Sacred Legion - The Higher Unknown
Ci sono stelle fasciate, timorose di provar dolore, che rallentano volutamente il pensiero della morte per preferire il silenzio di quelli imbavagliati. Quando si trasformano in canzoni allora tutto affonda nel precipizio di sentieri sonori, di trappole eleganti e maligne che adoperano la classe dei metalli roventi.
Torna la band del circondario di Frosinone per un disco che uccide questa sciocca attitudine a considerarla gotica, amante del Death Rock e amenità simili quando, invece, il terzetto si fa portavoce di una vistosa trasformazione.
Diventa un fumetto americano con i passi in Europa, come figli di Dino Battaglia, di Georg Büchner, di E.T.A. Hoffman, per delle nuvole parlanti che, pur muovendosi velocissime per soli ventinove minuti, riescono a fissare un quasi violento trascinamento all’indietro: ci si ritrova nell’800, con strepitose mosse anacronistiche che ottundono, scremano l’attualità e scelgono la musica che traghetti il tutto su un ipotetico foglio di carta.
E troviamo Dino Buzzati e il suo Deserto dei Tartari: il passaggio del tempo, il destino, l’assurdità dell’esistenzialismo bloccato e scioccato trovano il loro fissativo in queste composizioni che lacerano l’ingenua propensione al vittimismo o al pessimismo. Siamo, piuttosto, davanti a una ponderazione, a una disciplina di pensiero che trova il supporto di Zeena Schreck, vera pepita d’oro di questo fascio di composizioni. Una dea che conosce il percorso spirituale, la sensata teatralità che ben si sposa con le musiche dei tre, per un incastro dissacrante pieno di ruggine.
Ed ecco che Giovanni Drogo appare nei versi in modo inconsapevole, ma con un senso preciso del dovere e dell’obbedienza: sono brani che hanno bisogno di schemi, di studio, di un regime comportamentale in cui la necessità di conferire alla brevità il compito di precisare il tutto li rende antichi, quasi punk, ma non gotici di certo. Ed è qui che le cose si fanno chiare: sono morte le rive di quei luoghi dove piangere e sentirsi sfortunati rendeva vulnerabili le anime. Fabiano Gagliano riscrive le regole, disegna fumetti, cerca il Desert Rock più nella polvere notturna dell’hard rock dei primi anni Settanta che sicuramente sono presenti, ma non si può negare come nello struggimento esista una semplicità sonora che non abbisogna di trucchi e fiamme: il suono si muove in una direzione unica senza inganni, grattugiando benissimo le migliaia di band che perdono tempo a cercare un effetto ritenuto “giusto”.
Nell’album il pavimento delle note diventa latrato, ululato, un eco privo di pomposità in quanto investito di una precisa responsabilità: essere un tutto umano e non meccanico.
Canzoni come schizzi di sangue, di memorie, di bugie rilevate, di inviti precisi che sgomentano per lealtà e profondità.
Accennavo a Dino Battaglia, e precisamente a quel clamoroso riproponimento de “Il cuore Rivelatore”, di Edgar Allan Poe.
Bene: queste canzoni riprendono il tratto di una paura che cerca la separazione dall’incubo per avere una rotta solitaria, per infierire nel piacere di distorsioni attitudinali (che qui sono evidenti nei solchi) e concludere in una genuflessione con grandi gocce di umiltà attraverso un elemento storico che il Vecchio Scriba si rifiuta di definire come una cover.
Direi che, invece, il brano che conclude questo secondo disco sia un nuovo interruttore, logico e sensato, per definire non solo un amore, un buon gusto, quanto piuttosto un aprire e chiudere un cerchio temporale nel quale il gruppo appoggia le proprie creature all’interno di questa storica canzone…
Mirko, Tony e Fabiano prendono il rock e lo mettono a testa in giù, non in una grotta bensì nell’emisfero di una filigrana che cerca una espansione continua. Chitarre graffianti, il basso che scava e la batteria che fa annegare il fiato di una danza rendono il tutto un incubo, sì, ma sostenibile e compatibile con la geometria scenica di queste nove schegge.
L’insieme deve essere rapido, focalizzato, in una condensa ritmica in cui le uniche evasioni sono date da due mosse strategiche: il richiamare due compagni di viaggio del tempo che fu e un brano (toh, mica un caso che sia il più breve…) che apre, e chiude in un certo senso, ogni possibile volontà di andare altrove.
Arte sonica, spirituale, che guarda alla tradizione con rispetto, un quaderno in mano e una penna a china per prendere appunti. Nulla di tecnologico in questo lavoro, bensì un aratro che scava tra le zolle infangate da esistenze follemente perdute. E allora roghi, streghe, anime sezionate, lacrime salvifiche e aspirazioni come vettori di un benessere che conosce il beneficio del dubbio.
Se Satana esiste nei versi dei Black Sabbath (che non citerei come i maestri di questo album, ma solamente come un sacro tempio a cui volgere velocemente lo sguardo), qui lo ritroviamo nella ritrosia della formazione Frusinate ad adoperare la zona dell’ombra per divenire obbligatoriamente gotici. Non c’è nulla di gotico invece, ma decisamente un'attitudine alla creatività che ha un solo evidente termine di paragone in questo lavoro: i Damned, che truccavano la loro stessa cittadinanza stilistica senza porsi problemi. I tre sono liberi di folleggiare, di tapparsi le orecchie, di compiere un marcamento a zona sul ritmo e sulle storiche strisce psichedeliche di quel combo pazzesco che risulta essere il lavoro delle chitarre e del basso, che, come rabdomanti notturni, seppelliscono immediatamente quello che hanno trovato.
Un concept album sonoro, vuoi per l’attenzione nei confronti del suono che deve essere un indagatore, vuoi per la schiettezza di un’impalcatura emotiva che però si connette a un universo mentale fatto di anni e anni di studi specifici. Ecco la traiettoria delle canzoni divenire menefreghista nei confronti della condizione attuale. Nessuna fotografia, nessuna presunzione evocativa, ma uno sguardo laterale verso un non mondo dove le storie raccontate sono già intuibili dagli accordi e dalle loro brevi successioni, in uno scontro che li rende sicuramente, al giorno d’oggi, unici, senza cercare l’unicità…
Se muore un eco (il quinto pezzo di questo progetto artistico/umano), quello che rinasce è la scelta, piena di buon gusto, di non vergognarsi dei limiti del presente, dell’approccio falsato dal non essere più dei musicisti e degli scrittori di testi semplici ma connessi alla profondità.
Un fascio di insieme compresso in languide ferite ribelli, ossigenate dalla praticità e non dal sogno: uno scatto poderoso verso un sarcasmo evidente, un grimaldello che scoperchia la noia e la uccide.
Dicevamo di due presenze che rendono il tutto un generoso Grazie da parte dei tre musicisti e compositori: Adolphe Le Duc e Matteo Bracaglia che tutto sono tranne che dei ripescaggi in zona Cesarini; sono fiori che cadono con abilità tra i solchi per detergere, profumare e ingigantire questo cratere emozionale che fa del rispetto una curva dove, alla fine della sua traiettoria, esiste un abbraccio sensoriale.
Lo Stoner Rock e il già citato Desert Rock (che altro non sono che le schegge eleganti di quella Birmingham e di quella Londra che tra il 1969 e il 1972 sarebbero approdate negli USA come un flagello senza sosta) sono gli indiziati stilistici primitivi e più evidenti ma poi, come il vento che non ha padroni, ecco che i territori stilistici conoscono rapide deviazioni, in un teatro che, più che di dolore, è un recipiente pieno di melma, di distorsioni grevi, di leggerezza addirittura pop come nel brano finale, in cui approdiamo a un miracolo: da una parte la band che scrisse questa pillola pop imbevuta di piume glam e dall’altra quell’attitudine alternative indie che fu territorio dei Pixies nei loro primi passi.
Rimandi, stretching, per un disco muscolare e sfuggente. Sopra il Frusinate esiste un miracolo che sta tornando indietro nel tempo per creare un evento straordinario che non avrà di certo una filiazione: ed è in questa unicità che si palesa un portento onesto…
Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
13-2-2025
https://batcaveproductions.bandcamp.com/album/the-higher-unknown
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