lunedì 12 giugno 2023

La mia Recensione: Bauhaus - In The Flat Field

Bauhaus - In The Flat Field

La Luce. Il Buio. Il Pathos. Il Dramma. Le Allucinazioni. L’Impeto. La Sfida. L’Errore. L’Orrore. La Carnivora Assenza del Bene. Le Proiezioni Mentali. Il Freddo. Il Gioco Caustico. La Recitazione. La Destinazione. Il Destino.
Ecco: un piccolo emisfero accademico sulle strade del vivere si riversa nelle suddette parole e crea il Teatro, il palcoscenico dove recitare è il punto di partenza, non la fuga, per cadere dentro il vortice del piacere con il sangue nelle feritoie della mente.
I Bauhaus non sono una band di giovani talentuosi alla ricerca del successo. Sono i coltelli senza rispetto che feriscono l’andazzo soporifero del 1979: il Vecchio Scriba li accusa di essere stati semplicemente osceni per una bellezza innaturale, creando sconforto nel disagio di piaceri usciti fuori dalle catacombe di un innocuo perditempo giornaliero. Loro: il lampo e lo schianto, il dramma che pompa nei meandri di una inconsapevole propensione verso il nulla, ricoperto, però, di follie (innumerevoli e sostanziose) che tingono il cuore di una necessaria quota di paura.
I Bauhaus come fonte, foce, come fiamma ossidrica che con il primo singolo ha generato confusioni, conflittualità, interessi, seminando trappole feroci in cliché nati proprio con la loro selvatica predisposizione al litigio.
I Bauhaus si formano, passano due mesi e quella canzone entra per sempre dentro l’immensa moltitudine peccaminosamente in attesa di un idillio: in quei minuti si assiste a un parto.
In The Flat Field è una cucciolata di selvaggi spiriti in parata, indisciplinati e complessi, maestosamente in grado di togliere la pelle al Post-Punk pieno di anacronistica scialorrea. Occorreva un pugno di canzoni come atto contro quelle amorfe, gettare sale come sfida e utilizzare i suoni in modo diverso, usandone alcuni nuovi come ulteriore sfida, per allestire una cucina attrezzata per la preparazione di un piatto indigesto ma necessario.

Quale Dark? Ma quando finirà questa ridicola convinzione? I quattro sono cavalieri che giocano con le tenebre, non hanno di certo la forma nichilista dei Joy Division, la sconnessione dal reale dei Cure, o la poesia dei Sound. Sono pittori delle ombre che prendono a calci secoli di oscurantismo per ampliarne i confini, lasciando, incredibilmente, una lunga scia di make-up del lato più sporco del Glam: tirando il freno a mano hanno generato tossine pelviche negli spasmi di comportamenti che rischiavano di finire, come un imbuto senza ferite, nella follia della folla inconsapevole.
Un fascio di composizioni che complica la comprensione dei fatti accaduti poco prima perché, come una catapulta funzionante al contrario, le canzoni vanno a depositarsi nei pressi dei primi anni Settanta (musicalmente parlando), mentre l’incantevole Peter Murphy (conclamato dal Vecchio Scriba come il miglior cantante di sempre) scrive colate di petrolio che arrivano da una scuola di anime chiuse a chiave in un sotterraneo. Sarà proprio lo scheletrico (un caso? Non credo…) cantore dei meccanismi perversi della mente a tenere in pugno la vicenda sentenziando, suggerendo, creando immagini e storie come se la nostra fisicità dovesse essere macellata, per la sua gioia più grande. Incubi e tensioni centrifugati insieme, labirinti come passatempo, giochi di prestigio con una gola che sembra capace di far uscire una fiumana di spiriti in cerca di una boccata d’aria. Una scrittura carica di esagerazioni, di illogiche perversioni, che si amalgamano a una voce che, miracolosa come una notte senza buio, sa attraversare chi l’ascolta per farlo finire, sfinito, con le cicatrici nel cuore. 
Nove atti, nove spugne, nove pugnalate, in grado di trasportare i cadaveri dei nostri battiti impauriti in una furia (vi ricorda qualcosa?) e godere del massacro sensoriale suscitato. La storia dell’album, quella che l’ha preceduta, è carica di mitologia, di bugie clamorose, di fatti inutili. Quella che si verifica nei due lati del vinile, invece, è una recita dolorosa di pene concatenate, di sfinimenti che, una volta portati nell’obitorio del nostro pensare, riesce a fare una figura strepitosa. Gli strumenti, come una fascina di legna pregna di dinamite, si espongono, nudi, mentre spogliano secoli di avamposti di inconsapevolezza, tagliando la musica in due: prima di loro e dopo. Un perimetro musicale dentro il quale ognuno dei tre musicisti colleziona ego in lampante esibizione, sperando che il Maestro del racconto sappia non farli sfigurare troppo. L’eccellente lavoro di produzione lascia tutti scontenti: un clamoroso pareggio viene celebrato alla fine della partita. Perché, sia chiaro, Peter sa vincere da solo come in compagnia, se lo vuole…

È proprio la sua modalità di canto che porterà l’angelo americano Rozz Williams a cercare di carpirne i segreti: gli oceani si baciano forse solamente attraverso la musica. I semafori dei suoni si accendono del colore tenebroso della perversione e di quello esaltante della precipitazione continua: piovono missili da quella chitarra, cadono rocce da quel basso, e lacrima il cuore in seguito allo schiacciamento dato da un drumming tossico e innovativo. In tante formazioni la sezione ritmica è stata la base, nascosta, attraverso la quale potevano vincere, esibendosi maggiormente. Ma i due fratelli hanno incendiato le idee di Daniel Ash, lo hanno torturato e gli hanno messo un bavaglio. La condizione era una sola: “Caro Daniel, se vuoi suonare con noi, puoi solo fare cose geniali”...
Avvenne, e i Bauhaus divennero, con un solo album sulle spalle, la band di riferimento per chi voleva ascoltare il glam avendo la testa completamente invasata da voli di pipistrelli in cerca di attenzioni.
Non hanno dato spazio alla nostalgia, non sono saliti sul ring per picchiare i gruppi che in quel momento andavano tutte verso la stessa direzione. Ecco la teatralità, la volontà di essere irrisori, di suonare come se il cielo si fosse preso un’ora di sosta.

Il lato A è quello più tossico, devastante, infame e maligno: cinque navicelle piene di scorie radioattive planano sull’ascolto per liquidare ogni sogno avanzato. Double Dare è una infamante esecuzione di atroce bellezza, un teatro che apre le porte per commettere subito un omicidio. Lenta, tribale, gotica perché vicina all’horror, alla dissacrante abilità di dare alla chitarra il compito di essere uno strillio inascoltabile, ma da cui si finisce per essere ammaliati. Kevin Haskins troneggia, scuote le pelli e infiamma la caverna con la forza delle sue bacchette. David J sembra essere uscito da una lavanda gastrica mentale: picchia lentamente, senza battere ciglio… Peter? Scherziamo? Non si parla di chi dipinge il volo della paura perfettamente: il miglior attore per illuminare una storia che a tratti sa essere anche atroce, da far invidia al Rocky Horror Show. Sì, lui è già un intero spettacolo in questo brano… Ash riduce l’eventuale show di Peter e gioca a fare la bambina smorfiosa, in modo plateale ma sublime: impossibile che ci sia idillio tra i due, possibile, invece, che quelle anime sappiano ispirare torsioni come la canzone d’apertura riesce a fare.

Il secondo infarto cardiaco è provocato dal cascata ritmica che dà il titolo al lavoro: una riflessione fatta di corsa, con la graticola di suoni che escono dalla tomba della chitarra di Daniel, lamiera sanguinolenta dentro il fumogeno grigio del basso che spazza via il Post-Punk, portando i suoi polpastrelli nell’Olimpo. Recita benissimo Peter, un crooning veloce, pieno di scintille, abbaiando al cielo come un lupo mai smarrito ma ferito, con la sua ugola infiammata che passa dal registro basso a quello alto con una mostruosa velocità e capacità. La chitarra sceglie poi di diventare una pellicola di carta vetrata nel finale, e il lungo fade out è una ouverture per la prossima canzone…
Solo due brani, ma il destino ha già sentenziato: è pura devozione per questi acerbi ma dignitosissimi artisti. I miracoli accadranno a breve.
Il primo si presenta subito con A God in an Alcove che è, obiettivamente, l’ambasciata del glam rock che dichiara la resa: David Bowie ha smesso di crederci da tempo, i New York Dolls sono ormai fantasmi, e tocca proprio ai quattro rinverdire i fasti del passato, ma con il compito di offrire piccole dosi di novità. Alla fine del pezzo ci si accorgerà dei cambi di ritmo, delle slavine della chitarra, dei vomiti del basso, e di una batteria in attesa di essere rockeggiante ma con le bacchette nere. Violenta, macabra (Dio, quel canto, un balbettio nevrotico che nel finale crea l’orgasmo multiplo), aspetta a braccia aperte Dive, una mitragliata anche qui in odore di Glam ma più teatralmente esagerata, soprattutto nel basso, unico e invincibile, mentre il drumming decisamente esce dalla palestra dei Joy Division. Il cantato è isterico ma gioioso, giocoso, una fiammata di sale nel giardino delle tenebre.
Poi la prima Dea, la prima rosa nera, il primo vero esempio del marciume gotico senza ali: il brano cade nel cuore, Spy in the Cab è una operazione senza anestesia, al buio, con un solo medico che sembra recitare il rosario molto più che operare ed è proprio Peter che dà il compito alla sua voce di trasformarsi in un cumulo di artigli tristi, corrotti dalla malvagità data da uno spiare nei meandri della mente, regalando moti di spaesamento e sconforti continui, sino a quando la glaciale chitarra distorta di Daniel aumenta il pathos e la paura non può che divenire la miglior amica possibile in quel momento. Doppie voci, il controcanto e il bisogno di cantare come un dardo velenoso dentro le nostre orecchie. Finito il lato A si è già sconquassati, avviliti, distrutti.
Con ostinata convinzione si gira il vinile e incontriamo l’unica canzone che non ha lo stesso vigore delle altre, pur esercitando un potere di fascinazione. Ma Small Talk Stinks è, sicuramente, il futuro della band che si affaccia. Un gioco non troppo riuscito per via di regole fragili, ma capace di incuriosire in quanto fa intendere quanto la recitazione di Peter sia in attesa di esplodere.

St. Vitus Dance: croce e delizia del disco, la parentesi, l’anfiteatro, il magazzino delle loro abilità, che si limita al compitino con coraggio, irrispettosa nel prendere Iggy Pop rovinandogli il trucco, trucidando gli Stooges, alleggerendoli, lasciandoli perplessi. Non un gioiello, ma sicuramente abile nel regalare un brivido.
Un iniziale basso atomico, le bacchette sbavanti e la chitarra nevrotica, stirano l’anima e ci presentano una nuova impalcatura (dalla cifra stilistica spaventosamente grande), che fanno di Stigmata Martyr un clamoroso caso di selvaggia connessione alla frenesia, alle maschere esibite nei suoni e nelle immagini, un rito ossuto, longilineo, una messa celebrata nel fango di un luogo pieno di rabbia, tenuta a bada dall’inarrivabile dote recitativa di tutti e quattro i membri. Giochi di luci strappati agli incubi si incanalano nella chitarra, il tempio del dolore, che, insieme al drumming di Kevin, rende possibile la percezione che le parole scritte da Peter sembrano invece voler nascondere. Si può essere nichilisti senza adoperare la mania dell’eccesso: basta coinvolgere il desiderio di perlustrazione sonora verso il lato sporco del Rock and Roll e il gioco è fatto. Poche note suonate, ma con la strategia di far apparire il tutto come una nuvola di strumenti affamati nel creare il caos. Torna il recitativo, la chitarra gioca su due modalità espressive e si indurisce, divenendo anche capace di attraversare la psichedelia più ignota, facendolo però in modo feroce. L’album pare nato per arrivare a questa canzone, essenziale poiché distribuisce tutte le qualità dei ragazzi, seriamente impegnati a disegnare la corteccia della perfezione…

Ora il Vecchio Scriba vorrebbe essere già morto, sepolto, non responsabile di un compito difficile e indigesto, perché questo brano è in assoluto quello che ritiene sia il capolavoro della loro intera discografia. La magia, la nuvola tossica, i liquami, gli odori maldestri, la sensazione di una putrefazione di derivazione industriale è certezza assoluta: lo spavento così caro ai Black Sabbath qui si materializza, con in aggiunta una vena cabarettistica data da un pianoforte che ipnotizza come il ghigno di un angelo amorfo caduto nella potente e devastante voce di Peter, in questo caso geniale sciamano incazzato, nevrotico, sublime nelle pause e nel dare spazio ai giochi di sospiri dello stesso piano, per arrivare a inspirare nel microfono, facendoci sentire il peso della scena di cui ci racconta l’evolversi. Un urlo che diventa mantra estasiante, un vocio bellico, un fare satanico dentro l’orchestra ordinata di un ritmo che pare crudelmente incline, partendo appunto dai Black Sabbath, ad arrivare alle porte dei Killing Joke. I Bauhaus, però, recitano come spaventosa necessità di confondere le identità. Una processione di riferimenti simbolici che farebbero felici alcuni scrittori americani (Poe e Lovecraft, nientemeno…), per portarli in giro nei canali della loro follia, spiazzandoli con i loro incubi, per donare alla paura un luogo in cui spirare senza dubbio alcuno. Nerves è una necessità che incombe, una tortura, sapientemente lenta nella modalità del suo principiare, per poi essere in grado di una struggente e vomitosa carezza, che conosce l’aumento della velocità. 

Occorre aggiungere l’impressionante mole di lavoro che l’ascolto induce le nostre anime a compiere: nove canzoni come insoluti, assegni postdatati del nostro percepire, sfide che migliaia di approcci non sapranno decifrare. Il miracolo più evidente consta della propensione al rifiuto verso questo album, per poi cadere nel precipizio di un invito che i quattro non si stancano di fare. In The Flat Field è in assoluto l’unico “quasi” capolavoro gotico da cui siamo affascinati e spesso dipendenti.
Intanto, da qualche parte dentro di noi, esistono allarmi e spie della benzina in uno strano patto: poter spegnere la luce per un attimo ed essere come queste violente esecuzioni di straordinaria bellezza…

Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
12 Giugno 2023






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