lunedì 13 novembre 2023

La mia Recensione: One Little Atlas - Wayfarer

One Little Atlas - Wayfarer

Un foulard sonoro si alza da Manchester per portarla a fare due passi nel cuore della sensibilità maschile, restituendo luce che da troppo tempo latita nella città del centro nord inglese. La delicatezza, gli orizzonti attraversati e la modalità fanno di quest’opera un girasole romantico e ben attrezzato per resistere al logorio. Due gli artefici che, a distanza di dieci anni, tornano per sconvolgere con un trattato incantevole di bellezza, sussurri, frastuoni presi per mano e fatti arrendere. Kevan Hardman (titolare di un timbro stratosferico, roboante e in possesso di una vibrante propensione alla carezza del pentagramma su cui poggia le sue corde vocali) e Dean Jones (mago dell’elettronica e messaggero di complicate trame melodiche rese comprensibili e di conseguenza assolutamente capaci di sequestrare i sensi), sono i principali autori di questo album, coadiuvati, perfettamente, dalla Up North Orchestra e Heather Macleod, Helena Francesca, Rosie Brownhill, Tim Davies e dai cori di Rose Feaver, Lynn Shuttleworth, Siobhan Donnelly e Obie & Kitt.
Con un impeto che si affaccia alla modalità della musica classica, utilizzando però i mezzi moderni dell’elettronica più dolce e rarefatta, i brani fanno emergere con vibrazione continua la certezza che può esistere ai giorni nostri un’espressione artistica che raccoglie i raggi lunari, la pace, la contemplazione e la disciplina nel portare il caos a trasformarsi in una rugiada che rinfresca gli ascolti. Ed ecco che appaiono sussurri e cambiamenti nelle trame che portano il tutto oltre la forma canzone, con dilatazioni e sperimentazioni così simili al progressive, ma senza averne lo stile. Qui si visita la profondità del suono e il suo accorpare girandole lente e caleidoscopiche, nell’arcobaleno musicale che utilizza tutte le note per poter alleggerire il respiro e gli occhi. Con attitudini Post-Rock ma in moderata parata e l’utilizzo di stratagemmi consoni alla New-Age, i due si prendono la responsabilità di essere sussurri e si catapultano nella orchestrazione più sottile, quasi come se non volessero disturbare e intendessero regalarci l’occasione di una esperienza conoscitiva in grado di sottolineare la distanza tra il mondo da loro creato e il nostro. Diventa inevitabile, quindi, un innamoramento profondo e non un colpo di fulmine: nessuna seduzione artificiale per attirare gli stupidi, bensì una profondità che nasce e si sviluppa con la mano maestra della lentezza.
Perlustrano i territori folk con leggiadria, si inoltrano con profondo rispetto nel dream pop (senza scopiazzare, ma presentando notevoli novità), entrano nella tradizione britannica con ottima qualità di rivisitazione, snellendo la matrice ambient che generosamente mostra i suoi confini e le sue diramazioni. L’aspetto etereo viene alleggerito dalla costante sacralità che si trova quando la si ascolta da altri autori: ecco un nuovo aspetto che cavalca la struttura dei due fuoriclasse mancuniani, che decidono di scartare la possibilità di un impegno morale e filosofico esagerato, costruendo invece un giardino sempre incline alla freschezza, con fiori che risplendono senza sosta. Queste composizioni non sono altro che bolle di speranza che si aggrappano al sogno, sapendo però anche rilasciare una reale capacità innovativa, seminando mattoni leggeri ma potenti, per tenere la nostra mente avvolta e protetta. Le tastiere, quando dipingono i coriandoli delle note, riescono a farci sorridere, per poi toccare le corde emotive in una alternanza clamorosa, destabilizzando, pettinando l’incredulità. La voce è un miracolo educato all’espiazione dei peccati, un salto del canguro oltre l’universo, una calamità morbida, smussata perfettamente e in grado di rendere sognanti gli occhi e i pensieri. Notevole il lavoro dell’aspetto ritmico, che, seppure nelle mani di una drum-machine, riesce a farci percepire l’umanità, il talento e la possenza, senza mai arrivare a sovrastare le delicate armonizzazioni. Quando si sentono i leggeri tocchi del piano, si intuisce come la musica classica sia presente per sussurrare, ispirare, indicare la strada, senza prendere il sopravvento, in un matrimonio di sospiri e alchemie davvero notevoli.
Hanno coraggio questi due angeli dalle piume dorate: mettono sul mercato un lavoro incurante delle mode, dell’abitudine di confezionare qualcosa di comodo e sbrigativo, dimostrando quello che dovrebbe essere l’arte e cioè un esercizio generoso senza il desiderio dell’accoglienza, eliminando l’usufrutto, alimentando invece emozioni continue…
Undici episodi che scorrono in modo impeccabile.
L’iniziale Ascend (pillola sintetica in odore di santità orchestrale e con petali trip-hop nascosti), apre lo stupore, poi il duo entra in un prato con la seducente Lyn, giunge Devotion e si capisce come tutto si stia elevando, come uno spirito nell’atto della sua formazione.
Tra post-rock e dream pop l’emblematica Roads ci butta in una pista piena di fiori e l’emozione si appiccica ai corpi e alla mente.
Quando Holo arriva si è nuvole nel vento, le voci di Kevan e di Helena Francesca sono l’estasi danzante su una pellicola sonora sussurrante sorrisi e il luccichio delle stelle.
Of Love ci ricorda l’importanza di Vini Reilly (The Durutti Column), aggiungendo alla splendida chitarra graffiante con delicatezza un umore elettronico essenziale e spettacolare.
La canzone che dà il titolo all’album (Wayfarer) è l’aurora boreale raccontata attraverso note celesti, in uno scampanellio sia sonoro che emotivo: quando i sogni diventano materia hanno questa liturgica modalità…
Continuano le sorprese e le novità: Realise è un viaggio dentro le onde, come se fossero anestetizzate per poi essere rinvigorite da un'energia misteriosa che l’espressione vocale di Kevan riesce a tradurre. La new-age trova un contatto perfetto con la world-music e il trip-hop e tutto si fa mantello dorato.
Ceremony è una scossa improvvisa: il ritmo, la base, il suo sviluppo, la metrica del cantato sono poesie abbracciate, perfettamente in grado di dare fiducia alla modernità che la parte elettronica offre.
Si accennava alla musica classica, ed ecco che con Twilight il suo fascino viene trasportato nei giorni nostri, come una piuma che vola come una tartaruga: dalla sua lentezza le voci riescono nell’impresa di accelerare, in una sensazione che questo binomio sia un nuovo miracolo…
La conclusiva Autonomous è un congedo pazzesco: i baci del tempo e l’esplorazione delle anime si incontrano nel canto, come in un matrimonio delle stelle. John Grant sarebbe felice di vedere come Kevan sia allineato alla sua capacità di esprimere sentimenti con respiri di suoni che gravitano nel registro basso, ma dando la sensazione di una elevazione sino ai bordi del cielo. Spettacolare!


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
14 Novembre 2023






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