Leonard Cohen - Various Positions
La scena potrebbe essere quella di Leonard con le Laurentides, mentre, fumandole, l’atmosfera scende dalle pareti per seppellire le note di un album che ha mostrato diverse svolte, nella meccanica dell’artista canadese che, con i suoi primi cinquant’anni, ha colto l’occasione non di riesumare i ricordi bensì di maturare nuovi ostacoli da definire.
La tragedia arriva con abiti nuovi, per innalzare un canto diverso, eloquente, un differente spartitraffico dei pensieri all’imbrunire del tempo, con la sua voce mai circondata dal panico, ma in grado di seminarlo.
Il cuore si crepa: sono storie che fanno abbassare la luce e, laddove il suo tentativo si è fatto evidente nel mostrare atipici arcobaleni, Leonard ha sorriso, sbuffato, fumato e cantato ancora più chiuso stringendosi nelle spalle.
Sta tutto nel titolo, in queste parole che lasciano l’immaginazione con un’amarezza e una gioia che trafficano con l’assoluto: un processo artistico che aveva nel cielo l’intenzione di naufragare in storie senza un microfono e tantomeno un megafono. L’intuizione diventa l’oppositore dell’evasione, in un groviglio di cavi mentali che risiedono in fiumi agrodolci nel paesaggio di tempeste dove al cantante serve un capitano, un Dio e una fila di personaggi che alimentino la corsia sporca del peccato.
L’allegria invoca il romanticismo e la musica, la vera protagonista di questo lavoro, arriva come un’estasi che conosce perfettamente la locazione del contesto, il pentagramma assume il ruolo di traghettatore e nuovi stili si affacciano, con l’imprinting di una orchestra quasi muta, che in punta di piedi suggerisce ai racconti suoni e colori mai avuti prima.
Il coraggio, dunque, di non lasciare la sua chitarra acustica pressoché in solitaria dimostra come il passato non fosse un’ancora di salvezza, ma un salvadanaio da rompere.
Il realismo, l’oscurità, la brillantezza dello sfacelo divengono i sospiri di questi arrangiamenti, di questi cori soul, dove il country rallenta e la psichedelia si getta nel fiume dell’amore. Si spiegano in questo modo queste composizioni che mescolano l’autenticità di un discorso complesso atipico, fuori contesto per quel 1984 consacrato a essere l’anno decisivo per l’abbattimento della lentezza e di parole che con la morale a portata di mano potessero rallentare l’eccesso nel consumo.
Un cavaliere che offre enfasi al rallenty è cosa dolorosa e indigesta.
Ma nel piatto di Cohen tutto è cucinato perfettamente: facilissimo evitare le sue pietanze. Ed è ciò che accadde nell’imminenza dell’uscita di questo gioiello notturno.
Il pianoforte, gli archi, il contrabbasso, la chitarra elettrica e una voce femminile diventano il sole cupo della sua anima che trova una trasfigurazione epocale e non preventivabile. Una forma ultraterrena si impossessa della sua matita: i suoi tratteggi si fanno più marcati, dolorosi ma al contempo vivono dicotomie comprensibili che ossigenano l’impianto artistico.
Il buio (il suo migliore amico) diventa uno spirito danzante, un valzer inusuale, dove il ritmo palesa il pretesto per un inganno che si materializza in almeno tre brani, per una modalità espressiva che abbraccia il gospel e il blues senza mostrare gli stilemi.
L’enfasi arriva nel cantato, più solare, con il registro della voce mediamente più alto e l’idea che quelle parole avessero già una bara nel cuore e non necessitassero di essere udite con quel tono baritonale che, se da una parte aveva ammaliato una generazione, dall’altra rischiava di allontanare le altre.
Un compromesso? Può essere, ma alla fine queste corde, piene di tabacco, alcol e drammaticità allineate da una chiave di violino quasi mal posizionata, conferiscono all’album una santità poco intuibile dopo il primo ascolto.
Come sempre la rima non appare scontata, svuotata ma in grado di urtare la comodità offrendo calci e pugni che, sfortunatamente per l’ascoltatore, questi si ritrova a subire.
La riflessione sulla condizione umana rimane il baricentro dei suoi scritti, ma appare evidente come eviti uno scontro violento diretto, cercando, invece, una prateria dove seminare elementi sorprendenti per confondere tutti in una fila d’erba ubriaca e ubriacante.
La sua profondità si fa filosofica (basti pensare al primo brano in cui ciò che accadeva nei campi di concentramento nazisti trova addirittura la sembianza di un momento felice…) ed è implacabile quando in una storia il malcontento è affidato al ritornello (se così si può affermare) piuttosto che alle strofe, in un ribaltamento sostanziale che mostra un totale menefreghismo nei confronti della forma canzone contemporanea. Gli accenni country e western sottolineano non solo la poliedricità bensì come il suo range di utensili morali, tecnici e musicali abbisognassero di un aggiornamento, non solo stilistico.
Le quote di riverbero sono molte, forse troppe, e proprio per questo è gradevole la sofferenza dell’ascolto, in un ossimoro che arricchisce l’anime e impoverisce la consuetudine. Leonard intriga, punge, sottolinea, ma mai invoca alleanze: viaggia sulla nave dei suoi pensieri con un tragitto che troverà negli album successivi maggior precisione. Un’opera longeva sin dalla sua pubblicazione, uno spartiacque, un semaforo, uno sparo medievale per acuire attenzioni e perplessità. Nessuna comfort zone. Non è possibile quando si parla dell’autore che maggiormente ha cercato di lanciare pietre vestendole di seta…
Ci si commuove, si rimane perplessi dai suoni, dagli stili mai davvero eterogenei ma consapevoli che in una fascina non esiste mai un ramo migliore di un altro…
Canzoni come colonne tremanti, come abeti, come sacchi di spazzatura da dover buttare nella piazza della nostra pazzia, come una incombenza ingombrante, dove la bellezza e l’amore sfidano la bruttezza e l’odio in un circuito in cui la comprensione (nostra) viene condotta in periferia.
Ed è qui che rispetto a Bob Dylan Leonard mostra una netta superiorità: versi non come sfoggio di qualità, ma come necessità che attraverso un artifizio si possa affondare nella coscienza.
L’intimità si connette alla immortalità, con la danza che non suda, non fa colare le gocce sulle gambe, ma produce tossine, vispe, nei corridoi della mente. Il desiderio e la lotta si ritrovano lontano da una panchina a discutere e la dinamica delle relazioni produce infezioni e scoramenti.
Il potere superiore non è divino per Cohen, e i sensi di colpa attraversano il cammino di chi cerca e, non trovando serenità, si dispera.
La morte torna, grigia e più lenta, per preparare la transizione inevitabile verso l'aldilà con l’inconfondibile stile di chi sa indorare la pillola, senza sbavature.
La complessità delle emozioni scivolano nelle musiche, così violente in quanto lente e quindi capaci di trattenere tutto, il falso e il vero, in un gioco che Leonard domina e non si discosta di molto, sotto questo aspetto, dai suoi album precedenti.
Offre dilemmi, fuochi d'artificio nelle tende di una esplorazione sempre infuocata da gemme gelide che, divenendo rossastre, centrano l’obiettivo primario del suo esporre.
Il conflitto nasce da parti lontane che non cercano vicinanza: da qui il suo segreto nell’inglobare, sotto il profilo temporale, le sue storie in pochi anni.
Stratagemma che si rivela perfetto, senza alcun dubbio.
Lui sa come proteggere i suoi versi: li affida a corde e a tamburi ovattati, a pennate delicate inconsciamente leggiadre, ma alla fine dei conti il pentagramma risulta essere uno splendido funerale emotivo.
Offre conforto, compassione, carezze con arpeggi settecenteschi e affreschi che sembrano provenire da contrade italiane del Milletrecento. Un altro mistero, un altro pozzo di San Patrizio che, rivelandosi, mette in difficoltà la comprensione, perché innanzi alla sua prolifica generosità ci si sente poveri e non più ricchi, per una tragedia al limite del comico.
“Le colline per cui rallegrarsi”: si potrebbe partire da qui per stabilire, nello smarrimento del senso, un allontanamento dal desiderio di dare al proprio bagaglio culturale l’accesso al suo. Cohen divide, setaccia, allontana e lo fa con la sua voce da quercia in cammino, dove, lentamente, ci insegue per abbatterci con la sua bellezza…
La vecchiaia mostra i denti attraverso conflitti comportamentali che rendono crudeli le note, in una ambigua leggerezza che stordisce, ammalia ma al contempo sconquassa e destina i nostri pensieri verso i luoghi di un nascondersi inevitabile.
I musicisti sono disciplinati, attenti, come un’orchestra che nel maestro trovano ordini, spartiti e gesti secchi: nessuna fuga concessa, come nessuna sbavatura e un senso sacro della performance che rende il disco un quadro sonoro in viaggio dentro la furia del tempo. Non conta l’attualità, il passato o il futuro: tutto è ossigeno infuocato dove le sue parole e le sue note sono molecole che lasciano paresi e dolcissimi incubi, al limite di una pericolosa piacevolezza.
Leonard Cohen affida al vento il compito di portare tutta la complessità a farsi una doccia e sceglie gocce rosa, un whiskey di marca e tanta forza in versi che nel 1984 parevano giungere da Atlantide, da Babilonia (come citata nella prima canzone dell’album) in un viaggio che non consuma ma, per davvero, gonfia l’insieme in un drammatico senso verso l’esplorazione della verità.
Le note sono cucite sulla pelle di questi lampioni e la morale diventa un blues atipico ma essenziale, che riesce a fare del tempo il testimone muto che consente l’ingresso per via della sua poeticità che come una musa stordisce.
Ma la sua saggezza diventa incompiuta se l’ascoltatore non comprende che, proprio perché non ci troviamo davanti a un capolavoro, questo esercizio artistico ci mostra maggiormente l’adesione al vero: diventa irrinunciabile lo studio e l’introspezione, per completare quel senso di adesione allo shock che questo lavoro sa generare…
Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
23 Febbraio 2025
https://open.spotify.com/intl-it/album/6I58qJMqZHhb8jtNT3CuJB?si=BSZi-tlSQIKDKB8ZRpnePQ
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