martedì 5 dicembre 2023

La mia Recensione: Melga - Figli


 

Melga - Figli


Non è ancora venuto il momento di veder scomparire le storie dei rapporti umani, per quanto intossicati, imprigionati e pesanti, perché esiste chi sa vederle, inventarle, raccontarle con classe, precisione e una intimità che corrisponde a un grande rispetto.

Viene da Taranto, da una Puglia meravigliosamente impegnata a lasciare i suoi figli liberi di dare alle creazioni artistiche un senso, un luogo, una innegabile capacità di affascinare e conquistare, dolcemente.

Gaia Costantini, in arte Melga, è una figlia sensibile che compone musiche come se una foglia oscurasse il male e restituisse raggi tiepidi, per scaldare il cuore. Il suo nuovo lavoro è un EP che profuma di sogni, di intenzioni responsabili, della maestria di utilizzare generi che, partendo da uno spirito World, entra nell’entroterra pugliese con abilità, convincendo per via di schemi che riescono a rendere credibili testi scritti davvero con notevole capacità, con il canto che sembra il respiro di una fata in attesa sui bordi di nuvole bianche. Gli archi arrangiati dall’instancabile Marco Schnabl (nonché il produttore, eccelso, dell’intero lavoro) si uniscono al piano e alla fisarmonica di Melga, consegnando agli altri strumenti la completezza di una impalcatura forte e resistente. I ritmi variano, le melodie vengono corteggiate da invenzioni che, nello specifico, fanno divenire cinematografico il tutto, provocando stupore e sorrisi liberi di camminare nella strada delle fantasie più pure. Sono storie che hanno modo di far scorgere il baricentro del bisogno primario, quello dell’amore che parte, raggiunge, disperde, il tutto con il timbro di incontri significativi, decisivi, incontrastabili. Gaia soffia le parole come incantesimi nel tempo in cui la maggior parte dei figli non crede più in essi: si oppone, dolcemente, con grande dilatazione, per consegnare verità e realtà che abbisognano di essere mostrate. E senti tutto questo nei rintocchi di un piano che suona moderno, aggraziato da una vicenda lontana che esprime timidi sussurri, in quanto l’artista Tarantina è ben conscia di quanta non sopportazione esista nei confronti della musica classica e di quella considerata ormai sorpassata e vecchia. Disegna un armistizio, poi un compromesso, per vincere come un'apoteosi ristoratrice che veicola sollievo e riflessione. L’opera commuove, tocca le corde ormai stonate di una esistenza che non riconosce la forza positiva delle relazioni, di quei legami ai quali ci si dovrebbe rapportare con rispetto. Canta come un sogno disposto a scendere nella quotidianità, perché proprio da quella lei fa volare le sue perlustrazioni, indagini concrete e poetiche, inclini alla saggezza. 

Invita, dona, spartisce i suoi averi, ascolta, dialoga con i segni del tempo: Melga abbraccia i lati opposti, dal paradiso all’inferno, seminando la bellezza che mette a disagio solo chi ha il cuore gelido. Ma è proprio la provenienza (quella regione che ospita il calore e la voglia di vivere malgrado grandi disagi) a divenire il primo fattore vincente di cinque gazzelle che corrono nella prateria dei rapporti lasciando, ognuna di loro, una rosa blu nel centro di ogni sogno…


Figli è uno specchio di luce, la porta di un respiro profondo, la libertà cosciente che deve stabilizzarsi negli orizzonti, per raggiungere una salvezza possibile. Musicalmente è una semi-ballad, ariosa, colma di oscillazioni dolci per arrivare a una tenue esplosione minima, incantevole e seduttiva…


Teresa è un dialogo, una carta d’identità mostrata alla vita, con grande semplicità e una modestia umana davvero ragguardevole, con un piano prima tetro e poi divertente, quasi swing, in un'atmosfera che è un velluto in volo in una giornata autunnale. Quasi cabarettistica, piena di incursioni da parte di note e accordi per generare una dolce ipnosi, la canzone conquista per la sua leggerezza all’interno di scrosci temporali resi ubbidienti dalla confidenza di una splendida figlia nata nel 1953…


Qui ed Ora: il ritmo parrebbe sempre pronto a scattare, invece si vive una suspense tiepida, capace di splendide pause, con gli archi a conquistare fazzoletti pieni di lacrime, in una Torino sorvolata da due farfalle che entrano nel pentagramma per disegnare una traiettoria poetica, dalla pelle accarezzata da una struttura solitamente vicina alla musica classica italiana di fine Ottocento. E la fisarmonica inventa frammenti francesi per un crescendo con il guinzaglio: semplicemente, clamorosamente meravigliosa…


Con Cara Margherita, ci avviciniamo ai territori preferiti da Tom Waits negli Stati Uniti e da Davide Van De Sfroos e Vinicio Capossela in Italia. La vita fuma tra le dita, oppure vive nei tasti di un pianoforte, ma in ogni caso porta con sé un ritmo quasi sudamericano, con i lampioni francesi a inquadrare la scena. Ed è la pazzia che vince, fuggendo, rintanandosi in questi versi seducenti e pieni di saggezza.


Il brano che chiude quest’opera è un clamoroso capolavoro, nessuna difficoltà da parte del Vecchio Scriba ad affermarlo: Francesca è un battito d’ali di una poesia crudele che muta la sua pelle e la fa divenire un lenzuolo di lino per accerchiare il dolore. Una lunga proiezione nel salone in penombra di ogni paura permette alla musica di essere cinematografica, maestosa, attraversando modalità diverse, una lunga apnea che, tramite trame fitte di tristezza imbevute di speranza, si tuffa nel testo che rivela forze multiple, per assestare alla sofferenza un duro colpo. Si ritorna nella prateria, si incontrano caratteri possenti come quelli dei lupi, per poi valutare le perdite e le conquiste che vengono tradotte da una musica saggiamente straziante ma con le finestre aperte…


Un lavoro che dovrebbe conoscere l’espansione massiccia nel cielo dei vostri ascolti: complimenti davvero Gaia!



Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

5 Dicembre 2023


https://open.spotify.com/album/1CkWdOGM0QaHiukbRDIc0Z?si=oeBNEKsrTMaQfXZwaxaeyg

sabato 2 dicembre 2023

La mia Recensione: The Slow Readers Club with Joe Duddell & No. 7 Ensemble - Live at Canvas Manchester / 1-12-2023





The Slow Readers Club with Joe Duddell & No. 7 Ensemble
Live at Canvas
Manchester


Una bolla può riempirsi di emozioni volute, improvvise, e poi anche sospendere il respiro, vagabondare nello stupore? Se partecipi all’evento musicale dell’anno certamente sì, ed è esattamente ciò che è accaduto nell’elegante Canvas di Manchester, dove sul palco si è assistito a un miracolo generoso: l’unione di modalità, ruoli e approcci diversi alla musica, per un risultato che fa, questa volta, dello shock un beneficio multiplo. L’ipnosi ha toccato le spalle di ognuno dei partecipanti, tranne che di quelle poche persone che hanno preferito chiacchierare, pagando, finendo per disturbare pure Aaron. Ma è innegabile che il risultato sia penetrato negli animi sensibili e votati all’attenzione. Le canzoni scelte dai fan ed elaborate da Joe Duddell in pochissimo tempo hanno modificato l’interpretazione nei confronti di quelle originali: tutto si è trasferito su un altro piano emotivo e sensoriale, con la piacevole sensazione di una nascita notturna dentro i cuori. Struggevolezza, malinconia, tristezza, che sono spesso l’habitat naturale di queste composizioni, hanno spiccato il volo fasciate da un foulard di lino, per poter arrivare, indenni, all’interno dei raggi lunari. Pazzia, tremore, tensione ma mai senso di perdita hanno governato i sedici flussi pieni di magia per ritrovarsi in un’entrata diversa: una catapulta infinita di brividi ha stabilito che questa esperienza potesse creare con la memoria uno strumento infinito colmo di forza e vitalità. I cambiamenti, i ritocchi, la verve di un direttore davvero capace di intuire prima e di portare poi il tutto in uno status intoccabile fa di questa serata la rappresentazione di unioni che sono parti naturali, e di cui si può solo sperare in una continua proliferazione. 

Gli archi, come già avvenne nel 2017, spingono sia verso l’addome che verso la volta celeste consapevolezze nuove, diramando nei sentieri dei pensieri nuovi luccichii. E si è fragili, avvolti da segreti interpretativi che esaltano l’individualità, mentre a pochi centimetri dalla propria persona altre sembrano essere riempite di scuotimenti simili. Su un piccolo palco undici persone hanno avuto la capacità di avvicinare il pop alla musica classica, di annullare eventuali distanze per esaltare il calore, il colore delle note e sintonizzare la passione all’interno di un circuito visitato densamente, e non per caso. La voce di Aaron, molto più attenta rispetto alla settimana scorsa, ha graffiato, fatto conoscere tumulti, spaccando vene e vertebre grazie a una intensità micidiale: come se si fosse accovacciato nella propria intimità e avesse deciso di lasciarla cadere nel microfono. Accordato ai toni grevi di sette musicisti perennemente in uno stato di grazia, di serietà, e pure di responsabilità, il frontman ha fatto scivolare la sua ugola sul tappeto di vibrazioni talmente appiccicate tra loro da far nascere un unico groppo in gola per tutta la durata del concerto. Il via libera al pianto, allo struggimento è stato semplicemente impressionante e devastante: tutte le parole che conoscevamo già a memoria, e che forse avevamo la presunzione di aver capito, questa sera sono state in grado di insegnarci nuovi elementi, sbattendoci per terra, nel caos, nella gioia, nell’abbraccio tra il bianco e il nero di un cielo stellato all’interno del Canvas. Il drumming questa sera, grazie a lunghe pause, ha messo in mostra un'efficacia notevole, perfetta, esaltando anche il basso, per un insieme che ha reso illuminante l’interpretazione: è stato così per ogni brano suonato insieme. Poi, a un tratto, Aaron è rimasto da solo con l’ensemble, ed è stato come prendersi un pugno caldo nel gelido della notte Mancuniana. La lentezza, la densità, l’energia fosforescente è uscita dagli amplificatori per baciare la nostra inerzia, l’immobilità, per produrre un diverso schianto nelle nostre percezioni. Le catene, quelle menzionate in Know The Day Will Come, sono cadute sulla nostra pelle, come un generoso atto liberatorio: a volte nelle contraddizioni si stabiliscono patti di saggezza infinita…


Nella nuova prigione, le ali della agognata libertà si sono trovate ridimensionate, insegnando, sprigionando l'entusiasmo mentre le lacrime bagnavano il pavimento. Quattro delle sei canzoni, che erano state pubblicate sei anni fa, dopo il primo contatto tra la band e l’ensemble, sono state riproposte ma anch’esse modificate, accarezzate e baciate da una nuova idea, attraverso una “vivacità” espressiva che ha donato loro ancora più l’impressione di una drammaticità in estensione.

Le luci hanno veicolato la rara capacità di connessione con le note: fatto che ha impressionato il Vecchio Scriba, che non ha rinunciato a chiudere gli occhi per volare, con precisione, in uno stato di assorbimento più che mai necessario. Il tempo è sembrato uno speleologo lanciato nel cratere dei brani per mettere in luce frammenti di meraviglia continua, con lo stupore in grado di correre nelle vene senza volontà di fermarsi. Il pubblico, entusiasta e inebetito, ha potuto ancora una volta legittimare il proprio amore e portarlo nello spazio di un ricordo dove poter bussare spesso: serate come queste non capitano spesso.
Un’esperienza che mette in risalto anche la fiducia della band di Manchester nel lasciare che qualcuno, esternamente, metta una lampada nel ventre di questi gioielli: se esiste una perfezione questa va cercata negli altri e i quattro lo hanno ampiamente dimostrato. La lotta, l’abnegazione, il limite e il suo opposto hanno stabilito una pioggia di lacrime e riflessioni che hanno generato paralisi e al contempo una “strana” gioia: parole come messaggi francobollate a note che hanno cambiato d’abito sono riuscite a spalancare il raggio d’azione delle nostre antenne consegnandoci la mappa di nuove verità. I sorrisi non sono mancati: durante l’esecuzione di Grace of God Aaron è caduto nell’esitazione, con il sostegno dell’adorante pubblico, per concludersi in un applauso ritmato che ha veicolato un’emozione incandescente: laddove esiste un errore, esiste anche un supporto…
Everything I Own, Sacred Song, Grace of God, Afterlife e All the Idols sono stati i momenti più spettacolari della serata, con Block Out The Sun a guardarle dall’alto. Ma innegabile è la qualità dell’intero concerto, un ammasso denso e generoso che ha spaziato nella discografia esaltandone ancora di più la bellezza, la forza, l'intensità per rendere preciso il senso di devota appartenenza alla band. Il lavoro di Joe è da premio Nobel per la letteratura emozionale, per aver consegnato ad Aaron lo scettro di angelo indiavolato ma rispettoso, e per aver consentito ai suoi ragazzi di lasciare un incredibile tatuaggio raffigurante l’arte al massimo livello su quel palco: la storia ha una data, una direzione e un incanto che renderà per sempre quelle catene libere di essere sentite come ali dei nostri sogni migliori…

Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
2 Dicembre 2023

My Review: The Slow Readers Club with Joe Duddell & No. 7 Ensemble - Live at Canvas Manchester / 1-12-2023





The Slow Readers Club with Joe Duddell & No. 7 Ensemble
Live at Canvas
Manchester

Can a bubble fill with deliberate, sudden emotions, and then also suspend your breath, wander off in wonder? If you attend the musical event of the year, certainly yes, and that is exactly what happened at the elegant Canvas in Manchester, where a generous miracle took place on stage: the union of different modes, roles and approaches to music, for a result that makes, this time, shock a multiple benefit. The hypnosis touched the shoulders of each of the participants, except for those few people who preferred to chat, paying for it, and even ended up disturbing Aaron. But it is undeniable that the result penetrated sensitive and attentive souls. The songs chosen by the fans and processed by Joe Duddell in a very short time altered the interpretation of the original ones: everything moved to another emotional and sensory plane, with the pleasant feeling of a nocturnal birth within the hearts. Wistfulness, melancholy, sadness, which are often the natural habitat of these compositions, took flight wrapped in a linen scarf, in order to arrive, unharmed, within the moonbeams.
Madness, trembling, tension but never a sense of loss governed the sixteen magic-filled streams to find themselves in a different entrance: an infinite catapult of thrills established that this experience could create with memory an infinite instrument full of strength and vitality. The changes, the retouches, the verve of a conductor truly capable of first intuiting and then bringing it all to an untouchable status makes this evening the representation of unions that are natural parts, and of which one can only hope for a continuous proliferation. The strings, as they did in 2017, push both towards the abdomen and the vault of heaven new consciousnesses, branching out into the paths of thoughts new shimmers. And one is fragile, shrouded in interpretative secrets that enhance individuality, while a few centimetres from one's own person others seem to be filled with similar tremors. On a small stage, eleven people had the ability to bring pop closer to classical music, to annul any distances to enhance the warmth, the colour of the notes and tune the passion within a densely visited circuit, and not by chance. Aaron's voice, much more attentive than last week's, scratched, made tumult known, splitting veins and vertebrae thanks to a deadly intensity: as if he had crouched down in his own intimacy and decided to let it drop into the microphone. Tuned to the gravelly tones of seven musicians perennially in a state of grace, seriousness, and even responsibility, the frontman slid his uvula across the carpet of vibrations so strung together that there was a single lump in his throat for the duration of the concert.

The release to weeping, to yearning was simply impressive and devastating: all the words that we already knew by heart, and that perhaps we had the presumption of having understood, this evening were able to teach us new elements, knocking us to the ground, into chaos, into joy, into the embrace between the black and white of a starry sky inside the Canvas. The drumming this evening, thanks to long pauses, was remarkably effective, perfect, even enhancing the bass, for an ensemble that made the interpretation illuminating: it was like this for every song played together. Then, all of a sudden, Aaron was alone with the ensemble, and it was like taking a warm punch in the chill of the Mancunian night. The slow, dense, phosphorescent energy came out of the amplifiers to kiss our inertia, our stillness, to produce a different crash in our perceptions. The chains, those mentioned in Know The Day Will Come, have fallen on our skin, like a generous liberating act: sometimes in contradictions pacts of infinite wisdom are established... In the new prison, the wings of coveted freedom found themselves resized, teaching, releasing enthusiasm as tears wet the floor. Four of the six songs, which had been released six years ago, after the first contact between the band and the ensemble, were re-proposed but also modified, caressed and kissed by a new idea, through an expressive 'liveliness' that gave them even more of an impression of extended drama.
The lights conveyed the rare ability to connect with the notes: a fact that impressed the Old Scribe, who did not give up closing his eyes to fly, with precision, into a state of absorption that was more necessary than ever. Time seemed like a speleologist launched into the crater of the pieces to bring out fragments of continuous wonder, with amazement running through his veins with no will to stop. The audience, enthusiastic and inebriated, was once again able to legitimise their love and bring it into the space of a memory where they can knock often: evenings like these don't happen often. An experience that also highlights the Manchester band's confidence in letting someone, externally, put a lamp in the belly of these jewels: if perfection exists, it should be sought in others and the four have amply demonstrated this. Struggle, self-denial, the limit and its opposite have established a rain of tears and reflections that have generated paralysis and at the same time a 'strange' joy: words like messages frankly glued to notes that have changed clothes have managed to open wide the range of our antennae, giving us the map of new truths. There was no shortage of smiles: during the performance of Grace of God Aaron fell into hesitation, with the support of the adoring audience, ending in a rhythmic applause that conveyed an incandescent emotion: where there is error, there is also support...

Everything I Own, Sacred Song, Grace of God, Afterlife and All the Idols were the most spectacular moments of the evening, with Block Out The Sun watching from above. But undeniable was the quality of the entire concert, a dense and generous heap that spanned the discography, bringing out even more of its beauty, its strength, its intensity to make precise the sense of devoted belonging to the band. Joe's work is worthy of a Nobel Prize for emotional literature, for handing Aaron the sceptre of an unbridled but respectful angel, and for allowing his boys to leave an incredible tattoo depicting art at its highest level on that stage: history has a date, a direction and an enchantment that will forever make those chains free to be felt as the wings of our best dreams...

Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford, England
2 December 2023



martedì 28 novembre 2023

La mia Recensione: Umberto Maria Giardini - Mondo e antimondo


Umberto Maria Giardini - Mondo e antimondo

Non ci restano che i miracoli per poter ambire alla salvezza e alla soddisfazione, alla realizzazione di se stessi, a trovare un senso che trasformi il superfluo in un motore che generi petali profumati. Esiste ancora la fortuna da cui attingere energia e spunto, il salvagente che permette di nuotare nello spasmo allucinante della vita. Se volgiamo lo sguardo all’ambito musicale, troviamo un’anima complice del suo tempo, perfettamente integrata in un rapporto con la Natura, come modalità che rifiuta il completo incrocio con il fare umano, godendo di ogni frammento che la sollevi e la lanci in un mantra spirituale. Il suo nome è Umberto Maria Giardini, tornato a deliziare senza avere in sé gioie e sorrisi da dispensare, aperto nel chiuso dei suoi pensieri, dei suoi atti che hanno la pelle rivestita di note e di racconti, ma non permettendo mai di riuscire a definire il mappamondo su cui lui poggia i piedi. Un album che tatua il suo disincanto per le vicende terrene, spaziando nei secoli con personaggi che raccontano le incapacità, gli squilibri, donando la sua sfiducia (ma solo in parte) per un sistema espressivo (quello artistico) che probabilmente lo lascia perlomeno perplesso. Nelle canzoni però esiste un cuore pulsante, una mente lucida che si adopera ancora per non arrendersi. Che sia vero o meno poco importa: come sempre l’artista di Sant’Elpidio al mare non si è risparmiato con la sua operosa generosità, descrivendo, considerando, spargendo semi di incantevole poesia, per offrire una finestra, una palestra, un moto che per alcuni minuti sa essere folgore nel fragore di ogni nostra fragilità. I suoni sono elettrici, svegli, densi, ma sempre affiancati da un manto acustico che buca il cuore, spiazza e inibisce, dolcemente. Perché davvero si ha la sensazione che UMG abbia scritto una serie di addii, che si sia congedato dalla fiducia, abbia rilevato storture e incapacità, ma sempre con una scrittura piena di immagini che non mancano di mostrare la presenza del compositore, o di offrire un’alternativa consolatoria. Ed è ancora l’amore che innaffia il suo orto vitale, come un guscio che fugge dal suo interno per cercare spazio nel cielo. Non un correre via, bensì un camminare tra una serie di sponde che rimbalzano per non far assentare l’armonia di una mente brillante che scrive la vita concentrandosi sul presente, senza distrazioni temporali. Con il supporto di una vera band il disco amplia il raggio di azione della sua scrittura, non legata al nostalgico passato o totalmente devota alle sue preferenze musicali, ma avvertendo la necessità di esplorare orizzonti nuovi, senza però far mancare quell’indole intimista che lo ha sempre contraddistinto. Lui cammina nell’immaginazione e i suoi spartiti sono veicoli di armonici respiri che spesso si posizionano in paesi lontani da quello italiano. Quando la psichedelia si accoppia al folk, Umberto diventa un mago con il cappello di lana all’interno della foresta nera in Germania, intento a fare degli accordi e degli arrangiamenti una serie di pozioni magiche che servono a restaurare la percezione del tempo e dei luoghi. Questo nomade dell’amore scrive un arcobaleno e lo soffia via lontano (come gesto convinto e necessario), partendo dai circuiti della sua profonda intenzione di non dare troppa fiducia alla musica, ma regalando l’ennesimo suo palazzo mentale dentro il fruscio della straziante abilità di dare alla dolcezza ancora una chance. Ed è così che si manifestano incontri dove i suoi confini si fanno molteplici per definire il mondo e il suo opposto, in una forza fisica in cui il bilanciamento propende decisamente da una parte. Si interroga, in un dialogo fitto con la sua coscienza, e lo fa tra le vie di versi che, apparentemente dorati e lucenti, nascondono una vibrazione amara che permea quasi interamente l’album. Fa oscillare il ritmo, il rock è nell’aria senza dover necessariamente scuoterla, dal momento che le favole hanno sempre bisogno di musiche quasi mute. I suoi occhi impastano elementi facendoli scivolare tra le dita per poi giungere alla sua chitarra. Combinare testi e musica facendo sì che non si disperda nulla è una dote rara: Umberto ci riesce in quanto pilota ogni cosa con idee chiare, scrivendo dieci ali che si alzano al cielo per portare il contenuto al sole, per sciogliere ogni velleità e far morire il tutto tra le sue braccia. Perché davvero sono canzoni con il timer: le devi imparare in fretta, in quanto puoi temere che si dissolvano da qualche parte e in qualsiasi momento.
Sono carezze e sberle.
Come un magnete in un giorno di tempesta ti ritrovi a notare i suoi momenti critici con riferimenti elevati, la tendenza a fare della sua voce il termometro di un sentire sempre più in difficoltà. Ma la classe, il talento lo sostengono per non essere un cattivo esempio. Ecco allora uscire dalla sua penna ventagli di luce a irrorare il cervello.
Mostra i muscoli che non sono inclini a generare terremoti, bensì fiumi di percezioni per poterci far vedere come la storia umana non abbia mai cessato di essere mediocre e approssimativa: dagli imperatori ai giorni nostri, dai barbari alle vette fisiche e mentali, tutto è scomposto e non predisposto alla serenità. Sono le chitarre ad anticipare soprattutto il basso e la batteria, ma capaci di un matrimonio sonoro che dia l’impressione che vi sia un involucro dentro il battito di ciglia di parole che guardano in faccia il pudore, rendendolo timido e insicuro. Giardini investe nell’espressione dell’errore, educa per primo se stesso ad andare oltre la tolleranza, scrivendo il destino dei suoi pensieri perché abbiano sempre gli occhi aperti e concede al sonno di non mutare questa sua abilità.
Mondo e antimondo è un acrobatico volo nelle sterpaglie, nei sentieri della storia, uno smistare, continuamente, parole e musica verso il baricentro impolverato di questo affanno quotidiano. I rapporti umani che lui racconta sono complicità multiple con la forza di una bomba atomica ingentilita ma sempre interessata a scuotere, con garbo e delicata educazione.
L’amarezza, il pessimismo, la preoccupazione per le sorti del nostro pianeta non sono svelati o sbandierati, ma sembrano insinuarsi tra le canzoni, con il risultato di un cerchio carismatico ma complesso. La cura è verso il senso, coinvolgendo i dettagli in un percorso che ingloba come una prolungata apnea: la sua voce è il respiro forte di ogni debolezza mostrata, riuscendo a scrivere un album che abbraccia la fede senza invocarla, una smisurata preghiera nel tintinnio degli affanni.
Ora è tempo di nuotare nelle pozzanghere ben vestite di queste estasianti manifestazioni di forza, per poter addolcire il cuore e l’anima…

Song by Song

1 - Re

La preghiera delle zolle, dove tutto viene diviso, selezionato, è quella che consente di iniziare il nuovo album di UMG. Una sonda che esalta e riporta al centro delle pupille la natura e il percorso umano fatto di dominio e cancellazione di una distanza che è stata cambiata. Robusta e malinconica, prende energia dalla corrente della Manica per portarci le illuminazioni dalla terra di Albione, nel pieno degli anni Novanta. Le campane iniziali ci fanno immaginare la vita delle campagne, il sudore, lo sforzo, la chiamata alla spiritualità che passa attraverso i gesti di chi si china verso la terra. Così fa la musica: muove la mente per farla oscillare in una semi-danza, dove la variante è data dall’emozione delle parole che si incrociano con un arpeggio davvero magnetico…

2 - Miracoli Ad Alta Quota

Continua il viaggio della ricerca delle piccole cose davanti alla grandezza dei confini del mondo, salendo verso l’alto con il rischio di cadere. Per farlo, la musica si fa gentile, con un inizio che strizza l’occhio al folk degli anni Sessanta, per coniugarsi poi con un mantello elettrico che sussurra, mai grida, attraverso piccoli tocchi della sei corde. Il cantato assomiglia all’invocazione degli occhi che reclamano spazi solidi e concreti. Quello che aveva creato come Moltheni qui echeggia, sollevando lembi di pelle, facendo illuminare gli occhi, nell’abbandono necessario, con il tempo che mette le sue mani sulle nostre spalle…

3 - Andromeda

Petali di hard-rock e grunge avanzano sulla superficie sonora, rivelando l’amore dell’artista per i giochi d’atmosfera, il dondolare tra una parte più spinta e una più intima, come se i Soundgarden e Mina si incontrassero per fare colazione insieme. Abile nell’usare bene le disgrazie di Andromeda per compararle a quelle dei giorni nostri, Umberto crea la sua macchina del tempo e mette a bordo una storia d’amore che commuove…

4 - La Notte

Immagina Imagine di John Lennon lasciata davanti alla porta di una storia argentata da una scia del vento: Umberto rende rarefatti i suoni per poi aggiungere del catrame, tra i colpi della chitarra elettrica e un drumming semplice dai suoni perfetti, e la sensazione che durante l’ascolto si stia levitando. La partecipazione della crescita di anime in cammino conduce alla consapevolezza: così fanno le note, per un arcobaleno che pare giungere dalla scena cantautorale genovese degli anni Sessanta, come se tutto fosse su una nuvola e l’autore con dolcezza le avvicinasse alle sue pupille. Il solo di chitarra, grigio e malinconico, è la ciliegina sulla torta di una ballad senza tempo…

5 - Le Tue Mani (feat. Cristiano Godano)

L’amore, nella sua fisicità più profonda e ermetica, viene portato all’interno della storia che vede la voce calda e sognante di Cristiano Godano: una bella sorpresa, per un connubio artistico perfetto, data la vicinanza della sensibilità dei due artisti italiani. Presenze e assenze si palesano nel ventre di un testo notevole, con il pentagramma che assorbe una linea melodica che bacia in modo sublime sia la carriera del leader dei Marlene Kuntz che quella di Umberto. Con la stessa sensibilità dei Low e dei Grant Lee Buffalo, il brano circumnaviga la complessità del sentimento più sussurrato del mondo, e stabilisce, all’interno dell’album, che la chiarezza degli intenti passa anche attraverso questa notevole, e mai creduta possibile, novità.

6 - Versus Minorenne

L’alternative apre le braccia di tutti i musicisti coinvolti, per poi divenire una candela dalla luce bassa, che scalda le volontà delle richieste. La voce di Umberto è una frusta, dolce e gentile, che arriva al falsetto sognante, per poi immergersi tra le parole che ancora una volta avvicinano la natura di un bosco al cuore. Con tracce psichedeliche appena sussurrate, il brano rivela ancora una volta come la potenza del cantato non si separi mai da una coscienza lucida, che annette la ragione alla passione…

7 - Nei Giardini Tuoi

Le prime note della chitarra acustica ci riportano all’album di esordio dei Counting Crows: sono scenari che sembrano far vedere una lingua d’asfalto all’interno di un deserto. Poi i Radiohead soffiano note sui palmi delle mani di Umberto, in un'espressione artistica colma di dolcezza e amarezza, nel dondolio della chitarra elettrica che rende l’atmosfera un sogno sulla schiena delle emozioni più vibranti. Tutto qui è uno sguardo, un addio, che rasenta la perfezione con il finale molto vicino agli Smiths…

8 - Muro Contro Muro

Le lacrime si appoggiano sul fazzoletto, un groppo in gola diventa un sordo tuffo al cuore, e ci si ritrova tra le note del pianoforte e quella della chitarra, che si spalleggiano, per consentire alle parole di planare senza esitazione all’interno di una canzone che rivela tutta la sensibilità di Giardini, che qui dipinge verità puntando i fari negli occhi, creando fatica nell’interpretazione, riuscendo a sbigottire, a lasciare una suspense perfida ma magnifica. Il tempo è un crocevia che consegna la volontà di non rinunciare al dolore, se questo significa poter partecipare a un peccato. Il brano più struggente di quest’opera, che abbisogna di una estrema capacità di separare la storia raccontata da quella nostra. Semplicemente la summa di tutta la sua carriera…

9 - Figlia Del Corteo

L’inizio è una confessione amara, un raggio sbiadito dalla consapevolezza di un’autoanalisi severa, mentre la musica è invece una culla che sembra voler far addormentare le ragioni espresse. La parte strumentale, accompagnata da una chitarra che si accinge a separare la realtà dal sogno, è uno schiaffo lento, con gli archi che gonfiano la pelle di acqua salata. Poi il tintinnio della sei corde elettrica ci porta all’interno di un Dream-pop rarefatto, che chiude questo dolore che ha conosciuto la vergogna, per divenire il pezzo con il quale fare di Umberto un rifugio personale…

10 - Mondo e Antimondo

La coscienza interroga chiunque, in quest’ultimo, strepitoso brano, per donare un ventaglio di risposte che siano colme di idee concrete. Una suite divisa in due parti, dove la prima è una favola lenta, raccontata con un vestito che miscela elettronica e psichedelia, per poi sbocciare nella seconda in una ballad piena di sussurri e spasmi, contenuti in un giro di accordi minimalisti e sostenuti da un arpeggio essenziale, rivelando poi la voce come una lama che assomiglia alla vanga del brano di apertura: sono brividi incolonnati, senza sosta. Il titolo fa presupporre opposti che si guardano in faccia, ma la canzone che dà il nome all’album è un congedo dal sogno, un lungo assolo di fasci amari lasciati marcire, con classe, dentro una nuvola musicale che assorbe lacrime e disincanto. Un mantra, una preghiera pagana, un sussurro senza fine, chiude un’opera devastante: non c’è bellezza senza dolore e nessuno meglio di Umberto sa come renderlo concreto…

Miglior Album Italiano del 2023.


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford, Inghilterra
29 Novembre 2023

L'album uscirà il primo giorno di dicembre del 2023

Potete ascoltarlo qui:


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domenica 26 novembre 2023

My Review: HUIR - VITAL


 HUIR - VITAL

In the imaginary prairie of constantly moving skills, someone enters from the real world, debuting with an invitation to use the negative aspects of existence, those ones you would most like to avoid. They are two brave pirates from Barcelona (Spain), careful to bring their depth of intentions inside a sound circuit that knows how to mix shadows and light, managing to make us dance, visiting musical genres that seem to be one: a sweet, powerful, cunning miracle, revealing impressive intentions on the part of those who find themselves in front of their first release. Fully integrated in the artistic mode of their label (Cold Transmission Music), this combo seem to have the grace to write a jewel that piques curiosity while, at the same time, immediately unleashing the senses towards a wonderful dark joy. The few notes of the guitar reveal the darkwave approach, the atmosphere seems to visit an electronic temperament with elegant splashes of synth-pop that give fluidity and a strange, peculiar joy, imbued with small claws. Ana Of The Head's vocals and singing is a caress that takes us back to that gothic intimacy of the early 1980s: soft but, with the words coming out of her uvula, she is able to offer chills that shake the soul. For his part, David Solazo is a naval engineer who carries his creature through the night moving waves with great skill. Half-hidden seeds of a melancholic coldwave seem to rise to the sky, especially when the guitar is absent and Ana seems to be left alone: an interesting conjunction of different styles find a way to increase the emotional load of the writing. The production is entrusted to a well-known magician, that Maurizio Baggio who knows perfectly well how to enrich the artists' abilities for a result that is evident: knowing how to be subjugated with infinite class in the hundred and ninety-five seconds of the song, while one has the impression of being inside a mental circuit in the midst of its reflections. The mystery, the light, the rhythm, the intentions aimed at a work of mystical seduction make this song a hopeful embrace towards the EP coming next year. They succeed in their intention to make us enjoy our lives, and they do so by throwing us into the open-air track of an ocean that will bring this flame to illuminate a new part of all of us. Simply succeed in this intention and we can welcome a new, seductive and capable artistic couple.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford, England

26th November 2023

https://huirbanda.bandcamp.com/track/vital

La mia Recensione: HUIR - VITAL


HUIR - VITAL

Nella prateria immaginaria di abilità in costante movimento, qualcuno si inserisce dal mondo reale, debuttando con un invito ad adoperare gli aspetti negativi dell’esistenza, quelli che maggiormente si vorrebbero evitare. Sono due pirati coraggiosi, provenienti da Barcellona (Spagna), attenti a portare la loro profondità di intenti all’interno di un circuito sonoro che sa miscelare ombre e luci riuscendo a farci danzare, visitando generi musicali che sembrano uno solo: un miracolo dolce, potente, astuto, svelando intenzioni impressionanti da parte di chi si trova davanti alla prima pubblicazione. Del tutto integrati nella modalità artistica della loro label (Cold Transmission Music), questo combo pare avere la grazia di scrivere un gioiello che stuzzica la curiosità mentre, al contempo, scatena immediatamente i sensi verso una meravigliosa gioia cupa. Le poche note della chitarra rivelano l’approccio darkwave, l’atmosfera pare visitare un’indole elettronica con spruzzate eleganti di synth-pop che regalano scorrevolezza e una gioia strana, particolare, imbevuta di piccoli artigli. La voce e il cantato di Ana Of The Head è una carezza che ci riporta a quella intimità gotica dei primi anni Ottanta: soffice ma, con le parole che escono dalla sua ugola, è in grado di offrire brividi che scuotono l’anima. Dal canto suo, David Solazo è un ingegnere navale che porta la sua creatura in mezzo alle onde notturne spostando le onde con grande maestria. Semi seminascosti di una coldwave malinconica sembrano salire al cielo soprattutto quando la chitarra si assenta e Ana pare rimanere sola: una interessante congiunzione di stili diversi trovano il modo di aumentare il carico emotivo della scrittura. La produzione è affidata a un mago noto, quel Maurizio Baggio che conosce perfettamente il modo di arricchire le capacità degli artisti per un risultato che è evidente: saper essere soggiogati con infinita classe nei centonovantacinque secondi del brano, mentre si ha l’impressione di trovarsi all’interno di un circuito mentale nel pieno delle sue riflessioni. Il mistero, la luce, il ritmo, le intenzioni volte a un lavoro di seduzione mistica fanno di questa canzone un abbraccio speranzoso verso l’EP in arrivo nel prossimo anno. Riescono nell’intento di farci godere delle nostre esistenze e lo fanno buttandoci dentro la pista a cielo aperto di un oceano che porterà questa fiamma a illuminare una nuova parte di tutti noi. Semplicemente riuscita questa intenzione e possiamo dare il benvenuto a una nuova, seducente e capace, coppia artistica.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford,

26 Novembre 2023

https://huirbanda.bandcamp.com/track/vital

mercoledì 22 novembre 2023

La mia Recensione: JOY/DISASTER - HYPNAGOGY


 JOY/DISASTER - HYPNAGOGIA


Dio mio: quanta bellezza, quanta ricchezza…

Il vento delle mancanze e delle approssimazioni viene spazzato via da una rosa cilindrica contenente undici esplosioni emotive che fanno aggrovigliare lo stomaco e sublimano i sensi, in una corsa dove tutto viene lasciato alle spalle, con il futuro che si appresta a benedire questa fluorescenza piena di artigli e deliziosi pugni in volto. Tutto accade grazie a una formazione che da tempo semina prodezze e che con l’ultimo lavoro HYPNAGOGIA raggiunge la perfezione artistica, senza sbavature, offrendo un campionario artistico di enormi dimensioni, vuoi per il contenuto, vuoi per la forma, perché in entrambe le situazioni il loro ventaglio è solido e allontana ogni dubbio e incertezza in chi potrebbe essere scettico. Invece la freschezza, la possenza della struttura, le diramazioni, la vivacità con la quale il nero e il grigio si approcciano al sole della vita fanno spalancare la bocca: ci sono prodigi che vanno sostenuti ed è questo che bisogna fare. Compie diciotto anni la band di Nancy ed è proprio il caso di dire che con la maggiore età questi uomini, che baciano la vita con in bocca ortiche, rovi e rose blu, hanno conquistato una maturità avvolgente, spiazzante, attraverso un mare agitato di frecce, con i suoni che raccontano ancora prima dei riff e della successione degli accordi e delle trame melodiche.
Sin dal roccioso esordio, nel lontano 2006, con JD, il Vecchio Scriba ha visto espresse le doti di un insieme poliedrico, tagliente, capace di fiondarsi nei terreni della ricerca per poter governare i palpiti di una molteplice necessità di esprimere esigenze che dovevano emergere. Con il successivo Paranoia tutto era chiaro: la calamita era stata depositata per sempre nel nostro cuore. E poi un crescendo senza possibilità di arresto…
Ma veniamo a questo ultimo sussulto, il nuovo lavoro, che rimarrà per sempre nel bacino di ogni desiderio.
Impressiona la profonda partecipazione al delirio umano senza che la band rischi di sporcare l’anima: l’impresa è quella di entrare nella realtà e non di osservarla da lontano, rendendo il tutto credibile, per un gioco sensuale di umori, odori, descrizione della psiche umana che rende esterrefatti. Inclini all’indole Post-Punk sin dagli esordi, indossano la fluida veste di un Guitar Rock che avvolge la sezione ritmica per esaltare, attraverso incastri continui, il loro intuito e desiderio di completare ciò che un unico genere musicale non consente di fare. Ecco, allora, una musica che graffia, assorbe, reclama ascolti attraverso incantevoli fraseggi, peripezie umorali, seminando detriti maniacali intensi, destrutturando la convinzione che si sia già detto tutto. Robusta è l’opposizione da parte loro, ed è un’azione compiuta attraverso un martellamento ritmico e melodico, che inghiotte ogni ritrosia e sviluppa l’oceano di riflessioni che si impastano alle lacrime.
La determinazione nel trovare uno stile ed erudire la nostra ignoranza è un satellite sanguigno, privo di veleni ma denso, come una lingua d’asfalto. Per fare questo, ogni singolo brano favorisce il perfetto abbraccio tra melodie gonfie di spine e ritmi che evidenziano una concreta abilità nel prendere distanze da chi alimenterà paragoni e rimembranze. Loro scartano, con grande orgoglio, questo rischio e tracciano il cielo musicale con traiettorie colme di novità, senza negare un impianto storico che ha suggerito ma non determinato la modalità espressiva.
Il maggior artefice di tutto questo ben di Dio è Nicolas ROHR, un illuminista della gravità pulsionale, il mago francese che incide sul pentagramma con una chiave di violino posizionata sul cuore. E, quando le sillabe escono dalla sua gola, si precipita nel cuore di ogni tensione nervosa… Sebastien MASSUL è il pilota del ritmo, dalle bacchette fosforescenti e le braccia possenti, ma melodiche quando occorre, per dare alla batteria un ruolo poetico e robusto. Simon BONNAFOUS è la seconda chitarra della band, un angelo dal mantello pieno di gocce di sangue che distribuisce pugni gentili. Soupa RUNDSTADLER è un magnete delle quattro corde, capace di rendere la terra un sisma continuo, e i suoi colpi sono frustate che rendono la pelle un brivido continuo.
Come una sala operatoria nella quale l’intervento consiste nell’estirpare il cancro, così i quattro artificieri francesi si accaniscono sul corpo esanime della vita per eliminare quintali di sporcizia: intervengono con la mano ferma, decisa, scartavetrando tutte le impurità, per restituire dignità e sollievo. Queste canzoni sono terapeutiche, rovistano nella storia umana e proiettano i loro talenti dentro le nostre vene. Il cantato, in inglese, è sicuro, i testi scritti bene e la modalità vocale è uno specchio, preciso, di come i pensieri e i sentimenti possano stabilire un’unione perfetta.
Tutto è solidale, convinto, come un matrimonio buio che si inoltra nelle viscere dei comportamenti: le liriche sono spavalde, dirette, concentrano l’esperienza umana dove la paura non è permessa ma la toccano, riuscendo nell’impresa di uscire vincitori. I rapporti umani sono pieni di descrizioni nelle quali sogni e promesse sono un tappeto di guai che loro tendono a compattare verso uno scioglimento liquido, riportando la verità di ogni mediocrità davanti a uno specchio che suda e trema.
L’energia che producono è un regalo divino, che scuote ma al contempo indirizza a utilizzare meglio il tempo che si ha a disposizione, perché sono riusciti a dare una lezione a migliaia di band fossilizzate su pochi, spenti, boriosi schemi, rinfrescando la musica tutta: non disperdete questo miracolo possente. Ora è tempo di navigare dentro queste alghe infettate di bellezza irresistibile…

Song by Song

1 - Celebrate

Celebriamo, eccome se lo facciamo, la canzone che apre l’album: su un inizialmente lento e malinconico avvio, i quattro riescono poi a fomentare gli animi e a lanciare, progressivamente (grazie a un basso insanguinato), il tutto dentro un riff ipnotico e il cantato melodico ma baritonale. Il testo è una funzionale invettiva contro un interlocutore che spreca il suo regno, nel tempo del cambiamento che soffoca ogni sogno. L’assolo è ruggine che esplode e il drumming una fucilata…

2 - Fear

Struggente esibizione di una relazione in fase decadente, tutto viene orchestrato per essere un mantra tribale, con la volontà di dare all’indie rock la possibilità di flirtare con il post-punk. Le lacrime raccolte nelle ombre celebrano il coraggio di un brano che esercita una fascinazione continua, con il dualismo energetico di chitarre che spavaldamente rendono queste emozioni come un’anguilla che sfugge alla morte…

3 - Nowhere

La ballad che uccide la verità: quando tutto ciò che si scopre fa affondare l’entusiasmo. Un testo drammatico trova la giusta cornice sonora, per un combo che grattugia ogni velleità, sino a quando la chitarra solista si butta sull’oceano del dolore. Compatta, esibisce una teatralità che rimanda agli umori del primo post-punk, con una scia di morte che spezza gli occhi: siano lacrime preziose…

4 - Sorrow

Si può descrivere un fallimento non proiettando il tutto nel fango della lentezza? I Joy/Disaster ci riescono, con un arpeggio straziante, la ritmica che schiaffeggia i sensi e un ritornello che è una corona di spine. Decadente, elettrizzante, melodica, spoglia ogni capriccio in un pulsare dalle sembianze gotiche, dove però il basso e la batteria ci riportano in un rock che pulsa vita. La canzone che rivela l’ampiezza delle loro abilità.

5 - Whispering to the wall

La fragilità e la pochevolezza umana vengono inchiodate da queste iniziali note suonate da un piano pieno di dolore, poi il brano concede al cantato il palcoscenico per un resoconto amaro ma veritiero. Cupa, tenebrosa, metallica (in quanto tutto ha la parvenza di un uppercut sferrato contro i nostri desideri), la composizione offre il lato migliore di quella lunga fila di band che negli anni Novanta cercavano di riportare la darkwave e il post-punk nel piano della necessità. Qui, i quattro, fanno molto meglio: ossigenano il presente con la loro malinconia e saggezza. Un altro chiodo nella testa…

6 - In the end

Con la stessa classe dei Madrugada, il combo francese scrive un trattato di saggezza, con l’esperienza di dover comparare il reale al sogno, per scrivere un finale diverso. Lenta, capace di essere ossessiva con chitarre quasi nascoste ma che poi, in modo sublime, accompagnano Nicolas in un ritornello che è una scossa elettrica piena di aghi e spine…

7 - Changes

Il tempo, che stagna e non cambia, viene circondato da parole e note musicali che fanno intendere quanto la band sia incline a tenere il piede sull'acceleratore ma con gli occhi attenti. Un sali e scendi, dove il ritmo cambia, rovista tra le nostre gambe, per lanciarci in una danza scomposta, come marionette stordite da cotanta forza in evoluzione…

8 - Wiping tears

Demoni e desideri vivono nello stesso giardino: i quattro alzano il ritmo, riempiono i cannoni e lanciano una bomba, senza aver paura, per sorpassare la mediocrità e scrivere un nuovo, roboante trattato di sudore e verità. Il drumming e il basso sono pistoleri infuocati e desiderosi di fare una strage, le chitarre sono attori dal copione meraviglioso e incandescente e il cantato la ciliegina sulla torta infetta…

9 - Promise

Prendi i Franz Ferdinand e rendili ermetici e trascinanti in una danza piena di spettri: un teatro che si approccia al cabaret, con il ritmo che favorisce il tuffo dentro il vuoto. Semplicemente incantevole, con un corollario gotico che si intravede, per un ascolto che rende le nostre gambe delle ali dorate…

10 - Secrets

Dio mio: quanta bellezza, quanta ricchezza… Tutto dipende dalle decisioni e i Joy/Disaster estendono il discorso in un percorso vitaminico, robusto, lisergico, atomico, rovente, dove alla fine dell’ascolto tutto brucia dentro… Non è presente la negatività, ma l’amarezza dell’esistenza che gonfia le note e rende i nostri occhi fiumi di lacrime in stato gassoso…


11 - Into a dream

L’aspetto onirico ha quasi sempre trovato adesione nelle ballads, in flussi dolci che circondano la poesia. Nell’ultimo brano di questo album pieno di gioielli, invece, si assiste a una esibizione di robusta capacità volta a trasformare il soggetto in un incantevole arpeggio elettrico. Il tutto viene sostenuto da una melodia capace di sbatterci in faccia una serie di parole che, come le note presenti, compattano il bisogno di un addio cosciente di una nuova allucinante dipendenza: come le altre dieci, pure questa canzone sequestra e scarica la sua adrenalina nei nostri inebetiti ascolti…

Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
23 Novembre 2023

https://joy-disaster.bandcamp.com/album/hypnagogia

My Review: JOY/DISASTER - HYPNAGOGY


 

JOY/DISASTER - HYPNAGOGY

My God: how beautiful, how rich...

The wind of shortcomings and approximations is blown away by a cylindrical rose containing eleven emotional explosions that tangle the stomach and sublimate the senses, in a rush where everything is left behind, with the future about to bless this fluorescence full of claws and delicious punches in the face. It all happens thanks to a line-up that has been sowing prowess for some time now, and with their latest work HYPNAGOGIA achieves artistic perfection, without smearing, offering an artistic sampler of enormous dimensions, both in terms of content and form, because in both situations their range is solid and banishes all doubt and uncertainty in those who might be sceptical. Instead, the freshness, the power of the structure, the branches, the liveliness with which black and grey approach the sun of life make one's mouth open wide: there are prodigies that must be supported and this is what must be done. It is eighteenth birthday of the band from Nancy (France), and it must be said that with their coming of age these men, who kiss life with nettles, brambles and blue roses in their mouths, have conquered an enveloping, disorienting maturity, through a churning sea of arrows, with sounds that tell even before the riffs and the succession of chords and melodic textures.
Ever since the rocky debut, back in 2006, with JD, the Old Scribe has seen expressed the talents of a multifaceted, edgy ensemble, capable of slinging itself into the terrain of research in order to govern the throbbing needs that had to emerge. With the subsequent Paranoia everything was clear: the magnet had been deposited forever in our hearts. And then a crescendo with no possibility of stopping.... But let us come to this last gasp, the new work, which will forever remain in the pool of every desire.
What is impressive is the band's deep participation in human delirium without the risk of soiling the soul: the feat is to enter reality and not observe it from afar, making it all believable, for a sensual play of moods, smells, and descriptions of the human psyche that astounds. Inclined to the Post-Punk temperament from the outset, they wear the fluid guise of a Guitar Rock that envelops the rhythm section to enhance, through continuous interlocking, their intuition and desire to complete what a single musical genre does not allow. Here, then, is music that scratches, absorbs, claims listeners through enchanting phrasing, moody vicissitudes, sowing intense manic debris, deconstructing the conviction that everything has already been said. Robust is the opposition on their part, and it is an action accomplished through rhythmic and melodic pounding, which swallows up any reluctance and develops the ocean of reflections that knead to tears. The determination to find a style and erudite our ignorance is a sanguine satellite, devoid of poisons but dense, like a tongue of asphalt. To do this, every single track favours the perfect embrace between thorny melodies and rhythms that show a concrete ability to distance themselves from those who feed comparisons and reminiscences. They discard, with great pride, this risk and trace the musical sky with trajectories full of novelty, without denying a historical framework that has suggested but not determined the mode of expression.
The greatest creator of all this goodness is Nicolas ROHR, an illuminist of pulsional gravity, the French magician who engraves on the staff with a treble clef placed over his heart. And, when the syllables come out of his throat, he rushes into the heart of every nervous tension... Sebastien MASSUL is the pilot of rhythm, with phosphorescent sticks and powerful arms, but melodic when necessary, to give the drums a poetic and robust role. Simon BONNAFOUS is the band's second guitarist, an angel with a cloak full of drops of blood who delivers gentle punches. Soupa RUNDSTADLER is a four-string magnet, capable of making the earth a continuous earthquake, and his blows are lashings that make the skin a continuous shiver. Like an operating theatre in which the surgery consists of extirpating cancer, so the four French artificers pounce on the lifeless body of life to remove tons of dirt: they intervene with a firm, decisive hand, scraping away all the impurities, to restore dignity and relief. These songs are therapeutic, rummaging through human history and projecting their talents into our veins. The singing, in English, is confident, the lyrics well written and the vocal mode is a mirror, precise, of how thoughts and feelings can establish a perfect union.
Everything is supportive, convinced, like a dark marriage that penetrates into the bowels of behaviour: the lyrics are swaggering, direct, they focus on the human experience where fear is not allowed but touches it, succeeding in the feat of coming out on top. Human relationships are full of descriptions in which dreams and promises are a carpet of troubles that they tend to compact towards a liquid dissolution, bringing the truth of all mediocrity before a mirror that sweats and trembles. The energy they produce is a divine gift, which shakes you up but at the same time directs you to make better use of your time, because they have succeeded in teaching a lesson to thousands of bands fossilised on a few, dull, bilious schemes, refreshing all music: don't disperse this mighty miracle. Now it's time to navigate through this seaweed infected with irresistible beauty...


Song by Song

1 - Celebrate

Celebrate, of course we do, the song that opens the album: on an initially slow and melancholic start, the four then manage to stir the spirits and launch, progressively (thanks to a bloody bass), the whole thing into a hypnotic riff and melodic but baritone singing. The lyrics are a functional invective against an interlocutor wasting his kingdom, in the time of change that stifles every dream. The solo is exploding rust and the drumming a shotgun blast...

2 - Fear

A poignant display of a decaying relationship, everything is orchestrated to be a tribal mantra, with a willingness to give indie rock a chance to flirt with post-punk. Tears gathered in the shadows celebrate the courage of a song that exerts a continuous fascination, with the energetic duality of guitars that swaggeringly render these emotions like an eel escaping death...

3 - Nowhere

The ballad that kills the truth: when all that is revealed sinks the enthusiasm. Dramatic lyrics find the right sonic backdrop for a combo that grates all vagueness, until the lead guitar plunges over the ocean of pain. Compact, it exhibits a theatricality reminiscent of the moods of early post-punk, with an eye-breaking trail of death: let there be precious tears...

4 - Sorrow

Can one describe failure without projecting it into the mire of slowness? Joy/Disaster succeed, with a harrowing arpeggio, a rhythm that slaps the senses and a refrain that is a crown of thorns. Decadent, electrifying, melodic, it strips away all whimsy in a gothic-sounding pulse, where, however, the bass and drums bring us back to a rock that pulses with life. The song that reveals the breadth of their abilities.

5 - Whispering to the wall

Human frailty and meanness are nailed by these initial notes played by a piano full of pain, then the song gives the stage to the singing for a bitter but truthful account. Dark, gloomy, metallic (in that it has all the semblance of an uppercut thrown at our desires), the composition offers the best side of that long line of bands that tried to bring darkwave and post-punk back into the plane of necessity in the 1990s. Here, the four do much better: they oxygenate the present with their melancholy and wisdom. Another nail in the head...

6 - In the end

With the same class as Madrugada, the French combo writes a treatise on wisdom, with the experience of having to compare the real to the dream, to write a different ending. Slow, capable of being obsessive with guitars that are almost hidden but then sublimely accompany Nicolas in a refrain that is an electric shock full of needles and thorns...

7 - Changes

Time, which stagnates and does not change, is surrounded by words and musical notes that make it clear how the band is inclined to keep its foot on the accelerator, but with its eyes open. An up and down, where the rhythm changes, rummaging between our legs, to launch us into a disjointed dance, like puppets stunned by so much evolving force...

8 - Wiping tears

Demons and desires live in the same garden: the four of them raise the tempo, fill the cannons and launch a bomb, fearlessly, to overtake mediocrity and write a new, bombastic treatise of sweat and truth. The drumming and bass are fiery gunslingers eager to make a killing, the guitars are actors with a wonderful, glowing script and the singing the icing on the infectious cake...

9 - Promise

Take Franz Ferdinand and make them hermetic and dragging in a dance full of spectres: a theatre that approaches cabaret, with the rhythm favouring the plunge into the void. Simply enchanting, with a gothic corollary glimpse, for a listen that makes our legs turn into golden wings

10 - Secrets

My God: so much beauty, so much richness... Everything depends on decisions and Joy/Disaster extend the discourse in a vitaminic, robust, lysergic, atomic, scorching path, where at the end of the listening everything burns inside... There is no negativity, but the bitterness of existence that swells the notes and makes our eyes rivers of tears in a gaseous state...


11 - Into a dream

The dreamlike aspect has almost always found adherence in ballads, in gentle flows surrounding poetry. In the last track of this jewel-filled album, however, we witness a display of robust skill in transforming the subject into an enchanting electric arpeggio. The whole is supported by a melody capable of shoving in our faces a series of words that, like the notes present, compact the need for a farewell conscious of a new hallucinating addiction: like the other ten, this song also seizes and unloads its adrenalin in our inebriated listening...

Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford, England
23 November 2023

https://joy-disaster.bandcamp.com/album/hypnagogia

lunedì 20 novembre 2023

La mia Recensione: Ethica - Aether



Ethica - Aether

Prendiamo la mente e portiamola nel ghiacciaio Russo, dove le nuvole sono armonici silenzi in avanzamento, e lo spazio un raccoglitore di trame musicali in cerca di un aeroporto mentale. Il passaporto che ci serve deve testimoniare la nostra capacità di separare la realtà e il circolo polare onirico, con quest'ultimo come unico interesse, il protagonista del nostro impegno. Siamo qui per parlare di una band in grado di fare dei miracoli, pressando la storia e facendola divenire un vasto prato sulla pelle nuda del ghiaccio. Trame intense, ritmi coinvolgenti e chitarre in ascesa sono la base su cui si poggia una voce figlia di angeli incantatori.
Provengono da Niznij Novgorod, una città nel cuore della Russia centrale, e non poteva essere diversamente in quanto tutto vibra all’interno di un organo così bisognoso di attenzioni e le loro creature sonore giungono proprio da lì. Sono pennellate di vivaci interazioni con il dominante trasporto di musiche che cambiano la realtà della gravità, per separarci dalla quotidianità e sedersi accanto al suono. Epicentri shoegaze e dream pop consentono la partecipazione di un pop educato al contenimento, riuscendo però a generare coinvolgimento: una vicenda rara, la sorpresa nel constatare vertici e oscillazioni che si baciano per far diventare queste otto canzoni fiumi celesti. Ciò che fa correre brividi piacevoli è la volontà della band di creare intrecci continui, all’interno di traiettorie stilistiche chiare ma sempre disponibili a non voler limitare per forza il loro lavoro in un genere musicale. E così ci ritroviamo spesso con la sensazione di ascoltare una miriade di riferimenti che paiono voler sfuggire alla riconoscibilità, per trovare il sistema di un'identità diversa e rispettata. Un album intenso, veloce, sognante e profondo, con arpeggi, scatti, scie fluorescenti a farci sorridere, intenerire, danzare per poi consegnarci, come dono regale, la sensazione di aver visto la pioggia divenire una raccolta di baci e abbracci. Se è tangibile la loro propensione a connettere gli anni Novanta ai giorni nostri, altrettanto visibile è la loro fabbrica mentale determinata a cercare accorgimenti (una volta si sarebbe potuto ipotizzare la parola arrangiamenti) per lasciare i brani liberi di seguire pulsioni lontane dai confini restrittivi di stili e generi che soffocherebbero queste pulsioni che non sono per nulla adolescenziali. Il suono svela un legame con il mondo, un abitare la distanza dal paese di appartenenza che forse non gradisce questa contaminazione europea e americana. Potrebbero provenire addirittura da un pianeta illuminato da uno stato di grazia indiscutibile. Freschi, dotati di talento, questi ragazzi scrivono una lettera alla Dea della bellezza: canzoni come un bacio dell’anima a un mondo che ha dimenticato di sognare…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

20 Novembre 2023


ALBUM DELL'ANNO 2023 N.3

https://ethica.bandcamp.com/album/aether?search_item_id=2917726266&search_item_type=a&search_match_part=%3F&search_page_id=2978194855&search_page_no=0&search_rank=2&logged_in_mobile_menubar=true


My Review: Ethica - Aether



Ethica - Aether

Let us take the mind and bring it to the Russian glacier, where clouds are harmonious advancing silences, and space a collector of musical textures in search of a mental airport. The passport we need must testify to our ability to separate reality and the dreamlike polar circle, with the latter as the sole interest, the protagonist of our engagement. We are here to talk about a band capable of performing miracles, pressing history and making it become a vast meadow on the bare skin of ice. Intense textures, engaging rhythms and soaring guitars are the foundation on which a voice that is the daughter of enchanting angels is based. They come from Nizhny Novgorod, a city in the heart of central Russia, and it could not be otherwise as everything vibrates within such a needy organ and their sound creatures come from there. They are brushstrokes of lively interactions with the dominant transport of music that changes the reality of gravity to separate us from the everyday and sit next to the sound. Shoegaze and dream pop epicenters allow the participation of a pop educated to containment, yet managing to generate involvement: a rare affair, the surprise in noticing vertices and oscillations kissing to make these eight songs become heavenly rivers. What sends pleasant shivers running is the band's willingness to create continuous weaves, within clear stylistic trajectories but always willing to not necessarily want to limit their work in one musical genre. And so we often find ourselves with the feeling of listening to a myriad of references that seem to want to escape recognition, to find the system of a different and respected identity. An intense, fast, dreamy and deep album, with arpeggios, snaps, fluorescent trails to make us smile, tenderize, dance and then deliver us, as a regal gift, the feeling of having seen the rain become a collection of kisses and hugs. If their propensity to connect the 1990s to the present day is tangible, equally visible is their mental factory determined to seek out arrangements (once one might have assumed the word arrangements) to leave the songs free to follow impulses far from the restrictive confines of styles and genres that would stifle these impulses that are by no means adolescent. The sound reveals a connection to the world, an inhabiting of distance from the country of origin that perhaps does not like this European-American contamination. They might even come from a planet illuminated by an unquestionable state of grace. Fresh, talented, these boys write a letter to the Goddess of Beauty: songs like a soul kiss to a world that has forgotten to dream...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

20th November 2023


ALBUM OF THE YEAR 2023 N. 3


https://ethica.bandcamp.com/album/aether?search_item_id=2917726266&search_item_type=a&search_match_part=%3F&search_page_id=2978194855&search_page_no=0&search_rank=2&logged_in_mobile_menubar=true



La mia Recensione: Auge - Spazi Vettoriali

  Auge - Spazi Vettoriali Il tempo viene archiviato solo dalla massa ignorante di chi ha fretta, quella che stringe gli spazi e divaga nel n...