mercoledì 25 settembre 2024

La mia Recensione: Faust'o - Poco Zucchero


 

Faust’o - Poco Zucchero


Il principe si aggira con libri musicali infilati sotto le dita, spaziando in un periodo gonfio di rinascimenti e attitudini a evolvere concetti, spiando dal palco di un teatro, sfiorando la seconda metà degli anni Settanta, trasportando il futuro su una tavola, dove l’uso di poco zucchero rivela gusti e retrogusti che non si pensava esistessero. Giovane, acerbo, profondo e adirato, conosce tuttavia la disciplina per continuare a essere un comico serio, un affabile vampiro diurno, con la testa abbassata su vinili, riviste, fanzine e idee che circolano in attesa di finire su un leggio, l’apripista di un cosmo da visitare.

Faust’o per questo secondo disco ruba, gratta, cita lungamente, passando dal cinema alla letteratura, finanche  a una notevole dose di album, che sono stati aspirati nel circuito intenzionale del suo progetto. Un passo molto addentro al presente, per illuderci di una contemporaneità che si potesse lanciare nel destino di un terribile luogo chiamato futuro.

Con l’aiuto di Alberto Radius alla produzione (e anche alle chitarre) e quello di Oscar Avogadro, Fausto Rossi compie un sacrilegio, una serie di danze fameliche sul cadavere di una società su cui aveva già puntato i fari nel disco di esordio. In questo lavoro però abbiamo una potente escursione nel passato, una metafora che si percepisce cercare innesti soprattutto nei riguardi dei circuiti della approssimazione e dello sbando. L’impronta elettronica ci porta a ricordare il lavoro fondamentale dei Suicide e dei Cabaret Voltaire e poi, certamente, pure di David Bowie, ma non è questo il punto. Sono scatti, sniffate di note, che in seguito vengono prese e lacerate, bruciate sotto i pollici che premono, e riescono a mutare il dna generazionale sconvolto dall’enfasi, dal nuovo, dalla libertà acquisita dal 1968 ma che ormai è lesa, scucita, in un vuoto di senso che Fausto scova, portandolo a smarcarsi da una serie infinita di banalità.

Gioca con i generi musicali in modo serioso, avvolge l’Italia nel bacino di un emisfero musicale totalmente sbilanciato verso la Germania, gli Stati Uniti e l’Inghilterra. Una serie di cliché da punire, utilizzando lo stratagemma di un singolo molto “catchy”, che arriva in classifica, negli spazi normalmente colti da una platea distante dall’impegno, dalla sperimentazione, che della musica fa un gioco.

Gioca pure lui, però, con questo album: spaziando da un primo lato più leggero, brillante, pieno di euforiche mutazioni ispirazionali, per poi, nell’incredibile seconda parte, sfondare la sicurezza con acciaio, martello e fiori di pietra.

La poetica robotica del primo lavoro qui viene catapultata nella frattura e nella distanza, un capovolgimento dei sensi per rendere il baratro una lunga fuga.

Il ritmo (si mettano in evidenza per cortesia i due batteristi che hanno dato un grande contributo, Walter Calloni e Tullio De Piscopo), la melodia e l’armonia (Piero Milesi al violoncello e Claudio Pascoli al Sax) sono l’anfiteatro di una serie di concetti che, attraverso un pentagramma sottile, arrivano a farci sentire quello che i Kraftwerk e i Devo sapevano fare perfettamente: preparare la tavola della follia, eseguendo sentenze sonore prima ancora che asserire o suggerire.

Poco Zucchero approfitta dell’ignoranza del tempo, del troppo finto rispetto, induce in tentazione, spalanca lo sguardo verso l’incredulità, portandoci nei bip elettronici di una serie di sostituzioni davvero notevoli. 

La chitarra diventa un maggiordomo della tastiera, il basso un mago che gioca a nascondino, la voce è un inchino nevrotico, con perlustrazioni sui registri ragguardevoli, ingrassati da parole spiazzanti, con proiezioni protese verso una negatività controllata, come un piano da stabilire con la coscienza dell’ascoltatore.

Riferimenti, appunti, ricordi: sono impianti strutturali che non pretendono la genialità (per quanto, sia chiaro, siano presenti e abbondanti), piuttosto sono i semi di un non so che in cerca il dissenso. Litiga anche con se stesso, spinge il suo talento verso una strada tortuosa, per illuminare la malinconia e l’autocommiserazione, uno schianto che adopera la faccia del rock, ma senza muscoli, senza sudore, senza indossare giacche con lustrini, ma con la stessa caparbietà di Brian Eno: manopole, esperimenti, allucinazioni lasciate cadere su un pentagramma che deve asciugarsi, dimagrire, perdere liquidi…

Un album che ha l’odore del sangue in volo, con sacchetti di plastica e una tastiera sulle spalle, sbeffeggiando il tempo e la musica: c’è una lentezza di fondo che affascina e ci fa divenire, grazie a una serie di ascolti ripetuti, schiavi di un piacere doloroso.

Tutto sembra appassire nelle marce apocalittiche di queste congiunzioni, dello strapotere di una follia che per la prima e unica volta decide di scrivere canzoni che possano cadere nel dimenticatoio, se la scintilla non è passata a farsi vedere dentro questi inconfondibili solchi. Non il suo disco migliore, bensì l’unico in grado di farci intendere l’esordio e di garantirci la sicurezza che il successivo sarebbe stato ben diverso, come si è poi rivelato.


Ora spegniamo la luce dell’egoismo, delle pretese, dei giudizi e andiamo a caricare la nostra obesità intellettuale con la sua dieta, quella che, saggiamente, prevede poco zucchero…







Song By Song 



1 - Vincent Price


L’esordio porta con sé Rino Gaetano a cena con la poesia cinematografica che usa il piano come se fosse una notte piena di alcol a New Orleans. Il basso funky è la coperta di un balbettio continuo di piramide sonore allegre mentre il testo naviga dentro il terrore e l’agonia. L’assolo di Radius all’inizio segue la successione di accordi e il cantato per poi grattare il cielo con le sue propensioni piene di magnetiche evoluzioni.



2 - Cosa rimane


La Motown si affaccia, miscelata a una modalità tanto cara agli Chic con un quasi funky unito a un vapore elettronico che utilizza due sole note per sposare questo vascello che, all’improvviso, attraverso il balbettio di un sax, ci ricorda i Roxy Music. Il cantato è deciso, la voce impastata, come un bulbo nel cervello, con una cadenza ritmica precisa. Il lungo finale ci porta a intendere come la vera storia scivoli nel silenzio di queste lucciole ripetute, che si conficcano nella testa…



3 - Attori malinconici


Prendi delle gocce, falle rimbalzare in uno specchio e poi mantienile vive, dentro una composizione sorniona, come un accenno, che immobilizza la stupidità, in un elenco di gesti e di volti che ci fanno sbiancare. Tetra, come i Cabaret Voltaire che si affacciavano alla sospensione metrica con l’intensità di esordienti loop, questa terza traccia abusa della pazienza, in un terremoto di echi soffocati e la brillante idea di camuffare la forma canzone, dandole uno strattone con un climax elettronico che ci porta a capire e ad afferrare con coscienza quello che accadrà, di lì a poco, con questo tipo di sperimentazione stilistica…



4 - Oh! Oh! Oh!


I primi secondi sono una slavina di riferimenti talmenti evidenti che è inutile elencarli.

Piuttosto: ciò che conoscevamo di questo pallottoliere di sentenze trova in questa occasione l’ironia e il fruscio di una follia che pare devitalizzare i rapporti con la noncuranza. Lo stesso accade con la musica che solo apparentemente si appoggia a un breve lavoro strutturale: a vincere è il suono, l’estensione che è messa all’interno di una gabbia sino a fare del riff di chitarra l’unica sicurezza piacevole. Pop in modo innaturale, selvaggia senza rabbia, riesce a portare una vocale al centro di una attività ludica che possa ipnotizzare le parole precedenti e quelle successive. Scheletrica ma efficiente, anticipa quello che poi sarà fondamentale per il terzo disco di Alberto Camerini. Ciò che fa del disimpegno un ingresso è, in realtà, l’uscita della coscienza verso l’inutilità di rapporti sterili…



5 - In tua assenza


Bowie, subito, poi la magnificenza di Fausto si alza verso i gradini colmi di lacrime di Rossi, con una voce gonfia di pietà e lamenti, come le parole, che sono scuri dentro la parabola (fallita) dei segreti. Una recita che arriva nei pressi delle pareti di Carnival dei Simple MInds, con la medesima teatralità, con un'incursione del sax che sarebbe poi stata utilizzata nel 1980 dagli Psychedelic Furs. Una danza tra le parole, le note, per mettere il bavaglio all’elettronica che stava sbandando: poche note, silenzi inglobati dai luoghi visitati dalle liriche, e un assenteismo che fa di questo brano un gioiello ancora incomprensibile… 



6 Kleenex 


Il trittico finale è un terremoto senza fine.

Si inizia da qui, da questa voce sussurrante, all’interno un tetro tappeto sonoro, con echi evidenti di una modalità cara ai Pink Floyd di Middle, per continuare con un cambio di registro, sotto il tintinnio di un organo, gli starnuti sexy del sax. Ma, più di tutto, pare di essere nello studio dei Can, in un laboratorio di oscena profondità, dove il sesso, la lacerazione del tempo, la fuga inadatta per essere totale, ci introducono al mistero di un favoloso fade away finale…



7 - Il lungo addio


Dio in mezzo a un addio: ed è tuono atmosferico tendente al giallo, cupo, gravido di noia, di liquori lamentosi, di una fuga che è riempita dal mistero, con note che non cercano di essere evidenziate, bensì si mettono addosso un cappotto fatto di brividi, con lampi reggae, con il futuro che fa capolino, con gli intarsi di strategie magnetiche a globalizzare il concetto espresso con incredibile saggezza. Si piange in solitaria, si arrotola il futuro negli scatti della voce, si trema con queste scariche elettriche tetre e malvagie. 

Non un brano ma una sentenza, un testamento dell’intellighenzia che aveva già subodorato il tutto: c’è da chiudere le finestre in faccia al futuro e questo brano è l’unico suicidio qualificato per renderlo possibile…



8 - Funerale a Praga


Quanto futuro in questo pezzo che parte da un violoncello tzigano, come un’artrosi senza legittimità?

Straziante, cadaverico, tristissimo, è una marcia senza forze  militari, per calpestare i movimenti di una modalità dell’esistenza che va decapitata. E sono incursioni rapaci, una pratica sovversiva di usare un circuito melodico che vada a snaturare la ricerca del piacere. Sono note pesanti, lente, che ci invitano ad abbandonare le energie, a rifiutare la deriva, consegnandoci un lungo film nella seconda parte, dove i giochi di potere vengono gestiti dalla glaciale tastiera e dal caldo sax.

La prima è lapidaria, precisa, ripetitiva e paradossale.

Il secondo è un volo nei piani emotivi, un condensato di possibilità che stringono il cuore, l’assenza del cantato ci induce alla memoria delle parole, e in tale frangente questa coda diventa un lunghissimo funerale, un congedo che raffredda la gioia e la mortifica.

In poche parole: oltre al capolavoro, in quanto il ripetuto ascolto di questo brivido è solo l’inizio di un ultimo respiro infinito…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
25 Settembre 2024


giovedì 19 settembre 2024

La mia Recensione: Ist Ist - Light A Bigger Fire


 

Ist Ist - Light A Bigger Fire


“Quello che voglio esiste, se solo ho il coraggio di cercarlo”

Jeannette Winterson, scrittrice, Manchester, Uk


Esistono anime perse che assomigliano a dei cercatori di funghi, in boschi coperti dalla nebbia e dalla pioggia battente, intenti a formare la propria identità, con il coraggio in stato di allerta.

Al quarto lavoro, la band Mancuniana sfodera brillanti sonori, nuove prospettive e una carica gothic pop immensa, libera di appagare una crescita che si è resa evidente nei molti live degli ultimi anni. Un’idea, un concetto, un frastuono ragionato, un’enfasi controllata dalla frenesia, incollata a dei diamanti che spezzandosi rivelano raggi di luce poderosi.

Vibrazioni come innesti di spettri nascosti che con azione chirurgica scolpiscono il concetto del suono. Sebbene la tendenza sia di mettere in frigo il clima a loro congeniale della malinconia, l’antimateria oscura è percepibile, con evidenti sequenze umbratili che saranno riconosciute e amate dagli appassionati della prima ora.

Le sorgenti sonore sono eterogenee e scolpite con continuità e intelligenza, nello specifico, dal basso, dalle chitarre e dalla batteria, con i suoni sintetici che creano vortici liquescenti, moderni nella forma ma dal profumo antico, con l’inchino agli Human League e ai Tubeway Army.

Quello che impressiona, sbalordisce e conquista è la produzione affidata a Joseph Croys, il soldato della struttura, che ha lavorato con Hurts, Courteneers e gli Slow Readers Club. È evidente che agli strumenti è stata impartita una linea guida, un equilibrio, per poter dare più omogeneità a composizioni già in grado da sole di conquistare il cuore, ma che abbisognavano di una disciplina e di un senso di collettività che mancava nei lavori precedenti.

Palese è la volontà di condurre le canzoni in una zona mista, dove la purezza del genere musicale sia da mettere da parte: l’armoniosa unione delle forze ha generato una crescita nella scrittura, nella dinamica e nella capacità di conferire un senso di freschezza e positività che forse non erano state volute prima. Brilla la penna di Adam Houghton, come la sua nuova tendenza a modificare l’interpretazione del canto, senza perdere la matrice inconfondibile che da ben dieci anni lo caratterizza.

Però…

Però è uno shock vedere una serie di dialoghi con l’io interiore che divengono un canto tra le nuvole piene di sabbia, mentre la musica deposita cortecce di ombre.

Ed è epicità che gonfia le vene, le espande, le terrorizza, le maledice con garbo e le porta tra le strade di una Manchester sempre più stretta per questi quattro musicisti con le vie della mente percorse da una compatta idea di mutazione, ampliamento delle proprie energie e potenti motivazioni.

La freschezza dei suoni è un inganno intelligente: nulla di davvero gioioso vive nelle melodie effervescenti presenti in diversi episodi, e la canzone che chiude l’album sarà una meteora infinita, senza morte, che farà intendere quanta progressione e duttilità esista in quei polpastrelli sempre in grado di aggiungere massa alla loro calamita.

Gli Ist Ist sono capaci percepire l’emozione donata, con un numero crescente di persone che adoperano le loro composizioni per compattare la solitudine, i tratti di una evidente unicità, malgrado, soprattutto all’inizio, le comparazioni non siano mancate, generando un comprensibile tedio in loro.

Le chitarre e il basso, proprio grazie alla straordinaria produzione, sono meno vistose ma sembrano lavorare il doppio, definire l’impeto attraverso capacità multiple, finendo per indossare  il mantello del suono con grande precisione e concedendo spazio all’elettronica per rendere il tutto contemporaneo e sensato. Figlio di una realtà che nega un certo tipo di appartenenza al disagio, il disco coglie invece ciò che vive nel sommerso e, attraverso una fluida ragnatela di percezioni, diventa un metronomo che mette in riga le sbavature, uccidendole per elevare il senso. 

Canzoni come omaggio al bisogno di una coperta che assicura la sicurezza dell’anima: ecco perché tutto scorre, ma una scure, un masso, una valanga, una frana e un terremoto trovano modo di regalarci un senso di abbondanza che elettrifica i nervi e li colora di grigio.

Hanno fatto del loro sogno e delle loro necessità il perimetro di un laboratorio aperto all’intimità, al sondare e alla combustione che può privarsi dell’onda selvaggia degli esordi: tutto è più pesante, ma con raffinatezza, con il dolore che pare vesta un completo di luci…

Si piange per la vastità di incontri, si fa esperienza con il male visto da un lato atipico, si balla con la testa piena di ronzii continui, si trema per la sensazione che un addio sia sempre possibile con le nostre esistenze, si brinda al talento di un’opera che riassume, contiene, diversifica e appare nella sua magnificenza acida, conturbante e quasi impietosa. Nel momento in cui decidono di afferrare la vita, la paralizzano con obese forme di esplosioni senza fine.

Drammatico, plumbeo, onesto, concentra il percorso di una crescita sino a giungere in uno studio di registrazione dove non esiste il miracolo ad attendere i musicisti bensì un lavoro, di testa, di pancia, con le luci che visitano le ombre per creare un patto.

Sostiene la memoria, innaffia il ritmo con un poderoso bilanciamento delle pulsioni, deterge la melodia per dare una voce ai balbettii che spesso danneggiano le composizioni. I quattro non cadono nel tranello e dipingono il cielo di ogni nostra camera con la linea di un futuro evidente: gli Ist Ist sono una risorsa, non un palazzo a cui volgere lo sguardo.


Mettiamoci sull’attenti, andiamo a perlustrare questa energetica tela e mettiamoci a ballare…



Song by Song


1  - Lost My Shadows


Impetuosa, strabordante, nel suo vestito di ordinanza, ribadendo lo stile, la forma e l’attitudine degli ultimi due album, la canzone che apre questo è un anello di congiunzione che però lascia piccole tracce di ciò che accadrà. Semplice ma fragorosa, trasmette, attraverso le parole di Adam, la sicurezza che molte del passato sono ormai alle spalle, e il quarto lavoro a lunga distanza lo dimostra per davvero.




2 - The Kiss


Vibrazioni, spilli e poi il solito devastante basso di Andy aprono i cancelli, il synth di Mat disegna traiettorie vicine a Gary Numan e il ritornello è un arcobaleno che viaggia dentro i riff post-punk di ordinanza. Ma la freschezza rende il tutto diverso e attraente.



3 - Repercussions


Eccoli, evidenti, i cambiamenti, le diverse abilità, i nuovi calibrati giochi di alternanza, nei suoni, nei movimenti, per principiare una straordinaria volontà di acclimatarsi con l’epicità. Quando, nella seconda strofa, Andy cambia l'effetto del suo strumento, si rende evidente come ci sia una calibratura che conferisce  alla veste della forma canzone una specificità mai adoperata in precedenza. E il fraseggio conclusivo delle chitarre finisce per essere una sontuosa cavalcata con la voce che ritorna a usare la rabbia di un tempo…



4 - I Can’t Wait For You


Se l’inizio ci offre infiniti rimandi, dagli Stranglers, agli Interpol e a una lunga fiumana che potrebbe anche tediare, ecco che la band struttura una dolcezza assottigliando gli odori, i colori, non usando il fragore ma la delicatezza. E il controcanto di Joel, il batterista, entra come un vortice di grandine nella testa…



5 - Dreams Aren’t Enough


Quanta tristezza danza tra lacrime in attesa di essere asciugate da un destino crudele che visita l’aspetto onirico dell’esistenza. La voce scende in cantina, per salire nel cielo trasportata da una tastiera che circonda e rende possibile avvicinare, in un crossover quasi impercettibile, almeno tre decadi, per ritrovarci triturati da una chitarra sibilante, disperata…



6 - Something Else


Joseph Croys indaga, percepisce che non sono gli errori a impedire la crescita, ma occorre mettere un microscopio nelle idee. Così facendo si capisce quanto la sua mano abbia creato la possibilità che un'idea brillante diventasse un urlo rugginoso con le redini… Tenebroso e pieno di guaiti, con le parole di Adam, il lavoro di un noise caustico, il brano riesce a rendere sgomenti, con l’ineluttabile desiderio di cantare e ballare da soli, abbaiando alla luna. Le pause, i rientri, diventano il fragorio che educa il cuore…



7 - What I Know


La seconda canzone del lato B è un cortocircuito, in cui la lentezza, la rarefazione, vengono a supportare il testo e la voce, per trovare una marcia che, con la sua cadenza marziale e circondata dall’uso di una elettronica fine ma esaustiva, producono un grande senso di gioia: alcune consapevolezze rendono i brani eterni…



8 - Hope To Love You Again


Immaginate Robert Smith con la voce baritonale e i  suoi Cure nella febbricitante versione pop: ecco un raggio di sole semplice, crudo, caldo, con circuiti elettronici circolari che trasmettono un senso fluido di spostamento…



9 - XXX


Bagliori iniziali dei Can e poi una linea retta, una sottile propensione a esseri lievi ma gravitando nell’infinito dove non c’è sicurezza. Ed è una frustata al rallentatore, produce dolore, soffoca e consente ad Adam di cantare con i cavi nell’ugola, facendoci rabbrividire. Tutto si accelera, mentre la canzone rimane lenta, un miracolo questo incomprensibile ma seducente. In questa struttura lontana dal post-punk ma più incline a una sperimentazione vicina alla new age ci viene mostrata una band che sa allontanarsi pure da se stessa…



10 - Ghost


Una tragedia, un’unghia messa sotto una pressa, un dolore lento che galvanizza l’impietosa avanzata di un pezzo che spacca il cuore, come un magnete che ci fa conoscere il vuoto. L’ultimo brano è un pugno, una sedia elettrica che ci insegue: prima lentamente, poi meno, ritornando nei secondi finali a essere una torcia che illumina le nostre difese mancanti.

Drammatica, nella sua esibizione, nella sua capacità di avvolgere ogni anima nella propria rete, parte da un pianoforte che, sposando una tastiera, chiama a rapporto gli altri strumenti. Ma non è il crescendo dell’atmosfera a farci sentire gambizzati, bensì la certezza che ci sia un inquieto mistero che governa le note, il testo, per farci sentire come un malato con pochi minuti da vivere. Il melanconico approccio è solo un elettrodo in più per fare di questa composizione il modo perfetto per illuminare la lunga scia di lacrime che possono finalmente celebrare il nuovo luogo nel quale vivere. Non è pop, non è rock, è poesia che spalanca la consapevolezza e ci rende fragili, nel modo migliore, consentendoci di dare ai quattro cavalieri di Manchester il nostro abbraccio riconoscente: concludere così un album è il miglior omicidio possibile…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

20 Settembre 2024


https://ististmusic.bandcamp.com/album/light-a-bigger-fire



Ist Ist:


Adam Houghton

Joel Kay

Andy Keating

Mat Peters


My Review: Ist Ist - Light A Bigger Fire


 Ist ist - Light a bigger fire


"What I want exists, if only I have the courage to look for it"

Jeannette Winterson, writer, Manchester, UK


There are lost souls who resemble mushroom seekers, in woods covered by fog and pouring rain, intent on forming their identity, with courage in alert.

To the fourth work, the Mancunian band shows off bright sounds, new perspectives and an immense Gothic pop charge, free to satisfy a growth that has made itself evident in the many live lives in recent years. An idea, a concept, a reasoned din, an emphasis controlled by frenzy, glued to diamonds that breaking reveal powerful rays of light.

Vibrations as hidden spectra grafts that with surgical action sculpt the concept of sound. Although the trend is to put the climate in the fridge congenial to melancholy, the dark antimatter is perceptible, with evident umbratical sequences that will be recognized and loved by fans of the first hour.

The sound sources are heterogeneous and carved with continuity and intelligence, specifically, from the bottom, by guitars and battery, with the synthetic sounds that create create liquescent vortexes, modern in the form but with an ancient perfume, with the bow to The Human League and the Tubeway Army.


What impresses, astounds and conquers is the production entrusted to Joseph Croys, the soldier of the structure, who has worked with Hurts, Courteneeers and the Slow Readers Club. It is clear that the tools were given a guideline, a balance, in order to be able  to give more homogeneity to compositions already able to conquer the heart alone, but which needed a discipline and a sense of community that was missing in previous works.

The desire to conduct the songs in a mixed zone, where the purity of the musical genre is to be put aside: the harmonious union of forces has generated growth in writing, dynamics and in the ability to give a sense of freshness and positivity that perhaps had not been desired before. Adam Houghton's pen shines, like his new tendency to modify the interpretation of singing, without losing the unmistakable matrix that has characterized him for ten years.

But ...

But it is a shock to see a series of dialogues with the inner ego that become a song in the clouds full of sand, while the music deposits bark of shadows.

And it is epic that swells the veins, expands them, terrifies them, cursed them with grace and brings them in the streets of an ever closer Manchester for these four musicians with the streets of the mind travelled by a compact idea of ​​mutation, expanding their own energy and powerful motivations.


The freshness of the sounds is an intelligent deception: nothing really joyful lives in the effervescent melodies present in different episodes, and the song that closes the album will be an infinite meteor, without death, which will make it clear how much progression and flexibility exists in those fingertips always able to add mass to their magnet.

 Ist Ist are capable of perceiving the emotion donated, with an increasing number of people who use their compositions to compact loneliness, the traits of an evident uniqueness, despite, especially at the beginning, comparisons have not been lacking, generating an understandable one tedium in them.

The guitars and the bass, thanks to the extraordinary production, are less conspicuous but seem to work double, define the impetus through multiple abilities, ending up wearing the sound cloak with great precision and granting space to electronics to make everything contemporary And sensible. Son of a reality that denies a certain type of belonging to the discomfort, the disc instead captures what lives in the submerged and, through a fluid spider web of perceptions, becomes a metronome that puts the smudges in line, killing them to raise the meaning.

Songs as a tribute to the need for a blanket that ensures the safety of the soul: that's why everything flows, but a dark, a boulder, an avalanche, a landslide and an earthquake find a way to give us a sense of abundance that electrify the nerves and there colours of gray.

The perimeter of a laboratory open to intimacy, to the probe and combustion that can deprive themselves of the wild wave of the beginning have made their dream and their needs: everything is heavier, but with refinement, with the pain that seems to dress a Complete with lights ...

We cry for the vastness of meetings, experience with the evil seen on the one hand atypical, you dance with your head full of continuous hums, it is trembled for the feeling that a farewell is always possible with our existences, toast to talent of a work that summarizes, contains, diversifies and appears in its acid magnificence, disturbing and almost merciless. When they decide to grab life, they paralyze it with obese forms of endless explosions.


Dramatic, leaden, honest, concentrates the path of growth until you reach a recording studio where there is no miracle to wait for musicians but a job, head, belly, with lights that visit shadows to create a pact .

He supports the memory, watering the rhythm with a powerful balance of the drives, he cleans the melody to give a voice to the stammering that often damage the compositions. The four do not fall into the trap and paint the sky of each of our room with the line of an evident future:  Ist Ist are a resource, not a building to look at.


Let's put on the attention, we go to pulled this energy canvas and let us dance ...


Song by Song


1 - Lost My Shadows


Impetuous, overwhelming, in its dress of order, reaffirming the style, shape and attitude of the last two albums, the song that opens this is a link that however leaves small traces of what will happen. Simple but thunderous, it transmits, through Adam's words, the security that many of the past are now behind them, and the fourth long distance work proves it for real.




2 - The Kiss


Vibrations, pins and then the usual devastating bass of Andy open the gates, Mat’s synth draws trajectories close to Gary Numan and the refrain is a rainbow that travels inside the post-punk riffs of ordinance. But freshness makes everything different and attractive.



3 - Repetcussions


Here are, evident, the changes, the different skills, the new calibrated alternation games, in the sounds, in the movements, to begin an extraordinary will to acclimatize with the epic. When, in the second verse, Andy changes the effect of its instrument, it becomes evident that there is a calibration that gives the role of the song form a specificity never used previously. And the final phrasing of the guitars ends up being a sumptuous ride with the voice that returns to use the anger of the past ...



4 - I Can’t Wait for You


If the beginning offers us infinite references, from the Stranglers, to Interpol and to a long river that could also bore, the band structures a sweetness by thinning the smells, colours, not using the roar but the delicacy. And Joel's counterpoint, the drummer, enters like a vortex of hail in the head ...



5 - Dreams aren’t enough


How many sadnesses dance in tears waiting to be dried by a cruel destiny that visits the dreamlike aspect of existence. The voice goes down to the cellar, to climb the sky transported by a keyboard surrounding and makes it possible to approach, in an almost imperceptible crossover, at least three decades, to find us shredded by a hissing guitar, desperate ...


6 - Something Else


Joseph Croys investigates, perceives that it is not the mistakes that prevent growth, but a microscope in ideas must be put. In doing so, it is clear how much his hand created the possibility that a brilliant idea would become a roaring scream with the reins ... dark and full of yelps, with the words of Adam, the work of a caustic noise, the song manages to make dismayed , with the inevitable desire to sing and dance alone, barking to the moon. The breaks, the returns, become the fragorio that educates the heart ...



7 - What i know


The second song on side B is a short circuit, in which slowness, rarefaction, come to support the text and voice, to find a march that, with its martial cadence and surrounded by the use of a fine but exhaustive electronics, They produce a great sense of joy: some awareness make the songs eternal ...



8 - Hope to love you again


Imagine Robert Smith with the baritonal voice and his band in this feverish pop version: here is a simple, raw, hot ray of sun, with circular electronic circuits that transmit a fluid movement of movement ...



9 - XXX


Initial flashes of the Can and then a straight line, a thin propensity to mild beings but gravitating in infinity where there is no safety. And it is a whisk in slow motion, produces pain, suffocates and allows Adam to sing with the cables in the uvola, making us shiver. Everything speeds up, while the song remains slow, a miracle that turns out to be incomprehensible but seductive. In this structure far from the post-punk but more inclined to an experimentation close to New Age we are shown a band that can also get away from ourselves ...


10 - Ghost


A tragedy, a nail put under a press, a slow pain that galvanizes the merciless advance of a piece that breaks the heart, like a magnet that makes us know the void. The last song is a punch, an electric chair that chases us: first slowly, then less, returning to the final seconds to be a torch that illuminates our missing defenses.

Dramatic, in its performance, in its ability to wrap every soul in its network, starts from a piano which, by marrying a keyboard, calls the other tools to a relationship. But it is not the crescendo of the atmosphere that makes us feel that we have lost our legs, but the certainty that there is a restless mystery that governs the notes, the text, to make us feel like a patient with a few minutes to live. The melancholy approach is only one more electrode to make this composition the perfect way to illuminate the long trail of tears that can finally celebrate the new place to live. It is not pop, it is not rock, it is poetry that opens awareness and makes us fragile, in the best way, allowing us to give the four knights of Manchester our grateful embrace: thus concluding an album is the best possible murder ...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

20 September 2024


https://ististmusic.bandcamp.com/album/light-a-bigger-fire



Ist ist:


Adam Houghton

Joel Kay

Andy Keating

Mat Peters

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