giovedì 27 marzo 2025

La mia Recensione: David Middle - A Goth, A Piano & Songs of Sorrow


 

David Middle - A Goth, A Piano & Songs of Sorrow


Un’ombra umorale sale dal cielo di Cambridge (lo fa da tanti anni), in costante dilatazione, usando forme artistiche diverse, prendendo il coraggio, il lavoro, il talento e la sfortuna sotto l’ala della sua splendida e ostinata necessità di non lasciare il mondo senza le sue ossessioni, dolcezze, integrità, volontà di fare del proprio mantello lo sguardo della sua purezza.

Questa espressione della natura ha un nome: David Middle, un corsaro gotico, cinematografico, a tratti un mimo della vita, altre volte un cabarettista che sfida il nero trasformandosi anch’egli come il più vorace dei colori. Per avanzare, fermare il tempo, costruire barriere coralline con la sua filosofia diretta, le sue corde vocali acute, spigolose, saggiamente tremende e implacabili, in ebollizione, una polveriera che saccheggia la calma e la conduce verso un atto di fede agnostica…

Un album da solista, mentre la sua anima non ha mai mancato di collaborare con band e progetti paralleli, è una scelta che rende più specifico il suo flusso cosciente, in una modalità che gli permette un focus indiscutibilmente forte e circostanziato ai suoi testi così potenti e in grado di trasformare la realtà, le paure, il silenzio e la memoria come i piloti di un palazzo mentale che mostra in modo ineccepibile.

Usa strategie note in modo inusuale, colora le trame sonore con il vento di una ispirazione continua, spaziando da Klaus Nomi, ai Virgin Prunes, a Rozz Williams, al più cupo Alice Cooper, arrivando a sfiorare la spalla di Genesis P-Orridge e il mento di Marc Almond. Ma è solo l’inizio, una falsa pista, in quanto David ha praterie proprie, come le sementi del suo pensiero così autonomo e originale.

La vita e le sue pene non sono raccontate bensì vissute in contemporanea, come se tutto accadesse mentre ascoltiamo e questa sensazione, divina e massiccia, lascia petali neri sul nostro respiro, rendendoci consapevoli di una dipendenza a cui in fondo non si sperava di avere la fortuna di assistere…

Si può, in questo modo, riflettere su come la pochezza degli strumenti usati in realtà aprano le porte della percezione, dando alle nostri menti lo spazio per allargare la necessità di far fluidificare questo pentagramma che invece di essere povero è ricco di grandi suggestioni. Tasti in bianco e nero e una sequenza teatrante di movimenti che accolgono archi sintetici e handclapping che suggeriscono il silenzio attorno a essi: Middle è un mago fuori da questo tempo, scevro dai condizionamenti, così barocco nella sua fertilità che non accetta forzature da parte delle forme espressive del presente.


Costruisce sentenze che, voraci, danzano nella sua ugola graffiando la volta celeste, l’unico vero paradiso che vede il suo laboratorio essere una cascata di pensieri imbottiti di incantevoli giochi di luce, dove il chiaroscuro è solo lo start dei suoi bisogni artistici, poderosi e olfattivi, sensoriali in quanto l’orchestra dei suoi battiti finisce per invadere tutto, con calma e una disperata intelligenza.

Un album per anime abili nel farsi avvolgere, coinvolgere, per sospendere la parte che si rifiuta di capire l’intensità, il dovere della coscienza, divenendo un distributore di scintille razionali che abbracciano la purezza di sentimenti caduti nella solitudine non voluta. Il connubio tra la musica e le parole risulta così essere un perfetto mantra con il quale cadere nella piacevolezza del dolore.

La ricerca armonica mostra integrità, conoscenza delle modalità espressive e un grande rispetto per quella parte della storia musicale che l’odierno non conosce e non rispetta. David si rivela così un combattente con note come pallottole gentili, mentre le parole sono sciabolate a salve, in grado di centrare lo spazio che sta perfettamente a metà tra la mente e il cuore.

L’artista rivolge l’attenzione verso la natura, misurando distanze e similitudini, coinvolgendo la strada della descrizione armonizzando il proprio spirito complice, maturando con la musica un legame intenso, quasi muto, per poter vivere liberamente una connessione con entità sicuramente più buone. 

Si ha sempre l’impressione di una maturità che induce David a cullare le rughe della propria mente spingendolo verso una forma quasi segreta in cui essere custode e rabdomante, alla ricerca di verità, seppur scomode, ma gestite con autorevolezza.

Quando si ha l’impressione che voglia seminare petali neofolk si avverte una sacralità pagana forse anacronistica, che però offre la misura della sua estensione culturale, e la sua lingua sa essere un dolce veleno che rovesciandosi diventa amaro: miracoli come infissi nel buio…

Accade poi di sentirlo congedarsi dalla vita (nella maestosa Ode to Jacqueline) si avvertono brividi, come se un amico se ne andasse, ed è uno dei momenti più toccanti con i quali si deve fare i conti. La sapiente volontà di donare melodie che si fissano nella mente comporta il fatto che pure le parole facciano lo stesso, finendo per dilatare i centimetri del nostro ascolto.

Le orchestrazioni, minimaliste e mai pompose, danno anche la misura di una produzione curata, in grado di farci avere l’impressione di un racconto in musica che va riletto e riletto ancora: nemmeno una sillaba di bellezza va persa in questa opera meritevole della migliore accoglienza…


Song by Song


1 - No One Hears Me

“Pull me out from the drowning mud”


Una danza appare, nella notte, per essere un racconto tra ansia e sogni mancati. La musica è un gesto balsamico attraverso tasti battenti con morbida propensione verso il registro basso…


2 - Climbing Stairs

“Every fall is a lesson, every climb is a spell”


La contrapposizione tra le note grevi e lente del pianoforte e il cantato di David creano un lampo notturno nel quale cadere con dignità. Un brano che pare arrivare dalla tensione teatrale e cabarettistica del miglior Marc Almond. Ed è apoteosi in ripetizione…


3 - Help Me Please

“I, see faces, but memories still fade”


La memoria qui trova una clamorosa centralità e la cavalcata del basso e il contrappunto del piano ci riducono in brandelli. E poi quella invocazione, che si trasforma in un mantra da tenere nel circuito segreto delle nostre colpe. Un capolavoro senza tempo…


4 - The Whispering Wings

“Underneath the whispering trees”


Il teatro francese sale sul palcoscenico, si cambia l’abito e diviene un eco inglese del Millesettecento, con un’apertura alare del ritornello che pare essere un monito, in cui il terrore afferra i sogni e li uccide…


5 - Final Witness

“Scared to last you 

never rest”


Si danza e senza il drumming è pure meglio: sulle punte, come ballerini classici, mentre il testo compie una panoramica sostenuta da una voce che si fa ago piangente…


6 - Ode to Jacqueline

“My time has come, and now i know I said goodbye”


Il ritmo rallenta e i tasti sentenziano, per poi aprire le braccia dentro un circolo di luci amorose piene di tensioni, inviti, sino al finale con un addio che traduce perfettamente uno spartito così volenteroso di essere riconoscente alla musica classica, che qui si fa ancora più evidente e necessaria…


7 - Gothic Candles (Midnight Mix)

“Through the darkness, we journey hand in hand”


David ci porta costantemente nella notte, nel buio, per attraversare le illusioni dei sogni e le più evidenti e reali forme dolorose, con un’ambientazione musicale gotica, come se Rozz Williams lo incitasse a non perdere la teatralità perfetta del suo cantato… 


8 - Walking with the Dead

“In my heart, the dead will stay”


Una prodezza, un nuovo tuono nel cuore e nella testa, per questa ouverture che diventa una piacevole tortura, che cerca di trasformare un volo libero in un doveroso schianto. Tutto qui odora di definitivo, come se davvero la convivenza con la morte potesse essere l’unica gioia. 


9 - Our Broken World

“Our innocence lost in the hands of fools”


Il cantato iniziale ci riporta ad Hallelujah di Leonard Cohen, ma poi tutto si sposta e si entra in una drammaticità solare, in un contrasto giocoforza ragionevole, e la musica rende il tutto perfettamente coeso e intatto…


10 - A Hollow Heart

“But through the tears, I’ll find my way”


La disperazione è obbligatoriamente un processo lento. E invece David la rende quasi una fase allegra, veloce, dalla voce leggera, e la musica che pare fare il solletico all’inverno…


11 - Dark Love

Il brano più raffinato, più teso e drammatico giunge quasi alla fine dell’album, lasciando petali dandy nel testo e spunti musicali che attraversano le epoche e gli stili per poi farci sentire il gusto amaro di un amore pieno di tenebre…


“A symphony of lust, makes your heartbeat tight”


12 - Mood Swings

“I laugh until I cry”


Una voce filtrata, come mai prima, fa da apripista all’ultima canzone, che è come un epitaffio nascosto, sepolto da una musica angelica con sfumature, in modo emblematico, drammatico. Ed è un soffio dolce che spegne la candela, che subito però riaccendiamo per riascoltare questo album così delizioso e significativo che è un peccato madornale trascurare…



Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

27 Marzo 2025


https://batcaveproductions.bandcamp.com/album/a-goth-a-piano-songs-of-sorrow

My Review: David Middle - A Goth, A Piano & Songs of Sorrow


 

David Middle - A Goth, A Piano & Songs of Sorrow


A moody shadow rises from the skies of Cambridge (he has been doing this for so many years), constantly expanding, using different artistic forms, taking courage, work, talent and misfortune under the wing of his splendid and stubborn need not to leave the world without his obsessions, sweetness, integrity, will to make his own cloak the gaze of his purity.

This expression of nature has a name: David Middle, a gothic, cinematic privateer, at times a mime of life, at other times a cabaret performer who defies blackness by transforming himself like the most voracious of colours. To move forward, to stop time, to build coral reefs with his straightforward philosophy, his vocal chords acute, angular, wisely tremendous and implacable, boiling, a powder keg plundering calm and leading it towards an act of agnostic faith.

A solo album, while his soul has never failed to collaborate with bands and parallel projects, is a choice that makes his conscious flow more specific, in a way that allows an unquestionably strong and circumstantial focus to his lyrics that are so powerful and capable of transforming reality, fears, silence and memory like the pilots of a mental palace that he displays flawlessly.

He uses note strategies in an unusual way, colouring the sonic textures with the wind of continuous inspiration, ranging from Klaus Nomi, to the Virgin Prunes, to Rozz Williams, to the darkest Alice Cooper, touching on Genesis P-Orridge's shoulder and Marc Almond's chin. But it is only the beginning, a false trail, as David has prairies of his own, like the seeds of his so autonomous and original thinking.

Life and its pains are not recounted but rather experienced at the same time, as if everything was going on as we listen, and this sensation, divine and massive, leaves black petals on our breath, making us aware of an addiction that we had not hoped to witness...

We can, in this way, reflect on how the paucity of the instruments used actually open the doors of perception, giving our minds the space to expand the need to fluidify this pentagram that instead of being poor is full of great suggestions. Black and white keys and a theatrical sequence of movements that accommodate synthetic strings and handclapping that suggest silence around them: Middle is a magician out of this time, free of conditioning, so baroque in his fertility that he does not accept forcing from the expressive forms of the present.


He builds sentences that, voraciously, dance in his uvula scratching the celestial vault, the only true paradise that sees his workshop be a cascade of thoughts padded with enchanting plays of light, where dusky is only the start of his artistic, powerful and olfactory, sensorial needs as the orchestra of his beats ends up invading everything, calmly and with a desperate intelligence.

An album for souls adept at being enveloped, involved, to suspend the part that refuses to understand the intensity, the duty of conscience, becoming a distributor of rational sparks that embrace the purity of feelings that have fallen into unwanted solitude. The combination of music and words thus turns out to be a perfect mantra with which to fall into the pleasantness of pain.

The harmonic research shows integrity, knowledge of expressive methods and a great respect for that part of musical history that today's music does not know or respect. David thus reveals himself to be a fighter with notes like gentle bullets, while the words are sabre-rattling blanks, capable of hitting the space that lies perfectly between the mind and the heart.

The artist turns his attention towards nature, measuring distances and similarities, engaging the road of description by harmonising his own complicit spirit, maturing with music an intense, almost mute bond, in order to freely experience a connection with entities that are surely more good. 

One always gets the impression of a maturity that induces David to cradle the wrinkles of his own mind, pushing him towards an almost secret form in which to be a guardian and diviner, in search of truths, albeit uncomfortable, but handled with authority.

When one gets the impression that he wants to sow neo-folk petals, one senses a perhaps anachronistic pagan sacredness, which nonetheless offers the measure of his cultural extension, and his language can be a sweet poison that turns bitter when overturned: miracles like fixtures in the dark...

It then happens to hear him take leave of life (in the majestic Ode to Jacqueline) one feels shivers, as if a friend is leaving, and it is one of the most touching moments to come to terms with. The skilful willingness to give melodies that stick in the mind means that the words do the same, ending up stretching the inches of our listening.

The orchestrations, minimalist and never pompous, also give the measure of an accurate production, capable of giving us the impression of a tale in music that must be reread and reread again: not a syllable of beauty is lost in this work that deserves the best reception...


Song by Song


1 - No One Hears Me

‘Pull me out from the drowning mud’


A dance appears, in the night, to be a tale between anxiety and missed dreams. The music is a balmy gesture across pounding keys with a soft leaning towards the low register...



2 - Climbing Stairs

‘Every fall is a lesson, every climb is a spell’.


The contrast between the heavy, slow notes of the piano and David's singing create a nocturnal flash into which to fall with dignity. A song that seems to come from the theatrical and cabaret tension of the best Marc Almond. And it is apotheosis in repetition...



3 - Help Me Please

‘I, see faces, but memories still fade’.


Memory finds resounding centrality here, and the bass ride and piano counterpoint tear us to shreds. And then that invocation, which turns into a mantra to be kept in the secret circuit of our guilt. A timeless masterpiece...



4 - The Whispering Wings

‘Underneath the whispering trees


French theatre takes the stage, changes its dress and becomes an English echo of the eighteenth century, with a wingspan of the refrain that seems to be a warning, in which terror grabs dreams and kills them...



5 - Final Witness

‘Scared to last you 

never rest’


There's dancing, and without the drumming it's even better: on your toes, like classical dancers, while the lyrics pan around supported by a voice that becomes a weeping needle...


6 - Ode to Jacqueline

‘My time has come, and now i know I said goodbye’.


The rhythm slows down and the keys sentenced, then open their arms inside a circle of loving lights full of tension, invitations, until the finale with a farewell that perfectly translates a score so willing to be grateful to classical music, which here becomes even more evident and necessary



7 - Gothic Candles (Midnight Mix)

‘Through the darkness, we journey hand in hand’


David takes us steadily into the night, into the darkness, to traverse the illusions of dreams and the more obvious and real forms of pain, with a gothic musical setting, as if Rozz Williams were urging him not to lose the perfect theatricality of his singing... 



8 - Walking with the Dead

‘In my heart, the dead will stay’


A feat, a new thunder in the heart and head, for this overture that becomes a pleasant torture, trying to turn a free flight into a dutiful crash. Everything here smells of finality, as if living with death could really be the only joy. 



9 - Our Broken World

‘Our innocence lost in the hands of fools’.


The opening vocal takes us back to Leonard Cohen's Hallelujah, but then everything shifts and we enter into a sunny drama, a playfully reasonable contrast, and the music makes the whole thing perfectly cohesive and intact...



10 - A Hollow Heart

‘But through the tears, I'll find my way’.


Despair is necessarily a slow process. Instead, David makes it almost an upbeat, fast, light-voiced phase, and music that seems to tickle the winter...



11 - Dark Love

The most refined, most tense and dramatic track comes almost at the end of the album, leaving dandy petals in the lyrics and musical cues that cross eras and styles only to make us feel the bitter taste of a love full of darkness...


‘A symphony of lust, makes your heartbeat tight’



12 - Mood Swings

‘I laugh until I cry’


A filtered voice, as never before, leads the way to the last song, which is like a hidden epitaph, buried by angelic music with shades, emblematically, dramatic. And it is a soft breath that extinguishes the candle, which we immediately relight to listen again to this album so delightful and meaningful that it is a great pity to overlook...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

27th March 2025


https://batcaveproductions.bandcamp.com/album/a-goth-a-piano-songs-of-sorrow

venerdì 21 marzo 2025

La mia recensione: The Bolshoi Brothers - The Bolshoi Brothers


 

The Bolshoi Brothers - The Bolshoi Brothers


C’era una volta e c’è ancora un luogo nel Wiltshire, nel sud dell’Inghilterra, non lontana da Bath, una località resa famosa da una formazione post-punk e darkwave (Bolshoi), che di nome fa Trowbridge e che ha portato per un pò, nel suo ventre, le prelibate peripezie del quartetto.

Nel 1990 la band si sciolse e ora il Vecchio Scriba si accinge a portarvi in un oceano in fuga, lenta, verso il cielo, con una miscela armonica che ha richiami antichi, delicati, profumati, dove il folk, la psichedelia, la pelle inumidita di Alternative e Indie Rock fa da base per un circolo razionale inevitabile. Le undici canzoni sono state scritte durante il lockdown, a distanza: Florida chiama, Seattle risponde, in un percorso solo fintamente separato. Le idee, gravide di umori e maturate esposizioni all’addensamento di pensieri a braccetto con la filosofia, vengono rese libere dal talento, dal lavoro sul senso, sulla schiena di storie dall’involucro protetto dai suoni che spargono tenerezza e curiosità. Molti i luoghi su cui le canzoni planano, molti i riferimenti in  cui si potrebbe trovare un sorriso, un sollievo, ma, soprattutto, grande è il perimetro dei versi, degli arrangiamenti, del cantato, del flusso energetico, dei raggi di sole che fanno dei Bolshoi di un tempo un piacevole ma non essenziale ricordo. 

Trevor Tanner, come sempre chitarrista e voce, disegna, attira l’ascoltatore nelle sue praterie mentali, mentre Paul Clark (tastiere) è il grande artefice di questo caleidoscopio, di questa foresta che cerca di catturare la luce per nutrirsi di speranze. E le loro nuove residenze, americane, hanno favorito un parto artistico nel quale, tra i due poli, vengono compresse sensazioni, dolori, impeti e una folta vegetazione sensoriale: un album come uno slancio che non conosce direzione, per dar senso alla vera libertà.

È rock che sembra nato dalle bave di Lou Reed, dalla psichedelia australiana della seconda parte della carriera dei Church, sino a chiamare a sé il periodo degli anni Novanta di band inglesi che riprovavano il brivido della sponda americana che si ispirava specificatamente a quella di Boston. E quella della band inglese Eat. Inoltre vi è presente l’ebbrezza data dai lavori di gruppi vicini allo slowcore, specialmente poi quando nei ritornelli a prevalere è un senso malinconico.

Non sono assenti gli antichi petali cupi, le bordate di tossine ma il tutto è più levigato, con la capacità di entrare anche nelle zone del country, quasi come una sfida, facilmente vinta, in quanto i due non hanno mai mancato all’appuntamento con l’ironia (come nel brano Cowboy Chords). Però in tutto questo esercizio artistico, le chitarre sono sempre lontane dal voler inghiottire il tutto: sono generose, attente e scrupolose, volenterose nel tradurre il passaggio delle loro esistenze. 

Ci vuole coraggio per scrivere un battito di ali, quando prima si descrivevano passi insicuri nella notte buia delle strade di Londra.

La testimonianza dell’età adulta, di un percorso che cerca lo sviluppo non può legarsi alla nostalgia.

Ci sono elementi di contatto con un’idea gloriosa e pericolosa: orchestrare l’esistenza con canzoni come una matrioska con l’intenzione di un contatto, come se i brani fossero pagine all’interno di una biblioteca vogliose di entrare nei palmi delle nostre mani.

Quando poi arriva Beautiful Creature si capisce come la radice rock americana sia capace di rivelare il lato post-punk di un tempo ma rivestito di una pellicola luminosa vicina all’incanto di un miracolo, perfettamente riuscito. Forte è la presenza degli anni Novanta in almeno la metà dei brani, tuttavia non come limite, bensì come palestra muscolare di assoli in grado di riportare il suono nel luogo che gli compete. E poi i Blue Aeroplanes che spesso fanno capolino, come lo fa la sensazione di un cabaret pop in cerca di un applauso timido, e il recitato di Trevor sale sul palcoscenico della pazzia, con citazioni, riferimenti davvero notevoli. Si danza con consapevolezza, si sorride e si trovano lacrime generose nella splendida e conclusiva This Town, vero gioiello intuitivo, capace di sorprendere e trascinare nell’intima località del ragionamento ogni  paura…

Fulcro, baricentro e freccia libera di separarsi dalle prigioni è la mastodontica Platitudes of Scorn, un trattato biologico, un vocabolario di bellezza che, partendo dalla psichedelia inglese, atterra nella ballad claustrofobica americana, per divenire il pezzo su cui collegare il lato solare e quello cupo dei due artigiani musicali, qui in totale armonia, per dare non solo al brano ma all’intero album un senso di epicità inevitabile.

Hanno colto il senso dello spargimento del tempo e lo hanno lasciato libero di voltare loro le spalle, senza acredine, senza eruzioni inutili di rabbia. Una clamorosa disciplina, resa possibile dalla loro stessa produzione, fa sentire il tutto come un lungo soffio dalle undici piume, dove ognuna rincuora le altre.

Piccole scintille del loro passato  si possono trovare nella penultima composizione, Built in Obsolescence, un crocevia, una pillola che dalla mente di un passato prova ad arrivare alla realtà. Amniotica, nevrotica, elettrica, è sicuramente epidermica in quanto sa come tenere un lasso di tempo enorme comprimendolo in un minutaggio che, seppur breve, è molto rappresentativo per quanto concerne il periodo che fu per loro glorioso.

Non si può rinunciare a Suburbs, quel secondo incanto sonoro che mette i brividi, per la scrittura che brucia le ostilità e ridà senso al vivere della provincia, a storie che rischiano di rimanere inascoltate.

Si può fare a meno del passaporto ma non dell’identità: ecco che la già citata This Town rivela antichi amori rimescolati (The Velvet Underground), che in un momento di freschezza riescono a ingannare il movimento delle lancette dell’orologio, per poi trasferirsi verso i Beatles e l’Inghilterra, per un ritorno a casa.

Che è perfettamente il fattore dominante di questo disco: partire dal limite (il lockdown), per trovare una nuova residenza: quella dentro di sé, per un risultato clamorosamente armonioso e intenso…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

21st March 2025


https://thebolshoibrothers.bandcamp.com/album/the-bolshoi-brothers






My review: Edna Frau - Slow, Be Gentle I Am Virgin

  Edna Frau - Slow, Be Gentle I Am Virgin In the chaos of unease, there is a silent counterpart and a planned friction, which unleashes the ...