martedì 10 ottobre 2023

La mia Recensione: Neon - Rituals

 

Neon - Rituals


“ A volte, al solo pensiero di affrontare la giornata, sento come un vetro rotto nella mia anima”

Anonimo


Esiste, vive, pulsa, si nasconde davanti al menefreghismo della massa, non può negarsi, si catapulta nel vuoto per splendere. Che cos’è? 

Ovvio che sia la bellezza, quella non codificata, che non ha dita prensili, quella che scivola velocemente per non rischiare il contagio.

Rituals, Rituals e Rituals ancora, per defenestrare l’ascolto rapido e insipido, quello vorace ma non in grado di afferrare il valore.

1985. Che anno difficile per la musica, tutta. Un anno cuscinetto e, come per tutte le decadi, il quinto è in bilico tra l’andare avanti con ciò che ha vissuto e la possibilità di virare, di andare altrove.

Firenze, la città definita la capitale della New Wave (che bestemmia, Dio mio, e il Vecchio Scriba non può rinunciare a inalberarsi davanti a questa falsa dicitura), aveva gli occhi addosso e gli italiani hanno in quel periodo deciso di parteggiare per i Litfiba e i Diaframma, trascurando invece i Pankow e i Neon, le due formazioni più talentuose, schiette, dirette, efficaci, non alla ricerca di successo ma angeli grigi in cerca di un volo in cui baciare l’aria.

L’unico lavoro della seconda band di cui sopra è apodittico, immerso nella sua stessa bellezza e validità. La sua enfasi ci conduce alla cachessia, abbatte il presente scavalcando la pazienza, consumandoci, in un futuro nel quale la mente si ritrova fratturata.

Situato nei bagliori della Dance Pop più virile, si dirige sapientemente tra i pertugi elettronici, con ambienti Post-Punk a strutturare le melodie e le ritmiche di base, per poi visitare la Darkwave tedesca e il Kraut Rock.

La mitica Kindergarten Records (che ha avuto nella sua scuderia artisti come Scudocrow, Denovo, Garbo, Vena e tanti altri), prese la decisione di far firmare il quartetto fiorentino, dopo aver apprezzato i singoli che avevano preceduto questo lavoro. Sarà poi la Spittle Records a ristamparlo, aggiungendo remix vari. 

Il panorama, il metodo, il senso, i mezzi utilizzati per dare a queste tracce un destino, fanno di Rituals un unicum indiscutibile. Malgrado la veste melodica, nessun pezzo stabilisce un colpo di fulmine, perché ciò che serviva loro era l’esplorazione e non l’esibizione di un prodotto a presa rapida. Così facendo i minuti dell’ascolto diventano una lezione in classe, di storia del suo suono, del vento alchemico, di sequenze sparpagliate negli anni anni della trasformazione di diversi generi musicali, per approdare nel sacrario di una splendida depressione danzante, tribale, caotica, pelvica ed estroversa. Alle chitarre viene affidato il ruolo di catalizzatore della forza: Ranieri Cerelli è un chimico, un abile dottore sonoro, uno stravagante stratagemma continuo per portare l’apparato uditivo nei suoi flash seriosi. Le tastiere di Piero Balleggi, insieme al synth di Marcello Michelotti, sono le regine fascinose della nutrizione animalesca dell’anima di ogni brano, il capoluogo di ogni sentimento. Le percussioni e il drumming industriale del buon Roberto Federighi sono il vero fiore all’occhiello di questo vinile (tra l’altro la confezione originale è un’altra opera d’arte): lui disciplina non solo la danza e il ritmo, ma soprattutto convoglia le melodie verso la memoria, perché non siamo davanti a pezzi composti con la scontata forma canzone. A Fabrizio Federighi è stata affidata la produzione che rivela asciuttezza, velocità, rendendo l’ascolto un'autostrada senza coda.

Il cantato e la voce di Marcello sono semplicemente un miracolo notturno: oscillando da magneti seminascosti di derivazione John Foxx, Peter Murphy e Iggy Pop, il leader si sposta nella corsia meno trafficata di cantanti che non hanno avuto la luce sul palco dei loro talenti. Ma si aggiunga una evidente quota personale nell’interpretazione: un recitato melodico, spesso un crooning beffardo, sembra appostato per sequestrargli le parole, per poi dilatare le vocali, affosandole in zone baritonali di grande fattura. Ci si dovrebbe chiedere perché le parti elettroniche (spesso vicine all’Italo Dance) non abbiano comunicato agli ascoltatori la profonda capacità della band fiorentina di essere una spugna nevrotica: facile rispondere, in quanto gli italiani sono sempre stati rapidi nell’errare, nel nutrirsi di pochezza nello studio e nell’impegno.

Non un concept album, sia letteralmente che musicalmente parlando, bensì un agglomerato urbano di umori sparsi e tenuti insieme da una progettazione artistica che si è rivelata sublime. Un terremoto sulla schiena dei nervi, per un disco che ha attirato l’attenzione dei Simple Minds e di John Foxx, che li hanno voluti per aprire i loro concerti. Non solo soddisfazione, ma la dimostrazione che il loro valore era stato riconosciuto da artisti immensi. Ma era più facile amare gli altezzosi Litfiba e l’arrogante ciuffo di Federico Fiumani…

Prendersi cura degli scambi melodici (le tastiere e le chitarre sono spesso in luoghi opposti, complicando da una parte l’ascolto e dall’altra evidenziando dei sottili richiami che rendono il loro lavoro semplicemente stupefacente) è l’evidente contorsionismo che sfugge alla comodità, in una fuga senza paura.

Il Vecchio Scriba non intende parlare delle singole canzoni, o citarne qualcuna: si dia, invece, a questo esordio a lunga distanza, un luogo preferenziale senza le sollecitazioni dello scrivente, in quanto solo in questo modo sarete davanti alla sorpresa dei vapori in cerca di umori sotterranei, in un gioco di sfide quasi oltraggiose. Suonato, tecnicamente parlando, in modo valido (c’è chi in Inghilterra, tramite l’NME, ha dichiarato Rituals superiore a tante pubblicazioni inglesi di quel periodo), la maggiore difficoltà si mostrerà nel preferire i singoli usciti in precedenza: vietato consegnare spazio all’imbecillità, perché sono proprio pezzi meno conosciuti che esaltano il loro estremo, il loro piacere carnale di essere una mietitrebbia senza battito. Solo così l’incanto si poserà sul vostro cervello e vi scoprirete stregati… 


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

10 Ottobre 2023


https://youtu.be/VF14JeyoUjk?si=jzd5cnS8ybbm7woO





venerdì 6 ottobre 2023

My Review: Magazine - Real Life

 Magazine - Real Life


"You always collect your fists

When my shadow falls upon your hands

You're just giving body heat away

But they say you're a nice enough young man"

Tulsa


Lightning, in the Manchester sky, is a miraculous artifice, a malaise that inhabits thousands of lonelinesses, establishing a discontent that generates a conspicuous sense of satisfaction: where there is light, geniuses come out, like mushrooms on a September day. In 1977 Punk was an opaque, heavy, indigestible, annoying flash that had nothing to do with the introverted symptoms of the Cotton City. The working classes had depressed voices, the school was living on momentary stratagems, and, rather than the No Future, people were thinking about the present.

Magazine were the first true Post-Punk group, a fact to be considered totally alienating, since the very Mancunian sphere, was the major punk workshop in all of England. But the British musical Establishment had not reckoned with Howard Devoto, who, after forced coexistence with the punk engines of the Buzzcocks, could not remain anchored to a practice that had nothing brilliant, constructive, that was windowless under the gloomy sky of an urban agglomeration totally tilted toward depression.  His departure from Pete Shelley's band was a refreshing birth, a fountain of fresh air in free fall within his swaggering, cunning, free and unhappy mind. Genius always lives surrounded by ordinary beings in order to reveal itself.

A group was born that stretched the minute length of songs, broadening the possibilities of expression, inserting talent as the starting point of a whole that was only partly to be referred to music.

Real Life: in the title all the force of those who live, of those who of pessimism do not know what to do with it, a revealing imprint of descriptive intentions, not photographs but x-rays: Howard wanted to enter the envelopes of the aspects of a city less and less succumbed to the London overpower. The sounds, in Punk, are a spurt of vomit with emptiness as spectator, where the soul dwells for two/three minutes and then dies, with no farewell.  Devoto wanted to attend to the most important part of the music by injecting innovative patterns, rivers of hypnotic beer, cues born of yawns because he found that aforementioned musical form boring, useless, effervescent but ultimately incapable of galvanizing.

Nine spies, nine glaciers shifted near the equator, nine flare-ups (sometimes slow, sometimes not, but in each track the rhythm changes are a necessity rather than a mode), nine paintings, nine agglomerations where instincts are just a guess, not a dogma.

Only XTC’s White Music (will it be a coincidence that they have the same producer? I don't think so!) will know how to play with the thrust of a corpse like the one that had already breathed its last breaths in early 1977. Yes, no doubt about it: knowing how to mock the greatest musical deceptive form of the recent past was the greatest merit of these five swaggering souls, a brave, stubborn, and above all, mindless ensemble.  Songs as question marks, shifting Western beams, limpid observations through lyrics that suddenly shifted the center of gravity of arguments, shrinking the illusion of people accustomed to criticizing and criticizing themselves. Words that flew over the discomfort of the city to sit in the vicinity of new uprisings, not instigating or sneering, but caring for the detritus. Only The Fall would do the same, and in fact the producer of this album would work with Mark E. Smith and co. in 1985.

John Leckie, who has worked as an assistant for John Lennon, Pink Floyd and many others, starts right from the Magazines to produce music, changing the role, the meaning, becoming a real thermometer of moods, propensities, compacting talent and project in order to be able to give the compositions dignity, sense and endurance.  That's right: starting with this album we see Post-Punk side by side with Art Rock, in order to, I would say finally, remove the shackles from this new musical genre that would have risked a Punk-like drift. Here, necessarily, was the need to put new structures side by side, a Progressive embryo not in form but in its substance. There was a need to cross the line and let the music take the helm.

To do this, the band rummaged through the three cylinders, the three engines, the three expressive terminals-Devoto, Formula, McGeogh.

Outliers, anarchists but with nerves of steel, holders of intentions that tended toward patience where Punk preferred explosion. Every single track on this debut involves, on the listener's part, understanding the rivers of this quality that had been lost track of. These are metallic chills, skin excoriations, mental abrasions that need escapes and setbacks, trouble to be solved, strong personalities that decide to howl instead of scream.

Toxic, schematic music set toward coldness, where impetuses are governed to keep attention from dying.  Without any doubt this is the most relevant, mighty, absurd, effective record to offer Post-Punk the one-way ticket to a much-needed stomach pumping. From rock, to glam, to Kraut Rock, to classical music, to funky, everything enters the clownish circus of a very stinging but necessary operation. Songs that do not cure, and that offer the temperature of an existence that in this specific art does not find benefit, interest, diluting any possibility of enriching the everyday.

Howard's ungainly voice is a blessing, a stimulus, a term of comparison for future singers: he never gave a damn about judgment (right Mark E. Smith? Right Doctor John Cooper Clarke?), he instead took care to give the words a place of residence, not in search of slogans, not wanting to convince anyone but with the intention of dialoguing with the psychiatrist who lived inside him: both his friends and his enemies were all in his skull...   What is striking about this album?

The gestation, the time and place where everything was conceived and given birth; the sounds that did not attempt agglomeration where references were brief and inconspicuous; the conduct of the race: no victory, no draw, no defeat. Only the great determination to make this debut meaningful to those who had conceived it. Only The Fall will do the same, once again....

The Manchester that is seen in this project has wrenches in its fingers, no guns, no firing on wealth, preserving, for every social class, the right to existence, to be able to offer a new window: not to build but to not destroy...

Roxy Music and David Bowie are the backbone of every idea, which then finds a way to take leave of them, but it is undeniable that the most performing band in this incredible city could not fail to turn a glance toward the two greatest influences of the first five years of a decade that after Punk could only perish.

Instead.  Instead, Real Life oxygenates, dusts off, chases away fears, and creates the right tensions: although pop elements are present, nothing is really comfortable, and an inevitable annoyance continually buzzes in listeners' ears. Hence its importance, beauty, relevance, with a cruel fate in store: few would trust this album, almost no one would want to become famous. Devoted, like Ultravox's John Foxx, like then ,sorry, again Mark E. Smith, he did not set his sights on success, caught up in constructing new forms of expression, with the imprint of decadence living the steps of his certainly lively but at the same time twisted mind.

Barry Adamson revolutionized the approach to the bass guitar.

Dave Formula made keyboards an analytical laboratory, twisting history with his approach full of new methods.

Martin Jackson, with his rotating, angular, dry, swelling drumming, slapped all punk drummers in the face.

John McGeogh is the only musician on the album to play three instruments and make adjustments, arrangements, supporting Devoto's volcanicity.

Howard Devoto is Howard Devoto. Period.  The sense of terror that the Damned practiced, landing on the shores of cabaret, here visits introspection and indifference, as well as arrogance, for a result that highlights the uniqueness of the format, of the musical spices that make the listening taste more varied. Madness lives in every pore of this record, as the five turn their backs on history by writing a new one.

Real Life is a dictionary of the unknown, of the misunderstood, of that which is reluctant to show itself but which when it reveals itself sweeps away all confrontation. A blue-collar work written by geniuses and individuals with pronounced egos, held at bay by John Leckie, to seed the future with new perspectives, solutions.

Investigating, spending time within these articulate artistic flare-ups, one comes across the volume of riches perfectly compacted but, mind you, that had not had time to be tested as they were immediately thrown into the music market.

Deaths suffered as they were abandoned, resurrected immediately through the subsequent second album, revisited, corrected, bain-marie of their madness, all that lies within is a lucid unrebellious neurotic form, a stethoscope, a beacon, a mental click that describes and paints the deprivations, the depravities, the upheaval of a city sitting on hot coals, waiting to turn into a smiling corpse...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

6th October 2023


https://spotify.link/8cxkrTEUFDb




La mia Recensione: Magazine - Real Life

 Magazine - Real Life


“You always collect your fists

When my shadow falls upon your hands

You're just giving body heat away

But they say you're a nice enough young man”

Tulsa


I lampi, nel cielo di Manchester, sono un artefizio miracoloso, un malessere che abita migliaia di solitudini, instaurando un malcontento che genera un vistoso senso di soddisfazione: dove c’è luce le genialità escono fuori, come funghi in una giornata settembrina. Nel 1977 il Punk era un lampo opaco, pesante, indigesto, fastidioso, che nulla aveva a che fare con i sintomi introversi della città del cotone. Le classi operaie avevano voci depresse, la scuola viveva di stratagemmi momentanei e, più che al No Future, si pensava al presente.

I Magazine furono il primo vero gruppo Post-Punk, fatto da considerarsi totalmente straniante, visto che proprio la sfera Mancuniana, fu la maggior officina punk di tutta l’Inghilterra. Ma l’Establishment musicale britannico non aveva fatto i conti con Howard Devoto che, dopo la convivenza forzata con i motori punk dei Buzzcocks, non poteva rimanere ancorato a una prassi che non aveva nulla di geniale, costruttivo, che era privo di finestre sotto il cielo cupo di un agglomerato urbano totalmente inclinato verso la depressione. La sua dipartita dalla band di Pete Shelley fu una nascita refrigerante, una fontana di aria fresca in caduta libera all’interno della sua mente spavalda, scaltra, libera e infelice. Il genio vive sempre circondato da esseri normali per potersi rivelare.

Nacque un gruppo che allungava il minutaggio delle canzoni, allargando le possibilità di espressione, inserendo il talento come punto di partenza di un tutto che solo in parte era da riferirsi alla musica.

Real Life: nel titolo tutta la forza di chi vive, di chi del pessimismo non sa che farsene, una impronta rivelatrice di intenzioni descrittive, non fotografie ma radiografie: Howard voleva entrare negli involucri degli aspetti di una città sempre meno succube dello strapotere Londinese. I suoni, nel Punk, sono una gittata di vomito con il vuoto come spettatore, dove l’anima alberga per due/tre minuti per poi morire, senza alcun commiato. Devoto voleva presenziare alla parte più importante della musica iniettando schemi innovativi, fiumi di birra ipnotica, spunti nati dagli sbadigli perché trovava quella suddetta forma musicale noiosa, inutile, effervescente ma alla fine incapace di galvanizzare.

Nove spie, nove ghiacciai spostati nei pressi dell’equatore, nove fiammate (a volte lente, a volte no, ma in ogni brano i cambi ritmo sono una necessità più che una modalità), nove dipinti, nove agglomerati dove gli istinti sono solo un'ipotesi, non un dogma.

Solo gli XTC di White Music (sarà un caso che abbiano lo stesso produttore? Non credo!) sapranno giocare con la spinta di un cadavere come quello che aveva già esalato gli ultimi respiri all’inizio del 1977. Sì, nessun dubbio: saper deridere la più grande forma ingannevole musicale del recente passato è stato il maggior merito di queste cinque anime spavalde, un ensemble coraggioso, testardo e soprattutto menefreghista.

Canzoni come punti di domanda, fasci occidentali in spostamento, limpide osservazioni attraverso testi che, all’improvviso, spostano il baricentro delle argomentazioni, rimpicciolendo l’illusione di un popolo abituato a criticare e a criticarsi. Parole che sorvolavano il disagio della città per sedersi nei pressi di nuovi moti, non istigando o sbeffeggiando, bensì prendendosi cura dei detriti. Solo i The Fall faranno lo stesso e infatti il produttore di questo album lavorerà con Mark E. Smith e soci nel 1985.

John Leckie, che ha collaborato come assistente per John Lennon, Pink Floyd e molti altri, comincia proprio dai Magazine a produrre musica, cambiando il ruolo, il senso, divenendo un vero e proprio termometro degli umori, delle propensioni, compattando il talento e il progetto per poter conferire alle composizioni dignità, senso e resistenza.

Proprio così: a partire da questo album vediamo il Post-Punk affiancato all’Art Rock, per poter, direi finalmente, togliere le catene a questo nuovo genere musicale che avrebbe rischiato una deriva simile a quella del Punk. Ecco, necessariamente, il bisogno di affiancare nuove strutture, un embrione Progressive non nella forma bensì nella sua sostanza. Bisognava sorpassare il confine e lasciare alla musica il timone del comando.

Per fare questo, la band ha rovistato nei tre cilindri, nei tre motori, nei tre terminali espressivi: Devoto, Formula, McGeogh.

Fuoriclasse, anarchici ma con i nervi saldi, titolari di intenzioni che tendevano alla pazienza laddove il Punk preferiva l’esplosione. Ogni singolo brano di questo esordio comporta, da parte dell’ascoltatore, il comprendere i fiumi di questa qualità di cui si era persa traccia. Sono brividi metallici, escoriazioni cutanee, abrasioni mentali che necessitano di fughe e contrattempi, di guai da risolvere, di personalità forti che decidano di ululare invece di gridare.

Musica tossica, schematica, impostata verso la freddezza, dove gli impeti sono governati per non far morire l’attenzione.

Senza alcun dubbio questo è il disco più rilevante, possente, assurdo, efficace per offrire al Post-Punk il biglietto di sola andata per una necessaria lavanda gastrica. Dal rock, al glam, al Kraut Rock, alla musica classica, al funky, tutto entra nel circo clownesco di un’operazione assai urticante ma necessaria. Brani che non curano, e che offrono la temperatura di un'esistenza che in questa specifica arte non trova beneficio, interesse, dilaniando ogni possibilità di arricchire il quotidiano.

La voce sgraziata di Howard è una fortuna, uno stimolo, un termine di paragone per i futuri cantanti: a lui non è mai fregato nulla del giudizio (vero Mark E. Smith? Vero Doctor John Cooper Clarke?), si è invece preso cura di dare alle parole un luogo di residenza, non in cerca di slogan, non volendo convincere nessuno ma con l’intenzione di dialogare con lo psichiatra che abitava dentro di sé: sia gli amici che i suoi nemici erano tutti nel suo cranio…

Cosa colpisce di questo album?

La gestazione, il momento e il luogo dove tutto è stato concepito e dato alla luce; i suoni che non tentavano l’agglomerazione dove i riferimenti furono brevi e poco evidenti, la condotta di gara: nessuna vittoria, nessun pareggio, nessuna sconfitta. Solo la grande determinazione a dare a questo esordio un senso per chi l’aveva concepito. Solo i The Fall faranno lo stesso, once again…

La Manchester che si vede in questo progetto ha chiavi inglesi tra le dita, non ha fucili, non spara sulla ricchezza, conservando, per ogni classe sociale, il diritto all’esistenza, per poter offrire una finestra nuova: non per costruire bensì per non distruggere…

I Roxy Music e David Bowie sono la spina dorsale di ogni idea, che trova poi la modalità per congedarsi da loro, ma è innegabile che la band più performante di questa incredibile città non poteva non volgere uno sguardo verso le due più grandi influenze dei primi cinque anni di un decennio che dopo il Punk poteva solo deperire.

E invece.

E invece Real Life ossigena, rispolvera, scaccia le paure e crea le giuste tensioni: sebbene siano presenti elementi pop, nulla è davvero comodo e un inevitabile fastidio ronza continuamente nelle orecchie degli ascoltatori. Da qui la sua importanza, bellezza, rilevanza, con un destino crudele in arrivo: pochi avrebbero confidato in questo album, quasi nessuno avrebbe voluto divenire famoso. Devoto, come John Foxx degli Ultravox, come poi ,scusate, ancora una volta Mark E. Smith, non poneva l’attenzione sul successo, preso dal costruire nuove forme espressive, con l’impronta della decadenza che viveva i passi della sua mente sicuramente vivace ma al contempo contorta.

Barry Adamson ha rivoluzionato l’approccio al basso.

Dave Formula ha fatto delle tastiere un laboratorio analisi, stravolgendo la storia con il suo approccio pieno di nuove metodiche.

Martin Jackson, con il suo drumming rotante, spigoloso, secco e gonfio di calore, ha schiaffeggiato tutti i batteristi punk.

John McGeogh è l’unico musicista nell’album a suonare tre strumenti e ad apportare accorgimenti, arrangiamenti, supportando la vulcanicità di Devoto.

Howard Devoto è Howard Devoto. Punto.

Il senso di terrore che i Damned praticavano, approdando sulle rive del cabaret, quì visita l’introspezione e l’indifferenza, così come l’arroganza, per un risultato che evidenzia l’unicità del format, delle spezie musicali che rendono il gusto dell’ascolto maggiormente variegato. La pazzia vive in ogni poro di questo disco, in quanto i cinque voltano le spalle alla storia scrivendone una nuova.

Real Life è il dizionario dell’ignoto, dell’incompreso, di ciò che è riluttante a mostrarsi ma che quando si palesa spazza via ogni confronto. Un lavoro operaio scritto da geni e da individui con spiccate forme egoistiche, tenuti a bada da John Leckie, per seminare il futuro di nuove prospettive, soluzioni.

Indagando, spendendo tempo dentro queste articolate fiammate artistiche, ci si imbatte nel volume di ricchezze perfettamente compattate ma, attenzione, che non avevano avuto il tempo per essere collaudate, poiché gettate immediatamente nel mercato musicale.

Morti subite in quanto abbandonate, resuscitate subito attraverso il successivo secondo album, rivisitate, corrette, messe a bagnomaria della loro follia, tutto ciò che si trova nel suo interno è una lucida forma nevrotica non ribelle, uno stetoscopio, un faro, un clic mentale che descrive e dipinge le privazioni, le depravazioni, lo sconvolgimento di una città seduta sui carboni ardenti, in attesa di trasformarsi in un cadavere sorridente…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

6 Ottobre 2023


https://spotify.link/q5f2jNBUFDb





mercoledì 4 ottobre 2023

La mia Recensione: Andrew Cushin - Waiting For The Rain

 Andrew  Cushin - Waiting For The Rain


Heaton è un sobborgo di Newcastle, un quartiere di questa splendida città del nord dell’Inghilterra, da dove proviene Andrew, un talento cosciente, audace, capace di portare il Pop nella zona dell’Alternative, comprimendo il Blues e il Country. Dopo una gavetta voluta e che l’ha portato ad aprire per diverse band importanti, firma un contratto con uno dei due protagonisti dei Libertines, Pete Doherty, e registra canzoni con le ali aperte, capaci di far arrivare le sue melodie nel centro del cuore, attraverso parole davvero profonde e mature data la sua giovane età. Profumi di Paul Weller, Noel Gallagher e la scia del Northern Soul sono i primi evidenti segni della sua rotta di provenienza. Poi: il duro lavoro di lasciare l’appartenenza delle sue emozioni e del suo viale dialettico, consentono una portentosa valanga di pensieri mentre le bocche sorridono e la pelle prende il sole. 

Visto di supporto ai The Slow Readers Club, da solo sul palco a imbracciare una chitarra che sembrava l’eco primordiale di un bambino che afferma la gioia di essere al mondo, pare essere un lontano parente di se stesso: entrambe le identità sono autentiche ed è indubbio che il disco suoni come frutto di un lavoro collettivo, con una vibrante tensione che viene addomesticata dalle linee romantiche ma che non riescono a nascondere la tensione perché non esiste un modo migliore per non scontentare nessuno. 


All’interno del suo vagabondaggio, per perlustrare personaggi intinti di olio e sale, trova anche l’occasione per scrivere un toccante testo sull’alcolismo e in cui i due protagonisti sono Padre e Figlio. È proprio in questo brano che tutto evapora, sciolto nella sua maturità che presenta la canzone successiva, nella quale la malinconia e la preoccupazione trovano slancio verso aspetti pieni di raggi di luce.

Colpisce, stordisce, accarezza la storia degli ultimi trent'anni della musica inglese sapendo anestetizzare il tempo, tenendo lucida la pelle della gioia, senza abrasioni. La sua magia è quella di avere la capacità di dare spazio a modalità diverse di espressione: non solo la sua chitarra semiacustica, bensì il desiderio di attraversare binari diversi che portino il treno del suo talento all’interno di zone disabitate.

La solitudine, le scelte, gli affanni, i sogni e gli entusiasmi sono i suoi cavalli, liberati nella prateria della sua scrittura sempre mirata a non concedere interpretazioni sbagliate. Con un uso sapiente dell’elettronica riesce a visitare il cielo, con la chitarra elettrica trova arpeggi semplici ma che provocano brividi, ma, soprattutto, con la sua voce ci possiede, incanta, seminando dolcezza anche quando la sua gola e la sua anima bruciano. Spesso parrebbe usare alcuni trucchi, nel cantato, del fratello più grande dei Gallagher: dare, cioè, l’impressione che i cambi di registro possano sembrare prevedibili, ma arriva il guitto, l’invenzione per spostare il paragone dentro il fango.

Prima semplici episodi (con i suoi singoli) e poi una collettività sonora per rendere il tutto una grande nave con brani che, grazie a una effervescente produzione, rendono evidente che il concept è più nei suoni che non nei testi, in quanto le sue parole sono onde che non possono essere comandate. 

Un insieme musicale che non vive di momenti che spiccano: questo giovane musicista ha la colla nel talento e non è in grado di fare di quell’onda, di cui prima, un sali e scendi, evidente è il suo polso, la sua fermezza per rendere l’ascolto un’esperienza compatta, il tempo necessario per sognare mentre la vita chiede di fare lo stesso, tra il fuoco e il vento della sua penna, capace di una scrittura precisa e libera. 


Il Vecchio Scriba invita ad ascoltare l’album facendo attenzione al titolo: una metafora pericolosa, se non colta: inutile nascondere il fatto che la pioggia non è in attesa, ma operativa, perché in realtà non è altro che un fiume denso di gocce di vita che vogliono essere viste e accolte, raccolte, per spargersi poi all’interno dei nostri bisogni. Un disco veloce, senza velleità di trovare la canzone indimenticabile, tantomeno l’hit della vita.

Piuttosto: ascolti la prima e avanzi, senza tentennamenti, poiché hai subito coscienza che sentire queste composizioni è un regalo che giunge dall’estremo nord dell'isola che necessitava di questo entusiasmante artista. Notevole è la sensazione di calore e freschezza al contempo: le orchestrazioni, gli arrangiamenti brevi ma di grande impatto, conferiscono al fascio sonoro una presa che non costa fatica: riascoltarlo tutto è un desiderio necessario e non una impresa…

Saper portare le canzoni nel cuore degli anni Novanta (boyband comprese) è un pregio sottile, in quanto poi, non temete, ci si rende conto dello spessore artistico, dell’impegno e delle sue qualità.

Si fischia, si canta con la bocca aperta, e poi quando la musica prende piede ci si sente al sicuro, in quella prateria dove i suoi cavalli corrono non felici ma capaci: e anche in questo caso Andrew si rivela maturo e spiazzante…

Seal, George Michael, i Travis, gli Oasis, i James, i Clash: tutti loro entrano nei respiri espressivi del ragazzo, spesso con la maschera sulla pelle delle note e degli accordi, ma ben presenti, con la loro che lascia scie di suono del tutto riconoscibili, se solo le orecchie ragionano…

Ma poi, più di tutto, questo lavoro di esordio rivela come non sia l’età ma l'esperienza, lo studio e il desiderio a permettere a queste angeliche composizioni di spiccare il volo, accompagnando la corsa di quei cavalli che avranno biada per l’eternità.

Il debut album del 2023 per il Vecchio Scriba: i dubbi non possono esistere davanti a queste gemme…



Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
4 Ottobre 2023






My Review: Andrew Cushin - Waiting For The Rain

 Andrew Cushin - Waiting For The Rain


Heaton is a suburb of Newcastle, a neighborhood in this beautiful city in the north of England, where Andrew comes from, a conscious, bold talent, capable of bringing Pop into the Alternative zone, compressing the Blues and Country. After an intentional apprenticeship that led him to open for several important bands, he signed a contract with one of the Libertines' two main characters, Pete Doherty, and recorded songs with open wings, capable of getting his melodies to the center of the heart, through words that were really deep and mature given his young age. Scents of Paul Weller, Noel Gallagher and the wake of Northern Soul are the first obvious signs of where he came from. Then: the hard work of letting the membership of his emotions and dialectical avenue, allow for a portentous avalanche of thoughts as mouths smile and skin soaks up the sun. 

Seen in support of The Slow Readers Club, alone on stage harnessing a guitar that sounded like the primal echo of a child affirming the joy of being in the world, he seems to be a distant relative of himself: both identities are authentic and there is no doubt that the record sounds like the result of collective work, with a vibrant tension that is tamed by the romantic lines but who are unable to hide the tension because there is no better way to make everybody happy.


Within his wanderings, to scour characters dipped in oil and salt, he also finds an opportunity to write a touching lyric about alcoholism and in which the two protagonists are Father and Son. It is in this song that everything evaporates, loose in its maturity presenting the next song, in which melancholy and worry find momentum toward aspects filled with rays of light.

It strikes, it stuns, it caresses the history of the last thirty years of British music knowing how to anesthetize time, keeping the skin of joy polished, without abrasion. His magic is to have the ability to give space to different modes of expression: not only his semi-acoustic guitar, but the desire to cross different tracks that bring the train of his talent inside uninhabited areas.

Loneliness, choices, anxieties, dreams and enthusiasms are his horses, released into the prairie of his writing always aimed at not allowing misinterpretations. With skillful use of electronics he manages to visit the sky, with the electric guitar he finds simple but chill-inducing arpeggios, but, above all, with his voice he possesses us, enchanting, sowing sweetness even when his throat and soul burn.


Often he seems to use some tricks, in the singing, of Gallagher's older brother: that is, to give the impression that changes in register may seem predictable, but here comes the mummer, the invention to move the comparison inside the mud.

First simple episodes (with his singles) and then a sonic collectivity to make it all one big ship with songs that, thanks to effervescent production, make it clear that the concept is more in the sounds than in the lyrics, as his words are waves that cannot be commanded. 

A musical whole that does not live on moments that stand out: this young musician has glued in talent and is unable to make that wave, mentioned before, a rise and fall, evident is his pulse, his steadiness to make listening a compact experience, the time needed to dream while life asks to do the same, between the fire and wind of his pen, capable of precise and free writing.


The Old Scribe invites you to listen to the album by paying attention to the title: a dangerous metaphor, if not grasped: no point in hiding the fact that the rain is not waiting, but operative, because in reality it is nothing more than a dense river of drops of life that want to be seen and welcomed, picked up, to then spread within our needs. A quick record, with no ambitions to find the unforgettable song, much less the hit of a lifetime.

Rather: listen to the first one and move forward, without hesitation, since you are immediately aware that listening to these compositions is a gift coming from the far north of the island that needed this exciting artist. Remarkable is the feeling of warmth and freshness at the same time: the orchestrations, the short but impressive arrangements, give the sonic bundle a grip that does not cost effort: to listen to it all again is a necessary desire and not a feat...

Knowing how to take the songs into the heart of the 1990s (boybands included) is a subtle merit, as then, fear not, one realizes the artistic depth, commitment and qualities of it.

You whistle, you sing with your mouth open, and then when the music takes hold you feel safe, in that prairie where his horses run not happy but capable: and again Andrew proves mature and disorienting...  Seal, George Michael, Travis, Oasis, James, the Clash: all of them enter into the boy's expressive breaths, often with the mask on the skin of notes and chords, but well present, with theirs leaving trails of sound entirely recognizable, if only the ears reason...

But then, more than anything else, this debut work reveals how it is not age but experience, study and desire that allows these angelic compositions to take flight, accompanying the ride of those horses that will have fodder for eternity.

The 2023 debut album for Old Scribe: doubts cannot exist before these gems...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

4th October 2023


https://spotify.link/BKRobe7ACDb




La mia Recensione: Midas Fall - Cold Waves Divide Us

  Midas Fall - Cold Waves Divide Us La corsia dell’eleganza ha nei sogni uno spazio ragguardevole, un pullulare di frammenti integri che app...