right here, in these few seconds, the drumming twists the steps of the rhythm and becomes the sovereign ruler over the guitar and bass. The singing knows discretion, diving into the misfortune with elegance, without screaming, following the lead of the words...


4 - Dig Me No Grave


Centimetres and metres of glam rock precede the progression, allow the bass to pine away in an epic distortion and then away, as in a day of pain without a thermometer, into the exponential confines of an ankle-hammering horror rock.


5 - A Taste of Turmoil


Gravity slips, the track becomes a post-mortem recital, an ordeal of jolts, bringing to mind the graffiti of Killing Joke's second album and the first vague sounds of Southern Death Cult, but nothing settles in those heavy boulders and, as a forced choice, the three sailors decide to invent sound waves that lead them into the earth's subsoil: speed, which seems to be the pilot of this shipwreck, is actually given by the writing of a lyric full of radioactive miracles.


6 - Black Sun Ritual


Echoes of CCCP's Punk Islam open the dances, putting distance between them and the Emilian band. Everything becomes mystery, the blood comes out, the slowness, the sonic crescendo establishes a strategic plan: everything must arrive like a hypothesis and become precise like a form of prayer. A hiss pilots the impetuous action and the sonic rarefaction descends to meet the bass that uncovers the past of this sonic rush. Instead of the guitar, it is Tony's instrument that is grating. As a challenge, to be decisive, the song offers ample musical challenges, with Fabiano's vocals disappearing towards the end, as if sucked into a strange, mephistophelian ritual.


7 - Hole In The Heart


The bang above the sky of Frosinone: with the attitude of a hard-core cluster of inches, the track presents the coexistence of ardour and rejection, with the sounds perfectly circumscribing the words. In the stylistic search, note how the track suspends itself, returning to the scratch of the initial harmonic turn to accommodate a brilliant female voice that disorients and conquers.


8 - Shards


We come to the end of this cursed fresco in a state of grace with the song offering its sides to various, probable and obvious juxtapositions, but Old Scribe rejects them. The three do not seek originality, peaks from which to look down on any defeated colleagues. Instead, they throw themselves into the lava labyrinth to leave a trail of hissing roughness, to stun, certainly not to bewitch, thus giving the composition a brilliance that distinguishes it from the others. It experiments, seizes the chance of a becoming and writes the future of this band that made its debut by making the night tremble...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

6th March 2024


https://batcaveproductions.bandcamp.com/album/the-silent-lineage


domenica 11 febbraio 2024

La mia Recensione: Thalatta & The Babasons - Uanema

 





Thalatta & The Babasons - Uanema


“ ’A troppa derettèzza fa trasì ’ncurrìvo” - Chi vuole fare troppo il furbo finisce col dare fastidio a tutti.


Detto Napoletano


La polvere della precipitazione, dell’arroganza, della violenza ossida il cielo e la terra, nel tempo di un degrado in salita e in discesa.

La musica potrebbe raccontare tutto questo, ci prova, sbagliando spesso a puntare il mirino, disperdendo un compito che l’arte non può negarsi. In arrivo sulla nostra disordinata propensione alla dispersione un album che è un lavoro pregno di anarchia, imprigionato nei limiti dell’uomo che la nega, fisicamente, mentalmente sino a farlo anche con i sogni. Sono storie che attraversano il tempo, come furti autorizzati per spiegare la dannazione umana, utilizzando sistemi multipli che arricchiscono la comprensione. 

Pare di veder passare tra le strade di Pomezia LA VECCHIA ‘O CARNEVALE, la maschera doppia che comprende una vecchia signora e Pulcinella sulle sue spalle, mentre con le sue nacchere (le Castagnelle) porta a spasso racconti, scherni, frustrazioni e scherzi per svelare l’inettitudine locale e non solo, come uno sguardo che svela e abbatte le maldicenze. Il titolo del lavoro è una esclamazione di stupore, di sorpresa (Wow, Dio mio…eccetera) ed è quello che sa generare nel cuore del Vecchio Scriba: gli alimenti con cui il tutto viene presentato spaziano, spezzano il fiato, come spezie miracolose che sanno cambiare perfettamente il gusto per ordinarlo, assemblarlo e tributare l’applauso del palato. Un disco che parrebbe essere una sessione serale di prove tecniche per un concerto: via la tecnologia, i software, la produzione che gonfia un prodotto e nasconde le reali capacità rappresentate. Semplice, diretto sporco, senza artifizi, decolora gli inganni e mostra i pugni, con testi che eseguono autopsie continue, e musiche capaci di camuffare combat folk con un rock esagitato e violento a tratti, dolce in altri. Ma c’è un sudore che cade sugli amplificatori e che ossida le bugie, le finte strutture e offre alla musica la verità. 

Uanema è un virus benigno, malefico, un cantautorato fine che si tuffa nella forma propulsiva dello scontro, del disturbo, sequestra l’inutile e presenta il conto, tra solitudini, voli angelici, traffici loschi, disperazione e soprattutto una abbondante dose di rabbia educata alla costruzione di un cambiamento, prima individuale e poi collettivo. Chitarre che partono dagli Smiths per arrivare alla Darkwave, al proto-punk, sino ad afferrare per i capelli l’alternative, sviluppando tra le sue trame fiumi usciti dai vaporosi anni Settanta. Il basso è un animale libero di ferire, con dita prensili, soffocanti. I due strumenti coesistono perfettamente in quanto privi della morbosa attenzione verso gli effetti: scevri della finzione, seguono una linea diretta che impatta e finalmente ci sgombera dall’ingombrante moda attuale. Il drumming è un vomito integro, spavaldo, concentrato, con la tecnica del cuore che spazza via la storia. 

La voce è una forma epilettica, che veste la passione e si appiccica ai colori, divenendo sempre di più un termometro che rivela calore e meditazione, tra slanci e frenate proficue, moderata e potente, fissa l’ascolto nel pianto a dirotto, mai sazio, nell’applauso delle emozioni che sa procurare.

La lingua napoletana e quella italiana si schierano dalla parte del sostegno ai concetti espressi, alle storie, alle favole sbilenche che debbono essere raffigurate attraverso una scrittura molteplice, mai avversarie, ma portatrici sane di ricchezza. La musica pare essere la prima risorsa ubbidiente a queste avventure, la radiografia pulsante che ipnotizza, non divaga, sempre certifica la verità che trova nei versi e nei percorsi ritmici e melodici un sostanziale bacino espressivo, dove si pescano elementi che ci rendono più maturi. I brani sanno spesso presentare, al loro interno, cambiamenti di atmosfera, di ritmo, con splendidi controcanti e cori che danno all’insieme una forma di completezza che non abbisogna di sovrastrutture. Canzone dopo canzone ci accorgiamo della loro attenzione per la storia di personaggi che provengono anche dal passato (Villanella sballata), in una processione di morali e accadimenti che si scambiano il palcoscenico, tra l’ironia e il polso fermo. Nulla vacilla, non esistono momenti di decadimento artistico: come se le nostre mani, in questi trentasette minuti, continuassero ad arrossire e i nostri timpani a raccogliere le scintille di fuoco che queste parole e questi movimenti musicali vogliono generare. Ci si sente come tramortiti, accarezzati, tra feste e giornate in cui la solitudine ha il significato di emarginazione: i quattro di Pomezia lottano, urlano, si arrabbiano e cercano di creare una nuova sensibilità utilizzando la realtà, le leggende, le storie, le tradizioni di luoghi che paiono sempre più allo sbando. Si oppongono: ascoltate con attenzione come i loro flussi coscienti creino dipendenza, attraverso gli arpeggi della chitarra e i pugni di Thalatta, Dea che sta tra il nero e il bianco, creando vortici di grigio per sveltire una presa di posizione. L’emozione di questi brani è solo la fine di un abito nuziale, la sua coda, in quanto, se si presta accurata attenzione, ci accorgiamo di come il tutto venga messo sul fuoco, per scaldare una sensibilità che la musica moderna non offre più. Il disco italiano più necessario di questo 2024, e non solo, è qui, attivo, votato allo struggimento e al consolidamento di necessità che abbiamo disconosciuto. Otto attestati intellettivi spalancano il centro del sistema nervoso centrale e lo mettono innanzi a una scelta: o avviene uno scatto interiore o si muore…

Quello che arriva è un terremoto proveniente dalla coscienza, alleata in modo magico alla storia dello sperpero, e il risultato è una collezione di brani come perle vere, senza prezzo: sta a noi nutrire il risveglio, e questo album ci presenta il conto, cercando di dare alla resa, alla pigrizia una serie di sberle più che meritate. Grinta, passione, metodo, nel progetto finale di un lavoro che disintegra il superfluo. Non vi capiterà più di ritrovarvi tra fiumane espressive che sono volte a destabilizzare l’inutilità quotidiana…


In conclusione: quando l’arte sveglia i battiti cerebrali, quelli del cuore si aggrappano a essi come un circo gioioso dove la maturazione è l’unico obiettivo raggiungibile. Un’opera fuori dall’ordinario, un vascello temporale che ci mette sulla rotta di una crescita umana inespugnabile….


Album Italiano del 2024!


Alex Dematteis 

Musicshockworld

Salford

11 Febbraio 2024


https://thalattaandthebabasons.bandcamp.com/album/uanema-2




venerdì 8 dicembre 2023

La mia Recensione: The Churchhill Garden - Dreamless



The Churchhill Garden - Dreamless



Anche gli angeli chiedono aiuto, vuotano il sacco, tendono la mano, si afferrano al non so pur di ritrovare la luce. E se a farlo sono due artisti sempre in stato di grazia, che mai ci farebbero pensare a un momento di difficoltà, ecco consegnata una notizia sorprendente: accade tutto nelle note di questa canzone con il pigiama, una meteora lenta che cerca il rientro nell’atmosfera celeste, nella vita, nella condizione terrena. Sono pensieri che scivolano tra le mani di Andy Jossi, sempre più concentrato ad attraversare gli spazi con le sue atmosfere delicate ma piene di tensioni, rese ubbidienti dal suo inconfutabile talento. E nelle parole e nella voce di Krissy Vanderwoude, qui più che mai una fata dalla faccia triste, raccolta nella sua nuvola, alla ricerca del raggio giusto. Brano strepitoso, un concentrato del marchio di fabbrica del duo svizzero-americano, capace di rivelare come la vera amicizia diventi l’ambiente per una scrittura complice, aderente alla realtà, lasciando il tutto al destino destino di questi quasi sei minuti, nei quali ciò che accade è un grido addomesticato da chitarre in modalità alternative prima, dream pop poi, e infine shoegaze, per circolare nella palude di un testo che sembra privo di ossigeno e che viene interpretato dalla cantante di Chicago con un trasporto che non rinuncia alla delicatezza, ma che questa volta comprende gocce di amare lacrime. Senza sogni si potrebbe precipitare, musicalmente parlando, in un putiferio sonoro, nella rabbia, o smettere proprio di suonare. Invece…
Invece ascoltiamo sussurri che accolgono momenti specifici degli ultimi trent’anni, raccolti come ispirazione da Andy che poi, nella sua camera piena di artifizi splendenti, cuce sul manico della sua chitarra un disegno melodico che ancora una volta ha il suo stile, riconoscibilissimo. Dal canto suo Krissy lavora come sempre con il gioco delle doppie voci, con il suo angelico respiro che questa volta ha gli occhi bassi ma potenti, con la scorza doverosa che fuoriesce per portare a compimento il suo bisogno: ritrovare i sogni e farli camminare nel suo cuore. Sia la musica che il testo visitano, con classe e leggerezza, l’inferno: nel groviglio di note colme di liquidi in salita verso il cielo, le parole scendono in un'indagine che trova la verità.
La drum machine apre la danza lenta, poi sono le chitarre che si fanno accompagnare da una delicata tastiera e, sempre delicatamente, si arriva al ritornello che scuote con la sua leggerezza, come se fosse una goccia di brina di fronte all’ingresso del dolore. Appena finito, Andy entra dritto come un fuso in un arpeggio straziante e la voce ritorna, per compattare questa poesia invernale nel centro dei nostri ascolti.
Si piange abbracciando questa coppia di artisti e si esce sudati ma convinti che a volte l’arte compia dei miracoli: ci ritroviamo tutti insieme a brindare a questa sincera canzone, umile e che farà del nostro ascolto una benedizione celeste…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
8 Dicembre 2023






My Review: The Churchhill Garden - Dreamless


 The Churchhill Garden - Dreamless


Even angels ask for help, they spill the beans, they reach out their hand, they grasp at the don't-know-what in order to find the light again. And if to do so are two artists always in a state of grace, who would never make us think of a moment of trouble, here we receive a surprising news: it all happens in the notes of this song with pyjamas, a slow meteor seeking re-entry into the heavenly atmosphere, into life, into the earthly condition. These are thoughts slipping through the hands of Andy Jossi, increasingly focused on traversing the spaces with his delicate but tension-filled atmospheres, made obedient by his irrefutable talent. And in the words and voice of Krissy Vanderwoude, here more than ever a sad-faced fairy, gathered in her cloud, searching for the right ray. Stunning track, a concentrate of the Swiss-American duo's trademark, capable of revealing how true friendship becomes the environment for a complicit writing, adherent to reality, leaving it all to the doom of these almost six minutes, in which what happens is a cry tamed by guitars in alternative mode first, dream pop then, and finally shoegaze, to circulate in the swamp of a text that seems to be devoid of oxygen and that is interpreted by the Chicago singer with a transport that does not give up delicacy, but that this time includes drops of bitter tears. Without dreams one could plunge, musically speaking, into a sonic ruckus, anger, or stop playing at all. Instead.
Instead we listen to whispers that take in specific moments of the last thirty years, collected as inspiration by Andy who then, in his room full of shining artifices, sews on the neck of his guitar a melodic pattern that once again has his own style, highly recognizable. For her part, Krissy works as always with the play of double voices, with her angelic breath that this time has low but powerful eyes, with the dutiful zest that comes out to bring to fruition her need: to find dreams and make them walk in her heart. Both music and lyrics visit, with class and lightness, hell: in the tangle of liquid-filled notes ascending to heaven, the words descend in an inquiry that finds truth. The drum machine opens the slow dance, then it is the guitars that are accompanied by a delicate keyboard and, ever so gently, we come to the refrain that shakes with its lightness, as if it were a drop of frost in front of the entrance of pain. As soon as it is over, Andy enters straight as a spindle into a heartbreaking arpeggio and the voice returns, to compact this winter poem into the centre of our listening.
We weep as we embrace this pair of artists and leave sweaty but convinced that sometimes art performs miracles.We all come together to toast this sincere, humble song that will make our listening a heavenly blessing...

Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
8th December 2023

martedì 5 dicembre 2023

La mia Recensione: Melga - Figli


 

Melga - Figli


Non è ancora venuto il momento di veder scomparire le storie dei rapporti umani, per quanto intossicati, imprigionati e pesanti, perché esiste chi sa vederle, inventarle, raccontarle con classe, precisione e una intimità che corrisponde a un grande rispetto.

Viene da Taranto, da una Puglia meravigliosamente impegnata a lasciare i suoi figli liberi di dare alle creazioni artistiche un senso, un luogo, una innegabile capacità di affascinare e conquistare, dolcemente.

Gaia Costantini, in arte Melga, è una figlia sensibile che compone musiche come se una foglia oscurasse il male e restituisse raggi tiepidi, per scaldare il cuore. Il suo nuovo lavoro è un EP che profuma di sogni, di intenzioni responsabili, della maestria di utilizzare generi che, partendo da uno spirito World, entra nell’entroterra pugliese con abilità, convincendo per via di schemi che riescono a rendere credibili testi scritti davvero con notevole capacità, con il canto che sembra il respiro di una fata in attesa sui bordi di nuvole bianche. Gli archi arrangiati dall’instancabile Marco Schnabl (nonché il produttore, eccelso, dell’intero lavoro) si uniscono al piano e alla fisarmonica di Melga, consegnando agli altri strumenti la completezza di una impalcatura forte e resistente. I ritmi variano, le melodie vengono corteggiate da invenzioni che, nello specifico, fanno divenire cinematografico il tutto, provocando stupore e sorrisi liberi di camminare nella strada delle fantasie più pure. Sono storie che hanno modo di far scorgere il baricentro del bisogno primario, quello dell’amore che parte, raggiunge, disperde, il tutto con il timbro di incontri significativi, decisivi, incontrastabili. Gaia soffia le parole come incantesimi nel tempo in cui la maggior parte dei figli non crede più in essi: si oppone, dolcemente, con grande dilatazione, per consegnare verità e realtà che abbisognano di essere mostrate. E senti tutto questo nei rintocchi di un piano che suona moderno, aggraziato da una vicenda lontana che esprime timidi sussurri, in quanto l’artista Tarantina è ben conscia di quanta non sopportazione esista nei confronti della musica classica e di quella considerata ormai sorpassata e vecchia. Disegna un armistizio, poi un compromesso, per vincere come un'apoteosi ristoratrice che veicola sollievo e riflessione. L’opera commuove, tocca le corde ormai stonate di una esistenza che non riconosce la forza positiva delle relazioni, di quei legami ai quali ci si dovrebbe rapportare con rispetto. Canta come un sogno disposto a scendere nella quotidianità, perché proprio da quella lei fa volare le sue perlustrazioni, indagini concrete e poetiche, inclini alla saggezza. 

Invita, dona, spartisce i suoi averi, ascolta, dialoga con i segni del tempo: Melga abbraccia i lati opposti, dal paradiso all’inferno, seminando la bellezza che mette a disagio solo chi ha il cuore gelido. Ma è proprio la provenienza (quella regione che ospita il calore e la voglia di vivere malgrado grandi disagi) a divenire il primo fattore vincente di cinque gazzelle che corrono nella prateria dei rapporti lasciando, ognuna di loro, una rosa blu nel centro di ogni sogno…


Figli è uno specchio di luce, la porta di un respiro profondo, la libertà cosciente che deve stabilizzarsi negli orizzonti, per raggiungere una salvezza possibile. Musicalmente è una semi-ballad, ariosa, colma di oscillazioni dolci per arrivare a una tenue esplosione minima, incantevole e seduttiva…


Teresa è un dialogo, una carta d’identità mostrata alla vita, con grande semplicità e una modestia umana davvero ragguardevole, con un piano prima tetro e poi divertente, quasi swing, in un'atmosfera che è un velluto in volo in una giornata autunnale. Quasi cabarettistica, piena di incursioni da parte di note e accordi per generare una dolce ipnosi, la canzone conquista per la sua leggerezza all’interno di scrosci temporali resi ubbidienti dalla confidenza di una splendida figlia nata nel 1953…


Qui ed Ora: il ritmo parrebbe sempre pronto a scattare, invece si vive una suspense tiepida, capace di splendide pause, con gli archi a conquistare fazzoletti pieni di lacrime, in una Torino sorvolata da due farfalle che entrano nel pentagramma per disegnare una traiettoria poetica, dalla pelle accarezzata da una struttura solitamente vicina alla musica classica italiana di fine Ottocento. E la fisarmonica inventa frammenti francesi per un crescendo con il guinzaglio: semplicemente, clamorosamente meravigliosa…


Con Cara Margherita, ci avviciniamo ai territori preferiti da Tom Waits negli Stati Uniti e da Davide Van De Sfroos e Vinicio Capossela in Italia. La vita fuma tra le dita, oppure vive nei tasti di un pianoforte, ma in ogni caso porta con sé un ritmo quasi sudamericano, con i lampioni francesi a inquadrare la scena. Ed è la pazzia che vince, fuggendo, rintanandosi in questi versi seducenti e pieni di saggezza.


Il brano che chiude quest’opera è un clamoroso capolavoro, nessuna difficoltà da parte del Vecchio Scriba ad affermarlo: Francesca è un battito d’ali di una poesia crudele che muta la sua pelle e la fa divenire un lenzuolo di lino per accerchiare il dolore. Una lunga proiezione nel salone in penombra di ogni paura permette alla musica di essere cinematografica, maestosa, attraversando modalità diverse, una lunga apnea che, tramite trame fitte di tristezza imbevute di speranza, si tuffa nel testo che rivela forze multiple, per assestare alla sofferenza un duro colpo. Si ritorna nella prateria, si incontrano caratteri possenti come quelli dei lupi, per poi valutare le perdite e le conquiste che vengono tradotte da una musica saggiamente straziante ma con le finestre aperte…


Un lavoro che dovrebbe conoscere l’espansione massiccia nel cielo dei vostri ascolti: complimenti davvero Gaia!



Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

5 Dicembre 2023


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