Echo & the Bunnymen - Porcupine
Un anno indimenticabile vede venire alla luce la magnificente sequenza di petali sgargianti, nella scia di una progressione stilistica musicale senza precedenti: dal pop, al rock, al blues, al soul, al post-punk, è tutta un’esposizione di gemme in cerca di un congelamento, poiché quando i miracoli accadono occorre conservarli, nel ciclo maestoso dell'eternità.
Liverpool, città disonesta e sgarbata per eccellenza, continuava a distribuire band come gang in grado di graffiare la buona educazione, morale e musicale. Gli Echo & the Bunnymen erano i più dotati ma, appunto, disordinati: seguendo gli istinti erano stati capaci di generare entusiasmi, ma dal punto di vista della concretezza stentavano in quanto le grandi canzoni (che non mancavano di certo nel loro pallottoliere) non bastavano. Eccoli, conseguentemente, “usare” il 1983 per assestare un colpo inatteso: tre singoli potenti, prepotenti, emissari di un lavoro che sarebbe arrivato a breve e che avrebbe sconvolto e deluso fans e molti addetti ai lavori. Si sbaglia, siamo umani, ma per il Vecchio Scriba in questo caso tutto è inammissibile, perché Porcupine è il diamante di una strategia occulta: occorre molto tempo per assimilare le diverse parti che lo compongono e per poter apprezzare la prima, sensazionale volta nella quale la progettazione fece di loro dei menestrelli con le mani e gli strumenti di architetti che cercavano di costruire impalcature diverse, per lanciare nel vuoto anni di miserie nere e creare un colpo a effetto, tingendo il loro tessuto musicale di psichedelia e di quell’Asia che tanto fu presa sotto mira dai Byrds e dai Beatles negli anni Sessanta. I suoni, che erano ad appannaggio di una opacità soffocante, in queste dieci tracce visitano territori dove gli arcobaleni non mancano. Ian, la voce miracolata, uscita indenne dai vizi più devastanti, qui compie il suo capolavoro balistico: canta come immerso nella rugiada di piccoli movimenti notturni, spalancando il cuore, affidandosi totalmente al progetto di cui prima. Ballate e raffiche di watt, poesie vorticose, immagini come quadri rapiti da estasi inconcepibili, rendevano possibile un'attrazione nei confronti di luoghi mai visitati in precedenza. Il lato A, più breve, contiene però la canzone con la durata maggiore (la title track). Il lato B è quello in cui le sperimentazioni sono sotto la luce di una mitragliatrice che spara a salve, concedendo, in ogni caso (grazie di cuore ragazzi), tonnellate di sofferenza dentro riff di chitarre e giri di basso umidi, per esplorare un deserto nel quale provare a seminare i fiori di un pop che cominciava a farsi irresistibile. C’era da battere e abbattere i carissimi nemici U2, ormai con War avviati a prendersi spazi che Ian e soci non volevano concedere. No, nessun compromesso stilistico bensì una svolta decisa, a tratti sanguinolenta, basta ascoltare la seconda parte proprio della canzone Porcupine per rendersi conto che quelle otto mani ormai avevano deciso di colorarsi di marrone, di grigio, di giallo, con l’anima ancora sporgente verso i territori così preziosi ai Sound e ai Cure, le uniche due band che in quell’anno sapevano ancora afferrare i polsi di ogni ascoltatore. Madonna, Prince e altri incantatori di folle stavano tracciando un percorso nel quale il lato chiaro, brillante, luminoso, visibile, poteva essere accarezzato e condiviso con una massa di persone numericamente molto alta. Non erano di certo gli artisti cosiddetti alternativi a fare la musica migliore, ma rappresentavano sicuramente quelli da cui ci si aspettavano prodotti in grado di costruire margini di sicurezza all’interno degli ascolti e delle preferenze.
Ciò che compone questo album è un approccio radiofonico, una malleabilità equilibrata nei confronti di una cassa di accoglienza più disparata rispetto ai precedenti lavori. Si spiega, in questo modo, la chitarra definitivamente più concentrata verso ritmiche funky, l’ingresso, per la prima volta, della chitarra acustica e, contemporaneamente, il violino, che determinerà una elasticità e l’intenzione di mutare il ruolo di residenza delle canzoni: il baricentro viene spostato ad Est e il rock che si sente è quello delle vie isolate ma non più desolate. L’amaro in bocca dell’esistenza qui non cerca un lamento (Robert Smith e Peter Murphy ancora insistevano su questo aspetto), bensì un quadro da lasciare appeso in bacheca, possibilmente da nascondere in fretta. Ascolti canzoni che sono la muta di anime in viaggio verso lo spogliarello mentale, per incidere nella pietra della storia una bandiera: quella della difficoltà dell’essere cittadini di un momento storico che secca le ali e bacia solo chi indossa maschere. I ritmi si fanno più complessi, le strofe si riempiono di simboli, attraverso arrangiamenti nei quali il basso di Les Pattinson illumina tutti, senza esitare mai. Briciole di ciò che i Banshees fecero nel 1982 appaiono nel secondo lato, ma siamo a livelli decisamenti più alti in questo contesto: si sale nel volo osceno di una psichedelia che paralizza il classicismo post-punk ormai saturo e debole. Le turbolenze dei quattro vengono immobilizzate, gettate dentro un materiale sonoro dal respiro fatato di angeli retrocessi nel pianeta terrestre. Doppie voci, chitarre sovraincise, ritornelli epici (gli stadi per alcuni di essi sarebbero stati il salotto di casa perfetto), melodie più vicine alle sponde della California, senza esitazione alcuna.
Manca in questo lavoro la presunzione, la violenta ricerca di allungare nel tempo ciò che funziona e ciò è un vero miracolo perché li avvicina al senso dei singoli, di quei 45 giri che garantivano maggiore accessibilità all’ascolto. Non è un concept album, non è un insieme di belle note musicali. Piuttosto Porcupine è un sacrificio, meraviglioso ed elastico, per portare la formazione verso la regione della consapevolezza. Più vicini a band con un respiro new romantic che non post-punk, i quattro di Liverpool si affidano a un produttore con il quale avevano già collaborato, ma cambiando approccio e metodo di lavoro: per ogni canzone fu presa la decisione di dedicare il tempo necessario a concluderla, per poi poter passare alla successiva. Non è difficile, ascoltandolo bene, sentire la continuità, i suoni diversi per ogni brano, come un ammasso di identità costrette a vivere dentro lo stesso corpo. Fu proprio questo elemento a renderlo unico, non dispersivo, problematico perché colmo di mescolanze nuove e impreviste. In più: quello che stava emergendo nel 1983 era una netta spaccatura; generi musicali e attitudini comportamentali sempre più frammentati, ma consapevolmente desiderosi di spaccare il mondo. Pure gli Echo lo volevano, ma astenendosi dal cadere nel tranello di una semplicità che avrebbe fatto diventare sterile la loro presunzione che, è bene riconoscerlo, li ha resi unici e di notevole impatto. Il linguaggio musicale pare sospeso a bordo di un sogno, dove il tempo è una meteora con il freno a mano tirato. Solo i Southern Death Cult, all’epoca, avevano la stessa quota di strafottenza, lo stesso colore sanguigno, l’impeto di chi scrivendo petali focosi su un pentagramma si alzava dal suolo. Ed è lì che bisogna andare per ascoltare in senso compiuto queste composizioni: nel luogo dove la razionalità diventa colpevole di una verginità inutile. Poiché davvero queste canzoni si macchiano di colpe, avendo il coraggio di una scrittura nei testi, da parte di Ian, che induce proprio ad abbandonare ogni pensiero cosciente. Tre singoli pieni di immediatezza che sembrano stonare con le altre sette tracce: in questo gioco con gli specchi invasi di grigio, brilla il loro coraggio e l’indiscutibile annessione alla spettacolarità di un pop che allarga i polmoni dentro i loro bisogni. L’umore viene congelato, sepolto da immagini in cui l’approccio è quello di scavalcare le onde dell’oceano (The Cutter) e farci divenire tutti complici di raggiri maestosi e fluenti. Questo è un aspetto vitale della psichedelia inglese degli anni Settanta. A partire da questo lavoro si possono sentire grandi “schitarrate”, meno arpeggi, con però la stessa attitudine dei Chameleons a creare muri di suoni, in cui più che il volume vince la massa di cambiamenti e di sovraincisioni. Effetti nuovi appaiono, per illuminare il serpente che i quattri tenevano per mano: il diabolico progetto di arrivare a nuove persone passando dalla porta meno appariscente ma comunque piena di paillettes. Come se il glam fosse presente nelle riflessioni più che nelle sue specifiche caratteristiche musicali. Per la prima volta gli echi e i riverberi sono vistosi in tutte le canzoni: si presti attenzione a questo aspetto, in quanto molto in fretta proprio tale scelta li ucciderà. Ma in questo contesto tutto è funzionale, oliato e capace di far scorrere il liquido del talento verso la perfezione.
Ciò che lo rende il migliore della loro discografia è un solo motivo: il suo essere intimo e personale, come mai era accaduto prima, come mai accadrà dopo. Il folletto di Liverpool apre i suoi cassetti dove, più che sogni, si possono trovare trame magnetiche, approssimazioni, confusioni e l’acuta abilità di una scrittura che ne complichi il processo di intendimento. Ian chiude a chiave i misteri ma li elenca, come un mago impazzito sotto gli effetti di deliri ad alta temperatura, in ebollizione continua, come un contadino musicale che semina senza interessarsi di verificare se lo fa nella giusta modalità. Durante la canzone Clay si sentono le influenze dei Banshees, è innegabile, ma poi la chitarra di quel genio di Will Sergeant porta tutto in estremo oriente, raggelando e lasciando la batteria nei pressi dei Joy Division. L’ispirazione, qui in grado di essere al servizio della progettualità di cui vi ho già parlato, è solo un muratore con mattoni tra le mani cariche polvere, di noia, di gesti da compiere per poter accatastare il tutto dentro la casa Porcupine. Fa male questo album, sbatte l’umore all’interno della bolla dell’incertezza e frusta il gotico procedere dei contemporanei della band: come se esistesse una grande discarica dove depositare le ingolfate strutture di un sistema ormai odorante di morte e approssimazioni. Morivano i Bauhaus, i Cure retrocedevano, gli U2 gettavano alle ortiche il dono che Dio aveva concesso loro, i Sound seppellivano gli entusiasmi ormai legati al palo del sacrificio indiano, e toccava proprio ai quattro cittadini della città dei Beatles cercare un sistema operativo diverso. Prendete Higher Hell: Chameleons e Sound che si baciano in bocca, ma poi, quando il basso entra, la storia conosce improvvisamente una novità che, credetemi, ha creato un impatto notevole per le band che sono venute dopo. I graffi di Will si fanno eleganti, meno vistosi, Ian canta come uno scolaro al quarto anno di liceo e il drumming finalmente è in grado di chiudere le porte ai semplici quattro quarti. Appare uno scalpello, un cacciavite, una cesoia e un innaffiatoio, per disegnare stratocumuli con la coda piena di vento: nulla tornerà, Porcupine fa emigrare le menti degli uomini prima ancora dei musicisti. Un disco testamento, il segno di una notevole capacità che cercava una classe dove insegnare ai sordi. Se si ascolta Gods Will Be Gods, si sentono gli impeti post-punk ma compressi, messi a cuccia, sedotti dalla chitarra che sembra un sitar e poi gli accordi di quella acustica a spegnere gli ardori e a mostrare un nuovo cielo, completamente sgombro…
L’allegria non è bandita, anzi, appare e regna per nulla in solitaria: nessun compromesso bensì un artifizio per portare diversi umori a colloquiare e a giocare con le possibilità. Un caleidoscopio, una giostra dentro un cimitero, un giorno lavorativo dentro un amplesso, la fede dentro la slavina della leggerezza.
Non ci sono vistose distanze con l’album di esordio: ascoltate le progressioni delle chitarre, il cantato preciso nella metrica, le sfumature dei ritmi e capirete che ciò che manca è solamente un’indole nichilista che è stata, grazie a Dio, anestetizzata. La crescita la si intende bene anche nel dividere il lavoro in sei parti: due nel lato A e quattro nel lato B. In che modo? Accorpando le linee melodiche e i ritmi in settori precisi, dando agli assoli l’abilità e la possibilità di sentire meglio gli arrangiamenti e i giochi delle chitarre, qui più sottili e meno ridondanti. Doveroso citare My White Devil: tenebrosa nel suo iniziale incedere quasi pieno di petardi attutiti da una coperta di lana, essendo abile poi nel divenire una ballad in movimento, per condurci nei sogni di un diavolo in cerca di anime umane. Clamoroso esempio di come si possa cavalcare la fantasia portandosi dietro le giuste strutture sperimentali, attraverso i cambi ritmo e di strumenti, il tutto in una coralità davvero impressionante. Uno xilofono imbottito di magia ci fa quasi sentire il diavolo come un amico: la maestria dei Bunnymen sta anche in questi giochi che stupiscono l’ascoltatore.
Porcupine è un viaggio senza ruote, nel deserto muto del cielo. Nel momento in cui la storia musicale si fratturava le gambe, loro accesero le ali e ci portarono a toccare l’infinito…
Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
9 Giugno 2023
https://www.youtube.com/watch?v=65d9EqkvHb0
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