lunedì 7 marzo 2022

La mia Recensione: Morrissey - Speedway

 La mia Recensione 


Morrissey - Speedway


Un palo.

Un muro.

Una difesa.

E a pensarci bene è tutto un voler essere l’attacco efficace che sortisce l’effetto desiderato.

È la decadenza di un sentire sempre più in fase di allargamento.

Ci sono argini da conquistare, con la pelle dura e insensibile, come ulteriore appoggio in questa fase distruttiva.

Poi c’è Morrissey, il poeta con la mente sempre piena di onde nere e le scorte in esaurimento, ma ancora resistente.

Che ha lo sguardo fedele di chi può promettere la fedeltà a se stesso, sino all’ultima goccia della sua forza.

Nel suo album Vauxhall and I decide che la morte e la disfatta umana siano meritevoli della sua penna, della sua voce sempre più incline ad appiccicarsi al dolore e a descrivere la decadenza con la sua splendida e al contempo atroce ironia.

Ecco allora il palo, il muro, la difesa, essere i perfetti strumenti del suo essere implicato in vicende che l’hanno ferito e sconvolto.

Ma è proprio dagli attacchi subiti che il poeta di Stretford ha costruito il suo bunker antiatomico, con le ruote…

Sì perché la sua non è una difesa passiva e decide di portarla fuori, in quel mondo ormai per lui così inospitale.

E nella cantina della sua difesa, all’ultimo posto visibile e udibile piazza Speedway, la sega  elettrica ed il martello che lo faranno trionfare.

Senza gioia.

Si rimane sconvolti da come il suo antico marchio, di Smithsiana memoria (testi profondi su musiche che possono essere non pesanti), qui venga consegnato al passato.

È tempo di una atmosfera che sia un chiodo arrugginito e teso come la sua voce, come le sue parole, per un insieme compatto che possa rendere inequivocabile il suo urlo interiore. 

E quando sei avvolto da cotanta tristezza, da contestazioni che diventano lacrime appuntite, non puoi che cadere per terra sapendo che sarà la sua stessa mano a dirti che “In my own strange way

I've always been true to you” e tirarti dalla sua parte. 

Un misterioso atto nel quale ci troviamo prima condannati e poi salvati da lui stesso. 

Ma questa è la sua radice, il suo nucleo inscindibile, a cui per molti può risultare difficile essere fedeli.

E questa non è una canzone, un fare artistico che può condurre ad una serie di riflessioni.

Assolutamente no.

Speedway è la lacerazione che diventa suono dalla melodia minimale ma impetuosa, un viaggio nelle sue ferite a cui concede accesso per quattro minuti e ventisette secondi di puro delirio amniotico, perché questa atmosfera sembra provenire dal grembo di una profonda sofferenza, sempre incinta di se stessa…


Una corrente elettrica dovrebbe portare luce, forza, aiutare, consolare, fortificare, togliere la paura.

E accade solo in Speedway che tutto questo avvenga portando anche il suo opposto, generando una serie massiccia di forze arrese e paludose, come una melma che ingrassa lo sconforto.

Il brano è decisamente la manifestazione di come la sfera privata coincida con quella pubblica, in un coraggioso atto dimostrativo nel quale l’obiettivo è mostrare come la propria vulnerabilità non significhi consegnarsi inermi al nemico.

E che in realtà è ancora più grande di quella supposta.

Ma nei suoi confini esistono forzieri impenetrabili. 

Si parte dalla sua inspirazione per poi incontrare chitarre con le unghie in attesa di divenire cruente.

Una sega elettrica spiazza, stordisce e ci rende anime irrequiete.

Tutto suona unico e maestoso sin dall’inizio, in questo lievitare verso il basso, come se ogni contraddizione dovesse trovare luogo nella musica e nelle parole.

Tra e-bow e chitarra elettrica ritmica ed il basso come fedele scudiero del mistero sonico, Morrissey dal canto suo decide di fissare per sempre la sua critica, l’ironia ed il vento di follia in un cantato malinconico coi denti serrati, digrignando, tossendo con eleganza le impurità che hanno cercato di intossicarlo.

Ed è una corsa che parte per avere l’intenzione di lasciarci indietro, per sconfiggerci, per farci sapere che non sarà mai raggiungibile il cappotto nel quale si è chiuso per sempre.

Sono parole come un terremoto che vuole essere gentile: per educazione, perché in fondo nessuna sua ferita può divenire violenza gratuita. 

Non c’è bisogno alcuno per lui di alzare il volume: lo fanno le parole, lo fa il drumming che si ferma per un attimo, ampliando il senso di caduta libera nel quale la canzone ci getta senza farci dubitare mai. 

È un pugno continuo con le sue nocche ferite che ci regalano un sangue piangente ma non incline alla autocommiserazione.

E quella sega elettrica è un pugnale che rimane nelle nostre orecchie, costantemente, anche in sua assenza.


È una confessione quasi totale: rimane la certezza che qualcosa sia rimasto dentro di sé.

Quello che all’epoca era il 35enne Morrissey mostrava che la sua saggezza e la capacità propulsiva di mettere in evidenza la rabbia potevano coesistere, per arrivare dritto al nostro cuore.

Le chitarre di Alan Whyte e Boz Boorer sono la cascata che gela la pelle, il basso di Jonny Bridgwood è una spugna pregna di acqua che si svuota nel drumming potente di Woodie Taylor, per un brano dal finale denso, caotico, struggente, tribale.

Una canzone che conclude l’album con fare funereo: sembra quasi che lui spenga una ad una ogni candela del nostro vivere, svelandoci la realtà, per farci abituare al buio che sta già vivendo, coscientemente.

Tutto è un lungo fulmine che esplode in un tuono che trova nel drumming finale la sua apoteosi, sconquassando i sensi devastati dalle sue parole.

Questa unione tra il testo e la musica alla fine risulta essere il testamento di un periodo che si è concluso proprio con questa canzone: a quel tempo lui meditava l’uscita di scena, ma fu proprio con queste parole e le note musicali che avemmo la certezza che l’addio sarebbe stato posticipato. 

Forse rimane la sua canzone più strepitosa e devastante, ma non è motivo di giubilo o di celebrazioni: è un carro funebre nato da quei fulmini divenuti tuoni.

E ancora oggi siamo con le orecchie e la mente doloranti perché il poeta non ha più gladioli nelle sue tasche, ma i fenomeni turbolenti del cielo…


Alex Dematteis 

Musicshockworld 

Salford

7 Marzo 2022


https://open.spotify.com/track/7wVwKqDtZ5EZHghJ82XGw9?si=3KFeRzOZQGy4-ZGusuYtOg


https://music.apple.com/gb/album/speedway-2014-remaster/859942535?i=859942556










domenica 6 marzo 2022

My review: The Maitlands - Live in Salford, March 2022

My review


The Maitlands live in Salford

5 March 2022


Every city has its own delays to deal with, because there are traumas and difficulties to pay attention to.

Manchester is no exception.

And about an aspect of music interest and sharing, the issue increases given its importance.

Life goes on and music comes back to show its face, its muscles, its passion, its ardour, its need, its pride, its need to legitimise itself.

Among them are The Maitlands, a splendid reality that does not want excessive visibility, nor does it seek approval whatever: it exists for the pleasure of it, without ambitions or exaggerated dreams.

Their joy lies in writing songs and playing whenever possible.

At a time when the line-up is changing, some of the new members were not in time to play with the band tonight.

In a four-piece line-up, but with a sound that seemed to be the product of more musicians, they showed all their class with a nine-song set at the Eagle Inn on the Salford/Manchester border, playing in front of an attentive and amused audience.

Having appeared as a Special Guest for a couple of songs at Academy 3 in August 2020, Heavy Salad guitarist Rob Glennie is now a permanent member of The Maitlands and his contribution strengthens the sound of the quartet, whose set shook, moved and led attendees to an articulate thought, given the depth of Carl's lyrics.

The three members of the line-up, Carl L. Ingram, Saul Padraig Gerrard and Matt Byrne, for their part, were totally at ease and able to express their talent, having found in Rob the best ally.

A perfect setlist that combined singles and lesser known songs with extreme fluidity and the ability to keep the tension and beauty of their compositions constant.

Mention must be made of the opener "Dead Slow", which after 4 years seems even fresher and able to show the band's endless musical roots, and of the always clamorous "When it Rains, it Pours", an atomic ride which, thanks to Matt's granitic bass, Rob's twisted and sensual guitar and Saul's acid drumming, allows Carl's singing to bring out his powerful and catchy melodic line.

All the songs demonstrate their total disregard for the need of other bands to feel part of a hypothetical Manchester music scene.

They wisely go in a different direction, drawing from the globe and different decades to make their music something compact and not morbidly tied to the Mancunian city.

That’s the sort of concerts that brings good cheer, a predisposition towards unquestionable artistic skill and joy, because their ability to be on stage is a robust smile capable of taking root in the heart.

Welcome back!


Alex Dematteis 

Musicshockworld 

Salford

March 6th, 2022





La mia recensione: The Maitlands - Live in Salford March 2022

 La mia recensione


The Maitlands live in Salford

5 Marzo 2022


Ogni città ha le sue lentezze da gestire, perché vi sono traumi e difficoltà cui prestare attenzioni.

Quella di Manchester non fa eccezione.

E su un aspetto di interesse e condivisione della musica la problematica aumenta vista la sua importanza.

La vita continua e la musica torna a mostrare il suo viso, i suoi muscoli, i suoi impeti, l’ardore, il bisogno, la fierezza, la necessità di legittimarsi.

Tra questi vi sono The Maitlands, una splendida realtà che non desidera eccessiva visibilità, né cerca consensi a prescindere: esiste per il piacere di farlo, senza velleità o sogni esagerati.

La loro gioia sta nello scrivere canzoni e suonare quando è possibile.

In un momento nel quale la line-up sta mutando, alcuni dei nuovi membri non hanno fatto in tempo a suonare con la band stasera.

In una formazione a quattro, ma con un suono che sembrava essere il frutto di più musicisti, hanno dimostrato tutta la loro classe con un set di nove canzoni all’Eagle Inn, al confine tra Salford e Manchester, suonando per una platea di persone attente e divertite.

Dopo aver partecipato come Special Guest per un paio di canzoni all’Accademy 3 nell’agosto del 2020, Rob Glennie, chitarrista dei Heavy Salad, fa ormai parte in pianta stabile dei Maitlands ed il suo contributo irrobustisce il suono del quartetto che nel loro set ha scosso, emozionato e condotto i partecipanti ad un pensiero articolato, visto lo spessore dei testi di Carl.

I tre componenti della formazione, Carl L. Ingram, Saul  Padraig Gerrard e Matt Byrne, da parte loro, sono totalmente a loro agio e capaci di esprimere il loro talento avendo trovato in Rob il migliore alleato.

Una scaletta perfetta che ha saputo unire i singoli e canzoni meno note con estrema fluidità e capacità di tenere costante la tensione e la bellezza delle loro composizioni.

Citazione d’obbligo per la opener “Dead Slow”, che dopo 4 anni sembra ancora più fresca e capace di mostrare le infinite radici musicali della band, e per la sempre clamorosa “When it Rains, it Pours”, cavalcata atomica che grazie al basso granitico di Matt, alla chitarra sghemba e sensuale di Rob e al drumming acido di Saul permette al cantato di Carl di esibire la sua linea melodica potente e accattivante.

Tutte le canzoni palesano il totale disinteresse della band verso il bisogno che invece dimostrano altri gruppi nei confronti del sentirsi parte di una ipotetica scena musicale di Manchester.

Loro, saggiamente, vanno in una diversa direzione, pescando nel globo terrestre e in decadi diverse per fare della loro musica qualcosa di compatto e non legato in modo morboso alla città Mancuniana.

Sono concerti come questi che portano buonumore, la predisposizione all’accoglienza verso abilità artistiche indiscutibili e la gioia, perché la loro capacità di stare sul palco è un sorriso robusto che sa come mettere le radici nel cuore.

Bentornati!


Alex Dematteis 

Musicshockworld 

Salford

6 Marzo 2022




venerdì 4 marzo 2022

My Review: Rover - Rover

 My Review 


Rover - Rover


The clock of sadness has hands that are always moving, because they go on even when we would like them to be in a state of paralysis. But time has decided for them, as for itself.


When despair, bitterness, restlessness and a sense of bewilderment come together and go to it, then everything is inevitable: we will have to reflect with a heavy head and in a constant daze.


Timothée Régnier is a French soul, with somatic traits conspicuously connected to his music, an intoxicating but often indigestible demijohn of wine, especially for those who prefer water that makes everything flow quickly.

Without commitment.


Today I am talking about his debut album, a bender that dulls superficial people, with no possibility of feeling any escape.

It is a striptease of roses falling naked to the ground, having already seen the tears dry up. He has shown so much of himself undressing that one can feel him trembling before those who avoid him, because facing the torments of an individual is always an exercise one prefers to avoid.


Yet there are textures that know softness, I would even say lightness, between the folds of an album that, while living among notes as a nebula in the process of crashing, is able to show its wake, where the colours have meaning, as an extreme and necessary opposition.

To listen to this work is to walk the path in the half-light that will never have mass sharing impulses, because where there is turbulence one always takes the closest road. The fear of the mind also defeats the contradictions of the heart.

Timothée is a champion without sabres, without excessive armaments, without the attitude of attack. He looks resigned but he is not.

It is a universe with its own oxygen, with a taste of death, which enchants with its authenticity. That's a good start.


And if you have thoughts waiting to be triggered, rest assured that the almost pop-like black knight will be able to make them jump up, without the bulletproof vest, because he defies doors since he knows he can slam them.


An album that is destined for eternity, I was talking about time and hour-hands, remember? 

Listening to it, one realises how the musical genres that are sketched out are predisposed to agglomerate in the translucent space of bewilderment, like a pagan festival in the parvis of a burning church.


To listen to the 12 hour-hands is to sit on what is moving, with a feeling of uncomfortableness but also of an inexplicable effervescence that is so elegant, certainly out of this current time, so heedless of those who are slow and interested in introspection.

OK, now we start to visit the seconds on this watch, which seems more an hourglass if you look closely...


Song by song


Aqualast


The first hour-hand has the guitar strings tuned to Radiohead's D Major, while the voice, like a colt without direction or masters, takes a ride among a varied originality and almost hidden winks at cursed singers well covered by their collars. Traces of Beatles show the depth of non-erasable imprints. And it is a psychedelic attitude that comes through and envelops.


Remember 


The second hour-hand is almost obese and rough: maybe it's the guitar, maybe it's the voice that sounds like a sheet of metal falling from the sky, in an incredibly soft flight.

The tons of sadness and bitterness slip away to hide, but they do not have time: you can clearly see them.

A refrain that you sing crying and then you run with this bass, along with voices of medieval virgins, so you can feel the weight of the pain...


Tonight


The third hour-hand, envious of the second one, is also running, with guitars like grenades that explode in a circular way, reminding us of Kiss with their most famous song.

But later everything becomes terribly serious, with keyboards freezing all enthusiasm and the words, which alone would be enough to swallow every nascent tear, ending up falling into the void. And the falsetto flies away.

Then we see Jeff Buckley, the sad and beautiful one.



Queen Of The Fools


With the fourth hour-hand we find the sound poetry of Neil Hannon and his Divine Comedy, for an almost psychedelic trip, certainly coloured by the French attitude to hide the admiration for the pop side of the Land of Albion.

The song darts, dances, with words of metal, wise, crude, like stone dripping oxygen now at the end of its strength. And all that remains is the painting of happy fools and their Queen...


Wedding Bells


Everything falls apart with the fifth hour-hand: Timothée removes the veil of bitterness and gives his nakedness the relief of collapse, starting with the heavy tone of his voice, which seeks the murky with its low register.

Like an old Pulp theatrical sound research, everything becomes a recitative that invades, steals and dies among emotions sitting above the spectral notes of a powerful piano and the guitar that with a few hints shatters us, while the bass allows itself that softness which at the end makes us sigh.



Lou


Take guitars, a bass, keyboards, drums and a voice like an excited yawn: you'll start to see the feathers of the sixth hour-hand.

Everything seems to be a sudden sunshine here: please don't be naive and superficial, there's a treatise of melancholy performing in these minutes with mastery and cunning, because only fools will be allowed to delude themselves.

We are in the 1960s, like a sudden dive, on the north coast of the United States, but in the belly of the song France claims its portion of consideration.



Silver


Hour-hand number 7.

The number of mystery knows swaggering waves of dusty guitars, coming from the south of the USA, with shoes full of dust given by the unstoppable path of the good Timothée who here grants the angels of time a little light.

But please push to the limit your ears: the slide guitar is a killer, it takes the French singer's heart and sends it down to hell with it...



Champagne


Rufus Wainwright makes a phone call: for the eighth hour-hand he wants to ride time and appears, Timothée spreads his arms in a full welcome and everything vibrates between the keyboards and the bass kissing happily, while the song takes us to Wales to have tea with Gorky's Zygotic Mynci...


Carry on


The power shows itself at the beginning of the ninth hour-hand: it lasts for a very short time, everything has to be anaesthetised, you have to get into the dress of a desperation that has little strength, with the rays of the sun that can't show themselves and everything goes back into the dress of a desperate story that colours this voice with a storm, which more than ever becomes dramatic and intrusive. The guitars sketch notes of advancing darkness and the turbulence of the simple keyboards make our listening a magnetic act.



Late Night Love


What you hear at the beginning sounds like hands, fast, with anxiety on the skin. They are the tenth.

Like a modern funeral march, everything becomes a long closing, the voice sounds like that of a Tom McRae with sadness down his vocal cords. 

The whole is a wound, the music like a modern mourning, while trying to be a living spark, everything unknowingly dies instead.





Full Of Grace 


Eleventh hour-hand: the guitar like a drunken step stuns us, then Timothée opens his mouth and everything becomes the synthesis of a folk-noir painted with a heavy rock without being metallic, a slow raid inside the needles of the voice, the atmosphere like that of a military plane with the handbrake in the sky, which is perplexed and worried.

In the black German forest the hiss of Coil with Swans negotiating the armistice of the world, while Wovenhand go out to escort.

When tragedy smells of beauty.



Father I Can't Explain 


Time decides that the last hour- hand should be allowed the illusion of sweetness, having a dowry of three minutes and eight seconds of air, it will pass very quickly.

As if Lou Reed was looking for followers and David Bowie was hinting at consent, the song is a bluesy dance step, with clean buttons and a tie. But the throbbing heart has tremors and concessions.



In conclusion.


After listening to this album you find yourself reconsidering the journey of history, what music allows you to experience and what it denies you.

Yes, ii’s true, because that explains why this artist did not achieve success. But the latter is not needed, it does not increase the value in itself, certain albums are born to stand alone but it does not mean that they are devoid of meaning and oxygen.

Those who welcome the broad forms of art will find in these hour-hands one of the concrete ways to experience time.


Alex Dematteis 

Musicshockworld 

Salford

4th March 2022


https://open.spotify.com/album/65jtY7eQJAhmCrT9JG60RX?si=VKuJeLFMRSiE9hk7T17a9A


https://music.apple.com/gb/album/rover/501793644




La mia Recensione: Rover - Rover

 La mia Recensione 


Rover - Rover


L’orologio della tristezza ha le lancette che si muovono sempre, perché loro vanno avanti anche quando noi le vorremmo in uno stato di paralisi. Ma il tempo ha deciso per loro, come per se stesso.


Quando poi la disperazione, l’amarezza, l’inquietudine ed il senso di smarrimento si riuniscono e vanno da lui, allora tutto è inevitabile: ci sarà da riflettere con la testa pesante ed in fase di stordimento continuo.


Timothée Régnier è un’anima francese, dai tratti somatici vistosamente connessi alla sua musica, una damigiana di vino inebriante ma spesso indigesta, specialmente per chi preferisce l’acqua che fa scorrere velocemente tutto.

Senza impegno.


Oggi vi parlo del suo album di esordio, una sbornia che ottunde le persone superficiali, senza possibilità di sentire vie di fuga.

È uno spogliarello di rose che cadono nude per terra, avendo già visto le lacrime seccarsi.

Si è messo talmente a nudo che lo si sente tremare davanti a chi lo evita, perché affrontare i tormenti di un individuo è sempre un esercizio che si preferisce evitare.


Eppure vi sono trame che conoscono la morbidezza, direi anche la leggerezza, tra le pieghe di un album che pur vivendo tra note come nebulosa in fase di schianto sa mostrarne la scia, dove i colori hanno significato, come opposizione estrema e necessaria.

Ascoltare questo lavoro è percorrere il sentiero in penombra che non avrà mai moti di condivisione di massa, perché dove c’è una turbolenza si prende sempre la strada più vicina. La paura della mente sconfigge anche le contraddizioni del cuore.

Timothée è un fuoriclasse senza sciabole, senza armamenti eccessivi, senza l’attitudine all’attacco. Sembra dimesso ma non lo è.

È un universo con il suo ossigeno dal sapore di morte che incanta per la sua autenticità. Mi pare un buon inizio.


E se avete pensieri che attendono di essere innescati, stiate certi che il cavaliere nero dal fare quasi pop saprà farli saltare in piedi, senza il giubbotto antiproiettile, perché lui sfida le porte in quanto sa di poterle sbattere.


Un album che è destinato all’eternità, parlavo del tempo e delle lancette, ricordate? 

Ascoltandolo ci si accorge come i generi musicali che vengono tratteggiati sono predisposti ad agglomerarsi nello spazio traslucido dello smarrimento, come una festa pagana sul sagrato di una chiesa in fiamme.


Ascoltare le 12 lancette è sedersi su ciò che si muove, con la sensazione di scomodità ma anche di una effervescenza inspiegabile e così elegante, sicuramente fuori da questo tempo attuale, così incurante di chi è lento e interessato alla introspezione.

Ok, si parte per visitare i secondi di questo orologio che sembra molto di più una clessidra se la si guarda bene…


Canzone per canzone


Aqualast


La prima lancetta ha le corde della chitarra accordata sul Re Maggiore dei Radiohead, mentre la voce, come puledro senza direzione né padroni, si fa un giro tra originalità varie e occhiolini quasi nascosti verso cantanti maledetti e ben coperti dai loro colletti. Tracce di Beatles mostrano la profondità di impronte non cancellabili. Ed è un atteggiamento psichedelico quello che perviene e che ammanta.



Remember 


La seconda lancetta è quasi obesa e ruvida: sarà la chitarra, sarà la voce che sembra una lamiera che cade dal cielo, in un volo incredibilmente morbido.

I quintali di tristezza e amarezze scivolano per nascondersi ma non fanno in tempo: si vedono, eccome.

Un ritornello che si canta piangendo e poi si corre con questo basso, insieme a voci di vergini medievali, per poter sentire il peso del dolore…


Tonight


La terza lancetta, invidiosa della seconda, corre pure lei, con chitarre come granate che esplodono con fare circolare, ricordando i Kiss con il loro brano più famoso.

Poi, però, tutto diventa terribilmente serio, la tastiera che congela ogni entusiasmo e le parole, che da sole basterebbero per deglutire ogni lacrima nascente, finiscono per precipitare nel vuoto. E il falsetto che vola per scappare via.

Vediamo allora affacciarsi Jeff Buckley, quello triste e bellissimo.



Queen Of The Fools


Con la quarta lancetta andiamo a trovare la poesia sonora di Neil Hannon con i suoi Divine Comedy, per un viaggio quasi psichedelico, sicuramente colorato dalla attitudine francese a nascondere l’ammirazione per il lato pop della Terra d’Albione.

La canzone sfreccia, danza, con parole di metallo, sagge, grevi, come pietra colante ossigeno ormai all’estremo delle sue forze. E non ci rimane che il dipinto di folli felici e della loro Regina…



Wedding Bells


Tutto precipita con la quinta lancetta: Timothée toglie il velo dell’amarezza e concede alla sua nudità il sollievo del crollo, partendo dal tono greve della sua voce, che cerca il torbido con il suo registro basso.

Come una vecchia ricerca sonora - teatrale dei Pulp, tutto diventa un recitativo che invade, ruba e muore tra emozioni sedute sopra le spettrali note di un pianoforte potente e la chitarra che con pochi accenni ci frantuma, mentre il basso si concede quella morbidezza che alla fine ci fa sospirare.



Lou


Prendi le chitarre, un basso, una tastiera, una batteria e una voce come sbadiglio eccitato: inizierai a vedere le piume della sesta lancetta.

Tutto sembra essere un sole improvviso qui: non siate ingenui e superficiali, c’è un trattato di malinconia che si esibisce in questi minuti con maestria e furbizia, perché solo agli stolti sarà concesso di illudersi.

Siamo negli anni 60, come un tuffo improvviso, sulla costa nord degli Stati Uniti, ma nel ventre della canzone la Francia reclama la sua porzione di considerazione.



Silver


Lancetta numero 7.

Il numero del mistero conosce onde spavalde di chitarre polverose, arrivano dal sud degli USA, con le scarpe piene di polvere date dal cammino inarrestabile del buon Timothée che qui concede agli angeli del tempo un po’ di luce.

Ma strizzate le orecchie: la slide guitar è una assassina, prende il cuore del cantante francese e lo fa scendere all’inferno con lei…



Champagne


Rufus Wainwright telefona: per l’ottava lancetta vuole cavalcare il tempo e si affaccia, Timothée allarga le braccia in una accoglienza piena e tutto vibra tra la tastiera e il basso che si baciano felici, mentre la canzone ci porta in Galles a prendere del tè con i Gorky's Zygotic Mynci…


Carry on


La potenza si mostra all’inizio della nona lancetta: dura per pochissimo, tutto va anestetizzato, si deve entrare nel vestito di una disperazione che ha poche forze, i raggi del sole che non riescono a farsi vedere e tutto torna nel vestito di una storia disperata che colora di tempesta questa voce, che più che mai diventa drammatica e invadente. Le chitarre tratteggiano note di buio in avanzamento e la turbolenza delle semplici tastiere rendano l’ascolto un atto magnetico.



Late Night Love


Quelle che si sentono all’inizio sembrano proprio delle lancette, veloci, con l’ansia sulla pelle. Sono le decime.

Come una marcia funebre moderna, tutto diventa una coda lunga, la voce sembra quella di un Tom McRae con la tristezza giù per le corde vocali. 

Tutto è ferita, la musica come un lutto moderno, mentre tenta di essere una scintilla viva, ogni cosa invece muore inconsapevolmente.





Full Of Grace 


Undicesima lancetta: la chitarra come un passo ubriaco ci stordisce, poi Timothée apre la bocca e tutto diventa la sintesi di un folk-noir dipinto di un rock greve senza essere metallico, scorribanda lenta dentro gli aghi della voce, l’atmosfera come quella di un aereo militare con il freno a mano nel cielo, che è perplesso e preoccupato.

Nella foresta nera tedesca il sibilo dei Coil con gli Swans a trattare l’armistizio del mondo mentre i Wovenhand escono a fare la scorta.

Quando la tragedia profuma di bellezza.



Father I Can’t Explain 


Il Tempo decide che all’ultima lancetta sia concessa l’illusione della dolcezza, avendo in dote tre minuti e otto secondi di aria, passeranno velocissimi.

Come se Lou Reed cercasse adepti, e David Bowie accennasse al consenso, la canzone è un passo di danza blues, con i bottoni puliti e la cravatta. Ma il cuore che palpita ha tremori e cedimenti.



In conclusione.


Dopo l’ascolto di questo album ci si ritrova a riconsiderare il viaggio della storia, di cosa la musica permette di vivere e cosa invece neghi.

Sì, è così, perché ciò spiega perché questo artista non sia arrivato al successo. Ma quest’ultimo non serve, non aumenta il valore in sé, certi album nascono per rimanere soli ma non per questo sono privi di senso e ossigeno.

Chi accoglie le forme ampie dell’arte troverà in queste lancette uno dei modi concreti per vivere il tempo.


Alex Dematteis 

Musicshockworld 

Salford

4 Marzo 2022


https://open.spotify.com/album/65jtY7eQJAhmCrT9JG60RX?si=8stsECTYSo6r5CHZ6I04cg


https://music.apple.com/gb/album/rover/501793644









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