martedì 26 novembre 2024

Ist Ist - The Art of Lying

 


La mia recensione


Ist Ist - The Art of Lying


Ci sono nubi che si abbassano per allargare le nostre paure e tensioni, per farci guardare dentro e cercare un contatto con l’inconscio. La volontà di capire il presente, il circostante, prendere posizione ha molti metodi.

Il secondo album dei Mancuniani Ist Ist è uno di questi.

Dopo l’esordio di Architecture (album dell’anno 2020 per Musicshockworld) eccoli avanzare dentro qualità sempre più visibili e messe a disposizione di tutti. È poesia grigia e scintillante quella che si legge dentro questi solchi, in un vinile blu cobalto che espande la sua potenza sulle pareti vogliose di essere stordite. E accade.

Si respira la loro maturità: questo secondo lavoro rende chiara la percezione che avevamo avuto con l’album di esordio. Sanno scrivere canzoni intense e devastanti. Ora lo fanno addirittura meglio. 

Il clima è quello di un momento faticoso e urticante: il COVID non ha lasciato solo la paura, ma l’esigenza di limitare il raggio di visibilità di questa devastante pandemia per fare i conti con il proprio spazio personale, in una faticosa restrizione.

E per farlo Adam (voce e chitarra) ha ispessito i testi di consapevolezza; sono martellate le sue parole, cacofoniche espressioni che dall’assenza di ossigeno portano nuove verità. Testi che si incollano alle musiche senza timori né balbettii.

Le chitarre tornano a essere ossessive e presenti come nei loro devastanti esordi, con tastiere che permeano il tutto in modo perfetto, tempistiche che fanno capire la loro crescita anche negli arrangiamenti e nella struttura delle composizioni.

Ciò che si respira dentro queste 10 canzoni è anche un senso di frustrazione positiva, energetica con la volontà di non risparmiarsi.

Canzoni come polvere di amianto che si infila nelle nostre orecchie per contaminare ogni possibile difesa.

Impossibile opporsi.

Tutto viaggia tra note che come spade del ‘500 corrodono e divengono letali: canzoni come tagli sulle nostre ferite, come pelle che si lacera ed esplode.

Continua ad essere pesante, tenebrosa, drammatica e catartica la loro presenza, ma hanno aggiunto pillole di saggezza e dato al Postpunk la possibilità di guardarsi indietro solo per il tempo necessario a cogliere le perle. Ma come architetti sono interessati a inventare modalità nuove, aumentare la possibilità di uno stile unico e riconoscibile. Non mancheranno le persone che spenderanno più tempo a trovare appigli, sicurezze nel fare paragoni invece di notare tutto ciò che di nuovo mostra la presenza. 

Il loro secondo album impegna l’ascolto se non si è inclini a multiple emozioni e ad accettare un arricchimento veloce dell’anima.

Se mentire è un’arte, quest’album rivela la sincerità di artisti che si oppongono a questo modus operandi. Vi è sincerità, spontaneità, integrità e ricchezza d’animo in questi minuti che sapranno donare, sebbene in una atmosfera corrosiva, momenti di sollievo…


 


Listening Through the Walls


“Private whispers in the wall”


Carte in tavola. Gioco chiaro e preciso: i quattro aprono le danze cupe come una roccia lenta, elettronica, una Coldwave che sembra provenire dalla sua patria, il Belgio, con passi lenti e lamiere dolci e oblique sopra le nostre teste. Rintocchi e campanelle a tagliare l’aria sino a quando una chitarra nel finale aggiunge malinconia.



Fat Cats Drown in Milk


“Reality has the sharper blade”


Una bomba che cammina, continuando ad esplodere. 

Un drumming come montagna che scende e trascina.

Il basso che affonda come rituale Postpunk liturgico.

Tastiere in appoggio che ci concedono un minimo la possibilità di sognare ed una voce, con il suo cantato, a paralizzarci tra correnti umide e crasse.

Atto superlativo di estrema bellezza. Coinvolgente e mantra da scolpire nel cielo.


Middle Distance


“My thoughts had rearranged”


Andy ed il suo basso graffiante, Adam e la voce al vetriolo che penetra la terra, Mat che appoggia delicatamente le dita sulla sua tastiera e Joel che in modo semplice ci sbatte per terra con il suo drumming. 

Brano che rivela come Architecture fosse la base e non un punto di arrivo. E alla fine Andy a farci danzare sensualmente con linee di basso potenti.


Watching You Watching Me


“My doubt of you still screaming through my head”


Si torna a ritmi vorticosi con questa razzia che esplora gli averi altrui.

È doccia Postpunk con attitudine generosa. 

Una tastiera ad aprire il cuore, poi basso chitarra e voce per una strofa che spalanca la bocca di gioia. Al ritornello si cede. È radioattività che si stende sulla pelle ed entra nei circuiti interiori.

Perché melodia e forza trovano il consenso, un patto con fare belligerante.

Dopo il ritornello la lava arriva con un basso bastardo e terrestre. La tastiera ci prende  il cuore e gli occhi, neri, da sognanti, diventano svegli e tenebrosi .


The Waves


“The tide washes over me”


Violenza smussata nei gomiti, tenebra cavernosa rigida e sporca ai lati, una corsa senza gambe per tutto il periodo della introduzione e poi via, il fiato che corre con noi nella Manchester del 1980 che guarda a quella del 2021. Trascinante, come strega malefica, dolce come i liquidi preparati dai druidi, questa canzone è la summa del loro presente, tra sibili e melodie argentate. Chitarre che dai The  Fall passano per le vene dei Killing Joke, in uno scorrere veloce e assassino lasciando alla musica tutto il tempo di cui necessita per farci cadere nella sua ragnatela.


Extreme Greed


“Spotted plants, shelved dreams”


Brano che eredita tutta la bellezza di Architecture: ne presenta il ricordo ma poi si tuffa giù nell’Irwell, il nostro storico fiume, per cibarsi di futuro e tastiere

che, partendo dalla Synthwave e dalla Coldwave, navigano sino a congiungersi con il futuro prossimo. Basso Calamita, voce Puledra, tutto corre con il piombo nelle caviglie.


It Stops Where it Starts


“My words fall on deaf ears”


Brividi feroci, che corrono, si scuotono dentro la nostra affamata voglia di fuga. Brano che paralizza, frusta psicotica senza residenza, rabbiosa e vitale. Andy come un  Simon Gallup dei bei tempi, un drumming che ha accolto la Darkwave per farla germogliare, Mat che catalizza l’aria con la tastiera. Un mastino che sbriciola le ossa. Sia Lode al Postpunk migliore.


If It Tastes Like Wine 


“I’m here in body not in spirit”


Prendi la cruda atmosfera del loro Ep “Everything is different now”, infettala di rabbia caustica e immergila in un bicchiere di vino.

Saranno frustrate viscide e ferite senza sosta.

Lava che mangia la pelle.

Poi un sorso di vino ed una chitarra sbilenca alla Felt per stordirci e renderci fertili: è una canzone che ci fa viaggiare dall’Inghilterra all’America e in mezzo chilometri di vino pronti a inebriarci. 


Heads on Spikes


“We’ve got lumps in our throats”


La dolcezza questa sconosciuta vero? Da loro poi non te l’aspetteresti di sicuro. Tutto questo nella breve introduzione di Mat. Poi Adam ed il suo cantato, la sua voce come gas soffocante anticipa quello che gli altri due aggiungeranno a breve. 

Ed è catastrofe, le nuvole di abbassano sino a toccare la terra. Si sogna piangendo, la chitarra che con la cruda semplicità di un solo ci sfianca.


Don’t Go Gentle


“The river was rain”


La saggezza di questi ragazzi sta nella consapevolezza di non poterci dare certezze. E concludono il disco con un brano che è vapore acqueo elettronico, il non prevedibile che mostra il suo mantello grigio, la Manchester che non muore e che vive con fatica. Canzone che spiazza e seduce, incanta, riassume il loro talento e fa terminare l’ascolto di questo album con un sorriso che guarda verso il cratere che sono riusciti a scavare dentro di noi. Come per le altre nove composizioni anche questa vi metterà in contatto con la bellezza, perché la vera Arte non sa mentire…


Alex Dematteis 

Musicshockworld 

Salford 

25 Novembre 2021




Ist Ist - The Art of Lying

 


IST IST


My Review


Ist Ist - The Art of Lying


There are clouds that descend to widen our fears and tensions, to make us look inside ourselves and seek contact with the unconscious. The will to understand the present, the surrounding, to take a stand has many methods.

The second album by Mancunians Ist Ist is one of them.

After the debut of Architecture (album of the year 2020 for Musicshockworld) here they are advancing into ever more visible qualities that are available to everyone. It’s a grey and sparkling poetry the one that you can read inside these grooves, in a cobalt blue vinyl which expands its power on the walls willing to be stunned. And it happens.

You can breathe in their maturity: this second work makes clear the perception we had with their debut album. They know how to write intense and devastating songs. Now they do it even better. 

The mood is one of a tiring, stinging moment: COVID has left behind not just fear, but the need to limit the range of visibility of this devastating pandemic in order to come to terms with one’s own personal space, in an exhausting restriction.

And to do this, Adam (vocals and guitar) has thickened his lyrics with awareness; his words are hammered, cacophonous expressions that bring new truths from the absence of oxygen. Lyrics that stick to the music without fear or stammers.

The guitars return to be obsessive and present as in their devastating beginnings, with keyboards that permeate the whole in a perfect way, timings that make understand their growth also in the arrangements and in the structure of the compositions.

What you can breathe inside these 10 songs is also a sense of positive frustration, energetic with the will not to save their energy.

Songs like asbestos dust that gets into our ears to contaminate every possible defence.

Impossible to oppose.

Everything travels through notes that, like swords from the 16th century, corrode and become lethal: songs like cuts on our wounds, like skin that tears and explodes.

Their presence continues to be heavy, dark, dramatic and cathartic, but they have added pills of wisdom and given Postpunk the chance to look back only long enough to pick up the pearls. But as architects they are interested in inventing new ways, increasing the possibility of a unique and recognisable style. Certainly there will be people who will spend more time finding support and security in making comparisons, instead of noticing everything new that shows its presence. 

Their second album may be a  demanding listening if one is not prone to multiple emotions and to accept a quick enrichment of the soul.

If lying is an art, this album reveals the sincerity of artists who oppose this modus operandi. There is honesty, spontaneity, integrity and richness of soul in these minutes that will be able to give us, although in a corrosive atmosphere, moments of relief...


Listening Through the Walls


"Private whispers in the wall”


Playing cards on the table. A clear and precise game: the four open the dark dances as a slow, electronic rock, a Coldwave that seems to come from its homeland, Belgium, with slow steps and soft, oblique metal sheets above our heads. Rattles and bells cut through the air until a guitar at the end adds melancholy.


Fat Cats Drown in Milk


"Reality has the sharper blade"


A walking bomb, continuing to explode. 

Drumming like a mountain that descends and drags.

A bass that sinks like a liturgical Postpunk ritual.

Keyboards in support that give us the slightest chance to dream and a voice, with its singing, which paralyses us among wet and crass currents.

A superlative act of extreme beauty. Involving, a mantra to be carved in the sky.


Middle Distance


"My thoughts had rearranged”


Andy and his scratchy bass, Adam and his vitriolic voice that penetrates the earth, Mat who delicately puts his fingers on his keyboards and Joel who simply knocks us down with his drumming. 

A track that reveals how Architecture was the base and not an end point. And finally Andy makes us dance sensually with powerful bass lines.


Watching You Watching Me


"My doubt of you still screaming through my head”


We’re back to swirling rhythms with this raid exploring other people's possessions.

It's a postpunk shower with a generous attitude. 

Keyboards open the heart, then bass, guitar and vocals arrive for a verse that leaves us stand open-mouthed with joy. The chorus gives way. It's radioactivity that spreads on the skin and enters our inner circuits.

Because melody and strength find an agreement, a belligerent pact.

After the refrain, the lava arrives with a bastard and earthy bass. Keyboards take our heart and our black eyes from dreamy become awake and dark.


The Waves


"The tide washes over me"


Violence blunted on the elbows, cavernous darkness which is stiff and dirty on the sides, a legless run for the whole period of the introduction and then off, while the breath runs with us in the Manchester of 1980 looking towards that of 2021. Overwhelming, like an evil witch, as sweet as the liquids prepared by the druids, this song is the summa of their present, between hisses and silver melodies. Guitars that from The Fall pass through the veins of Killing Joke, in a fast and murderous flow, leaving the music all the time it needs to make us fall into its web.


Extreme Greed


"Spotted plants, shelved dreams"


A track that inherits all the beauty of Architecture: it presents the memory of it but then dives down into the Irwell, our historical river, to feed on future and keyboards that, starting from Synthwave and Coldwave, navigate until joining the near future. A bass like a magnet, vocals like a foal, everything runs with lead at the ankles.


It Stops Where it Starts


"My words fall on deaf ears"


Fierce shivers, running, shaking inside our hungry desire to escape. A paralysing track, a psychotic whip without residence, angry and vital. Andy like Simon Gallup of the eighties, a drumming that has welcomed the Darkwave to make it germinate, Mat that catalyzes the air with his keyboards. A bone-crunching hound. Praise be to the best Postpunk.


If It Tastes Like Wine 


"I'm here in body not in spirit"


Take the raw atmosphere of their EP Everything is Different Now, infect it with caustic rage and dip it in a glass of wine.

You’ll have slimy frustrations and relentless wounds.

Skin-eating lava.

Then a sip of wine and a lopsided Felt-esque guitar to stun us and make us fertile: it's a song that makes us travel from England to America and through miles of wine in between ready to intoxicate us. 


Heads on Spikes


"We've got lumps in our throats"


Sweetness is unknown, isn't it? You wouldn't expect it from them. All this in Mat's short introduction. Then Adam and his vocals, his voice like suffocating gas anticipates what the other two will add shortly. 

And it's a catastrophe, the clouds lower until they touch the earth. We dream weeping, with the guitar that with the raw simplicity of a solo wears us out.


Don't Go Gentle


"The river was rain”


The wisdom of these guys lies in the awareness of not being able to give us certainties. And they end the record with a song that is electronic water vapour, the unpredictable that shows its grey cloak, the Manchester that doesn't die and that lives with effort. A track that disorients and seduces, enchants, sums up their talent and ends the listening of this album with a smile that looks towards the crater they have managed to dig inside us. Like the other nine compositions, this one will put you in touch with beauty, because true Art cannot lie...


Alex Dematteis 

Musicshockworld 

Salford

25th November 2021

mercoledì 6 novembre 2024

La mia Recensione: Aursjøen - Strand


 




Aursjoen - Strand

“La leggerezza per me si associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono a caso” - Italo Calvino


Nella spettacolare forma artistica che prevede la progressione dentro i maremoti emozionali, la lentezza diventa l’unica coinquilina ragionevole, in una pacifica e collaborativa convivenza.

Ecco che uno dei membri della polivalente band Octavian Winters innesca un detonatore sensuale, coi bassi ritmi a collegare il cielo e l’osceno del mondo, una musicoterapia che, partendo dall’elettronica curva su scale empiree e segrete, capovolge il pop e scrive canzoni come meteore e statiche statue danzanti, calibrate dal suo canto, corretto in corsa da controcanti e strategie di una produzione attenta a riversare luce tra bagliori eterei e tuttavia colmi di quel nero che non snellisce bensì preoccupa. Su questa base tutto diventa un'esperienza non catartica ma protettiva: ci sono luoghi dell’anima che l’artista di San Francisco preferisce mantenere come gocce di vetro nei suoi percorsi creativi. Musica glaciale, dove i panegirici dell’uomo comune tendono a frantumarsi, perché Aursiøen è una telefonata di note sotterranee. Da cui tutto parte per spegnere incantesimi e follie.

Un E.P. che la libera, la rinforza, capovolge il conosciuto e diviene residenza di sperimentazioni fluviali, mantenendo il contatto, nel suo timbro vocale (pieno e oscuro), con quelle voci che in passato, nel suo precedente progetto, non trovavano adiacenza e possibilità espressiva. Arrivano Siouxsie, Sinéad O’Connor, Björk, Elizabeth Frazer a ricordarci come la ricerca ostinata di una originalità sia cosa stupida: ci sarà sempre qualcuno che troverà un nome che l’ha per gioire di una vittoria inutile e irrisoria.

Questa cantante ha delle grucce nell’ugola, la sua mano scrive testi che salgono nella sua bocca per essere fantasmi gentili nel buio di notti vogliose di una distrazione. Quello che racconta e il modo in cui lo fa la mette su una discesa temporale: composizioni come un allontanamento, come una ferita sibilante in cerca di un’armonia gradevole, con richiami alla musica classica, partendo da un trip-hop nerastro all’interno di allacciamenti gotici, con una chitarra e il suo delay a frantumare la purezza, facendolo divinamente.

Il pop alternativo diviene folk alleggerito, con stravaganze davvero radiose e sublimi, con balbettii che inquinano la sicurezza, rendendoci ascoltatori in stato di fragilità, con una meccanica compositiva che avvicina la possibilità di un bacino di accoglienza popolare, mettendo a tacere chi la vorrebbe solo per poche anime.

Le stratificazioni, gli arrangiamenti, le progressioni, l’enfasi e la leggerezza (quella di Calvino nell’introduzione) sono gli elementi che continuano a partorire grappoli, frammenti, scintille di idee che reclamano note, come se uscissero dal risveglio di una persona in coma.

Micidiale, caustica, rapitrice di melodie arcane e vicine alla mitologia, questa artista lavora concetti privati, semina una lastra di impeti con lo sguardo dentro le cartucce di una voce che spara i cambi di registro con attenzione e capacità.

E dei testi, dei richiami sognanti verso gli anni Ottanta, della sensazione che sei canzoni sembrino trenta non ne vogliamo parlare?

In questo si dovrebbe tirare in ballo la seconda parte della carriera dei Dead Can Dance, forse il sistema di misura più vicino alla ragionevolezza per inquadrare il grande percorso compiuto con questo lavoro, per riuscire a dargli una credibilità che merita di sicuro.

Per il Vecchio Scriba questo non è soltanto l’E.P. del mese e dell’anno 2024, piuttosto è l’augurio che le anime pensanti possano scoprire con queste delicate pennellate artistiche una serie di mondi non connessi tra loro ma in fase di annusamento, nella spettacolare modalità di circospezione.

E si scopre come la bellezza sappia essere violenta: davanti a tutto ciò un cuore sano perde efficacia e si accascia, felicemente…


Song by Song


1 -Nytär


Una terra senza acqua esce da questi aggeggi elettronici, chiamateli computer, tastiera, beats, non importa: l’inizio del brano è già un geyser che si precisa nelle orecchie, un geniale intro per la voce che sembra uscire da un concerto della 4AD in un attimo di distrazione della massa gotica.

Pj Harvey osserva attenta: capisce come Aursjøen utilizzi il registro alto non come acclamazione o preghiera, bensì come soluzione per portare sul suolo terrestre angeli e demoni. Esempio di come la musica eterea stia a suo agio con un temporale, lento, pieno di elettronica e suspense.



2 - Apollo



Eccoli gli Octavian Winters nell’intro di chitarra: una bordata gotica che butta giù il cielo! E poi è una duna del deserto nel battibecco dei Tuareg, a benedire il connubio tra darkwave e trip-hop, con il ritornello che sentenzia la facilità che possiede di permettere alla malinconia e all’allegria di convivere. Misteriosa, trasmette un prurito piacevole, dato dalla metodica del canto, raffinato ma potente.


3 - Lilypad


Si cambia, si dimentica e si prosegue: siamo ora tra i pilastri della world music in cerca di anime voraci, di sospiri con eco e riverbero che montano la panna di una forma canzone che lascia spazio agli accenni di chitarra e tastiera, nel dondolio di un pomeriggio che vede la voce più nascosta, come una meteora in cerca di una metafora. Ma poi nell’apertura del ritornello le note in maggiore ci portano equilibrio e godimento. E ci viene in mente la stessa attitudine al gioco canoro di una cantante che è ancora un missile in anticipo nel mondo trip-hop, quella Skye Edwards dei Morcheeba che echeggia spesso in queste sei canzoni.



4 - Suns Of Tomorrow


Poi esiste l’estraneità e il giocattolo diverso nei luoghi predisposti alla ludicità.

Eccolo questo brano che visita l’ignoto, il sacro, l’accartocciare la voce per fare posto a campane, a beats magnetici, e un velo triste ci copre perfettamente gli occhi. La sperimentazione qui diviene saggezza al pascolo, per perseverare con la brevità del giro di accordi, lasciando poi spazio a un cambiamento ritmico e scenico impressionante, tra sibili e suggestioni drammatiche di altissimo livello, con incursione di fiati che creano un terrore rappresentativo di una genialità impressionante.



5 - For Want Of


L’eco maestro del dramma interiore esce a fumare: canzone che ci penetra attraverso il chiaroscuro vocale, mentre la musica, compatta, siderea, plumbea, struttura l’ascolto all’interno della pazzia maniacale di Diamanda Galas. Si canta per colpire l’aria, per irritare e tenere buoni gli spiriti, come fate, come diavolesse. Aursjøen impressiona, ci travolge con il modo in cui usa la complessità per esplodere ma solo in lontananza…



6 - Strand


Dio mio. Una chiusura che mette il magone, che ci rende orfani, visto che la bellezza e la leggerezza decidono di partorire una figlia amorfa, stralunata e vicina alla fine prematura. Un incubo rappresentato come atto contemplativo, un trasporto nomade di antiche culture millenarie che qui trovano il benvenuto e si piange, di gioia, di gioia, di gioia mentre tutto si fa muto con queste praterie vocali che divengono l’unico vento su cui depositare il nostro grazie infinito…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
7 Novembre 2024

My Review: Aursjøen - Strand


 

Aursjoen - Strand

‘Lightness for me is associated with precision and determination, not with vagueness and random abandon’ - Italo Calvino


In the spectacular artistic form of progression within emotional tidal waves, slowness becomes the only reasonable housemate, in a peaceful and collaborative coexistence.

Here, one of the members of the multi-purpose band Octavian Winters triggers a sensual detonator, with low rhythms linking the sky and the obscene of the world, a music therapy that, starting from electronics curved on empyrean and secret scales, turns pop upside down and writes songs like meteors and static dancing statues, calibrated by her singing, corrected in the race by counter-notes and strategies of a production careful to pour light among ethereal flashes and yet full of that blackness that does not slender but worries. On this basis, everything becomes an experience that is not cathartic but protective: there are places of the soul that the San Francisco artist prefers to keep as drops of glass in her creative journeys.


Glacial music, where the panegyrics of the common man tend to shatter, because Aursiøen is a phone call of subterranean notes. From which everything starts to extinguish spells and follies.

An E.P. that liberates it, reinforces it, turns the known upside down and becomes a residence of fluvial experimentation, maintaining contact, in its vocal timbre (full and obscure), with those voices that in the past, in its previous project, did not find adjacency and expressive possibility. Siouxsie, Sinéad O'Connor, Björk, Elizabeth Frazer arrive to remind us how the obstinate search for originality is a stupid thing: there will always be someone who will find a name that has it to rejoice in a useless and derisory victory.

This singer has crutches in her uvula, her hand writes lyrics that rise into her mouth to be gentle ghosts in the darkness of nights longing for a distraction. What she narrates and the way she does it puts her on a temporal descent: compositions like a distancing, like a sibilant wound in search of a pleasing harmony, with hints of classical music, starting with a blackish trip-hop within gothic allusions, with a guitar and its delay shattering purity, doing it divinely.


The alternative pop becomes lightened folk, with truly radiant and sublime extravagances, with stutterings that pollute confidence, making us listeners in a state of fragility, with a compositional mechanics that brings the possibility of a popular reception basin closer, silencing those who would like it only for a few souls.

The layering, the arrangements, the progressions, the emphasis and the lightness (that of Calvino in the introduction) are the elements that continue to give birth to clusters, fragments, sparks of ideas that clamour for notes, as if they were coming out of the awakening of a person in a coma.

Deadly, caustic, an abductor of arcane melodies close to mythology, this artist works on private concepts, sows a slab of impetus with her gaze inside the cartridges of a voice that fires off register changes with care and skill.

And of the lyrics, the dreamy references to the eighties, the feeling that six songs sound like thirty, we don’t want to talk about it?

This is where the second part of Dead Can Dance's career should be brought into play, perhaps the closest reasonable metric for framing the great path taken with this work, to be able to give it a credibility it surely deserves.


For the Old Scribe, this is not just the E.P. of the month and year 2024, rather it is the wish that thinking souls may discover with these delicate artistic brushstrokes a series of unconnected worlds, but in the process of sniffing them out, in the spectacular mode of circumspection.

And one discovers how violent beauty can be: in the face of all this, a healthy heart loses effectiveness and collapses, happily...


Song by Song


1 -Nytär


A land without water comes out of these electronic contraptions, call them computers, keyboards, beats, it doesn't matter: the beginning of the song is already a geyser that is precise in the ears, a brilliant intro for the voice that seems to come out of a 4AD concert in a moment of distraction of the gothic mass.

Pj Harvey watches attentively: she understands how Aursjøen uses the high register not as acclamation or prayer, but as a way to bring angels and demons to earthly soil. An example of how ethereal music is at ease with a storm, slow, full of electronics and suspense.



2 - Apollo



Here are the Octavian Winters in the guitar intro: a gothic broadside that throws down the sky! And then it's a desert dune in Tuareg's bickering, blessing the marriage of darkwave and trip-hop, with the refrain sentencing the ease it possesses of allowing melancholy and cheerfulness to coexist. Mysterious, it conveys a pleasant itch, given by the methodical, refined yet powerful singing.



3 - Lilypad


We change, we forget and we go on: we are now among the pillars of world music in search of voracious souls, sighs with echoes and reverberation that whip up the cream of a song form that gives way to hints of guitar and keyboard, in the rocking of an afternoon that sees the voice more hidden, like a meteor in search of a metaphor. But then in the opening of the refrain the major notes bring us balance and enjoyment. And we are reminded of the same singing attitude of a singer who is still an early missile in the trip-hop world, that Skye Edwards of Morcheeba who often echoes in these six songs.



4 - Suns Of Tomorrow


Then there is the strangeness and the different toy in the places predisposed to playfulness.

Here is this track that visits the unknown, the sacred, the crumpling of the voice to make room for bells, for magnetic beats, and a sad veil covers our eyes perfectly. The experimentation here becomes grazing wisdom, to persevere with the brevity of the chord turn, then giving way to an impressive rhythmic and scenic change, between hisses and dramatic suggestions of the highest level, with incursions of wind instruments that create a terror representative of an impressive genius.



5 - For Want Of


The master echo of the inner drama comes out to smoke: a song that penetrates us through light dark vocal, while the music, compact, leaden, leaden, structures the listening inside Diamanda Galas's manic madness. One sings to hit the air, to irritate and keep the spirits good, like fairies, like devils. Aursjøen impresses, overwhelms us with the way she uses complexity to explode but only in the distance...



6 - Strand


My God. A closing that puts us in a mood, that makes us orphans, as beauty and lightness decide to give birth to an amorphous daughter, stunted and close to an untimely end. A nightmare represented as a contemplative act, a nomadic transport of ancient millenary cultures that find a welcome here, and one weeps, with joy, with joy while everything becomes mute with these vocal prairies that become the only wind on which to deposit our infinite thanks…


Alex Dematteis

Musicshockworld
Salford
7 Novembre 2024

La mia Recensione: Auge - Spazi Vettoriali

  Auge - Spazi Vettoriali Il tempo viene archiviato solo dalla massa ignorante di chi ha fretta, quella che stringe gli spazi e divaga nel n...