lunedì 22 luglio 2024

La mia Recensione: Sons Of Viljems - Lithospheric Melodies


 

Sons Of Viljems - Lithospheric Melodies


Ogni grazia offre responsabilità, oneri, consapevolezza e impegno. Quando, poi, è data da una forma artistica fuori dal coro, capace di assumere i volti di chi normalmente non pensa di traslare le percezioni in avamposti sonori, ecco che il tutto conferisce, almeno inizialmente, disagio e confusione.

Il Vecchio Scriba, invece, in questa pulsione, volontà, abnegazione e ricerca prova un’immensa felicità ed empatia per questi due musicisti che, con l’aiuto di altri, hanno creato un luogo di migrazione, di pertugi mentali, di terremoti con uno spazio di sicurezza.

È un danzare sulle onde di un magnetico laboratorio di analisi, una sonda continua che raggruppa le stagioni dell’esistenza, i trascorsi occupazionali, le sintesi e mai le esagerazioni, per dare forma a un concept linguistico ascensionale. Tutto è raggruppato nella intelligente forma mai didascalica di incontri filtrati, di esperienze con il messaggio recepito e trasformato in un dipinto affascinante che abbraccia epoche, generi e stili musicali come una rete che si appoggia al cielo.

Sette lunghe passeggiate tra ambienti che accolgono il beneficio di stratificazioni conosciute perfettamente e allineate una dopo l’altra senza necessitare della forma canzone, ma non per negare lo spirito e il bisogno che questa modalità possiede e determina, bensì al fine di strutturare l’allungamento dello spazio di manovra mentale, fuori da un concetto che sarebbe decontestualizzato per questi due poeti.

L’uso, millimetrico, della suggestione, avvalora il matrimonio del basso e della chitarra, qui amalgamati dal potente ardore di non chiudersi nella suggestione egoistica di un breve riff, di una pulsione, ma di rendere fertile il punto di partenza come il ruscello che sogna l’arrivo nelle braccia del mare. Solo così si può generare l’espansione, l’allungamento, lo stretching mentale per coniugarsi allo sguardo di un messaggio che non abbisogna dell’impiego dei testi per essere intuito. Occorre uno sforzo, ma poi la visione cinematica di questo album di debutto sarà un'incredibile massa di nuvole in piena emozione continua.

Si potrebbe affermare che siamo alla presenza di una maniacale cura dei dettagli: parrebbe un complimento, tuttavia sarebbe più gradito dare spazio alle enormi qualità di armoniose fantasie che fanno dei nostri occhi nuovi e storditi viaggiatori di un inconscio che, è bene ribadirlo, abita sempre lontano dalle nostre attenzioni. Le note sono particelle ibride ma piene di calore e disponibilità: la loro consequenzialità è consapevole, attiva nell’essere un incontro che non cerca l’equilibrio bensì il contenuto, in un impatto che estrapola i sensi dal loro tepore. Si palesano elementi di nu jazz, che però hanno la cortesia di non essere prevaricanti, di concedere spazio non tanto ad altre incursioni, ma piuttosto di abbandonare la propria soddisfazione di appartenenza per confluire in un circondario che parte dalla montagna percettiva per gettarsi nel mare olfattivo.

Il ritmo in questo strepitoso lavoro è il condensante cerebrale che celebra l’estasi, non facendo del nostro corpo un ballerino: apre il contenuto e lo specifica come fanno le nuvole nel cielo, per darsi coraggio innanzi alla immensità che le circonda. Ecco allora l’alternanza di forme tribali, di pattern precisi, di escursioni che non provocano lacerazioni e aumenti del battito cardiaco: la lentezza è quella tipica dei primi vagiti post-rock, dove le linee melodiche non desideravano strutture che le appesantissero.

Il dolore, come proposta di accettazione, è parte integrante di un universo cauto, mai precipitoso, per far avverare le riflessioni, dove non esistono indugi, lacerazioni o gravità insostenibili. Perché, in quanto peculiarità umana, questo sentimento è irrifiutabile: appare non attraverso lamenti o grida, scegliendo invece di non essere abbandonato gravitando attorno ai raggi solari, lenti, caldi, che tolgono l’umidità soffocante che tale cancro invece sostiene. Il disco è una fascina di onde sorridenti, figlie di studi e rarefazioni, un attraversamento pedonale dei sensi.

Solo in un brano (Silence) si presenta un cantato che sembra disarcionare il significato del vocabolo, per accompagnare il suo sussurro nell’acqua che porta queste entità sonore verso la magia che inebria, mentre il basso e la chitarra vivono di un arpeggio e di un pulsare pieno di fascinazioni nordiche.

Negli altri sei episodi vi sono piccole ma significative presenze di vocalizzi che diventano carezze dentro la necessità di unire le diverse propensioni date dai generi sessuali: uomini e donne nella piazza di un villaggio senza luci diventano un lampione per le anime attente. In Liminal esiste una voce femminile che canta, ma la sua brevità fa riflettere, mentre il timbro è decisamente sensuale. E il fatto che si riescano a sentire movenze dei paesi del medio oriente riesce a rendere il tutto ancora più attraente e misterioso.

Il synth, l’organo, la viola (perfetto ibrido tra il violino e il violoncello), il sassofono, il glockenspiel, il contrabbasso non sono più strumenti, ma i veri arrangiamenti sonori che contemplano il suono iniziale del basso e della chitarra per estendere il tutto all’interno di un concetto orchestrale in cui la musica è immersione ed elevazione. Si spiega in questo modo la sensazione che l’elettronica presente sia a suggerire questa epica volontà e non a sottrarre spazio: quando il moderno e l’antico si incontrano (Liminal), si vive un tumulto di sorprese continue.

The Nephew of Viljems è una suite deliziosa che abbraccia la spiritualità dei luoghi cari a Ryuichi Sakamoto, attraverso un cammino delle note sopra il limite della convivenza tra la dolcezza e l’intuizione, donando anche la sensibilità di Vini Reilly per come la sei corde diventi un ascensore sensoriale, dentro i circuiti di aggregazione di altri strumenti qui detentori dello scettro della estradizione di un corpo metafisico.

La bellezza del post-rock, coniugato a petali dream-pop, si palesa nella generosa Lithospheric Patterns,  la quale sintetizza il  profumo di pagine antiche che, passando da un fare orchestrale, si ritrovano all’interno di vesti elettroniche, per evidenziare la totale mancanza di esagerazioni. Quando la chitarra si affaccia, il basso sostiene il bellissimo combo di forza e delicatezza. Qualcosa di cupo e sinistro vive in queste forme oceaniche…

L’iniziale Lahar (mi si perdoni se non seguo l’ordine della scaletta ma un senso esiste, fidatevi di me), è un incandescente intro, dove gli archi tirano sassi che paiono arrivare dalla preistoria: la tensione, la paura, il disagio dell’ambiente qui viene pilotato per vedere se stessi attraverso uno specchio che rende chiaro come ogni ingresso sia un mistero da rispettare… Dopo quasi tre minuti il brano si scioglie e si trasforma in un pavimento dove le note combinate e il volteggio dei colori della chitarra, come quella del basso, portano a pensare che Michelangelo Antonioni si sarebbe accaparrato volentieri queste atmosfere per il suo film Il deserto rosso

Con Morning Horn siamo all’interno della morbidezza elaborata, di delicati avvenimenti che stuzzicano la curiosità, fraseggi quasi impercettibili di una visione esplorativa che non si concede distrazioni, crescendo come una ouverture che reclama la luce dell'intelligenza che scruta senza emettere giudizio. Denso, voluminoso, fluttuante, il brano diviene una bombola di ossigeno che innaffia le molecole dei pensieri…

In merito alla già menzionata Silence, si può aggiungere la sensazione di come una giacca piena di ascensori umorali contempli l’autunno e la primavera dei nostri impeti.

La conclusiva Pulse-Resonance è il vascello in cui tutto il lavoro sino a qui fatto desidera un luogo dove conoscere l’immensità dell’eterno, in un gioco sacro in cui i Dead Can Dance degli anni Novanta hanno seminato esempi, per dirigersi altrove. No, non sono paragonabili, ma hanno la stessa programmata volontà di distribuire imbuti nei quali gli strumenti che si affacciano possano versare le loro qualità, senza disperdere una goccia, mentre il sassofono regala il brivido di dolcezza dentro un mare agitato dalla chitarra saggiamente inquinante e tenebrosa.

Un modo sublime di terminare uno studio, di colorare le tempie di onde che non si smagnetizzano tanto facilmente…



Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
23 Luglio 2024


Disasters by Choice 




My Review: Sons Of Viljems - Lithospheric Melodies


 Sons Of Viljems - Lithospheric Melodies


Every grace offers responsibility, burden, awareness and commitment. When, then, it is given by an artistic form that is out of the chorus, capable of taking on the faces of those who do not normally think of translating perceptions into sonic outposts, the whole thing confers, at least initially, unease and confusion.


The Old Scribe, on the other hand, in this impulse, in this will, in this abnegation and research feels immense happiness and empathy for these two musicians who, with the help of others, have created a place of migration, of mental perturbations, of earthquakes with a space of security.

It is a dancing on the waves of a magnetic laboratory of analysis, a continuous probe that brings together the seasons of existence, occupational pasts, syntheses and never exaggerations, to give shape to an ascending linguistic concept. Everything is grouped together in the intelligent, never didactic form of filtered encounters, of experiences with the message received and transformed into a fascinating painting that embraces epochs, genres and musical styles like a net leaning against the sky.  Seven long walks through environments that welcome the benefit of perfectly known stratifications lined up one after the other without needing the song form, but not in order to deny the spirit and the need that this modality possesses and determines, but rather in order to structure the lengthening of the mental manoeuvring space, outside of a concept that would be decontextualised for these two poets.

The millimetric use of suggestion corroborates the marriage of bass and guitar, here amalgamated by the powerful ardour not to close oneself in the egoistic suggestion of a brief riff, of a pulse, but to make the starting point fertile like the stream that dreams of arriving in the arms of the sea. This is the only way to generate the expansion, the stretching out, the mental stretching to match the gaze of a message that does not need lyrics to be intuited. An effort is needed, but then the cinematic vision of this debut album will be an incredible mass of clouds in continuous emotion.  It could be said that we are in the presence of a maniacal attention to detail: it would seem a compliment, yet it would be more pleasing to give space to the enormous qualities of harmonious fantasies that make our eyes new and dazed travellers of an unconscious that, it is worth repeating, always lives far from our attention. The notes are hybrid particles but full of warmth and willingness: their consequentiality is conscious, active in being an encounter that does not seek balance but content, in an impact that extrapolates the senses from their warmth. Elements of nu jazz are revealed, but they have the courtesy not to be prevaricating, to concede space not so much to other incursions, but rather to abandon their own satisfaction of belonging to flow into a surrounding that starts from the perceptual mountain to throw itself in the sea of the sense of smell. Rhythm in this resounding work is the cerebral condenser that celebrates ecstasy, not making our body a dancer: it opens the content and specifies it as clouds do in the sky, to give themselves courage before the immensity that surrounds them. Here, then, is the alternation of tribal forms, of precise patterns, of excursions that do not provoke lacerations and increases in the heartbeat: the slowness is that typical of the first post-rock wanderings, where the melodic lines did not desire structures that would weigh them down.


Pain, as a proposal of acceptance, is an integral part of a cautious universe, never rushed, to make reflections come true, where there are no delays, lacerations or unbearable gravity. Because, as a human peculiarity, this feeling is irrefutable: it appears not through moaning or shouting, choosing instead not to be abandoned by gravitating around the sun's slow, warm rays, which remove the suffocating humidity that such a cancer instead sustains. The disc is a bundle of smiling waves, daughters of studies and rarefactions, a pedestrian crossing of the senses.  Only in one track (Silence) is there a vocal that seems to unseat the meaning of the word, to accompany its whispering in the water that carries these sound entities towards the magic that inebriates, while the bass and guitar live on an arpeggio and a pulse full of Nordic fascinations.

In the other six episodes, there are small but significant presences of vocals that become caresses within the need to unite the different propensities given by sexual genders: men and women in the square of a village without lights become a lamp post for attentive souls. In Liminal, there is a female singing voice, but its brevity gives one pause, while the timbre is decidedly sensual. And the fact that one can hear movements from the Middle East makes it all the more attractive and mysterious.  The synth, organ, viola (a perfect hybrid between the violin and cello), saxophone, glockenspiel, and double bass are no longer instruments, but the actual sound arrangements that contemplate the initial sound of the bass and guitar to extend everything within an orchestral concept in which music is immersion and elevation. This explains the feeling that the electronics present are there to suggest this epic will and not to take away space: when the modern and the ancient meet (Liminal), one experiences a tumult of continuous surprises.  The Nephew of Viljems is a delightful suite that embraces the spirituality of the places dear to Ryuichi Sakamoto, through a journey of notes over the limit of coexistence between sweetness and intuition, also donating Vini Reilly's sensitivity for how the six-string becomes a sensory lift, within the aggregation circuits of other instruments here holding the sceptre of the extradition of a metaphysical body.

The beauty of post-rock, conjugated with dream-pop petals, is manifested in the generous Lithospheric Patterns, which synthesises the scent of ancient pages that, passing from an orchestral do, find themselves within electronic garments, to highlight the total lack of exaggeration. When the guitar appears, the bass supports the beautiful combo of strength and delicacy. Something dark and sinister lives in these oceanic forms...  The opening Lahar (forgive me if I don't follow the order of the setlist, but a sense exists, trust me), is an incandescent intro, where the strings throw stones that seem to come from prehistory: the tension, the fear, the discomfort of the environment here is piloted to see oneself through a mirror that makes it clear how every entrance is a mystery to be respected... After almost three minutes, the song melts away and turns into a floor where the combined notes and the vaulting of the colours of the guitar, like that of the bass, lead one to think that Michelangelo Antonioni would have gladly grabbed these atmospheres for his film The Red Desert...

With Morning Horn we are inside the elaborate softness, of delicate events that arouse curiosity, almost imperceptible phrasings of an exploratory vision that does not allow itself distractions, crescendoing like an overture that claims the light of intelligence that scrutinises without passing judgement. Dense, voluminous, fluctuating, the track becomes an oxygen tank that waters the molecules of thoughts...

With regard to the aforementioned Silence, one can add the feeling of how a jacket full of mood lifts contemplates the autumn and spring of our impetuses.  The concluding Pulse-Resonance is the vessel in which all the work done so far longs for a place where the immensity of the eternal can be known, in a sacred game in which the Dead Can Dance of the nineties sowed examples, in order to head elsewhere. No, they are not comparable, but they do have the same programmed will to distribute funnels into which the instruments can pour their qualities, without dispersing a drop, while the saxophone gives the thrill of sweetness within a sea stirred by the wisely polluted and gloomy guitar.

A sublime way to end a study, to colour the temples with waves that do not demagnetise so easily...


Alex Dematteis

Musicshockworld
Salford
23 July 2024


Disasters by Choice

martedì 16 luglio 2024

La mia Recensione: Chokeberry - Afterglow


 

Chokeberry - Afterglow


Si dovrebbe, prima o poi, fare un viaggio e visitare San Francisco di notte, piazzare dei radar nei suoi movimenti collinari e intravedere, tra la nebbia, i coriandoli magici e potenti del terzetto che con questa nuova canzone raccoglie eredità pesanti, cavandosela alla grande: un nubifragio di colori, di suoni, di variazioni su una struttura che tende a essere accomodante senza rinunciare alla forza. Una manipolazione estasiante di sospiri shoegaze e tensioni grunge, rese ubbidienti e funzionali ad abbracciare la fantasia, la curiosità e una sperimentazione leggera, sino a culminare nel territorio della dipendenza, per via di una dolcezza regalata da un cantato paradisiaco. Il rock che compatta chitarra voce e basso qui mostra la capacità di spaziare tra le possibilità, di collegarsi a distorsioni e riverberi che solo in apparenza paiono provenire dalla metà degli anni Novanta. Aggiungono, in modo inesorabile, una ricerca sonora che dipinge le pareti sino a terminare in modo quasi acustico per completare un range davvero impressionante di soluzioni. Mentre all’inizio la semplicità sembra la carta vincente, con il passare dei secondi tutta una serie di immissioni stimola l’ascoltatore a scegliere uno strumento, una parte, credendo di vincere la sfida. Però è inutile: è proprio l’insieme dell’evoluzione a certificare il successo di questo brano, un maremoto tra i sogni ed energetiche e energiche movenze che rendono Afterglow un esempio e uno stimolo. Accattivante, sensuale, sognante, libera le tossine all’interno di un abito mentale che consente di fruire di queste sollecitazioni colme di sfere emotive, in una gabbia che, sganciando il suono, lo mette a disposizione di sentimenti che non mancano di rivelarsi.

Se vogliamo vedere le stelle mentre cercano il cibo, ecco, basta scendere nei movimenti di questa gemma e aprirsi in un sorriso: a volte bastano quattro minuti per saziarsi in vigorosa bellezza…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
16 Luglio 2024

My Review: Chokeberry - Afterglow


 Chokeberry - Afterglow


One should, sooner or later, take a trip and visit San Francisco at night, put some radar on its hilly movements and catch a glimpse, amidst the fog, of the magical and powerful confetti of the trio who, with this new song, pick up heavy legacies, doing great: a cloudburst of colours, sounds, variations on a structure that tends to be accommodating without renouncing strength. A rapturous manipulation of shoegaze sighs and grunge tensions, made obedient and functional to embrace imagination, curiosity and light experimentation, culminating in the territory of addiction, due to a sweetness given by a heavenly singing. The rock that compacts guitar, voice and bass here shows the ability to range between possibilities, to connect with distortions and reverberations that only seem to come from the mid-1990s.  


They add, inexorably, a sound research that paints the walls to an almost acoustic end to complete a truly impressive range of solutions. While at first simplicity seems the trump card, as the seconds go by a whole series of entries stimulates the listener to choose an instrument, a part, believing he is winning the challenge. But it is useless: it is the whole of the evolution that certifies the success of this track, a tidal wave of dreams and energetic, energetic movements that make Afterglow an example and a stimulus.   Captivating, sensual, dreamy, it releases toxins within a mental garment that allows one to enjoy these solicitations filled with emotional spheres, in a cage that, by releasing sound, makes it available to feelings that do not fail to reveal themselves.

If we want to see the stars looking for food, all we have to do is descend into the movements of this gem and open up in a smile: sometimes four minutes are enough to be sated in vigorous beauty…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

16th July 2024


https://chokecherry4ever.bandcamp.com/track/afterglow

domenica 14 luglio 2024

La mia Recensione: The Cure - Seventeen Seconds


 

The Cure - Seventeen Seconds 


“Il Tempo vola e noi no. Strano sarebbe se noi volassimo e il tempo no, il cielo sarebbe pieno di uomini con l’orologio fermo”.

Alessandro Bergonzoni


L’inverno è un accadimento importante, non una stagione bensì l’insieme di elementi umorali, percettivi, mentali, in una malsana conformazione fisica solo per chi lo teme. Nella musica ha dato modo all’arte di perlustrarne i confini, di nascondere la sua magnitudine, di scherzare con la pochezza della gioia, di scritturare inganni che potessero sostituire la realtà. I dubbi, le indecisioni sembrano mettere radice e fiorire velocemente, per poter convivere, perfettamente, in una situazione tra il drammatico e il comico, con scelte radicali e doverose.

C’è chi, come i Cure, ha chiuso un decennio e ne ha aperto un altro facendo credere che il tempo sia uno scherzo poco serio, non credibile, costringendo chi li ascoltava a scegliere se fosse meglio quel luna park confuso di Three Imaginary Boys (con qualche bella giostra di sicuro) o il cielo ingrigito da sostanze di difficile descrizione e, soprattutto, assimilazione del secondo album.

Seventeen Seconds è l'incubo di una vicissitudine personale del leader della band, mentre fa della sua vita sentimentale lo specchio per i suoi spettri.

Seventeen Seconds è un mare che nasconde le gobbe delle sue onde per rivelare uno stato febbrile che paralizza gli arti ma non i sensi, gettando ogni impeto in uno stato perenne di misura: del tempo, dello spazio, delle catarsi obbligatorie, dei suoni che anticipano la melodia e gli accordi, e della paura, che in questi solchi veste la maschera desueta della sincerità.

Seventeen Seconds è uno stratagemma per nascondere i colori della vita laddove il punk ne aveva garantito l’assoluta mancanza, per sostenere invece, attraverso un impianto malinconico, il diritto di appartarsi. 

Seventeen Seconds visita le possibilità che diversi generi musicali provavano a materializzare, per sfuggire all’incubo della definizione, ossequiando il passato, e per dare al presente un sorriso sghembo.


Il vocabolario e l’enciclopedia della vita viaggiano sempre insieme, non nella musica ed è bene precisarlo. Basterebbe infatti notare, ascoltando il secondo lavoro del gruppo, come le parole e i suoni profumino di antico, ma non riescano a generare qualcosa di davvero nuovo. Lo è invece l’insieme di una prospettiva che indica come il laboratorio delle idee passi solamente attraverso l’uomo di Blackpool e che gli altri membri siano la perfetta manovalanza, gli esecutori di quei limpidi grigiori attitudinali che hanno fatto improvvisamente di un ragazzo di quasi ventuno anni un uomo con tutte le discese impazzite di frammenti da ricomporre per dare alla dignità una resistenza.

Seventeen Seconds è il lampadario offuscato di quegli anni Ottanta che nei primi due saranno preda, da una parte, di musiche disimpegnate, frivole, agglomerati di nullità perfette per impedire al pensiero di essere solido. Dall’altra di una massa impotente che, persa l’opposizione sociale, si avventura nel cataclisma di una interiorità inevitabile.

I quattro scrivono la storia di un universo mai attraversato prima dalle indagini, dalla paura dello scorrere dell’esistenza, del perdersi senza fiato, del sentire la schiuma della rabbia divenire un grumo di segreti da tenere nella propria casa, quella della mente che non conosce ancora il terreno esatto per nascondersi.

Un insieme musicale che pare fare l'occhiolino al concetto di un agglomerato che racconti il momento della maturità, delle scelte obbligate, di un gioco che vale solo per pochi secondi, per poi, invece, atterrare in una nube tossica figlia di intuiti massaggiati in fretta.

Diverse le novità che faranno di questo secondo episodio artistico la prima lettera dell’alfabeto di una nuova necessità, quella che in grembo non ha i candori pop dell’esordio bensì il freno a mano tirato con stanchezza e con fretta al contempo. 

La rustichezza dei tappeti sonori è di fronte al nostro stupore e, quandunque l’album è nelle nostre mani, si ha la sensazione di perdere sempre qualcosa nella sua breve durata, in quanto il genio svela la bellezza ma non la modalità attraverso la quale si rende visibile. La produzione finisce tra le dita di Robert Smith e di Mike Hedges, in una collaborazione che ha il sapore di un breve armistizio, data la propensione al controllo da parte del strumentista e cantante che piazza alle tastiere Matthieu Hartley, consapevole che l’operazione avrà vita breve. Ma, indubbiamente, quello che si ascolta non è un lavoro di chitarre o di qualsiasi altro strumento: è un corollario, più che onesto, di una scelta che sacrifica ogni virtuosismo (due soli assoli di Robert Smith in tutto il lavoro) per donarci una lastra piena di vibrazioni, di crepuscolo e affanno che si stringono, in lentezza, nel tentativo di proteggere la vita senza per forza doverla adorare. Ed è qui che abita il vero capolavoro dell’album…

Il punk e il post-punk vivevano di estremi urlanti, di roboanti manifestazioni pelviche, di trambusti esibiti senza alternativa. Il genio che lavora nella cantina della propria paura attiva risorse diverse, si apparta col tempo, lo misura e poi lo indossa su canzoni come abiti, appunto, invernali.

Spicca il metallo arrugginito in cerca di un eco vocale, di rarefazioni che conducano a un riverbero cognitivo senza bavaglio, in sezioni ritmiche quasi robotiche, vicine all’impeto menefreghista tipico della drum-machine, che è priva di sentimenti. Gli accordi (antichi intrugli che spaziano dai vomiti Velvettiani di Lou Reed) a quelli più asettici di avamposti progressive, allineano la fluidità della morte contro la durezza della vita, in una ipnotica forma di assemblaggio che spaventa: non esiste traccia in questa opera che non abbia il lato sporco della notte sulle sue spalle…

Il boato che si avverte è quello dei pensieri e non delle parole: queste ultime sono calibrate, lasciano spesso spazio alla parete musicale su cui loro appiccicano l’intenzione di palesare la loro esistenza, ma non si accollano la responsabilità di essere indispensabili. Infatti, seguendo questa logica, tutte le composizioni permettono, nel silenzioso e tremante ascolto, di verificarne la struttura, la solidità, e così facendo l’intero progetto diviene una capanna di cemento costruita nella landa di ogni tremore. Diversi sono i momenti in cui l’assenza del cantato ci induce a riflettere: non è una poderosa vittoria questa?

Il basso di Gallup non è niente altro che la catena di montaggio di melodie che potevano appartenere al canto: niente di tutto questo, il buon Simon distribuisce lapidi dorate, ritornelli già nelle strofe, per un qualcosa di poco sentito in precedenza. Il suono è privo della sollecitazione frenetica degli effetti: a lui non servono e già per questo ci ritroviamo basiti e immobilizzati dalla bellezza di questa manifesta forma di coraggio.

Per quanto riguarda Lol, lui rimane sempre lo stesso del primo album: un non-batterista che diventa indispensabile, riconoscibile e sul cui lavoro tutto il resto prenderà le luci, ma è impossibile negargli il merito di dare al suono dei Cure qualcosa di inconfondibile.

Dieci venti invernali spaccano il cielo in una ferita poco evidente: Seventeen Seconds vive di supposizioni, di accenni, dove il viaggio non è fatto da luoghi, da persone, ma da una sana paura su cui, volente o nolente, si definisce il futuro. Ecco, in questa dimensione umana, i Cure seminano per non ritrovarsi mai più negli stessi labirinti ed era già ipotizzabile che tutto nella loro carriera sarebbe stato costruito sugli opposti e sui loro satelliti.

Infatti, sia questo che Faith ma anche Pornography presentano, chiaramente, il rapporto tra la vita e la morte, dimostrando, in ognuno dei tre episodi, quegli elementi che faranno sembrare la loro musica l’anticipo della consapevolezza.

Però.

Però qui abbiamo il pudore, la timidezza, l’ingombro della realtà che urla e tocca a questi suoni addormentarne l’impeto. Gli accenni dell’ombra, nella mente acuta di Smith, riescono a pilotare l’orchestrazione del tutto verso un piano dove ascoltare è soprattutto afferrare prima e spiegare dopo una infinita percezione.

Altro momento magico e portentoso di questo insieme bollente nel ghiaccio atmosferico, in cui la coldwave sembra aver scelto di mettere le ali ma nascondendo il proprio volo.


Un racconto, un esame, un inchiostro tra le mani piene di colla, nel sudore del cemento che rimanendo fermo ribadisce il suo ruolo: si parte da qui per capire l’enorme validità di questa oscena bellezza che dura da quarantaquattro anni.


Si inizia senza parole, con accordi come un atto funebre in corso, echi di lamenti giovanili sotto la tensione di un basso e una chitarra che sembrano giocare con la luce. Come si definisce la fragilità dell’età, i silenzi che interrogano la paura? Scrivendo A Reflection, l’avamposto che crea il timore della solitudine, dopo un terremoto che ha lasciato in dono accordi secchi, che scandiscono il tempo senza aver bisogno della batteria. 

La tensione di Sheffield nella caotica Londra: ecco cosa sono i primi secondi del brano di apertura, un manifesto attitudinale in cerca di un nascondiglio emotivo. Tutto qui è incline alla nevrosi priva di balbettamenti ritmici ma straordinariamente potente.

Si entra nella lapidaria affermazione contenuta nella prima strofa per capire che con Play For Today ci si ritrova con pennellate morbide ma non romantiche, con il quattro quarti che ci incanala nel suono di una chitarra che circonda gli anni Settanta e li fa arrendere: l’approccio allo strumento con uno stile primitivo da parte di Robert Smith è un chiaro schiaffo dato a chi quando lo impugnava cercava di stupire. Qui, ciò che strega è l’ardore di un circuito che non può privarsi del basso e della batteria, dove la tastiera vince anche se nei pochi secondi nei quali le si concede la libera uscita. La seconda traccia è una chiara boccata di ossigeno per i pensieri di un ragazzo che si ritrova adulto nel dolore: l’unico scampo è giocare con la vita, in un giorno soltanto…

Atomi post-punk baciano la pelle dei sogni pop che mai potrebbero avere quella forma cosciente. Eppure, ancora oggi, questo brano avvicina forme diverse di ascoltatori. Della serie: la magia non si spiega ma si vive…

Arriva Secrets e la purezza della paura manifesta l’intenzione di usare due voci fuori sincrono, su registri diversi, per ammorbidire i giochi di chitarre minimaliste, cupe, frenetiche e il basso che accarezza il brano, quasi con timore. Gli accordi del pianoforte sono teatrali, vistosi, semplicemente imbevuti di drammaticità e il mini-solo spagnoleggiante della chitarra acustica lo ritroveremo poi in The Head On The Door

Come una candela in cerca di riparo, così la canzone sembra attivare la memoria dei vagiti del glam, nelle ballate che accennavano al suono senza renderlo dirompente. 

Giunge la sublime In Your House a ricordarci di tre ragazzi immaginari: qualcosa dell’album di esordio vive nell’arpeggio della sei corde ed è soltanto la tastiera, con due soli accordi, a spostare il tutto verso il regno della novità. Il mappamondo esistenziale qui restringe i confini: partendo dall’ampiezza (dovendo quindi escludere il mondo esterno) per afferrare l’unicità della brevità, lungo il terreno della pochezza e della approssimazione. Irresistibile è il fatto che la forma canzone, in questo caso, diventi scheletrica, utilizzando un bridge, che si rivela più efficace del ritornello. Attesa, tremore, tasti della tastiera che sembrano rendere mute le parole di un testo minimalista ma estremamente efficace nell’inchiodare l'attenzione verso la cantina della riflessione.

Quella che sembra una drum-machine è invece la spina dorsale di una musica che ruota, come un carillon che se ne sta in piedi lungo i corridoi di una casa che non sa come sfuggire a se stessa. Tutto è microscopico, indagatore, come se l’acqua in cucina non potesse mai bollire…

La medesima struttura di Three la troveremo in A Forest: con il basso che qui fa le stesse cose che farà la tastiera nel singolo più famoso dell’album, quattro accordi in successione su cui il brano trova forza, intimità e coraggio, oltre che il senso. Solo apparentemente strumentale, questo gioiello ospita la voce lontana di Robert Smith, per una situazione che pare uscire da un film di Mario Bava: far intuire procura molta più tensione di un urlo… Ecco le carezze di chitarre che evocano i Suicide all’inizio e poi via, nel teatro delle note che cadono come se avessero imparato il gioco da Bela Lugosi Is Dead: accennare per poi strutturare il suono in un magnete su cui piccoli e rudimentali marchingegni cercano un arrangiamento che renda sottile il tutto.

Ed è evocazione pura, il teatro drammatico di Oscar Wilde che entra nel cinema di Kurosawa: ardore e lentezza nella danza del sospetto.

L’assurdo dura poco ma è una catapulta nevrotica: poche note per pochi secondi creano il disagio con la spaventosa The Final Sound, l’addio a ogni forma canzone, il tentativo di far collimare gli incubi e di darli in pasto ai suoni, per generare una corrente balbuziente, nella giostra che non concede una nuova corsa…

Quella arriva con A Forest, il sigillo di un suono, di una storia adolescenziale che viene investita dalla realtà che non fa sconti, dove l’amor proprio mette in fuga quello collettivo, e i confini vengono scompaginati da immaginari alberi in movimento. 

Il corpo pare nascere da occhi in picchiata, mentre le gambe cercano ossigeno nelle metalliche movenze di una chitarra che circonda il buio per consegnarlo ai colpi vellutati del basso. La struttura è semplice: l’alternanza di un testo con la mimica sonora, che non adopera orpelli e tantomeno esagerazioni, ma si nutre della polvere alzata da una corsa confusa, che troverà l’apice in un eco pieno di riverbero dell’“Again and Again” del finale, dove il terremoto adolescenziale amoroso non conosce la morte ma qualcosa, forse, di ancora più frustrante: la paura che non cessa di correre insieme al sogno.

La canzone sarà l’inizio della fine: gli epigoni nasceranno come funghi, e, al giorno d’oggi, sicuramente velenosi. L’aurea piena di mistero è incline alla scena coldwave di Sarajevo, ma è proprio la chitarra a spostare le coordinate, a farci credere all'ultimo urlo di un post-punk senza ossigeno…

La luce dei Cure del 1980 era ingannevole: cercava la nuova Three Imaginary Boys mettendoci più ritmo: eccola, la M che confonde prima e fa accasciare poi, nel suo altalenante movimento tra la ricerca di una forma pop e la sua perfetta negazione. Ci si ritrova da soli, smarriti, di notte, con questa fionda sonora, che abbatte le illusioni e le cristallizza, per vestirle e attaccare, il prima possibile, il desiderio della morte attraverso la vita di queste note impetuose, quasi come fossero delle cortigiane al servizio del piacere della depressione di fare quattro passi in compagnia…

La prima canzone di Pornography avrebbe potuto essere At Night, il ghigno ottocentesco del marasma di una mente in debito di ossigeno: suoni meno pesanti rispetto al quarto album, ma la stessa, magnetica capacità di incupire i respiri e di inchiodare i nervi. L’episodio in questione è il perfetto armistizio tra quello che chiude l’album e Siamese Twins: in un riff si nasconde il cielo e si aprono le gocce per irrigidire la mente, creando uno spazio dove la consapevolezza ci riporta alla nascita, alla residenza (la nostra casa) e il momento in cui il tempo ingrossa le paure (la notte).

La tastiera, quasi nascosta, sarà quella che abiterà il palco in Faith e la cantina in Pornography: un mantra assassino che toglie ogni sogno allo scorrere del tempo…

Quello che parrebbe avere una misura: Seventeen Seconds è l’armadio che chiude il fiato, quello che puoi abitare per duecento e quarantuno secondi, per poi lasciarti vedovo di ogni speranza. Catatonico, rigido, porta le note nell’imbuto di una paralisi che eccita, per via del suo approccio a raccogliere gli altri strumenti sino ad aumentare la velocità, come un lento tornado pieno di sé…

La voce di Smith è un candelabro nel vento del tempo: senza paura, emette suoni codificati che si appiccicano alla sua chitarra in un binomio letale, con le due note della tastiera a saldare il tempo e il senso incompiuto dell’esistenza, dando al drumming il potere di apparire e scomparire come se tutto non avesse più senso.

Se la morte ha un inizio ecco che troviamo la sua carta d’identità nel brano conclusivo, in cui, come un grido silente, tutto volge al termine…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
14 Luglio 2024

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