venerdì 13 maggio 2022

La mia Recensione: Area - International POPular Group / Crac!

 La mia Recensione:

Area - Crac!


I veri monumenti dovrebbero avere pianta stabile nella nostra mente, quotidianamente, come presenza tangibile di un’importanza riconosciuta.

Da dove partiamo?

Direi da Gianni Sassi, un monte, un’anima densa di impegni e qualità che ha continuato a smuovere le coscienze impegnandosi a tutto tondo, comprendendo anche la creazione della rivista d’arte ED912 e la casa discografica CRAMPS, insieme a Sergio Albergoni e Franco Mamone. 

Dopo aver ideato fantastiche copertine per album divenuti importanti e rilevanti, Gianni con la sua etichetta ha dato modo a diverse band di portare avanti un discorso di qualità a 360 gradi.

Gli Area ne sono l’esempio più fulgido.

La loro è stata una militanza politica che ha difeso pensieri, attitudini, ha modificato il significato di libertà in modo nobilissimo e attraverso la musica ha fatto del rock un insieme di luoghi, immagini e sostanza che ha stimolato un collettivo di notevole spessore. 

Sono qui per parlarvi del loro terzo album, Crac!, un Levitico moderno, potente e velenoso per chi fa del disimpegno un’attitudine di vita.

Ascoltare questo disco è sconsigliato per questo tipo di persone: davanti a pagine di storia che rappresentano la coscienza, per loro credo sia conveniente starne lontano.

L’abilità tecnica, ineccepibile, è funzionale a visitare l’ignoto con progressioni, stacchi, rallentamenti e accelerazioni sempre con la necessità di messaggi da approfondire. 

Il Jazz qui è un pulsare continuo che sa attendere il suo momento in quanto l’avanguardia e il progressive sono tuoni che vogliono illuminare il cielo. Le progressioni strumentali sono le voci di anime a testa bassa che vogliono alzarla, in un percorso evolutivo perfettamente raggiunto: non più generi mischiati, bensì l’evoluzione ascensionale di coinvolgimenti che sono stati educati.

 Il motivo?

Vi era la necessità che tutto fosse evidente, specificato, perché non diventasse solo catarsi, ma soprattutto indagine sonora e lirica per un tutto che non manifestasse solamente un puzzle concluso, quanto piuttosto un unico insieme di bellezza e coscienza dalla lampadina accesa.

Crudo, impegnativo, necessario, rappresentativo, questo insieme di suoni rarefatti e potenti va ascoltato avendo presente cosa accadeva in quei tempi, la progressione di eventi che determinavano posizioni. Non è musica: è vita che cerca la manifestazione di una legittima volontà, avendo al suo interno il desiderio di toccare i diritti di farlo e non sentirsi in colpa. Si muove molto bene questo insieme di brani, rapidamente, con tonnellate di piombo per via dei testi di Gianni Sassi: Demetrio Stratos ha compiuto una impresa colossale, unica, devastante, con un cantato assolutamente inimitabile. 

Fatto di estremi, come una perversità che non prevede cambiamenti di rotta, questo fascio artistico è un atto unico che va oltre la bellezza: vi saranno sempre individui che diranno che non è il loro capolavoro, che è meno suggestivo eccetera, ma sono chiacchiere da Bar, non in grado sicuramente di coglierne la magnificenza. Innovativo, consequenziale al loro percorso ma con la qualità di aver appreso anche da altre culture e album, Crac! è in grado di ipnotizzare e condurre l’ascoltatore ad assentarsi davanti al gusto e a scelte determinate negli anni.

Qui esiste la rivoluzione della rivoluzione, voluta e programmata, dove il consenso diviene un elemento sterile.

Ciò che è espresso desidera uno studio e non una valutazione: è il principio di nuove identità nascenti. Non esiste un caos che produca crescita se prima non è assistito dalla curiosità e in questo manicomio di bellezza ne troviamo quintali. La follia sta nell’intento, nella programmazione e nella sua esecuzione, che insieme devastano e certificano una elevatissima distinzione tra la bravura e il compimento di qualcosa di inafferrabile e sconvolgente. Si può ancora godere di qualcosa che appartiene (per stupidità, che conviene sempre esibire…) al tempo passato, ad una decade ormai lontana dalla nostra osservazione? Se fossimo abituati alla ragionevolezza non ci porremo questa domanda. Crac! è una bilancia che soppesa l’utile fastidioso con l’inutile che tiene l’impegno in una cassaforte blindata.

Sentirsi inadeguati all’ascolto di questo album è chiaramente come essere una rosa pronta a schiudersi: è solo una questione di tempo perché poi l’incanto diverrà sequestro, puro e sublime. Chi passava ore a sentire questo disco in quel periodo sapeva che farlo facilmente era l’ultima delle preoccupazioni: vi era un grembo mentale pronto ad essere fecondato, senza paura.

L’attualità di quel tempo era crudele e andava esaminata: per i testi ci ha pensato Sassi con gli scandali disgustosi della Democrazia Cristiana, il franare del buon senso, la tensione che l’aria voleva polverizzare, il terrorismo che divideva l’ideologia con azioni determinate e cruente, in una Via Crucis dalle tappe infinite.

Per quanto concerne la musica: libera di essere vincolata da temi così densi, ha spiccato il volo verso l’abbondanza, nutrendosi di una capacità innegabile di fare il giro del mondo tra generi e intuizioni massicce, come il muschio che si affianca ad una spugna senza confini. 

Pregno di genialità, colpi di fulmine, propensioni senza catena, tutto diventa non digeribile se lo stomaco è abituato all’acqua, che non appesantisce troppo. Sono canzoni come pranzi lunghi e impegnativi, senza dieta, ma con tutti quegli ingredienti che sembrano eccessi, smisurati ma essenziali.

L’analisi del tempo, distinta e messa a fuoco, non può mai essere sinonimo di disimpegno e leggerezza: le orecchie della nostra coscienza in quei momenti si ingrossano, studiano, conoscendo anche la stanchezza facendo ciò. 

Erano tempi duri per alcuni Paesi (Portogallo su tutti) e il ritiro delle truppe Americane nel Vietnam dava al Comunismo mondiale una forza diversa, attesa e voluta. C’era anche bisogno del giusto linguaggio artistico per continuare un discorso che fosse mondiale e l’ascolto di questo gioiello ne dà una misura precisa. Testi diretti e metaforici si univano alla musica che sapeva fare altrettanto. Si doveva guardare avanti nel tremolio di pensieri ancora balbettanti che cercavano posizione e stabilità. Un disco che contesta, motiva, eccelle per un minor tono buio rispetto ai primi due, ma con in dote una maggior consapevolezza ed una metodica diretta, che frantuma e offre nuovi elementi per un confronto/scontro più che mai necessario. Si avverte la propensione al dialogo, che nasce da un’improvvisazione capace di stimolare il litigio sonoro che non si conforma ma induce a un allargamento verso lo scintillio magnetico di talenti. Essi esercitano continuamente la loro influenza: tutto ciò non aveva mai raggiunto questi livelli, perché nei due album che precedettero questo vi erano chiaramente altre necessità. Come corsari senza benda sugli occhi, gli Area ci tolgono il gusto di essere anime apatiche con esercizi culturali da capogiro, insostenibili ora più di allora, vista la nostra totale propensione alla comodità. Note, progressioni, diversificazioni, deliri di ogni tipo si danno appuntamento tra questi solchi che, come estasi crescente, ci restituiscono un piano intellettivo ragionevole e che arriva in zona Cesarini con le menti in stato soporifero. La crescita verticale ottenuta e dimostrata con queste sette composizioni stupisce per precisione e ampiezza, mettendo a dura prova la capacità di accoglienza: in tempi in cui il nomadismo era tenuto lontano dal fare politico chiuso e ottuso, ascoltare Crac! significa, perlomeno, sentirsi profughi e sconnessi. 

Ora il fiato e i battiti si mettono di fronte. Le pistole della verità stanno per sparare sette proiettili e, se siete pronti, andiamo a guardarli da vicino, per morire in pace…



Canzone per Canzone 


L’album della militanza più evidente che mai incomincia con la corsa di un ragazzo che viene invitato a guardare avanti. Vertigini ritmiche, richiami sonori alle zone dove Demetrio Stratos è nato (Egitto) per poi andare oltre fanno de L’ELEFANTE BIANCO un esempio di connubi multipli. in modo da poter poter esercitare il potere dell’idea che trova radice solo se avanza. I musici sono Benedetti dallo stato di Grazia con un mantra che genera ampi respiri sulla strada del ritmo. E la voce stabilisce la certezza che il migliore cantante italiano di sempre sappia cantare le parole scritte da Gianni Sassi provocando ulteriori brividi.

La puntina avanza e ci fa sobbalzare: la natura di LA MELA DI ODESSA, resa strepitosa dal contrabbasso di Ares Tavolazzi, vive di momenti, tutti estasianti, sin dalla sua introduzione. Si avverte la sensazione di un viaggio alla ricerca di contaminazioni continue. Con ritmiche lontane dai 4/4 della batteria, Giulio Capiozzo dimostra di essere fantasioso e tecnicamente eccelso, trascinando Patrizio Fariselli in scorribande con la sua tastiera verso paradisi collinari per sconfiggere “il mondo che era ancora piatto”.

Non hai nemmeno il tempo di assimilare che i ragazzi sfoderano l’asso nella manica che riesce a mostrare il lato psichedelico californiano e un progressive alieno, per fattura tecnica e sperimentale: giunge MEGALOPOLI a complicare le cose e quindi a renderle perfette. Demetrio gioca con le ottave, la chitarra di Paolo Tofani duella tra la sabbia con Fariselli: sono rimandi, echi, riflessi eleganti per coinvolgere Tavolazzi a fare del Jazz il tifoso del rock con idee fresche e rigeneranti. Suite che incanta, determina cosa significhi essere dei fuoriclasse in un’Italia pigra nel conferire loro la patente della Bellezza.

Stiamo attenti ora, per il prossimo capitolo: gli Area prendono i Doors, li semplificano e poi dimostrano loro come connettere il pianoforte e il sintetizzatore per esplorare mantra ed evoluzioni anti-cliché, allontanandoli poi del tutto.

Questa è NERVI SCOPERTI, la giostra elettrica che sconvolge per la latitudine della sua radice, sirena che allinea i talenti in assoli e giochi sottili a migliorare le intenzioni di colleghi illustri, semplicemente devastante.

Il collettivo, la propensione e la volontà di connettere il testo alla musica genera un’apoteosi plurigemellare per un incantevole esercizio di contrazione pelvica: GIOIA E RIVOLUZIONE fa tanto male alla testa, spiazza ma rinvigorisce, una spinta ideologica che trova il modo di trasferirsi in una musica quasi giocosa. Tutte le dita combattono, c’è qualcosa da capire e da far capire e tutti si dannano. Sentiamo una coralità sonora che comprende pure una chitarra ritmica semiacustica per dare alla canzone la sensazione che bisogna coinvolgere tutti, in modi diversi, la band desidera sparare, nella strada dove l’amore attende. Stupefacente, quasi goliardica, tribale ma sorridente, lancia semi pop in modo da poter essere compresa meglio data l’urgenza del tema di cui è composto il testo.

Il genio di Tofani crea con il suo sintetizzatore una grandiosa introduzione per la successiva IMPLOSION, viaggio robotico, lunare, con oscillazioni del suono degne dell’avanguardia tedesca. Il delirio si fa concreto, come un pugno lisergico che accarezza gli Stati Uniti ma poi li lascia, come dispetto necessario. Il basso di Ares è uno stregone occidentale, bianco, dalle dita mosse da un impeto incontenibile e che consente al brano di essere l’esempio di una improvvisazione senza briglie e dove il drumming di Capiozzo è uno sciopero poderoso contro la tecnica maldestra di molti addetti alle pelli e ai piatti: lui dimostra cosa sia l’applicazione e il talento. Demetrio sciopera a sua volta con la voce, ma le sue dita sull’organo sembrano la continuazione delle sue corde vocali. Una sola parola per definire tutto ciò che accade in questa composizione: capolavoro!

Il vinile trema: sa già che ora ci spaventeremo, saremo inondati da una nuova scossa.

AREA 5 è la corsa di gatti e topi, di nemici che improvvisano strategie e tra la scorribanda di dita sul pianoforte e il magnetico lavoro di Demetrio alla voce, tutto diviene schizoide e inquieto, come un horror che tenta di essere portatore di allegria. Tutto proviene da Juan Hidalgo e Walter Marchetti (studiate e meditate gente, parafrasando Renzo Arbore e la sua birra) e la sensazione che rimane sulla pelle è quella di una paura incompresa, perché queste note in ogni caso seducono e trasportano dentro i labirinti di un gioco che sembra provenire da una captazione. Modo divino per concludere l’esperienza di un match culturale stravinto dalla band: e c’è ancora molto da imparare…


Musicisti intriganti, impazziti, generatori di corrente, cavalieri del suono, pittori dalle tele enormi, con un cantante che sa usare la voce con le sue diplofonie, trifonie e quadrifonie, e altro ancora, nel gioco infinito di tentacoli spiazzanti per forza e precisione. Gli strumenti usati come armi, con la faccia da fioretto, spesso sorridente, ma poi nel loro arsenale si trova una notevole serie di macchine da guerra. Non si sta sereni un attimo e tutto questo coinvolge così tanto che, parafrasando Franco Battiato, possiamo affermare “ed è bellissimo perdersi dentro questo incantesimo”. 

Mi fermo con la consapevolezza che è stato contemplato un solo granello di sabbia del loro Sahara, e nemmeno tanto bene, però posso avere la certezza che sia finita la lezione. Domani, ne sono certo, i Maestri Area torneranno dietro la cattedra e io sarò un pò più felice, perché maggiormente vicino a questo album che non ha una sola ruga che sia una…


Alex Dematteis 

Musicshockworld 

Salford 

13 Maggio 2022


Area - International POPular Group / Crac!

15 giugno 1975



  • Electric Bass, Acoustic Bass, Trombone – Ares Tavolazzi
  • Electric Guitar, Synthesizer [E.M.S.], Flute – Giampaolo Tofani
  • Electric Piano, Piano, Bass Clarinet, Percussion, Synthesizer [A.R.P.] – Patrizio Fariselli
  • Percussion, Drums [Slingerland] – Giulio Capiozzo
  • Voice, Organ, Harpsichord, Steel Drums, Percussion – Demetrio Stratos






giovedì 12 maggio 2022

La mia Recensione: Garbo - Come il vetro

 La Mia Recensione:


Garbo - Come il vetro


“Si usa uno specchio di vetro per guardare il viso e si usano le opere d’arte per guardare la propria anima”

George Bernard Shaw


Il percorso del tempo apre angoli, strade, percezioni, decisioni, baci, eventi e attese, come un fiume che attraversa le generazioni.

Si può racchiudere in uno scenario che comprenda e sviluppi tutto questo, maggiorando il tutto con un respiro sapiente sino a farlo divenire un concetto transitorio?

Se ti chiami Renato Garbo sì. E farlo maledettamente bene, aggiungerei.

Come completamento del percorso dei due album che l’hanno preceduto (Blu e Gialloelettrico), Renato sfodera la potenza pregna di saggezza che sente il bisogno di uscire, di attraversare la propria fisicità e trovare la dimensione nell’aria mettendola a disposizione di note che tra fragilità e armonie vestono i nostri ascolti di un uomo perfettamente bilanciato. 

In questo lavoro muoiono i colori per far entrare un colore unico, innaturale, sconosciuto, intenso, difficilmente visibile: la trasparenza.

Ritroviamo una colonna sonora della nostra giovinezza come un ragioniere che con gli anni non ha smesso di fare calcoli, di valutare, di farsi seguire se siamo attenti ai suoi guizzi che sospendono il percorso dei giorni. No, non è Dorian Grey: il suo volto non nega la vecchiaia che velenosa accende le sue rughe, ma riesce a fare dell’anima una vergine che spezza il tempo.

Eccoci, dunque, con testi descrittivi che lo mettono a disposizione dei nostri occhi, che devono impegnarsi per poterlo vedere. Storie come indagini, come abiti neutri a proteggere la trasparenza perché, apparentemente fragile, in realtà la sua forza potrebbe fare di noi persone completamente autentiche in quanto dove c’è lei può esistere solo la realtà.

Musicalmente COME IL VETRO è invece un arcobaleno elettronico, dal grigio dall’umore ballerino al giallo coraggio, al nero spaesato, al marrone pesante come un mattone in volo.

Si danza, con gli anni suoi fatti di estese ricerche e sperimentazioni. Si suda con i suoni che attraversano le ultime quattro decadi dove troverete i Japan che corrono, David Bowie che ferma il tempo, i Kraftwerk che giocano a nascondino alla faccia della trasparenza, i Jesus and Mary Chain con la parrucca e molti altri, tutti messi in fila dalla classe di Garbo che sa ancora incidere solchi propri nei nostri cuori con la sua strabordante propensione a fare del particolare una piccola roccia, dentro la schiena di una montagna.

Cerca l’amore e lo trova: gli serve per salvarlo dal tempo che spesso cancella il percorso perché si chiude in se stesso, facendo in modo che risulti irraggiungibile l’analisi e il conforto di chi è stato giovane. Colora le stagioni, cerca i rumori, i volti, esplicita i desideri che ancora non si piegano ed elimina i filtri della paura e della malinconia. 

Si fa visibile come non mai, nudo e attaccabile ma anche disposto a farsi accarezzare: sta a noi decidere come viverlo, se e come portarlo dentro noi; abbiamo la possibilità di vedere la sua anima sorriderci, i suoi impulsi che trasmettono creatività e che hanno saputo vincere quella sponda del successo di cui gli hanno tolto le chiavi quasi sin da subito, negli anni 80, tanto, tanto tempo fa.

Scrive un album che ha la forza misteriosa che la nuova generazione non conosce, esprime concetti che si possono contestare con la sua forza trasparente che forse noi non abbiamo più. È riuscito a non distanziarsi dal suo stile: è ancora riconoscibile ma in questo insieme di canzoni, in modo definitivo, riesce ad essere quello che immaginavamo sarebbe divenuto un giorno. Ebbene: l’ha fatto ma stupendo con i suoi pezzi colorati che si sono trovati la pelle lucida, privi del loro dna per avere il colore del vetro. 

Canta “non voglio più guardare indietro” e, nell’insieme di quest’opera, con le sue autocitazioni, demarca perfettamente tutto ciò che gli è rimasto, che ha tolto del suo passato, per rilasciare riflessa per sempre l’immagine della sua maturità, che dal fiume è arrivata alla radio con il clima di giornate di pioggia dentro i raggi di sole.



Canzone per Canzone


Come il vetro


Iniziamo a guardare dentro e oltre noi stessi, con la canzone che dà il titolo all’album: basso e chitarra si uniscono in un inizio teso e poi giunge a grancassa della batteria, per arrivare velocemente al ritornello dove l’elettronica comanda e si ha la percezione che la sua voce sia a disposizione di una lucida malinconia. 

È un gioco di ritmi incalzanti che si stoppano ma tutto sembra avere il proprio, con il cantato in inglese che regala l’internazionalità che musicalmente aveva già.


Chi sei 


Riconosciamo il Garbo di cui ci siamo innamorati avendo ben presente che tutta la sua domanda è frutto di un bisogno radicale. La tastiera disegna una prateria leggera, la voce scava ed un respiro femminile entra dentro la strofa sino ad arrivare ad accompagnare nel canto Renato. La sensazione è che musicalmente la situazione sia gravida di antiche passioni sonore con un abito moderno ma non alla moda, perché Garbo ha sempre cavalcato l’intelligenza che non si sposa con la massa.


Voglio morire giovane


La chitarra iniziale sembra un tributo ai Cure fine anni 80, ma poi il tutto si sposta e l’analisi di chi vuole scoprire le cose e mostrarle continua. Una miscela mista di dolcezza e calore visita le note di un brano che raccoglie l’eredità del suo primo album. E poi i Jesus and the Mary Chain si affacciano con il loro riff a far compagnia.


Lei


Tornano i Cure nei primi secondi: questa volta il brano sembra figlio di Cold. Poi il piano e la tastiera prendono il tutto e diventa mistero volatile, che ansima di elettronica seducente. La luce diviene il mezzo con il quale si può guardare in faccia ai desideri e tutto conduce verso un vertice elettronico, di una sensualità innegabile.


Più avanti


Prendi la lounge music e rendila capace di accogliere particelle di Donna Summer, intarsi Jazz nell’assolo, ma con la voce di Garbo scorgi gli incroci più strani mentre, straordinariamente, ti accorgi di essere di fronte a un treno pieno di raggi solari che lo fanno spostare sulle rotaie. 


Ciao


L’inizio conduce ai Depeche Mode di Home e la vicenda mi turba, ma poi la musica è capace di dimostrare ancora una volta che Renato è sempre stato in grado di essere più originale della band inglese. E il cantato è una spruzzata di luce con la classe che fa vincere senza dubbi.

L’autore milanese diventa il pittore di una modella assente, ma che dalle strade si materializzerà. E la canzone scalda l’identità che prende corpo.


Voglio tutto 


Ecco ciò che non ti aspetti e che invece sa sedurre lo stupore per farlo girare dentro l’accoglienza più piena.

Due voci come alleate tranquille sulla scia di suoni a rendere lo spazio un dolce sogno. Un crooning che interroga e che rivela come il rumore sia parte della nostra identità.


Anni


Sorella, nel climax, della canzone precedente, la voce sale in cattedra, il piano vola e fa volare tutti noi dentro i circuiti dei pensieri. La linea melodica si fa più cupa ma al contempo sognante. Viene voglia di piangere, le note proseguendo sembrano attirare i nostri occhi verso l’umidità di una nebbia che avanza. 


Baby I love you 


Tolti gli archi della versione originale dei Ramones all’inizio del brano (per inserirli in corsa), Garbo ci mette le chitarre che non c’erano, ma tutto si dimostra un miscela fresca e imprevedibile.

Forse un pezzo decontestualizzato nell’album, ma valido nella sua essenza.


No


Ritmo e enfasi, tracce di Human League e Ultravox che si specchiano: poteva essere altrimenti? Garbo sospende il tempo all’anno 1986 e 36 anni dopo ne sentiamo ancora tutto il profumo. Dal fiume le anguille escono e corrono veloci su onde magnetiche capaci di dare al basso pulsante la miglior compagnia possibile.


La mia finestra


Un brano breve, figlio del Battiato etereo e ondivago tra la ricerca e la spiritualità.

Portatore sano di silenzio e pioggia, Renato si tuffa dentro gli sguardi per portare a termine il suo nuovo passaporto mentale, riuscendoci benissimo. Ed è il “Noi” a chiudere il percorso insieme all’“Io”, dimostrando ancora una volta la sua grande maturità.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

12 Maggio 2022


https://open.spotify.com/album/2igZkVvcb41Gq8yFM9wqxz?si=ffnsHYQUQxuUosPMtdigtg








martedì 10 maggio 2022

La mia Recensione: Gaudi - Theremin tribute to The Smiths (prima parte)

 La mia Recensione 


Gaudi - Theremin tribute to The Smiths


I brividi: l’universo che si compatta sulla pelle del cuore per trasferirsi nella storia di un percorso umano. Sono le briciole meravigliose di un infinito impossibile da conoscere, ma accontentandosi della loro forma e sostanza ci si ritrova a sentirsi persone migliori, che è un ottimo inizio.

Nella musica i brividi certificano l’incontro con l’emozione, nascono legami spesso indissolubili, sicuramente per qualche istante al centro del proprio mondo.

E, quando si dà loro spazio, nascono dei Grazie capaci di divenire montagne di bellezza, calamite sulle rocce per rendere stabile un amore.

Gaudi l’ha fatto, in modo perfetto, conducendo lo scriba dentro oceani di lacrime di gioia per il suo generoso lascito: cinque rose sul suo sentire sensibile, il suo mondo più intimo, il suo resocontare un amore infinito, trovano specificazione e validità per la modalità scelta, per il rispetto dimostrato, per l’accuratezza nel non cadere nella banalità di espressione di cover che avrebbero rovinato tutto.

L’amore vero calcola e deve essere attento: da questo è partito l’Artista e ha capito che il duo Mancuniano Morrissey/Marr non può essere riprodotto perché le unicità non si copiano né si incollano.

La sensibilità umana è una antenna capace di captare il mistero, il noto, una complessità spesso poco decifrabile e difficile da decodificare.

Ed è un’antenna particolare quella che ha deciso di usare Gaudi per ringraziare gli Smiths. Per far intendere che la bellezza, l’unicità, la ricchezza della band di Manchester ha caratteristiche talmente specifiche e intense che occorreva un rispettoso accorgimento. Il cantato stupendo  del poeta di Stretford, seppur a volte sbilenco, con delle imperfezioni, è intoccabile. Come lo sono le magie delle dita di Marr. Ha scelto l’unico strumento che potesse contenere tutto questo su un piano strutturale, grazie alla conoscenza pluriventennale e avendo capito che in questo modo avrebbe dato un senso specifico al tutto, non banalizzando ma rendendo ancora più chiara quella unicità di cui ho scritto prima.

Il Theremin è lo strumento dell’anima, lo schiaffo che educa al riconoscimento vero del suono, per la sua altezza e intensità.

La voce ed il violino, così distanti tra di loro, trovano nel timbro esecutivo del Theremin la possibilità di compattare e rendere praticabile un incanto infinito.

Presa la decisione di suonare questo diamante espressivo, dentro di sé Gaudi non ha selezionato le canzoni in modo superficiale: si è rivolto a opzioni che tenessero conto del suo Grazie e delle caratteristiche dello strumento perché tutto fosse impeccabile. Raggiunta la perfezione della scelta dei brani su cui lavorare, tutto poteva concentrarsi verso l’esecuzione che doveva essere eccellente.

Questo Grazie toglie la polvere all’invecchiamento che lo scorrere del tempo causa nostro malgrado: Gaudi ha spruzzato sulle note antichi sentimenti maggiorandoli di intensità. Sia dato spazio allora alla malinconia, al dolore, alla frustrazione, con questo clamoroso dispositivo che fissa la bellezza con le spalle verso il muro, quello dell’eternità.

Le rose degli Smiths non sono canzoni, ma appunto le regine dei fiori: cinque regine che Gaudi ha reso altrettanto immortali con la sua capacità visionaria.

L’assenza della voce non viene sostituita dal Theremin, bensì  analizzata e portata su un piano sensoriale: le trame sono state rese figlie non solo della melodia ma anche delle parole, come un pennello che saggiamente non riempie i buchi ma dà senso a ciò che gli gravita intorno. Questo è il vero capolavoro di questo mazzo di rose: riuscire a rendere immortale il cantato del bardo di Stretford, con le spine che la proteggono affinché quelle antenna, suonata in questo modo, compia il miracolo di non offendere.

Ascoltare le rose, quando rappresentano l’amore profondo, diventa un regalo, essere degni del quale deve divenire l’aspetto primario. Imbarazza in modo indiscutibilmente positivo sentire l’anima di Gaudi tremare, sudare, farsi piccola mentre compie un gesto enorme.

Un’opera di questa levatura è da studiare perché ogni goccia che cade su questo ascolto ci aiuta a capire maggiormente la grandezza degli Smiths: questa è la rosa che si vede di più, occorre notarla perché Gaudi ha trovato un modo intimo di riportarci al cospetto della band Mancuniana con maggior rispetto.

Ora andiamo vicino a questo mazzo, con un religioso silenzio interiore, perché la bellezza è pronta a fare di noi un ennesimo piacere e privilegio…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

11 maggio 2022





My Review: Gaudi - Theremin tribute to The Smiths (part one)

 My Review 


Gaudi - Theremin tribute to The Smiths


Shivers: the universe that becomes compact on the skin of the heart to transfer itself into the history of a human journey. They are the marvellous crumbs of an infinity that is impossible to know, but by being content with their form and substance one finds oneself feeling like a better person, which is a really good start.

In music, shivers certify the encounter with emotion, often indissoluble bonds are born, certainly for a few moments at the centre of one's world.

And, when you give them space, some Thanks are born, capable of becoming mountains of beauty, magnets on the rocks to make a love stable.

Gaudi has done this, in a perfect way, leading the scribe into oceans of joyful tears for his generous bequest: five roses on his sensitive feelings, his most intimate world, his account of an infinite love, find specification and validity for the method chosen, for the respect shown, for the accuracy in not falling into the banality of expression of covers that would have ruined everything.

True love evaluates and must be careful: the Artist started here and he understood that the Mancunian duo Morrissey/Marr cannot be reproduced because uniqueness is impossible to be copied or pasted.

Human sensitivity is an antenna capable of picking up the mystery, what is  known, a complexity that is often difficult to decipher.

And Gaudi decided to use a special antenna to thank the Smiths. To make it clear that the beauty, the uniqueness, the richness of the Manchester band has such specific and intense characteristics that a respectful device was needed. The wonderful singing of the poet from Stretford, although sometimes crooked, with imperfections, is untouchable. As are Marr's magical fingers. He chose the only instrument that could contain all this on a structural level, thanks to his knowledge of more than twenty years and having understood that in this way he would have given a specific sense to the whole, not trivialising but making even clearer that uniqueness I wrote about before.

Theremin is the instrument of the soul, the slap that educates to the true recognition of sound, for its pitch and intensity.

The voice and the violin, so distant from each other, find in the executive timbre of Theremin the possibility to compact and make feasible an infinite enchantment.

Once he took the decision to play this expressive diamond, Gaudi did not select the songs in a superficial way: he turned to options that took into account his Thanks and the characteristics of the instrument so that everything would be flawless. Having achieved perfection in the choice of songs to work on, everything could focus on the performance, which had to be excellent.

This Thanks sweeps away the dust from the ageing that the passing of time causes against our will: Gaudi has sprayed old feelings onto the notes, increasing them in intensity. Let there be room, then, for melancholy, pain, frustration, with this resounding device that fixes beauty with its back to the wall, that of eternity.

The Smiths' roses are not songs, but precisely the queens of flowers: five queens that Gaudi has made equally immortal with his visionary skill.

The absence of the voice is not replaced by the Theremin, but rather it is analysed and brought to a sensorial level: the structures have been made daughters not only of the melody but also of the words, like a brush that wisely does not fill in the holes but gives meaning to what gravitates around it. This is the true masterpiece of this bouquet of roses: managing to render immortal the singing of the bard of Stretford, with the thorns that protect it so that the antenna, played in this way, performs the miracle of not offending.

Listening to roses, when they represent deep love, turns into a gift, being worthy of which must become the main aspect. It is unquestionably positive to feel Gaudi's soul trembling, sweating, making itself small while performing an enormous gesture.

A work of this calibre should be studied because every drop that falls on this listening helps us to understand the greatness of The Smiths: this is the rose that is most visible, it should be noted because Gaudi has found an intimate way to bring us back before the Mancunian band with greater respect.

Now let's go near this bouquet, with a deferential inner silence, because beauty is ready to make us yet another pleasure and privilege…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

11th May 2022





My Review: Slowdive - No Longer Making Time

 My Review:


Slowdive - No Longer Making Time


Desires and expectations: a combination that can show flights that are like thorns among the waves of the sky, like a caress to a sudden view which  makes the breath the best gift.

Joy and pain can enter between those two elements like variables with an imprecise smile.

A trembling laceration appears and like blotting paper cleans and avoids the useless: there are songs with infinite functions which release the essential amongst the notes, the home of conscious talent with a sense of right. Let it then be time to bring into the lanes of awareness the infinite poetry of thin-skinned impulses, wandering in the midst of essential creative forces: before them we enter the oneiric dimension that snatches a story away from a marked destiny to suspend it among guitars able to easily enchant. We find ourselves in front of the dance of a black cell which can only be made immobile by voices that, seducing this microcosm, give it a bottle of champagne in the middle of the night.

Rachel and Neil use a mottled singing, son of a magnetic digression through mantra guitars with the gift of a soft and repetitive wake.

Slowdive converse with Cathy and her boyfriend, in the fable of memory like a blue-eyed swing that in its oscillation brings beauty closer and further away.

We end up with a song that provokes a fainting spell, resulting in a suspension of consciousness, and it is in this element that the English band show us that they are absolute champions.

The sensations that derive from this listening reveal the identity of locusts that, coming out of the stomach, justify a radiant dream and our mouths, frozen ecstasies without fear, can breathe poetry. A musical composition as a maze, the sequence of sounds generating the poetic song of suspended lips in the journey with a golden beat. 

A lullaby that makes the night the reservoir of whispers among the harmonious expressions of the two, while in the humid air notes with a fascinating tremor echo as they ascend without anchor.

We go up to find infinity: to do all this it takes five minutes and forty-eight seconds, the time needed to feel the lightness as a real and generous part of the infinite human possibilities.

We can't run away from the moonbeams when Slowdive are bringing them to us: the gods would consider it a crime and would punish us...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

May 10 2022


https://open.spotify.com/track/3q4YT4K5Xj6v9bWFb7OudB?si=GdVMvcgbRf6OBNTocNuHgQ








La mia Recensione: Slowdive - No Longer Making Time

 La mia Recensione:


Slowdive - No Longer Making Time


I desideri e le attese: un connubio che sa mostrare voli come spine tra le onde del cielo, come una carezza a uno scorcio improvviso a rendere il respiro il regalo migliore.

La gioia e il dolore possono entrare tra quei due come variabili dal sorriso impreciso.

Un tremulo squarcio si affaccia e come carta assorbente pulisce ed evita l’inutile: ci sono canzoni dalle infinite funzioni che rilasciano tra le note l’essenziale, dimora del talento cosciente con il senso del giusto. E sia allora il tempo di portare nelle corsie della consapevolezza l’infinita poesia di impulsi dalla pelle sottile, vagabonde tra pulsioni creative essenziali: davanti a loro si entra nella dimensione onirica che strappa una storia dal destino segnato per sospenderlo tra chitarre dall’incanto facile. Ci troviamo davanti alla danza di una cellula nera che può essere resa immobile solo da voci che, seducendo questo microcosmo, le regalano una bottiglia di champagne nel cuore della notte.

Rachel e Neil adoperano un canto screziato, figlio di un divagare magnetico tra chitarre mantra con il dono della scia morbida e ripetitiva.

Gli Slowdive dialogano con Cathy e il suo ragazzo, nella favola della memoria come un’altalena dagli occhi azzurri che nel suo oscillare avvicina e allontana la bellezza.

Ci ritroviamo con un brano che provoca un deliquio, con conseguente sospensione della coscienza ed è in quel luogo che la band inglese ci mostra di essere una fuoriclasse assoluta.

Le sensazioni che provengono dall’ascolto rivelano l’identità di cavallette che, uscendo dallo stomaco, giustificano un sogno radioso e le nostre bocche, estasi congelate senza paura, respirano la poesia. Una composizione musicale come dedalo, la sequenza di suoni che generano il canto poetico delle labbra sospese, nel viaggio dal battito dorato. 

Una cantilena a rendere la notte il serbatoio di sussurri tra le armoniose espressioni dei due, mentre nell’aria umida echeggiano note dal tremore fascinoso in salita senza ancora.

Si sale per trovare l’infinito: per fare tutto questo occorrono cinque minuti e quarantotto secondi, il tempo di sentire la lievità come parte reale e generosa delle infinite possibilità umane.

Non si può fuggire dai raggi lunari quando sono gli Slowdive a portarceli: gli Dei lo considererebbero un reato e ci punirebbero…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
10 Maggio 2022






domenica 8 maggio 2022

La mia Recensione: Banco del Mutuo Soccorso - Banco del Mutuo Soccorso

 La mia Recensione 


Banco del Mutuo Soccorso


Roma l’Antica, la Madre, La Culla, la Sapiente, la Spavalda, la Strega, l’Egocentrica Dominatrice.

Visse e conquistò, conobbe la tristezza nella sua favola sanguigna per poi, inevitabilmente, scomparire un poco dal centro del mondo. Ma continuò a vivere.

Fu il fermento di anni fulgidi, di lividi, di cavalli che tornavano a correre tra le sue strade, di anime con fame e sete di coscienza in fase di aggiornamento a far sì che tornò soprattutto ad essere la madre risorta in quella Cultura che sembrava sfinita, in punto di morte.

Erano gli anni 60, la brina e la brillantina di giovani anime che incominciavano a creare un precedente: compattarsi, discutere, confrontarsi e scontrarsi, ma decisi a non lasciare agli adulti il tutto. Era stata determinata una serie di prese di posizioni.

E nel cuore della Divina Lupa nacque il Banco del Mutuo Soccorso, la band corsara, con il polso fermo, occhi dilatati a creare cerchi e a fare dei dubbi un generoso punto di partenza.

Arrivarono e sconquassarono la noia, le incapacità, la mediocre modestia qualitativa di anime dormienti e dettero impulsi nuovi, dirompenti, efficaci.

Usarono la forza dell’inventiva, della creatività, del trasporto emozionale e del pensiero per dare un calcio ai limiti. Non erano soli: nel mondo e in Italia questo fermento vibrante stava contagiando, senza far correre il rischio della morte bensì il suo esatto contrario, perché c’era un numero crescente di anime desiderose di veder esplorare e di esplorare anch’esse territori diversi.

La Musica come sommatoria di Arti e di studi, di fluidi in cerca di canali mentali con approcci diversi.

Il Banco fu un clamore così capace di stupire che fece crescere la convinzione che non fossero i miracoli, le belle canzoni, i begli album a dare un po’ di sollievo, ma piuttosto un impegno che si specificava nella sonda, nell’antenna, nella libertà di unire il tempo e la coscienza in un fluire di intuizioni, esercitazioni, di luoghi mentali e fisici da scoprire e da mostrare al mondo. La band Romana ha reso la musica una lente di ingrandimento, un manuale che esplicitava, espandeva e non un Bignami, una veloce e inutile sintesi: era giunto il tempo di ampliare i mezzi coscienti, per farli abbracciare con progetti dalla architettura complessa.

L’Italia dei primi anni 70 era bellissima, con i suoi giovani dai mille entusiasmi, le loro lotte, i loro campi da seminare e coltivare dentro delle menti lucide e capaci di accoglienza. La band aveva ottenuto l’interesse, il supporto di persone che studiavano i movimenti barocchi di musiche che cercavano quella nuova forma creativa di provenienza Inglese: il Progressive.

Un matrimonio di saggezze varie più che un incrocio di stili musicali. La forma canzone, la prevedibilità, la fatica di quel ripetere un cliché ormai privo di grandi tensioni venne evitato per creare una proposta di classe, di gran classe, estremizzando ma senza per questo diventare futile. Anzi.

La ricchezza di quei voli entrò nella modalità di brani e di album dalla faccia tonda, ricca, gonfia di tesori pieni di senso, che arricchivano l’ascolto.

Venne il tempo di esordire, di lasciare all’eternità l’uso della propria creatività e il giudizio. Furono sei damigelle dagli abiti pieni di fiori, fango, con le loro storie trasversali, con le lenti pulite di un cannocchiale nuovo di zecca, a consegnare ufficialmente all’Italia una risorsa senza briglie.

Ancora oggi non esiste modo di sintetizzare l’abbondanza, di ridurre i ragionamenti, di poter fermare i sogni davanti a questo primo album che sempre insegna, getta sconforto e al contempo regala sorrisi rassicuranti.

Sei uomini per sei damigelle: universi e contorni a trovare contatto, suites a scoprire l’intensità e la validità di movimenti che si allontanavano dall’inizio del brano per consegnarci il cielo.

Un esempio di come la complessità abbisogna di un approccio lento, di un ascolto con gli occhi sopra la storia del mondo, di immagini che sembrano annebbiate ma che invece mostrano che la vera confusione era l’essere divenuti dei bambocci davanti alla banalità, che è il lato scomodo e fuorviante della semplicità.

Cavalcate e galoppate con sulla schiena personaggi affannati ma liberi, note e suoni a frantumare una fragile solidità che si era fatta pesante e priva di senso. I sei creano storie, linguaggi, messaggi da dover assorbire con respiri diversi in un caleidoscopio non del tutto prevedibile. Sono fiamme, scosse elettriche, tasti, rulli di tuoni, voci che tutte insieme offrono al sangue una linfa nuova, sconvolgente.

Il Progressive non andrebbe definito, il suo stile estetico non vuole parole che devino dalla sua essenza. Si allarga e fugge dai perimetri, dalle forme geometriche, dalle sentenze. Mostra il fianco alla critica ma avanza, contro tutti e a volte anche contro se stesso.

Questo album presenta cambi di ritmo, sezioni varie dentro gli stessi brani ma ciò che è importante è capirlo, non definirlo. E ancora oggi c’è da intendere cosa abbia dato origine a questa carrellata di gioielli senza tempo. Si evidenziano elementi metaforici, l’uso della fantasia come elettrodo, regalando scintille e punti di contatto tra situazioni spesso molto distanti tra loro. Tutto questo conduce alla presenza di elementi criptici che rendono complesso l’intendimento, ma senza per questo motivo annoiare o rendere impossibile il beneficio.

Questa è una musica che parte dalla testa per posizionarsi nel cielo, una musica che diviene fisica come conseguenza ma che non desidera rimanere terrena. Il disco contiene manciate di follia, riflessi di esagerazioni che trovano nello sviluppo un respiro che si gonfia di consapevolezze potenti.

Ascoltarlo è mettere la mente davanti ad uno scompiglio necessario: malgrado una produzione non eccelsa, questo diventa un pregio perché ci lascia il profumo degli anni 70, di una generazione che sapeva creare una serie di bing-bang intellettuali che il tempo non ha sconfitto, non ancora.

Lo studio, la versatilità, l’intenzione di una sperimentazione sensata diede a questo lavoro modo di conoscere mondi bisognosi di espressioni e ascolti. Una danza nella quale le sei damigelle hanno giocato a mosca cieca, a nascondino, a rubare il fazzoletto per far compiere all’album voli in assenza di gravità. Determinante, rilevante, curò le ferite e diede spazio alla bellezza, creò uno specchio fedele delle difficoltà umane del tempo.

È preziosissimo sin dalla sua copertina: è un investimento nel quale continuare a mettere ciò che ha valore, in cui inserire le monete dei nostri pensieri, atteggiamenti, modalità di espressione, facendone l’unica banca che non sfrutta i risparmi.

Le atmosfere mostrano attività ludiche e seriose, nella giostra dei gioielli seminascosti di cui Francesco Di Giacomo dipinge parole sulla nostra pelle piena d’olio.

Musicisti eccelsi a innaffiare l’indole di un insieme che genera dipendenza, trasporto, scuotimenti come indagini del pensiero con la bocca spalancata.

Che dire? Non si può perdere l’occasione di entrare nel giardino di questo mago con le sue damigelle e di esplorarne i frutti…



Canzone per Canzone 


In Volo


Il medioevo è il portatore sano di una damigella che si annuncia: l’inizio dona un brivido sinistro, dove Vittorio Nocenzi mostra la complessità del suo talento, creando un mantello dove il cavallo alato corre impetuoso. Un ingresso torbido che dà subito la misura di un album che scavalcherà la storia e gli stili, dove Astolfo deve decidere se ingannare con false immagini: non accadrà, perché sia queste che le prossime canzoni vivranno di immagini pure e vere. 


R.I.P. Requiescant in Pace


Il cavallo ora corre sul rock del suo tempo con il sudore che gronda dalle dita di Renato D’Angelo con il suo basso facoltoso, la chitarra blues inglese di Marcello Todaro e gli schizzi pianistici di Gianni Nocenzi. La voce di Francesco canta come un raggio di sole con gli occhiali che vedono e descrivono la gloria e il sangue caduto per farlo diventare brividi senza sosta. Si nuota dentro i pugnali che trovano le lance e che feriscono: la musica è un calvario leggero, dai passi sognanti. La malinconia, la forza, la dinamicità dei sei si amalgama in un lato descrittivo immenso degno degli eroi di quel tempo, Led Zeppelin su tutti. C’è modo e spazio per sconvolgere con il finale drammatico, applausi infiniti dentro il Colosseo.


Passaggio


La Psichedelia succhia dal Barocco e si tuffa sulla strada per lasciare il suo odore, in un breve passaggio di settantotto secondi che scuote mentre i secoli si accoppiano su note angeliche e un vocalizzo sacro tenuto quasi nascosto.


Metamorfosi 


Il cielo si riempie di colori, la quarta damigella balla, mentre tutto si fa sperimentale, in una pentola sonora dove troviamo l’immensità del talento dei sei maghi a rapporto con la strategia. 

Dai Deep Purple, ai Led Zeppelin, alle cantine buie di una Londra schizzata, arriviamo a un mappamondo scenico che brilla di avamposti, di idee che fanno del ritmo il signore dalla voce grossa e delle precipitazioni melodiche la scintilla di nuovi percorsi possibili.


Il giardino del mago


Un miracolo complesso che diventa qualcosa di più di grande di una canzone: una performance artistica di livello immenso, dove tutti si mostrano dotati di mani dai poteri incommensurabili, trame fuori dalla  comprensione ma piene di logiche che avanzano ascolto dopo ascolto. Quattro movimenti, quattro praterie a guardarsi da vicino, dove le doti tecniche sono il presupposto di un bagliore che illumina il giardino del mago così indaffarato a creare stratagemmi e illusioni dalla pelle lucida. Il canto, il controcanto, la storia che scivola sulle orecchie incredule, la chitarra e il piano che si fanno spiare dal basso e dalla batteria che diventano complici sublimi: c’è tutto e di più qui. Raggiunta la perfezione, l’incanto diventa storia infinita: gli spazi incontrati sono comete in avvicinamento, le schegge di chitarra e i tasti del pianoforte visitano l’ignoto e si resta sgomenti, in un coma lucido, vigile, ma che non consente movimenti. Quanta preziosità, allora, in questa composizione che mette l’attualità sociale di fronte alla sua collega di qualche secolo prima, in un precisare meticoloso che rende tutto chiaro.


Traccia


Meglio concludere la storia di un clamoroso miracolo con una canzone che non rinneghi i minuti precedenti ma che sia una sorta di memoria, un ribadire l’intensità usando la modalità di farlo in due minuti. Riuscendoci perfettamente. L’impeto, la lezione di scorribande piene di grazia di Paganini e la potenza evocativa di Beethoven fanno da annunciatori a questi tuoni dai canti settecenteschi in una cascata tumultuosa, torbida e magnifica. 


Ale Dematteis

Musicshockworld

Salford

8 Maggio 2022


https://open.spotify.com/album/1JTfLR9dGJp1VFSMoJ1ips?si=Kw8oTdr1S_uUttMde6kq0w






venerdì 6 maggio 2022

La mia Recensione: Calliope - Wuthering Wednesday

 La mia Recensione 


Calliope - Wuthering Wednesday 


Voli da fare ve ne sono molti: con ansia, gioia, preoccupazione, predisposizione, amarezza e mille altri sentimenti e condotti cerebrali che rendono tutto questo un range dalle dimensioni enormi.

Si va in Abruzzo, in provincia dell’Aquila, per sentire il fragore pulsante di una delicatezza sopraffina uscire da una composizione che sembra testimoniare la bellezza di quella terra spesso ferita ma non umiliata.

Da Pescina, la ragazza abruzzese porta il mondo in quella stanza dolce che è la sua musica, per poi ripartire e mostrare una sottile propensione ad un viaggio intenzionale, partendo dalla scelta di un cantato in inglese per connetterlo ad una modalità espressiva che ben poco ha di italiano.

Una voce educata, seduttiva, un’aquila reale (non poteva essere diversamente vista la località dove vive) in grado di far volare in movimenti sicuri, dove la velocità e la direzione della sua impostazione tecnica fanno del suo registro un incanto che apre le mani in un applauso scrosciante.

Calliope crea una storia dove la distanza, il dolore, il desiderio convogliano in un luogo pronto a divenire la raccolta di una muta espressione in avanzamento. Si assapora il profumo di un cammino, di un viaggio negli elettrodi del cuore che si incamminano verso un senso di non possesso sino ad una bugia che raggela.

La musica consta di una apertura che da nebulosa esce di casa tramite un pianoforte che cammina sul petto. Poi lei prende la sua voce e tutto diviene emozione verace. Il connubio tra la linea vocale e quella musicale è un insieme di zolle educate, che consentono di esaltare un volo che precipita nel testo.

Tutto ciò che è tenerezza sale su nel cielo, la scorribanda del pianoforte diventa un delizioso compagno di viaggio e le note sembrano scie nelle quali il nostro battito si addolcisce.

Con un arrangiamento leggero, essenziale e che dà al brano un senso notevole di completezza, con l’uso dell’elettronica minimalista fatta di accorgimenti atti a gonfiare il volume dei battiti in modo raffinato, il brano è un’aquila in un momento di pace in grado di parlare il linguaggio della rivelazione del proprio volo.

Tre minuti e trentadue secondi di puro incanto.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

6 Maggio 2022


https://youtu.be/sYDRmcxuS_c




martedì 3 maggio 2022

La mia Recensione: The Maitlainds - Live in Oldham






 The Maitlands 

Live at Whittles @ Tokyo

Oldham - Manchester 

Friday 29 April 


Siamo nomadi, figli del vento, randagi e anime pilotate dal desiderio di movimento. E la musica sublima tutto questo.

Ci si può spostare molto, oppure poco, ma è sempre un viaggio che non conosce arrivo, perché lascia dentro la sensazione che tutto ciò continui.

È così mi ritrovo a Oldham, luogo che sembra chiuso dentro il sorriso dei prati, a circondare una cittadina fresca e curiosa.

Sono qui per rivedere The Maitlands, la band più brillante di Manchester al momento, che amo per il suo approccio alla cultura e per la curiosità di chi non sente il bisogno di legarsi solo al mito della città. Come persone umili, non desiderano un rapporto di complicità con la storia decennale di questo luogo divenuto celeberrimo, ma cercano una autonomia ed una individualità che permetta loro di non essere parte di una scena.

Questa sera lo hanno dimostrato ancora una volta con il loro miglior concerto che io abbia mai visto.

La compattezza dei ragazzi ora risiede nell’aver eliminato tensioni, gelosie. Erano già molto bravi ma ora lo sono di più, sono un insieme di bellezze che ruotano dentro la complicità che rende la performance eccitante e coinvolgente.

Sembrano brani nuovi.

Dopo averli visti recentemente con una formazione ridotta a quattro membri, questa volta la nuova line-up ha potuto dimostrare tutto il loro valore: considerando che non hanno molte occasioni per stare insieme, il risultato è ancora più stupefacente.

Le canzoni questa sera erano dotate di un impianto spettacolare di colori: le note gravitavano dentro il cuore, la musica era un volo continuo, potente, e insieme ci hanno trasportato verso la consapevolezza di una gioia sempre più crescente, perché i The Maitlands rompono il limite dei confini.

Le chitarre di Rob Glennie e di Mike Foy sono api che pungono, ma in grado di donarci miele con il loro affiatamento perfetto.

Tom Sillitoe è il mago della tastiera che conferisce melodia e nerbo ai brani rendendoli completi, mentre Matt Byrne, con leggerezza e precisione, ha preso il suo basso e l’ha reso armonioso.

Saul non è umano, ammettiamolo: il suo amore per la batteria è così grande che tutta la tecnica e l’impeto si coniugano in un lavoro magistrale.

Poi c’è Carl: la sua voce, la modalità del canto, è poesia e, come uno sciamano, ci porta all’imposizione seducente, totale.

Una band con il presente solido che può permettersi di guardare al futuro sorridendo: hanno canzoni intense, capaci di far riflettere e di ammaliare, sono veicoli sani di bellezza e solo l’ignoranza di un mondo disattento può non tributare loro il successo che meritano.

Dodici brani a rendere denso il locale di profumi eccelsi, ritmo e melodia e ricchezza interiore che coniugandosi hanno fatto di una sera lo spettacolo dell’incanto.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

4 Maggio 2022



Matt Byrne Basso

Mike Foy - Chitarra

Saul Gerrard - Batteria

Rob Glennie - Chitarra

Carl L. Ingram - Voce

Tom Sillitoe - Tastiera


La mia Recensione: Auge - Spazi Vettoriali

  Auge - Spazi Vettoriali Il tempo viene archiviato solo dalla massa ignorante di chi ha fretta, quella che stringe gli spazi e divaga nel n...