martedì 22 novembre 2022

La mia Recensione: Adrian Borland - The Scales Of Love And Hate

 Adrian Borland - The Scales Of Love And Hate


La memoria scende nel cuore per fare ordine, per una reale necessità, per dare un senso che viva per i giorni a venire. L’amicizia vera tra gli uomini è cosa possibile, rimane anche quando qualcuno lascia questo pianeta. E in questa circostanza il cuore si fa pesante, ma ricordare è mantenere quella vita in viaggio perenne proprio qui, in questa fiumana di lacrime instancabili.

Un disco non potrà mai sintetizzarne la profondità, ma ne testimonia in parte il cammino e i suoi arcobaleni, imprendibili.

E allora finisci col mettere i tuoi pensieri dentro le riserve segrete di due esseri che si sono confrontati, amati, supportati, con il talento a sostegno di entrambi, con quello di uno dei due che è già nel cielo con la sua voce piena di piume e graffi, mentre l’altro lo ricorda, portando avanti il suo nome per fissarlo il più possibile nel cuore di molti.

Adrian Borland e Carlo van Putten sono l’abbraccio di cui necessitano le anime piene di riconoscenza e amore vero. E c’è un album in arrivo che sussurra l’invito ad adoperare la curiosità, l’affetto, la giusta misura di rabbia e nostalgia, la volontà di non staccare mai la spina dal guardare il cielo alla ricerca della chioma di Adrian e della sua classe, che ha già il suo spazio sul palco degli assi.

Non è una raccolta con tre inediti: direi, piuttosto, la sua esistenza messa a nudo, con semplicità, attraverso la modalità che gli restituisce, eternamente, l’ingresso nella nostra famelica accoglienza, per accompagnarci perché è  lui ad amarci, a essere a nostra disposizione.

Cosa serve a un fuoriclasse per rimanere eterno? La sua nudità, senza abbellimenti, sovrastrutture, arrangiamenti, perché la genialità sta nella visione di una cellula, che quasi segretamente prende possesso di un intero corpo. 

Sono dita che planano sulle corde con maestria, eleganza, necessità, trascinandosi una voce che tutte le volte ipnotizza, commuove e suscita sommosse senza fine. Adrian è l’ultimo fuoriclasse a testimoniare come la giustizia non sia cosa umana, come il gusto e le scelte musicali siano stupide, banali e violente.

Intanto lui è un oceano di bellezza che non dorme mai, come le onde, sempre in moto, presente, a disposizione.

Ventidue canzoni che sono stordimenti e schiaffi per chi, amandolo, sente la struggente impotenza davanti al terremoto interiore che l’ha fatto franare. Non si è negato a noi ma a se stesso, nel furore di complessità che non possiamo conoscere e tantomeno giudicare.

Allora lo si ascolta, come assiderati dal suo calore unico, perché nelle sue canzoni (qui nello stato pulsante della nascita, quando nulla occorre se non apparire) c’è il suo volo, il suo tremare, il termometro e il goniometro della sua intensità, che è la sua bellezza, umana e artistica. 

Si frana mentre le orecchie assorbono, captano suoni e liriche che si fanno un tutt’uno, indivisibile e perfetto.

Emergono, incolonnate in una splendida scelta della scaletta, ventidue petali di seta che avvolgono e prendono spazio nell’unico posto dove devono farlo…

Quelle diciannove composizioni che già conoscevamo sembrano nascere per la prima volta, dentro ai loro impulsi, frenesie, con la cortesia di chi non vuole disturbare portando invece in dono una ricchezza incalcolabile.

Le tre inedite sono germogli di stupore in avanzamento, atti continui di una classe che non ha bavagli né bende: Adrian è un fuoco fatuo davanti al tramonto, e tutte e tre confermano la misura di un talento senza sosta.

Carlo e le persone che ancora oggi sostengono il valore di Adrian ci deliziano con questa fascia purpurea che non è una rivisitazione o un miglioramento di materiale già edito.

Bisogna ascoltare con attenzione perché qui siamo al cospetto della nascita di voli che saranno capaci di portarci con lui dentro il suo universo. Occorre rispetto e consapevolezza.

Non esiste lamentela, delusione o pretesa davanti a questo insieme di brani. Bensì la premura nell’adoperarsi in una ricerca che se fatta bene sarà fruttuosa: lui è una certezza.

Il lato acustico dell’autore Londinese è quello della perfezione che non è data dall’assenza di errori tecnici o imprecisioni, bensì dal frastuono che genera il sentire tutta la purezza che non necessita di altri strumenti: è tutto generosamente offerto in questa ampolla luminescente, dove forza e debolezza convivono insieme nella magia che genera stupore.

Raffinate, estroverse, introverse, ammalianti, tristi e veritiere, sono tuffi continui nel suo mondo dalle finestre chiuse, mentre Adrian ci mette a disposizione la gittata del suo sguardo. 


Ascoltando ti rendi conto di come il silenzio sia stato gentile con lui: gli ha permesso di penetrarlo con accortezza, senza invasioni. Queste canzoni sono il confine tra l’esercizio artistico e il suo incontro, dove tutto si appoggia alla meraviglia.

Ti ritrovi a dimenticare quello che è successo, non piangi per la sua assenza, non ti tormenti, non urli ma taci mentre le dita delle sue mani sulla chitarra e la sua voce ti conducono alla sua sensibilità, prendi appunti, non canti le sue parole, spegni ogni atomo di presenza e lo lasci libero di chiacchierare intimamente con il tuo bisogno di contatto con la sua anima, lucida e potente.


Lui ci dimostra che i sogni si possono toccare, specialmente quelli che si infrangono contro una realtà contraria. Non ci resta che capire che dobbiamo camminare con i suoi pensieri in una direzione opposta a quella dei desideri ed è in quel momento che sentiamo il suo respiro soffocare, la testa impazzire e il cielo cadere. Si piange tantissimo ascoltando questo album, perché la tristezza punge la pelle.

Forse dovremmo immaginare che lui fosse felice solo cantando e suonando: potrebbe essere una supposizione inevitabile. Ma non lo si ama per questo capriccio, bensì per la certezza che non abbia lasciato sfuggire nulla di sé nelle canzoni, che si sia speso nella lealtà. Sono ventidue doni che non ingombrano, non disturbano lo spazio ma generano un vulcano in eruzione perenne, dove ciò che sbava è la malinconia che si eleva a essere la fedele compagna. Patimenti, frustrazioni e tristezza si presentano e dobbiamo tenerne conto: può essere uno tsunami, dovendo decidere se lasciarsi travolgere o costruire in tempo la modalità che possa spegnerne la potenza.

Impossibile.

Andiamo a vedere da vicino le sue canzoni, con tremore e rispetto, in generosa modalità di una propensione all’attenzione, consci in anticipo del fatto che non saremo capaci di comprendere sino in fondo tutta la sua arte, ma saremo consolati dal sapere che in ogni caso sarà puro stordimento…


P.s. Non commettiamo l’errore di pensare che esista una parte migliore di Adrian e che appartenga al periodo del meraviglioso combo chiamato The Sound. Ciò che Adrian ha fatto successivamente ha la stessa valenza e capacità di scrivere canzoni maestose. Le comparazioni lasciamole agli stupidi, agli ignoranti, perché non essere in grado di capire che quell’uomo fosse incapace di scrivere cose brutte significa ammazzarlo una seconda volta…


Song by Song 


1 Scales Of Love And Hate


“Seems like we've shut and locked every door

The deeper the cut, the colder the war”


Si incomincia con i sogni che crollano, a confermare la distanza tra loro e la realtà, nell’impossibilità che si fa palpabile. Ed è un brano che scalda immediatamente, la chitarra ritmica e la voce che cade sul microfono, tenerissima.


2 Love Is Such A Foreign Land


“You're not easy to forget

But you're no reason to get upset”


Anche gli angeli fanno i bagagli e hanno sicuramente questa voce mentre decidono la destinazione. La chitarra, tenuta quasi nascosta, mostra di essere perfetta per il cantato, sussurrato, che vola tra i registri bassi e quelli alti sino a sfiorare il falsetto. 



3 Weekender Berliners


“Maybe I see you again, maybe I never will
But I'll always have this picture that I hold very still”


Un arpeggio vola su, nella voce di Adrian, e tutto è sottile, dentro una storia che scivola, senza rimpianti, mentre i brividi si raccolgono.



4 Falling Off Your Horse


“I've tried to ride your dark wild eyes

Took a breath of air twelve feet up there

And then I tasted sand”


Tra equilibri perduti e ciò che si deve pagare di conseguenza il brano mostra un ritmo vorticoso, rigorosamente acustico, e il cantato breve di Adrian, tutto versato nel vuoto con grande intensità. E sono accordi che scuotono, sono parole che fanno gonfiare gli occhi mentre la voce ci porta a cavalcare nei prati della vita.



5 Downtown


“I could be the ocean

Crashing into your land”


La voce inspira, le parole escono vibranti, e si sale in macchina con lui per scendere in città con una canzone che manifesta la sua intensità, abbottonata a una melodia efficace, per ricordarci che la sua ugola sa avere artigli meravigliosi.



6 Tired Man


“These eyes are closing now

I've got nothing to say”


L’atmosfera rallenta, echi di un passato remoto mostrano il volto in questo testo breve ma capace di suscitare sobbalzi in un cantato che mostra quanto Adrian e Jim Kerr avessero molto in comune. Ma qui ci si emoziona, ci si sente abbattuti angelicamente, e la stanchezza esce dalle sue labbra mentre la chitarra accelera il suo ritmo.



7 Unkissable


“Oh your sideways glance is like a lance 

And your whisper seems to shout”


Il primo dei tre inediti è scritto insieme a Carlo ed è anima blues e country che viaggia dentro il buco di una testa che fa fuoriuscire lava e grigiori. Incantevole, amara quanto basta per entrare nei nostri bisogni.



8 Street Of Flowers


“And with smiles set back into stone again”


Il secondo brano pare provenire dalla nebbia della periferia di un geyser, cupa e toccante, con una scia di luce che sembra essere presente per sbaglio. Adrian ha una voce che smuove ogni strada con i fiori che si inchinano, silenziosi. Un sussurro notturno meraviglioso.



9 The Sea Never Dies


“Still the heart is an ocean and the sea never dies

Love comes and goes like the sun and moon”


Ultima canzone inedita: ecco la ballad per eccellenza arrivare, toccare le ombre in movimento per poterci raccontare una storia fatta di parole e amore, con le dita sulle chitarre che scivolano ed emettono un rumore che è poesia. Tutto è delicato ma non timoroso, per un brano che esplode nel cuore e non nel suono…



10 Our Forest Ghost


“Our forest ghost is looking out for us

Two hundred years he watched that clearing “


Questa voce ti sequestra, uscita da un miracolo che ci trova sempre impreparati. Tutta la dinamica del suo cantato lo puoi trovare qui, passato e presente che prendono possesso in questo brano della loro necessità di non separarsi neanche per un attimo. E si sogna mentre si ascolta la colonna sonora di un film, quella del suo talento.



11 Time Standing Still


“The moment you turn to go

Everything seemed to slow”


L’amore cura ma è anche la ferita, e te ne accorgi dalla voce di Adrian che sembra abbandonare il pianeta in anticipo in questa esibizione folk che oltrepassa le nuvole.



12 Walking In The Opposite Direction


“And every day the things you crave

Make a play for my affection”


Per lo scriba è arrivata la tempesta, il momento che assolutamente gli devasta il cuore, saranno gli accordi tristi e immensi, sarà la voce di Adrian che trova assolutamente l’ingresso del paradiso piangente, saranno le parole soffocanti, sarà l’anarchia che rende liberi ma sicuramente non felici, che fanno di questa canzone un pugno ripetuto, senza che gli si riesca a sfuggire…



13 Excavation Bones


“So you peeled away the skin

Past the ribs straight to the sin”


Ecco l’appuntamento con l’oscurità più densa e rivelatrice della solitudine come conseguenza, dentro note basse della chitarra che sembra bussare al nostro inconscio sino a che il ritmo giunge insieme a questa interpretazione vocale che ci stende per terra, con il testo colmo di immagini fragorose a cui non riusciamo a sostenere…



14 Running Low On Highs


“I took my pleasures one by one
Hovered closer to the sun”


Si cade, dentro a una ritmica che seduce per sensualità, mentre invece le parole suggeriscono pensieri che affaticano la felicità e le sicurezze. La musica ha più spazio ma poi, quando le note si fanno vive, Adrian ci fa cadere con lui…



15 Valentine


“Unwelcome lodgers in my head”


L’amore non è immune da ciò che è sgradevole e qui ne abbiamo la dimostrazione: con una chitarra nei pressi dei Doors, la storia si fa netta subito e tutto si trascina verso l’amara consapevolezza, con la chitarra che scende sino al nostro ventre… Scritta con Carlo.



16 The Last Days Of The Rain Machine


“We sucked this world down to its brittle bones”


Adrian Borland è uno straordinario scrittore di testi: sa adoperare l’ascolto per trasformarlo in semi, spesso amari e indiscutibili. Purtroppo, la sua maturità è figlia del dolore e in questo brano ve n’è molto. La chitarra disegna schegge di pioggia e la sua voce cade pesante, nel racconto di un qualcosa che finisce…



17 Snakebitten


“You say I should have learned by now

Yet I've only learned to forget”


Il ritmo diventa un ramo che ci sposta, bello compatto, con la voce angelica che raccoglie tempesta, tra morsi e cose da dimenticare. Molto 80’s, un mantra che conquista, sconquassando.



18 Inbetween Dreams


“A great slab of day gets in the way

Of where you want to be

Breathing out, breathing in”


Seducente, accattivante nella parte musicale, una danza acustica che si trova dentro le parole che si riferiscono al tempo, il padrone assoluto di tutto. E la voce si fa veleno e spina sino ad abbandonarsi ai sogni.



19 Hallucinating You


“Heat-haze at your edge

Where you protecting me”


La confusione arriva con una serie di domande a raffica, mentre tutto ha l’umore tetro di una perdita in arrivo. 



20 Wild Rain


“I don't belong here, I belong to the storm”


Adrian ci porta nei suoi vertici artistici, con un gioco di ruoli, fatto di domande e risposte, mentre la splendida chitarra fissa la perfezione.



21 Four Lonely Hours Away


“Waiting for the early trains

Kicking cans in the square

Funny how it always rains

On people going nowhere”


Mi scuso, ma su questa non posso scrivere nulla: solo lacrime…



22 Dead Guitars


“Now I see all these new faces

And they look to me like a row of trees

And of all the friends that have now departed”


Quando muore tutto, anche una chitarra, l’elenco delle scomparse trova il suo arresto, l’immobilità che apre le porte alla vita eterna, senza garanzia che ci sia qualcosa di meglio. L’ultimo brano consacra la sua vena poetica con la violenta amarezza sui bordi di labbra pronte per morire insieme alla loro chitarra…


È possibile ordinare l'album qui: soundshaarlem@gmail.com


Un ringraziamento speciale a Jean-Paul van Mierlo per il suo contributo alla promozione della musica e dell'anima di Adrian e per il suo meraviglioso lavoro artistico.


Alex Dematteis

Musicshockworld

22 Novembre 2022







My Review: Adrian Borland - The Scales Of Love And Hate

 My Review:


Adrian Borland - The Scales Of Love And Hate


Memory descends into the heart to make order, out of real necessity, to give meaning able to live for days to come. True friendship between men is possible, it remains even when someone leaves this planet. In this circumstance the heart becomes heavy, but to remember is to keep that life on a perpetual journey right here, in this tireless flood of tears.

A record can never summarize depth, but it bears partial witness to its journey and its rainbows, impregnable.

And so you end up putting your thoughts inside the secret reserves of two beings who confronted, loved and supported each other, with the talent in favor of both, with that of one of them already in the sky with his voice full of feathers and scratches, while the other remembers him, carrying on his name to fix it as much as possible in the hearts of many.

Adrian Borland and Carlo van Putten are the embrace that souls full of gratitude and true love need. And there is an album on the way that whispers the invitation to use curiosity, affection, the right measure of anger and nostalgia, the will to never pull the plug from looking at the sky in search of Adrian's hair and his class, which already has its place on the aces stage.

This is not a collection with three previously unreleased songs: rather, I would say, his existence laid bare, with simplicity, through the mode that gives him back, eternally, entrance into our ravenous welcome, to accompany us because it is he who loves us, who is at our disposal.

What does a champion need to remain eternal? His nakedness, without embellishments, superstructures, arrangements, because genius lies in the vision of a cell, which almost secretly takes possession of a whole body. 

These are fingers that glide over the strings with mastery, elegance, necessity, dragging along a voice that every time hypnotises, moves and arouses endless riots. Adrian is the latest superstar to testify how justice is not a human thing, how taste and musical choices are stupid, banal and violent.

Meanwhile he is an ocean of beauty that never sleeps, like the waves, always in motion, present, available.

Twenty-two songs that are stuns and slaps for those who, loving him, feel a poignant helplessness in the face of the inner earthquake that brought him down. He did not deny us but himself, in the fury of complexities that we cannot know, even less judge.

So one listens to him, as if frozen by his unique warmth, because in his songs (here in the pulsating state of birth, when nothing is needed but to appear) there is his flight, his trembling, the thermometer and goniometer of his intensity, which is his beauty, human and artistic. 

We collapse as our ears absorb and capture sounds and lyrics that become one, indivisible and perfect.

They emerge, strung together in a splendid set list, twenty-two silk petals that envelop and take up space in the only place they have to do so...

Those nineteen compositions we already knew seem to be born for the first time, within their impulses, frenzies, with the courtesy of one who does not want to disturb, bringing instead an incalculable richness as a gift.

The three unreleased ones are advancing seeds of amazement, continuous acts of a class that has neither gags nor bandages: Adrian is a fatuous fire in front of the sunset, and all three confirm the measure of an unceasing talent.

Carlo and the people who still affirm Adrian's value delight us with this purple band that is not a new interpretation or an improvement of already edited material.

One must listen carefully because here we are in the presence of the birth of flights that will be able to take us with him into his universe. Respect and awareness are needed.

There is no complaint, disappointment or pretension before this set of tracks. Rather, there is a thoughtfulness in the pursuit that, if done well, will be fruitful: he is a certainty.

The acoustic side of the London composer is that of perfection, which is not given by the absence of technical errors or inaccuracies, but rather by the noise that generates the feeling of all the purity which needs no other instruments: it is all generously offered in this luminescent ampoule, where strength and weakness coexist together in the magic that generates astonishment.

Refined, extroverted, introverted, bewitching, sad and truthful, they are continuous dives into his world with closed windows, while Adrian provides us with the range of his gaze. 


As you listen, you realise how the silence has been kind to him: it has allowed him to penetrate it carefully, without encroachment. These songs are the borderline between artistic exercise and encounter, where everything relies on wonder.

You find yourself forgetting what happened, you don't weep for his absence, you don't torment yourself, you don't scream but keep silent while the fingers of his hands on the guitar and his voice lead you to his sensitivity, you take notes, you don't sing his words, you switch off every atom of his presence and leave him free to chat intimately with your need to contact his soul, lucid and powerful.


He shows us that dreams can be touched, especially those that shatter against an adverse reality. All we have to do is understand that we have to walk with his thoughts in the opposite direction of our desires and it is at that moment that we feel his breath choking, the mind going crazy and the sky falling. One cries a lot listening to this album, because sadness stings the skin.

Perhaps we should imagine that he was happy just singing and playing: it might be an unavoidable assumption. However, one does not love him for this whim, but rather for the certainty that he did not let anything of himself slip away in the songs, he spent himself in loyalty. They are twenty-two gifts that do not clutter, do not disturb the space but generate a perpetually erupting volcano, where what drools is the melancholy that rises to be the faithful companion. Pains, frustrations and sadness arise and we must take them into account: it can be a tsunami, having to decide whether to let it overwhelm us or to build in time the mode that can extinguish its power.

Impossible.

Let us take a close look at his songs, with trembling and respect, in a generous propensity for attention, aware in advance that we will not be able to fully comprehend all of his art, but we will be comforted by knowing that in any case it will be pure stun…

P.S. Let us not make the mistake of thinking that there is a better part of Adrian that belongs to the period of the wonderful combo called The Sound. What Adrian did afterwards has the same value and capacity to write majestic songs. Let's leave the comparisons to fools, to ignorant, because to be unable to understand that this man was incapable of writing bad stuff means killing him a second time...


Song by Song 


1 Scales Of Love And Hate


"Seems like we've shut and locked every door

The deeper the cut, the colder the war"


We begin with dreams collapsing, confirming the distance between them and reality, in the impossibility that becomes palpable. It is a song that warms immediately, with the rhythmic guitar and the voice falling on the microphone, very tender.


2 Love Is Such A Foreign Land


"You're not easy to forget

But you're no reason to get upset"


Even angels pack their bags and will undoubtedly have this voice as they decide on their destination. The guitar, kept almost hidden, proves to be perfect for the whispery singing, which flies between low and high registers to the point of touching falsetto. 



3 Weekender Berliners


“Maybe I see you again, maybe I never will But I'll always have this picture that I hold very still”


An arpeggio flies up, in Adrian's voice, and everything is subtle, inside a story that slips, without regret, as you get chills.



4 Falling Off Your Horse


"I've tried to ride your dark wild eyes

Took a breath of air twelve feet up there

And then I tasted sand"


Among lost balances and what one has to pay for as a result, the song shows a swirling rhythm, strictly acoustic, and Adrian's short vocals, all poured into the void with great intensity. They are chords able to shake us, they are words that make our eyes swell as the voice takes us riding through the meadows of life.



5 Downtown


“I could be the ocean

Crashing into your land”


The voice inhales, the words come out vibrantly, and you get in the car with him to ride into town with a song that manifests his intensity, buttoned up to an effective melody, to remind us that his uvula can have wonderful claws.



6 Tired Man


"These eyes are closing now

I've got nothing to say"


The atmosphere slows down, echoes of a distant past show their face in these lyrics which are short but able to make us jolt, in vocals that show how much Adrian and Jim Kerr had in common. But here we are moved, we feel angelically dejected, and weariness spills from his lips as the guitar quickens its pace.



7 Unkissable


“Oh your sideways glance is like a lance 

And your whisper seems to shout"


The first of the three unreleased tracks is co-written with Carlo and is a blues and country soul travelling inside the hole of a head that spews lava and greyness. Enchanting, bitter enough to get into our needs.



8 Street Of Flowers


“And with smiles set back into stone again”


The second unreleased track seems to come from the fog on the outskirts of a geyser, dark and touching, with a trail of light that seems to be there by mistake. Adrian has a voice that moves every street with the flowers bowing, silently. A wonderful nocturnal whisper.



9 The Sea Never Dies


"Still the heart is an ocean and the sea never dies

Love comes and goes like the sun and moon".


Last unreleased song: here we have the ballad par excellence, that touches mobile shadows to tell us a story made of words and love, with fingers on the guitars that slide and emit a noise which is poetry. Everything is delicate but not timorous, for a track that explodes in the heart and not in the sound...



10 Our Forest Ghost


“Our forest ghost is looking out for us

Two hundred years he watched that clearing "


This voice enchants you, coming out of a miracle that always finds us unprepared. All the dynamics of his vocals can be found here, where past and present take possession in this track of their need not to be separated even for a moment. And one dreams while listening to the soundtrack of a movie, that of his talent.



11 Time Standing Still


"The moment you turn to go

Everything seemed to slow”


Love heals, but it also hurts, and you realise it through Adrian's voice as he seems to leave the planet early in this over-the-top folk performance.



12 Walking In The Opposite Direction


"And every day the things you crave

Make a play for my affection"


For the scribe the storm has arrived, the moment that absolutely ravages his heart. It will be the sad and immense chords, it will be Adrian's vocals that absolutely find the entrance to the weeping heaven, it will be the suffocating lyrics, it will be the anarchy that makes you free but definitely not happy, that make this song a repeated punch, with no escape from it...



13 Excavation Bones


"So you peeled away the skin

Past the ribs straight to the sin"


Here is the rendezvous with the densest and most revealing darkness of loneliness as a consequence, within low notes of the guitar that seems to knock at our subconscious until the rhythm comes along with this vocal interpretation that throws us to the ground, with the lyrics full of thunderous images that we cannot support…



14 Running Low On Highs


"I took my pleasures one by one Hovered closer to the sun"


We fall into a rhythm that seduces with sensuality, while the words suggest thoughts that strain happiness and security. The music has more space but then, when the notes arrive, Adrian makes us fall with him...



15 Valentine


"Unwelcome lodgers in my head"


Love is not immune to what is unpleasant and here we get proof of that: with a guitar near The Doors, the story gets sharp right away and everything drags towards the bitter knowledge, with the guitar descending to our belly... Written with Carlo



16 The Last Days Of The Rain Machine


'We sucked this world down to its brittle bones'


Adrian Borland is an extraordinary writer of lyrics: he knows how to use listening by turning it into seeds, often bitter and unquestionable. Sadly, his maturity comes with pain, and there is much of that in this track. The guitar draws splinters of rain and his voice falls heavy, in the tale of something that ends...



17 Snakebitten


"You say I should have learned by now

Yet I've only learned to forget"


The rhythm becomes a branch that moves us, nice and tight, with the angelic voice gathering a storm, amongst bites and things to forget. Very 80's, a mantra able to conquer, shattering.



18 Inbetween Dreams


“A great slab of day gets in the way

Of where you want to be

Breathing out, breathing in".


Seductive, captivating in the musical part, an acoustic dance that lies within the words referring to time, the absolute master of everything. And the voice becomes a poison and a thorn until it surrenders to dreams.



19 Hallucinating You


"Heat-haze at your edge

Where you protect me"


Confusion arrives with a series of rapid-fire questions, while everything has the bleak mood of a coming loss. 



20 Wild Rain


"I don't belong here, I belong to the storm"


Adrian takes us to his artistic summit, with a game of roles, made of questions and answers, as the gorgeous guitar fixes perfection.



21 Four Lonely Hours Away


“Waiting for the early trains

Kicking cans in the square

Funny how it always rains

On people going nowhere"


I apologise, but I cannot write anything about this one: only tears....



22 Dead Guitars


"Now I see all these new faces

And they look to me like a row of trees

And of all the friends that have now departed"


When everything dies, even a guitar, the list of disappearances comes to an end, it finds the stillness that opens the door to eternal life, with no guarantee that there will be something better. The last track consecrates his poetic vein with the violent bitterness on the edges of lips ready to die with their guitar...


You can order the album here: soundshaarlem@gmail.com


Special thanks to Jean-Paul van Mierlo for his contribution in promoting Adrian's music and soul and for his wonderful Artwork.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

22nd November 2022













lunedì 21 novembre 2022

La mia Recensione: The Cure - The Head on the Door

 


La mia Recensione: 


The Cure - The Head on the Door


Siamo perennemente di fronte a una contraddizione: vedere o meno i presupposti di un cambiamento. E la conseguenza ci porta in luoghi scomodi e spesso urticanti. Accettare o subire, spingersi verso l’accoglienza o il rifiuto. Da quel momento la convivenza genera sentimenti e comportamenti che inficiano la sicurezza e l’equilibrio. E nella musica tutto questo può presentarsi in grandi quantità.

Qualcosa di simile avvenne con Japanese Whispers, ma in quel momento quell’album aveva delle scusanti, una carezza perché si voleva accettare l’uomo Robert Smith impegnato nel tentativo di uscire da un labirinto pieno di spine e aghi dall’effetto terrificante. Nulla da perdonare, si poteva evitare l’ascolto e si poteva anche sorridere alla sua presunta felicità, connessa alla libertà artistica che non va mai negata. Poi venne The Top e le cose tornarono nell’ambito di un gradevole ascolto.

Tutto cambiò con il loro vero sesto album in studio.

The Head on the Door è un territorio multiplo di desideri artistici, di contraddizioni sonore (come approccio stilistico), dove tutto si indirizza verso un insieme che rende sgomento lo scriba per la doverosa presa di coscienza di un lavoro che spinge la band in un luogo in cui la danza, la leggerezza, la mancanza di quel pathos clamorosamente dimostrato in precedenza ponevano la difficile accettazione del cambiamento.

Perché è di questo che mi preme parlare: non un giudizio negativo, ma l’appurare che si era davanti a un addio, a una carta d’identità mutata, spiazzante. Tocca maturare la convinzione che il gusto personale non conti nulla: si deve criticare un lavoro capendolo, oppure cambiare i propri gusti.

Io opto per la prima opzione.

L’album mostra la formazione migliore di sempre tecnicamente non in grado di scrivere canzoni pregne di qualità e sviluppo, perché ancorate al desiderio di una presa collettiva, come un atto di beneficenza in grado di soddisfare più persone. Canzoni come spie, come sondaggio, dove l’aspetto pop (nei Cure spesso presente e di qualità) qui trova una dimensione esagerata, con il desiderio di non perdere del tutto un lato oscuro, disintegrando però, in questo modo, la credibilità. Non esiste una continuità espressiva, seppure non manchino brani che veicolino piacevolezza nell’ascolto (Push, The Baby Screams, Sinking), perché non è il numero di canzoni poco capaci di entusiasmare il problema. Molte idee, confini musicali disparati e la sensazione di non voler suonare in maniera simile al passato rendono tutto questo una fatica. Bisogna però considerare che alcune melodie sono deliziose, certi passaggi dimostrano sempre un talento eccelso. La compattezza, ripeto, latente, assomiglia nuovamente a una compilation con quello che viene considerato il miglior ventaglio di canzoni a disposizione.

Non più dubbi ma rassegnazione: trasmigrata la capacità di scrivere canzoni di piombo e ruggine, ci si sente smarriti davanti a un qualcosa di non decifrabile, sconveniente e disarmante. Pare evidente che siamo  davanti a persone nuove con un cammino che mostra già una direzione che non si può abbracciare: per un senso di appartenenza che viene a mancare. E la colpa è sicuramente dello scriba, troppo immerso ad ascoltare di tutto, ma sempre alla ricerca di una qualità che qui non si presenta. Senza dubbio alcuno.

Dieci tracce, ognuna di loro non abbracciata alle altre, singole espressioni che durano il tempo necessario per essere sostituite, senza un contatto, un passaggio di consegne, senza una continuità che crei affetto e sicurezza.

Ci si ritrova davanti a un mago, il suo cilindro e un coniglio con facce diverse, ma mai in grado di generare stupore.

Con un’unica eccezione: Sinking. 

La verità è che tutto vira decisamente verso chitarre e batteria iperprodotte, dalla presa facile, un lavoro che stanca, un ammassamento che ingolfa e toglie la capacità di focalizzarsi sul suono, qui banalizzato, negando quello che era stato il valore aggiunto di tutta la carriera. Si punta invece sulla riconoscibilità stilistica, sul fatto di non avere dubbi che canzoni come queste possano scriverle solo loro. È così, ma senza qualità. 

Sembra doveroso da parte di Smith e soci mantenere quote nere nella musica, ma davanti a queste pulsioni votate al Pop tutto svanisce e, quando è la psichedelia a tornare, si fa rimpiangere: sotto questo punto di vista The Top sembra un capolavoro. L’intenzione sembra quella di un album radiofonico e in quel momento si potevano ascoltare brani decisamente  più centrati in questo senso. Bisogna considerare che, se questo è il disco che ha aperto loro le porte del successo, molto dipende da un momento storico, quello della metà degli anni ’80, nel quale l’assuefazione, la stanchezza e la mancanza di buongusto aprivano la strada ad accettare e persino a desiderare musica non propriamente capace di fare cultura e di offrire validità. Bisognava andare oltre la storia, forse anestetizzarla e proporsi non come alternativa ma come un elemento che arrivasse alle masse. E in parte ci è riuscito. Aggiungerei: purtroppo.

Il bisogno di cambiare è legittimo, come quello di separarsi da ingombri, ripetizioni, affanni, difficoltà umane che possono includere quello della creazione. È il divario rispetto al passato dei Cure a sconcertare, a rendere difficoltosa l’assimilazione, perché è più facile per un artista mutare la pelle che per un ascoltatore. Un limite su cui porre attenzione. 

Proseguiamo.

Sembra di assistere allo spettacolo di anime che si sentono all’ultima spiaggia, bramose di creare uno stupore volutamente, di dare al pubblico nuovi lidi su cui approdare, mostrare la variabilità delle proposte come atto valido in sé, per stabilizzare il rifiuto verso quelle zone senza molta luce (a volte addirittura nel buio più totale) e, se ciò è comprensibile, non lo è la dispersione in artifizi volti a stupire più che a contenere valide alternative. Morta la parte visionaria dei Cure che ci poneva davanti a domande potenti, le immagini di questo album sono fini a se stesse, facilmente sostituibili da altre. Nella precarietà della scrittura di Robert Smith risiede il mio dolore, un quasi rifiuto. 

Il leader espresse il bisogno in alcune interviste di tornare a scrivere 45 giri, di non volere un filo conduttore: obiettivo centrato, negando al loro indiscutibile passato la possibilità di confidare nella loro musica per sentirsi avvolti in quella continuità.

XTC, Roxy Music, The Clash, Japan e i Devo sembrano i nomi tutelari di questo album ma nessuna delle canzoni (con l'eccezione di Sinking) sembra in grado di mostrare uno sviluppo e migliorie rispetto ai citati artisti. Ed è qui che nasce immediatamente il rimpianto e una forte delusione.

La tavolozza è piena di colori, di luci che sembrano, per fare effetto e per non dimostrare una totale negazione del passato, dover attraversare le tenebre per non scontentare nessuno. Un disco che cerca la felicità pur non avendone e non essendo capace di donarla: sta qui, al limite, il suo torto e la sua presunzione.

Ma il clamore e il successo avuto ha davvero dimostrato come ci sia stata una arrendevolezza da parte dell’ascolto, il bisogno di decretare il successo della band inglese con un lavoro non riuscito. Lo si è fatto anche per altri artisti, confermando il trend di discesa inarrestabile di chi ha smesso di essere critico consegnando inevitabilmente la follia. 

La prima formazione a cinque, che poteva essere motivo di grande specificazione sonora, sarà in grado dal vivo, con la successiva tournée promozionale, di rivelare invece una grande abilità con le vecchie canzoni del repertorio. Il ritrovato Pearl Thompson e Boris Williams si riveleranno autentici fuoriclasse, mentre, dall’altra parte, avremmo il declino conclamato di Lol Tolhurst, incapace di dare un serio contributo.

Simon Gallup in questo lavoro sfodera alcuni giri di basso semplicemente meravigliosi (Indovinate un pò? Sinking!), ma nell’insieme gonfio del collettivo sonoro si perde pure lui, dando al suo stile e alla sua modalità espressiva l’impressione di essere stato avvolto in uno spazio dove la sua identità è venuta meno, per salvaguardare un quadro complessivo che non è stato messo fuoco.

Robert Smith, partendo da dei suoi demo, ha concesso alla band un lavoro di equipe che alla fine è andato esattamente nella direzione che lui voleva: sua la vittoria, di molti l’insoddisfazione. Spariti i colpi di fulmine con l’arte che esalta ed educa se stessa a divenire un momento importante di riflessione, tutto consta di momenti sporadici in cui trovare i brani migliori: un pò poco, se parliamo dei Cure.

Ma questo album è utilissimo: fa capire, mette dei séparé doverosi, spinge a compiere scelte e quindi a maturare, perché non è nella piacevolezza che si fa un passo in avanti. La cosa che più fa star male è la consapevolezza che non fosse un passo falso, ma una cammino che stava portando la band in altre direzioni. Non sarebbero mancate in futuro delle belle e valide canzoni ma gli album sì, ed è questo aspetto ad aver creato con quell’ascolto un senso di abbandono.

Non entro nella descrizione delle canzoni: credo di avere già sin troppo dimostrato il fatto di non gradire molto questo lavoro, ma una menzione speciale va a  Sinking.

Con un inizio spettrale, un basso assassino e avvolgente e i giochi di alternanza tra piano, chitarra e tastiera, il brano in questione entra nella pelle immediatamente, come se diventassimo acqua mentre sprofondiamo nelle note, con la capacità magistrale di nuotare nella bellezza della luce nella profondità dell’oceano. Si respira abbandono, soffocamento, con annessa una tenue disperazione che lascia aria fresca nei polmoni. Ma la storia, magicamente scritta dalla penna di Robert Smith, ci conduce a piangere disperatamente su questa voce che diventa corpo e sostanza di un viaggio del quale tutti vorremmo fare meno ma da cui siamo attratti, come se la canzone ci spingesse in una misteriosa dimensione lontana e tuttavia a portata di mano. 

Sinking sarebbe stata l’evoluzione splendida dei Cure, senza forzature e negazioni. Ma è stata posta proprio a fine album: un messaggio? Un addio? Una carezza per confermare che la qualità non è stata dimenticata?

Quello che so è che si tratta dell'unica fuoriclasse di un disco che personalmente ritengo incapace di dare qualità a una carriera sino ad allora davvero notevole. Un passo falso che troverà modo di ripetersi, portando il dolore di un necessario impianto nostalgico che non si dovrebbe provare.


Data di uscita: 13 Agosto 1985

Casa Discografica: Fiction Records

Produttori: Robert Smith - David M. Allen


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

21 Novembre 2022

https://open.spotify.com/album/7zJzNs8eVgbkVVSQSwKRtx?si=c4u5GDNdS7aqbbZhjP2-5A







La mia Recensione: Phomea - Me and my army

 Phomea - Me and my army


Come è bello avere modo di accedere alla profondità di un’anima dotata di classe e stile.

Stiamo perdendo la vista, non ho dubbi, guardiamo nei luoghi e nelle cose sbagliate e, purtroppo, lo facciamo anche per la musica.

Non dobbiamo però disperare o cedere ascoltando brutta musica (sì, esiste), perché un nuovo album è pronto per essere accolto.

Quello riguardo il quale voglio scrivere è un lavoro profondo, onesto, con gemme che vanno approcciate con garbo e riconoscenza: Phomea ha dato alla luce canzoni illuminanti, calde, di sana e robusta costituzione, dove la dolcezza e modi gentili si affacciano per lubrificare la nostra sete di calore. Ed è un mondo che proviene dal folk, dall’alternative, da una spiccata sequenza di melodie che si conficcano nella testa e, grazie a una voce che accarezza l’ascolto, con una sensibilità che coinvolge e sorprende.

La scelta della lingua del cantato è perfetta: l’inglese si adagia con armonia e genera un’attrazione molto piacevole e profonda. 

Spero (sarebbe un segnale di grande intelligenza e di una lezione veramente appresa a fondo) che questo lavoro non risulti come una somma di riferimenti, di artisti e canzoni, miscelati tutti insieme perché la sensibilità e la raffinatezza presenti marcano un’unicità che merita riconoscimento e sostegno. Come un amo che pesca dall’acqua musicale più pura, c’è un approccio successivo di purificazione e valutazione nel quale l’aspetto primario è l’inserimento di uno stile creato e sviluppato all’insegna di una variabilità che si sganci da quei semi che quell’acqua sa lasciare.

Il Pistoiese Fabio Pocci è una carezza sulla mente, con la maturità di eccellere grazie alla sua scrittura epidermica, sottile, in grado di far germogliare le radici di un approccio anni ’90 verso questa attualità, finendo per risultare un angelo con il respiro protettivo nei confronti delle nostre anime.

C’è odore di una forte progettualità: un'acuta osservazione dell’umanità vista da un satellite immaginario nel quale provare a scindere il reale dalla sua proiezione, un libro scrivente sui movimenti di una realtà che non arresta la sua volontà di essere sfuggente e di assentarsi per curarsi su un piano finto, vuoto, virtuale. Arriva lo stratagemma, immagini e algoritmi connessi per condurre lo sguardo alla verità. Per fare questo Phoema sposa la duttilità di generi musicali che siano cerchi di grano, passeggiate solitarie con il taccuino in mano. Non fotografo del reale, ma scrittore di immagini che consentano all’autenticità di rimanere salva, di non emettere giudizi negativi. Ci si sposta nella musica folk (figlia del sistema cantastorie), per immergerla in una elettronica ragionata, che compare a spruzzi perfettamente razionalizzati, in quell’alternative rock che lascia la pelle dei pensieri sempre morbida. Conquista l’assenza di distorsioni, di rumori inutili, per semplificare il tutto. Non vi sono tragedie da raccontare, bensì l’impressione che l’artista toscano sappia trovare bellezza nel disastro comportamentale. 

Un disco ematico: porta proprio, e molto bene, il sangue al cervello per poter ragionare meglio, mettendolo in condizione di soffiare via la solitudine, dicendole di spostarsi, di assentarsi, di rimanere fuori dai nostri già numerosi sfaceli. Tutto ciò rivela quanto Me And My Army sia salutare, solare e profondo: finalmente si torna a fare cultura attraverso la musica e anche solo per questo motivo merita un supporto caloroso e un abbraccio fraterno. I brani sono capitani dell’intelligenza con un cappello saldo sul capo, senza esitazioni, per pilotare il viaggio cosciente con grande maestria e attenzioni. I ritmi presenti sviluppano, nell’ascolto, un’onda leggera, dove il coinvolgimento è più mentale che fisico, conferendole unicità, con il bisogno di linee melodiche che accolgono quelle incursioni vibranti fatte di chitarre sagge, con il basso che visita generi musicali senza vincoli e dove la batteria è un termometro degli istinti umani. Disco che più che sommare canzoni è una corsa di violino che si allunga trovando la nota corretta per un’analisi che si precisa perfettamente. Accenni psichedelici connettono l’elasticità musicale alla perfezione. Esiste la perfezione? Sì: nell’abilità di scrivere la verità di un disastro umano senza urlare, dove non c’è la poesia ma una sensibilità forse addirittura superiore.

Un album come compagno di identità, come professore, come studente, nel quale non è la confidenza che ci può legare ma la convinzione che nella solitudine esista una possibilità di crescita infinita…


Song by Song


1 Take Control

La prima immagine è una scintilla di consapevolezza che parte dolcemente: la voce e la chitarra compagne di cielo e poi un crescendo minimalista per un brano che libera i respiri, avendo lasciato la gabbia del controllo.


2 Me and My Army


Ed è stupore perché le rive che si intravedono sono gemme malinconiche, tra chitarra semiacustica e il pianoforte a iniziare lo scatto di un nuovo luogo, soprattutto mentale. La voce sale delicatamente su un registro che ammanta e ci porta la colpa negli occhi, in passaggio…


3 Unplease Me


I limiti umani sbocciano dentro la chitarra gothic-folk, con rimandi che affascinano, ma poi la tendenza è quella di rendere la canzone la pace di un respiro elettrico che la definisce, con le sue pause, mentre la batteria è intraprendente, il risultato ci offre un ritornello pieno di acqua al bordo degli occhi.


4 Lover


Si esce fuori, a bruciare il mondo, e lo si fa con un richiamo a Nick Drake, ed è un gran bel modo per partire. Ci si ritrova nel ritmo che abbandona la morbidezza e scivola via felice prendendoci con sé. Un bell’assolo, nel confine di una melodia seduttiva, ci convince: andiamo pure noi a sorridere al fuoco, facendo attenzione alla ferita che probabilmente è in arrivo.


5 Ruins of Gold


La solitudine appartiene a tutti e questo brano ce ne mostra il lato che ci interroga, dal testo a una musica capace di abbracciare il folk e l’elettronica in modo delizioso. La voce tremante, tra echi e chitarre che sembrano mandolini con la febbre, riesce a essere il centro di controllo del nostro percepire. Si viaggia negli anni ’90 che, sentendosi emarginati, chiedono a Phomea un abbraccio.


6 J.B. 


Arriva un interludio musicale, con uno spoken word che ci tempesta di domande, dentro oscillazioni cacofoniche che paiono il lamento di un’anima tesa.


7 What About Us


Si entra nella natura, nei frutti della terra, nella forzata coesistenza, e il canto si fa mistero, sussurri invadono le note ed è un calore naturale, che attraversa le maschere, i comportamenti che si fanno dubbiosi. E un tappeto elettronico concede spazio a schitarrate gonfie di veleno.


8 Run


Echi Nordici (Saybia, la fantastica band Danese su tutti) assorbono il pathos di un brano che sa grattare la polvere e per farlo passa da una lentezza accennata a una forma alternative rock vogliosa di offrire grandi spazi visivi. Ed è un gioco di melodie che pare provenire dagli anni ’70, sino a elevare il bisogno di dimenticare e correre via…


9 The Swarm


Pizzicare la pelle di una gabbia e farla accoppiare con una chitarra dallo sguardo malinconico, attendere la voce e un cantato che fa sedere e addormentare la stanchezza. Un brano che sale nel cielo dei nostri sogni malgrado le parole abbiano quintali di piombo addosso, ma è proprio qui che si capisce il valore di un miracolo. A completare il tutto ci pensa il senso estetico sonoro di un grandioso Flavio Ferri, che appiccica alla canzone il senso di infinito.


10 Perfect Stone


Phomea fotografa il tempo e le sue creature, con la voce che cerca di mettere le impronte in una vocalità baritonale. Ma poi fugge piacevolmente da sé e la porta dolcemente in un libero volo, tra romanticismo e dolore. La melodia cresce, si svincola, spinge verso un alternative dalla veste dorata, con una attenzione meticolosa nel non far cadere la tensione emotiva.


11 Dark 


Una cena con Joseph Arthur non si rifiuta, come con Tom McRae: si dia voce all’intimità, tra giochi di libellule in volo dentro parole sottili come respiri. Phomea rivela le stigmate del fuoriclasse che si beve il buio per completare la sua identità. La chitarra sembra picchiare l’insicurezza sino a consentire agli archi e all’organo di saldare il sogno e l’eternità. Struggente dimostrazione di classe fertile. 


12 Look At You


Neil Young si affaccia, con Tim Buckley e Michael Stipe a suggerire immagini da sistemare ai bordi dell’acqua. La voce come rabdomante: deve trovarla per lavare gli sguardi e la trova con una canzone che chiude il cerchio, dove la chitarra è un carillon della luce che si fa preda in fase di cedimento. Il pizzichio delle corde è già calore, poi gli accordi fanno il resto, e la voce è il francobollo che ci fa partire per una nuova cella senza catene…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

21 Novembre 2022


https://phomea.bandcamp.com/album/me-and-my-army


https://open.spotify.com/album/0x4t3nPGOzND6GMom1RmPr?si=qmTMOFjwRRi1pdt2jMtwWA

















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