mercoledì 16 marzo 2022

 La mia Recensione 


Puressence - Puressence 


1996

Manchester, Inghilterra 

Produttore: Cliff Martin

Label: Island Records Ltd


Nella metà degli anni 90 a Manchester esistevano due schieramenti musicali dirompenti: quello post-punk e quello legato all’elettronica con brutti ceffi dediti alle droghe e comportamenti spesso violenti.

Il Brit-pop stava già scemando come interesse forse proprio perché non definiva un preciso genere musicale bensì un agglomerato confuso che era destinato, proprio per questo motivo, a cedere e a morire.

Le realtà più interessanti arrivavano spesso dalla periferia della città, da dei borghi, da piccoli paesi dove esistevano motivazioni diverse.

Ma esisteva un controllo da quei pochi che avevano il potere di decretare il successo delle band. L’abbondante offerta ricca di qualità era sinonimo di un parziale problema, che veniva risolto in fretta supportando quelle formazioni che avevano contatti “importanti”.

Da qui inizia la lunga lista di gruppi sconosciuti o semi-sconosciuti che, pur avendo quasi sempre uno stuolo di fedeli ammiratori, non aveva accesso ad una dimensione di conoscibilità: a Manchester la meritocrazia, la gavetta non sono mai stati il motivo del successo. Poche eccezioni, questo bisogna considerarlo: The Smiths e James su tutti.

Ecco allora che da Failsworth, cittadina a sei chilometri dal centro di Manchester, Anthony Szuminski, Neil Mc Donald, Kevin Matthews e James Mudriczki, quattro ragazzi vispi, profondi, tutt’altro che spensierati, decidono di tentare il percorso musicale. Sin dal primo singolo (Siamese, 1992), tutto era chiaro: la qualità era immensa e bisognava farle posto, nel momento in cui la città viveva già del delirio dei meno abili e interessanti, dal punto di vista musicale, Oasis.

E prima dell’album di esordio, omonimo (29 aprile 1996), avevano già pubblicato 5 singoli. Ma niente da fare, per loro non c’era posto.

Lo spazio toccava ad altri.

Ma è proprio la capacità dei Mancuniani di capire la loro qualità che non ha impedito di innamorarsene e di creare una appassionata devozione nei loro confronti.

Non hanno colpe: avrebbero voluto che la band di Failsworth mettesse le ali e volasse per tutto il mondo.

Non è andata così e questi ragazzi sono rimasti, ahimè, un segreto che non ha potuto abbandonare lo scrigno nel quale erano stati relegati da persone non legate alla propagazione di una classe indiscutibile.

L’album di esordio è una adunata che partendo dal Post-punk circumnaviga l’elettronica minimalista, convogliando spruzzi Shoegaze con quella psichedelia leggera che non disturba chi non la ama ma che rende felici i puristi, sino a inserire nelle composizioni semi di quella Soul music che li ha ispirati parecchio in alcuni passaggi.

Il tutto sempre con una maschera per rendere il tutto una tela opaca, comunque splendente. 

E poi lei: la malinconia che come sorella siamese vive nella voce unica, riconoscibile e pazza di James.

Tutto ruota intorno a questo miracolo: per alcune band avere una voce simile è sinonimo di successo, per altre invece ne decreta l’impossibilità di dare spazio alla musica.

Quanto alcuni limiti nell’ascolto siano stupidi e dannosi lo si può comprendere ascoltando le 10 canzoni di questo esordio scoppiettante.

Un delirio infinito di esplorazioni, con testi cupi e descrittivi delle condizioni di disagio esistenziale e della solitudine, dei desideri, messi sempre di più in discussione.

Ascoltando questo lavoro si ha la percezione della fatica, dei nervi che graffiano le mani, di occhi sempre più vicini al desiderio di conoscere la fine. Le chitarre sono carezze, come pugni devastanti, alla ricerca di quella zona che possa condurre James a trovare una linea melodica spesso spiazzante e dolorosa. 

Il momento per scrutare come spie affamate dentro allo scrigno è arrivato: le dieci canzoni che sto per descrivere potrebbero trovare posto dentro la vostra sensibilità regalando, postuma, una notorietà che meritano ancora…



Song by Song


Near Distance


Con un inizio che ricorda i migliori The Chameleons e gli ombrosi U2 di October, si arriva presto a sentire James cantare e l’emozione esplode ben prima che le cupe chitarre salgano di intensità.

Un lento rintocco di chitarre come campane funeree con echi calibrati creano un’atmosfera quasi drammatica. Poi è un crescendo Post-punk che giunge alla completa esaltazione senza necessitare delle deflagrazioni.


I Suppose


Sono i The Sound ad apparire nei primi secondi, poi una cupa rasoiata di chitarra e la grancassa creano la possibilità di un suono cresciuto dove lo struggente cantato ci commuove. Le chitarre si fanno più grevi ed il cantato sale di intensità. Ed è un delirio di voci raddoppiate, un drumming intenso e ci si concede uno stordente mutamento dell’umore.


Mr. Brown


Eccole, addensate, infreddolite sul bordo del canale Irwell: sono le lacrime che si sono radunate dopo l’ascolto di questo flusso malinconico che genera fulmini, tuoni e laghi di gocce che nascono da occhi tristi. Tra Shoegaze e Post-punk, il brano riserva cambiamenti, sorprese, con una parte chitarristica, poco dopo la metà, a rivelare traiettorie di lacrime cupe che tentano la fuga.


Understanding


Arriva la tenerezza, un piano ed è subito incanto: il cuore trova un abbraccio nei saliscendi di una voce con le piume dense di poesia.

Si respira Manchester in questo brano: una certa lentezza, una fiacchezza che diventa un merito, un pregio, perché la storia del testo offre una intimità che fa aprire la testa ed il cuore, per una ballad moderna, intensa.



Fire


Una nuvola scende cambiando abito: diventa una pioggia di notte e arriva prima leggera e poi come tumulto del cielo desideroso di renderci fradici e senza forze. Una delle qualità più grandi dei Puressence è di creare tensione emotiva con i brani lenti. Ma arriva sempre il fragore che scuote!



Traffic Jam In Memory Lane


Una chitarra iniziale che ricorda Painted Black e poi via: è un treno il brano, viaggia spedito ed è un post-punk vellutato, si nasconde, ma il basso e la chitarra qui dimostrano di aver imparato la lezione. Soltanto il canto può separarsi da ogni condizionamento per generare un combo perfetto.



Casting Lazy Shadows


Anche quando si concedono a melodie e modi più abbordabili, come in questa sensuale canzone, i Puressence sanno stupire: gli 80’s sono qui, tra riferimenti afferrabili, verso quel pop su basi alternative che attira attenzioni.

 


You’re Only Trying to Twist My Arm


La chitarra iniziale inganna: parrebbe di trovarsi in una zona quasi glam ma poi il brano offre cristalli di cambiamento in divenire, come trappola che sa accattivarsi le simpatie. E gira su se stessa: è la chitarra che guida tutti verso la sua fame di potenza lenta.



Every House On Every Street


Quanto i Radiohead e i Puressence abbiano in comune lo rivela solo questo brano ma ci sono punti in contatto, minimi però ci sono. Da questa canzone negli anni 2000 molte band hanno tratto beneficio e spunto. Un elenco enorme.

Conquista per essere delicata senza cercare un ritornello semplice e banale. Come sommessa, nascosta, mostra la testa quel poco per farsi adorare.


India


Della serie: quando il capolavoro arriva con l’ultimo brano di un album.

Avevamo avuto già i The Psychedelic Furs con una canzone dallo stesso titolo che ci aveva stregato.

Qui, Dio volendo, è forse addirittura meglio.

La struttura è una piovra, nervosa, ficcante, contorta, che flirta con la stessa modalità dei serpenti: il fato ci strega e cadremo nella sua bocca.

Uno dei momenti di maggior classe della loro intera carriera, insegna cosa è Manchester al mondo: un cielo aperto a dare ad ogni secondo una intensità che accoglie e sviluppa modi e sensazioni per definire il tutto come un laboratorio di attriti e melodie che senza affanno conducono allo smarrimento. Un groviglio che stabilisce le loro capacità, scappando dai cliché per trovare nei loro impeti linfa e solitudine.


Alex Dematteis

Musicshockworld 

Salford

15 Marzo 2022


https://music.apple.com/gb/album/puressence/1444055244


https://open.spotify.com/album/1PaFjTRJkrxfviZ1TzRHpV?si=3aYhGITDTSqcyMM3d4-GgQ









 My Review 


Puressence - Puressence 


1996

Manchester, England

Producer: Cliff Martin

Label: Island Records Ltd


In the mid-1990s, Manchester had two disruptive musical fronts: post-punk and electronic music, with bad guys addicted to drugs and often violent behaviour.

The interest in Brit-pop was already diminishing, perhaps because it didn't define a specific musical genre, but rather a confused conglomeration that was destined, for this very reason, to give up and die.

The most interesting realities often came from the outskirts of the city, from villages, from small towns where there were different motivations.

But there was control by the few who had the power to decree the success of the bands. The abundant supply of quality was synonymous with a partial problem, which was quickly solved by supporting the ones that had 'important' contacts.

This is where the long list of unknown or little known bands began, bands that, even though they had almost always a crowd of loyal admirers, did not have access to a dimension of recognisability: in Manchester meritocracy and the apprenticeship were never the reason for success. There were a few exceptions, we have to keep in mind: The Smiths and James above all.

Here then that from Failsworth, a small town six kilometres from the centre of Manchester, Anthony Szuminski, Neil McDonald, Kevin Matthews and James Mudriczki, four lively, deep boys, anything but carefree, decided to try their hand at music. From their very first single (Siamese, 1992), everything was clear: the quality was immense and it was necessary to make room for it, at a time when the city was already living the frenzy of the less skilled and interesting, from a musical point of view, Oasis.

And before their debut album of the same name (29 April 1996), they had already released five singles. But there was no room for them.

The space went to others.

However, it is precisely the Mancunians' ability to understand their quality that has not prevented these people from falling in love with their music and creating a passionate devotion to them.

They are not to blame: they would have liked the Failsworth band to put wings and fly all over the world.

That’s not what happened    and these guys remained, alas, a secret that couldn't leave the casket into which they had been relegated by people unconnected with the propagation of an unquestionable class.

Their debut album is a gathering that, starting from Post-punk, circumnavigates minimalist electronic music, conveying Shoegaze splashes with that light psychedelia that doesn't bother those who don't like it but that makes the purists happy, to the point of including in the compositions seeds of that Soul that has inspired them in some passages.

All this always with a mask in order to make the whole thing an opaque canvas, however shiny. 

And then the melancholy, that like a Siamese sister lives in the unique, recognisable and crazy voice of James.

Everything revolves around this miracle: for some bands having such a voice is synonymous with success, for others it decrees the impossibility of giving space to the music.

We can see how stupid and damaging some listening limits are by listening to the 10 songs on this crackling debut.

An infinite delirium of explorations, with dark and descriptive lyrics about existential discomfort and loneliness, about desires, which are increasingly questioned.

Listening to this work one has the perception of fatigue, of nerves scratching the hands, of eyes increasingly close to the desire to know the end. The guitars are caresses, like devastating fists, searching for that area that can lead James to find a melodic line, often disorienting and painful. 

The moment to peer like hungry spies into the treasure chest has arrived: the ten songs I'm about to describe could find a place in your sensibility, giving them, posthumously, a notoriety they still deserve...


Song by Song


Near Distance


With a start reminiscent of the best of The Chameleons and the shadowy U2 of October, you soon get to hear James sing and the emotion explodes well before the sombre guitars rise in intensity.

A slow chiming of guitars like funeral bells with calibrated echoes create an almost dramatic atmosphere. Then it's a Post-punk crescendo that reaches complete exaltation without the need for deflagrations.


The Suppose


It's The Sound who appear in the first few seconds, then a dark hit with the razor-sharp guitar and the bass drum create the possibility of a grown up sound where the poignant vocals move us. The guitars become heavier and the voice rises in intensity. And it's a delirium of doubled vocals, intense drumming and we allow ourselves a stunning change of  mood.


Mr Brown


Here they are, thickened, chilled on the edge of the Irwell canal: we mean the tears that gathered after listening to this melancholic flow that generates lightning, thunder and lakes of drops from sad eyes. Between Shoegaze and Postpunk, the song reserves changes, surprises, with a guitar part, just after the middle, that reveals trajectories of dark tears that try to escape.


Understanding


Tenderness arrives, a piano and it is immediately enchantment: the heart finds an embrace in the ups and downs of a voice with feathers full of poetry.

You can breathe Manchester in this song: a certain slowness, a lassitude that becomes a merit, a quality, because the story of the lyrics offers an intimacy that opens the head and the heart, for a modern, intense ballad.



Fire


A cloud comes down changing its dress: it becomes a night rain and arrives first lightly and then as a tumult of the sky eager to make us soaked and without strength. One of the greatest qualities of Puressence is to create emotional tension with slow songs. But there is always the roar that shakes!



Traffic Jam In Memory Lane


An opening guitar reminiscent of Painted Black and off you go: the song is a train, it travels fast and is a velvety post-punk, it hides, but the bass and guitar here show that they have learned their lesson. Only vocals can separate themselves from any conditioning to generate a perfect combo.



Casting Lazy Shadows


Even when they indulge in more approachable melodies and modes, as in this sensual song, Puressence know how to amaze: the 80's are here, among graspable references, towards that pop on alternative bases that attracts attention.

 


You're Only Trying to Twist My Arm


The initial guitar is deceptive: it seems to be in an almost glam zone but then the song offers crystals of change in the making, like a trap that knows how to captivate sympathies. And it turns on itself: it's the guitar that leads everyone towards its hunger for slow power.



Every House On Every Street


How much Radiohead and Puressence have in common is only revealed by this song, but there are points of contact, although minimal. Many bands in the 2000s have benefited and were inspired by this track. An enormous list.

It conquers by being delicate without looking for a simple and banal refrain. Subdued, hidden, it shows its head just enough to be adored.


India


This is the case where  the masterpiece comes with the last track of an album.

We already had The Psychedelic Furs with a song of the same title that had enchanted us.

Here, God willing, it is perhaps even better.

The structure is an octopus, nervous, sharp, twisted, flirting in the same way as snakes: fate bewitches us and we fall into its mouth.

One of the most classy moments of their entire career, it teaches what Manchester is to the world: an open sky that gives every second an intensity that welcomes and develops ways and sensations to define the whole as a laboratory of friction and melodies that without anxiety lead to bewilderment. A tangle that establishes their abilities, escaping from stereotypes to find sap and solitude in their enthusiasm.


Alex Dematteis

Musicshockworld 

Salford

March 15th, 2022




https://music.apple.com/gb/album/puressence/1444055244


https://open.spotify.com/album/1PaFjTRJkrxfviZ1TzRHpV?si=gmy_s-Z1SXqe-UdxeiSlpQ





martedì 15 marzo 2022

My review: Cult Strange - Rites of Passage

 My Review 


Cult Strange - Rites of Passage


Those who learn nothing from the unpleasant events of their lives force the cosmic consciousness to make them reproduce as many times as necessary to learn whatever the drama of what happened teaches. What you deny subjects you. What you accept transforms you.
Carl Gustav Jung


Distrust advances, it digs the grave of all the souls that still believe in others, the evil shadows throw arrows, they inject the seed of corruption into every smile. And passion turns from red to black, as an inescapable and necessary fact.

There is a centre of observation of these changes that pass through the suffocating grooves of this band, emblem of an acute observation of the facts of the world, which with its suffered work establishes the border between terror and the need to escape.

Sorry for you, but you won't have a chance.

They only need four stabs in your sugary defences.

In fifteen minutes you will be dry-skinned, you will be extinguished by their murky breath.

Aleph Kali, already a corsair knight with Altar de Fey, here with the specification of Omega, is the werewolf who rummages through our flesh, undaunted.

Hordes of slaves pile up in front of the eyes of Oakland's frenzied men, obedient to a spiral of sound that envelops minds and moves them away from the dream.

Clothes shatter before these guitars that burst and reduce the ears to prayers, unheard, and diseases are born to strike fast.

To dwell on the density of these compositions is to feel the impulses that struggle to stay in these minutes.

I can hear a torrent of detritus that cannot find a place but which, by condensing, suggest textures and transversal evolutions to the four splinters.

Chaos here seems the solution and not a form of despair: a riding ivy full of nerves that you feel with the bass that explodes on the walls of each scaffold and then becomes a heap that rebuilds the house.

The drums are frenetic, somehow coming from tumour nodules of some secret tribe. It is devastating because it lives in symbiosis with its surroundings, which are metallic ruins, since the distortions with pedalboards coming from the guitars do not need so many variations to hurt the auditory system.

A disturbing, salty sound, on cracked hands and thoughts now in free fall.

Cult Strange push the rhythm: without breath, no valid defence can be erected. 

The reference to the Red Lorry Yellow Lorry of Sages of Din, about which I will speak later, is exemplary.

Here is the secret, so feared, that opens the door to mystery: in the echoes of certain British fragrances of dark Brighton and London, the American band embroiders voluptuous dazzling textures to cut the umbilical cord.

The more you listen to these songs, the more you feel there must be a sea that keeps them safe.

Yes.

It must be.

Because as you listen to them you drift down to the ocean floor, where you find the victims of the 1906 earthquake that swept through nearby San Francisco.

And Cult Strange seem to play for those lost and choked spirits, listening to their sorrows still churning and creating heavy waves.

You can dance to their music with tears writhing in courage as they fly backwards. The speed is meant as a method of attack, like snakes waking up and attacking immediately for food.

Now I take you to the East Bay where the four daggers are busy with unaware victims...


Song by Song


Slave to the Algorithm 


The beginning of the song is deadly: guitar intended to get the shadows in big trouble because it is not afraid for sure. 

There's a share of wickedness that shocks, with the vocals being a procession, supported by the other three musicians: take the New York Dolls from the sunless side and throw them in the rolling bass and in the sumptuous, perverse guitars and all will be clear.

All that's left for the drums to do is to whip those poor shadows that die without having believed any of this was possible. As an opener track it's perfect: if the beginning can be of glam rock derivation, you soon realize that everything spreads in wonderful dissonant digressions.



A Rose of Chaos


A swaggering drumming, straight out of a dusty 70s cellar, opens the lopsided and catchy dance.

Then the voice and the guitar marry an idea of ritual dripping with Deathrock of pure class.

You can hear echoes of Germs and Consumers giving unintentional inspiration to this race to step on roses in chaos: the idea that Virgin Prunes also blow all their madness here, especially in the way of singing, constantly hovers. And that a macabre-esoteric attitude is the sovereign of this absolute gem.


Sages of Din


As I said before we have in the third track the impression that bass and guitar are the seeds thrown in the air by Red Lorry Yellow Lorry, elaborated and sacrificed but still present. It's, however, only a small portion: there are parts of purity and uniqueness in making this song a manifesto of an evolving musical genre. It is an extremely valuable fetish that is available to those who do not tremble at the idea of digging up mortal remains.



Hex/Pox/Vex


A melodic bass more than ever is ready to deceive us: everything becomes screeching, blades that go down into the lungs, doubled voices, and Sex Gang Children who bless it all.

And Aleph who makes Peter Murphy an evil priest.

The shock is given by a brutal attitude in creating a swaggering, mindless ride to kill any glimmer of light.

Majestic, it offers elements of elegance in its attitude to become the apotheosis that exalts the residents of darkness.


A seductive and distressing Ep to be served as a night meal: praise be to Oakland that offered us such beauty.


Alex Dematteis

Musicshockworld 

Salford

15 Marzo 2022


https://cultstrange.bandcamp.com/releases




La mia Recensione: Cult Strange - Rites of Passage

 La mia Recensione 


Cult Strange - Rites of Passage


Coloro che non imparano nulla dai fatti sgradevoli della loro vita costringono la coscienza cosmica a farli riprodurre tante volte quanto necessario per imparare ciò che insegna il dramma di ciò che è successo. Quello che neghi ti sottopone. Quello che accetti ti trasforma.
Carl Gustav Jung


La sfiducia avanza, scava la fossa a tutte le anime che ancora credono nel prossimo, le ombre malefiche lanciano strali, iniettano il seme del marcio in ogni sorriso. E la passione dal rosso passa al nero, come fatto ineludibile e necessario.

Esiste un centro di osservazione di questi mutamenti che passano dai solchi soffocanti della band, emblema di una acuta osservazione dei fatti del mondo, che con la sua opera sofferta stabilisce il confine tra il terrore e la necessità di fuga.

Spiace per voi ma non avrete scampo.

A loro bastano quattro coltellate nelle vostre difese zuccherose.

In quindici minuti sarete pelle secca, dal loro torbido fiato vi sentirete spegnere.

Aleph Kali, già cavaliero corsaro con Altar de Fey, qui con la specificazione di Omega, è il licantropo che rovista nelle nostri carni, imperterrito.

Orde di schiavi si ammassano davanti agli occhi degli indiavolati di Oakland, obbedienti ad una spirale sonora che avvolge le menti e le congeda dal sogno.

Le vesti si frantumano davanti a queste chitarre che scoppiano e riducono le orecchie in preghiere, non ascoltate, e le malattie nascono per colpire velocemente.

Soffermarsi sulla densità di queste composizioni significa sentirne le pulsioni che faticano a rimanere in questi minuti.

Riesco a sentire una fiumana di detriti che non trovano posto ma che, condensandosi, suggeriscono alle quattro  schegge trame ed evoluzioni trasversali.

Il caos qui sembra la soluzione e non la forma di disperazione: un’edera cavalcante piena di nervi che avverti con il basso che esplode sulle mura di ogni impalcatura per poi diventare un cumulo che ricostruisce la casa.

La batteria è frenetica, proviene in qualche modo da noduli tumorali di qualche tribù segreta. È devastante perché vive in simbiosi con i suoi dintorni che sono rovine metalliche, in quanto le distorsioni con pedaliere provenienti dalle chitarre non abbisognano di tanti varianti per ferire l’apparato uditivo.

Un suono conturbante, salato, sulle mani screpolate e sui pensieri ormai in caduta libera.

I Cult Strange spingono sul ritmo: senza fiato non si può erigere alcuna difesa valida. 

In questo è esemplare il riferimento ai Red Lorry Yellow Lorry di Sages of Din di cui vi parlerò dopo.

Ecco il segreto, così temuto, che apre le porte del mistero: nei richiami di certi fragori britannici delle oscure Brighton e Londra la band americana ricama voluttuose trame abbaglianti per tagliare il cordone ombelicale.

Più ascolti queste canzoni e più senti che deve esserci un mare che li mette al sicuro.

Sì.

Deve essere così.

Perché mentre le ascolti scivoli verso il fondale dell’oceano, dove trovi le vittime del terremoto del 1906 che travolse la vicina San Francisco.

E i Cult Strange sembrano suonare per quegli spiriti persi e soffocati, ascoltando le loro pene che ancora si agitano e creano onde pesanti.

La loro musica la puoi ballare con le lacrime che contorcendosi per darsi coraggio volano all’indietro. La velocità  è concepita come metodo per sferrare attacchi, come serpenti che si svegliano attaccando subito per procurarsi del cibo.

Ora vi porto nella East Bay dove i quattro pugnali trafficano sulle vittime ignare…



Song by Song


Slave to the Algorithm 


L’inizio del brano è micidiale: chitarra tesa a cacciare le ombre in un brutto guaio perché lei non ha paura di sicuro. 

Esiste una quota di malvagità che sconvolge, con il cantato che è una processione, supportata dagli altri tre musicisti: prendi i New York Dolls dal lato senza sole e gettali nel basso rotolante e nelle chitarre sontuose e perverse e tutto sarà chiaro.

Alla batteria resta solo il compito di frustare quelle povere ombre che muoiono senza aver creduto possibile tutto questo. Come opener track è perfetta: se l’inizio può essere di derivazione glam rock, ti rendi presto conto che tutto dilaga in splendide divagazioni dissonanti.



A Rose of Chaos


Un drumming spavaldo, uscito da una cantina piena di polvere degli anni 70, apre la danza sbilenca e accattivante.

Poi la voce e la chitarra sposano un’idea di rito grondante Deathrock di purissima classe.

Puoi udire echi di Germs e Consumers a dare ispirazione involontaria a questa corsa a pestare le rose nel chaos: aleggia continuamente l’idea che anche i Virgin Prunes soffino qui tutta la loro follia, specialmente nella modalità del cantato. E che un fare macabro - esoterico sia il sovrano di questa chicca assoluta.


Sages of Din


Come dicevo prima abbiamo nel terzo brano l’impressione che il basso e la chitarra siano i semi lanciati in aria dai Red Lorry Yellow Lorry, elaborati e sacrificati ma comunque presenti. 

Ma è solo una piccola frazione: esistono quote di purezza e unicità nel fare di questa canzone un manifesto di un genere musicale in evoluzione. È un feticcio di estremo valore che è a disposizione di chi non trema innanzi alle idee di dissotterrare spoglie mortali.



Hex/Pox/Vex


Un basso melodico più che mai è pronto ad ingannarci: tutto diventa stridore, lame a scendere nei polmoni, le voci raddoppiate le i Sex Gang Children a benedire il tutto.

E Aleph a rendere Peter Murphy un sacerdote malvagio.

Lo shock è dato da un brutale atteggiamento nel creare una cavalcata spavalda e menefreghista per uccidere ogni bagliore di luce.

Maestosa, offre elementi di eleganza nella sua attitudine a divenire l’apoteosi che esalta i residenti delle tenebre.


Un Ep seducente e angosciante da servire come pasto notturno: sia lode a Oakland per offrirci cotanta bellezza.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

15 Marzo 2022


https://cultstrange.bandcamp.com/releases




lunedì 14 marzo 2022

La mia Recensione: Esses - Bloodletting for the Lonely

 La mia Recensione 


Esses - Bloodletting for the Lonely


Non sai se fa più male il coltello infilato nella schiena, o il vuoto che lascia quando lo togli.
(Anonimo)


C’è una comunità di anime affaticate da una serie di frustrazioni, di offese, di identità personali non riconosciute, di lotte che feriscono i battiti, che vive nonostante tutta questa dilagante tossicità.

E a Oakland esistono persone che gravitano dentro dei progetti in cui credono, senza preoccuparsi (giustamente) se sia sbagliato far parte di diverse realtà contemporaneamente: uno scambio che invece produce linfa e genera forze per poter dimostrare dei diritti e la bellezza di questi incroci.

E se parliamo di musica allora un esempio perfetto è il progetto Esses, meravigliosa libellula incantevole, che vola per la calda e coinvolgente città Americana per procurarsi cibo. E lo fa tempestando l’aria di spilli plumbei, pesanti, passionali.

Questa libellula ha cinque anime che vivono nel corpo effervescente, allucinato e che si espande di meravigliosa sostanza liquida.

Gli Esses arrivano al secondo atto del loro spettacolo pirotecnico, un laboratorio di analisi e di pause, fatto di ricerca e di contemplazione avendo un calice pieno di sangue al centro del palco.

Sono scocciato nel vedere nei loro confronti termini di paragone che si specificano in somiglianze con Siouxsie and the Banshees e i Bauhaus: io non spreco tempo con la superficialità, preferisco cogliere la bellezza che ha una propria identità e va difesa. Basterebbe ascoltare bene per accorgersi che la modalità del canto di Miss Kel nulla ha a che vedere con la “Principessa del Goth” e nemmeno la musica.

Sono passati 41 anni da Juju, ultimo grande album dei Banshees, ma non vedo presenze di quelle composizioni che possano essere comparate agli Esses. Lo stesso discorso vale per i Bauhaus.

Siamo seri: andiamo avanti.

Un secondo atto che presenta nuovi petali, una decadenza che si sposta tra la genesi Deathrock per completare il proprio bisogno di arricchimento portando a sé chili di Darkwave, coriandoli di Postpunk, come una distesa di cibo di cui poter lasciare la propria bocca vogliosa.

Ci si muove ancora soprattutto di notte, sono però cambiati gli spazi di questo volo, con traiettorie sonore più complesse e dove i ritmi conoscono maggiormente la lentezza, regalando il beneficio di cogliere la tensione che sanno esprimere anche quando non pestano il piede sull’acceleratore.

Perché le chitarre che si lamentano in lentezza forse fanno ancora più male.

È una gravidanza questo album: si trascorre il tempo in attesa di un bimbo in arrivo mentre il ventre si gonfia di liquidi, crea spostamenti, e la schiena arretra, perché è innegabile che esistano pesi che aumentano.

Non è che ci sia solo la gioia nel concepimento.

Allora gli Esses regalano sincerità, svelando la fatica ed il dolore, usando il microscopio per individuare le zone buie, per mettere in dubbio la luce.

Esiste l’impressione che la band sia diventata una famiglia, una libellula compatta per pulire la terra da insetti pericolosi.

E si rimane estasiati dall’ondata magnetica, dallo sguardo ipnotico che le canzoni sanno provocare. Ci si inebetisce. Ed è una sensazione che dilata la sicurezza sino ad ucciderla.

Un ascolto che ci porta in giro per Oakland, ciò comporta il non vederla come una meta turistica ma come un luogo dove le ferite si presentano e i dettagli, così precisi, ci possono far preoccupare, creando un avamposto di tensione.

Un album che offre traumi, fascine di menti spappolate e che corrono senza cibo. 

Le melodie non creano fantasie bensì prigioni in cantine e garage disabitati, dove la desolazione non è un problema ma un generoso conforto, un ristoro sicuro, non discutibile.

Il senso claustrofobico di cui è composto è gioia pura: nella autentica espressione di ciò che sentono noi veniamo a conoscere la verità e la realtà. Che sia un atto artistico non toglie valore, anzi.

La loro pazzia ci coinvolge come atto di fede, crea una dipendenza che ci fa appartare per poter fruire di questi frammenti di cervello che ritroviamo dentro il nostro petto.

La voce di Miss Kel è cruda, tremante e schizzata, come un raggio di luna senza paura. Lei ha il dono di non esagerare con la voce piena di scintillii, ma sa usarla con precisione sino a renderla un incubo che ammalia.

Le due chitarre, quelle di Skot Brown e di Dawn Hillis, sono tempeste di fuoco al polo nord: non lasciano possibilità a noi di poter resistere ai loro intrecci complessi e perfetti. E sembrano missili pieni di gas nero asfissiante e letale.

Scout Leight vive il basso come terremoto mentale, franando sui respiri con i suoi poderosi giri, picchiando con classe sulle corde insanguinate.

Dal canto suo, Kevin Brown suona la sua batteria avendo tutto l’impeto e il tumulto di un esercito Deathrock che per vincere la guerra ha rubato le armi al nemico portando nel suo arsenale materiale Postpunk e Gothic Rock.

Il suono è un miscuglio velenoso e accattivante, una seduzione che si mostra con immediatezza e abbondanza.

Credo sia bene ora indossare il mantello, spegnere la luce delle distrazioni e andare a toccare le novi stalagmiti, per capire meglio la sensazione che può dare il ghiaccio che si fonde nelle mani…




Song by song


The Source


Sono chitarre come ali malate che sbattono, sostenute da un drumming secco e dalla voce che vola per rubare il fiato: l’ingresso al Polo Nord è lento con le fiammate del cantato di Miss Kel a rischiarare la notte.



Pierce the Feeling

La prima mitragliata ha lo stampo Deathrock, basso e chitarra e batteria sono crateri con le gambe che scivolano sul ghiaccio ferendolo. Tutto diventa isteria magmatica e solida. È una graticola che ferisce e le bende arrivano, colanti.


Four Corners


L’atmosfera ci porta alla Dea DIAMANDA GALAS: è il richiamo del ventre gravido che preme sul drumming ossessivo e malato, il basso spazza via il vento e la voce sibila il tutto. La chitarra iniziale ci riporta alla Batcave di Londra come se il tempo fosse un inganno possibile.


Infinite Void


La bufera agguanta le creature notturne, si ride come progressione dolorosa, tutto vibra nella chitarra che squarta il ghiaccio e tutto corre dentro il vuoto che reclama attenzione.


Before the Blight


Tutta la scena musicale recente di Oakland applaude questo brano che sintetizza la propensione di quegli artisti a non concedere spazi ai dubbi: è un turbinio metallico e melmoso che invade le corsie emotive. E ciò che è stata la storia di un’attitudine musicale che ormai ha quarant’anni in questi minuti trova ossigeno miracoloso per poter ancora generare commozione.


Little Mouse


Ferraglia, oggetti che preoccupano, tensione elettrica, tutto trova nel ritornello l’estasi nevrotica che stabilisce il punto di contatto tra il suono più duro, quasi heavy, per generare estasi di stupore in ebollizione.



Faceless Past


La tregua, il ritmo che si fa più guardingo, mentre le due chitarre creano polvere drammatica, il Postpunk che si affaccia e dove l’atmosfera si prende il tempo per far entrare questa voce piangente ma che vede le brecce del cielo. Ipnotica.



Caged Beast


Ovattata e tremante, quasi come se il 1981 concedesse la grazia di potersi risvegliare, la canzone è un ponte ipotetico tra il dramma, l’insoddisfazione e la sfiducia che hanno l’intenzione di fuggire. Cupa, emblema della crescita artistica della band, offre nuove modalità per incantare.


Schism 


Siamo allo scioglimento del Polo Nord: il suo funerale è il congedo della band che si veste di lutto e volti pieni di fragilità, con la canzone che chiude l’album.

È emblematico che il ritmo sia lento, quasi ovattata è l’atmosfera che alza la polvere del ghiaccio. Visioni, supposizioni, con la Darkwave che ruba la scena sorridendo atrocemente, ma le chitarre riescono a vibrare senza corruzioni, dando al canto l’ultima possibilità di mettere a tacere anche il silenzio. E questa libellula finisce il suo pasto in gloria.


Alex Dematteis

Musicshockworld 

Salford

14 Marzo 2022


https://open.spotify.com/track/5WL1a33nA8Iz0KHt0DyHBq?si=6VTsVEPyS2Kv3nLhS2JHaA


https://music.apple.com/gb/album/bloodletting-for-the-lonely/1580692357




My Review: Esses - Bloodletting for the Lonely

 My Review 


Esses - Bloodletting for the Lonely


You don't know if the knife in your back is more painful, or the emptiness it leaves when you take it out.

(Anonymous)


There is a community of souls fatigued by a series of frustrations, offenses, unrecognized personal identities, of fights that hurt beats, that lives on despite all this rampant toxicity.

And in Oakland there are people who gravitate inside projects in which they believe, without worrying (rightly) about whether it is wrong to be part of different realities at the same time: an exchange that instead produces lifeblood and generates strength to be able to demonstrate the rights and beauty of these intersections.

And if we're talking about music, then a perfect example is the project called Esses, an enchanting dragonfly that flies around the warm and captivating American city to get food. And it does so by adorning the air with leaden, heavy, passionate pins.

This dragonfly has five souls living in its effervescent, hallucinated, expanding body of wonderful liquid substance.

Esses reach the second act of their pyrotechnic show, a laboratory of analysis and pauses, made of research and contemplation, with a chalice full of blood at the centre of their stage.

I am annoyed to see them being compared in terms that specify similarities with Siouxsie and the Banshees and Bauhaus: I do not waste time with superficiality, I prefer to capture the beauty that has its own identity and must be defended. You only have to listen carefully to realise that the way Miss Kel sings has nothing to do with the 'Goth Princess' and neither does the music.

It's been 41 years since Juju, Siouxsie and the Banshees' last great album, but I don't see any presence of those compositions that can be compared to Esses. The same goes for Bauhaus.

Let's be serious: let's move on.

A second act that shows new petals, a decadence that moves through the genesis of Deathrock to complete its need of enrichment bringing to itself kilos of Darkwave, confetti of Postpunk, like an expanse of food of which you can leave your mouth eager.

We still move mainly at night, but the spaces of this flight have changed, with more complex sound trajectories and where the rhythms know more about slowness, giving the benefit of grasping the tension they can express even when they don't push on the accelerator.

Because guitars that whine in slowness perhaps hurt even more.

It's a pregnancy this album: you spend time waiting for a baby coming while your belly swells with liquids, creates displacements, and your back recedes, because it's undeniable that there are weights that increase.

There is not only joy in conception.

So Esses give sincerity, revealing fatigue and pain, using the microscope to identify the dark areas, to question the light.

There is the impression that the band has become a family, a compact dragonfly cleaning the earth of dangerous insects.

And one is enraptured by the magnetic wave, the hypnotic gaze that the songs can provoke. You become inebriated. And it's a sensation that dilates security to the point of killing it.

A listening that takes us around Oakland, showing it not as a tourist destination but as a place where wounds present themselves and the details, so precise, can make us worry, creating an outpost of tension.

An album that offers trauma, bundles of broken minds running without food. 

The melodies don't create fantasies but prisons in cellars and uninhabited garages, where desolation is not a problem but a generous comfort, a safe, unquestionable refreshment.

The claustrophobic sense of which it is composed is pure joy: in the authentic expression of what they feel we come to know truth and reality. That it is an artistic act does not remove value, quite the contrary.

Their madness involves us as an act of faith, it creates an addiction that makes us withdraw to enjoy these fragments of brain that we find inside our chests.

Miss Kel's voice is coarse, trembling and crazy, like a fearless moonbeam. She has the gift of not exaggerating with a voice full of sparkles, but she knows how to use it with precision until it becomes a charming nightmare.

The two guitars, those of Skot Brown and Dawn Hillis, are firestorms at the North Pole: they leave no chance for us to resist their complex and perfect interweaving. And they sound like missiles filled with deadly, asphyxiating black gas.

Scout Leight lives the bass as a mental earthquake, crashing down on the breaths with his powerful notes, beating with class on the bloody strings.

For his part, Kevin Brown plays his drums with all the impetus and turmoil of a Deathrock army that to win the war has stolen weapons from the enemy, bringing in its arsenal Postpunk and Gothic Rock material.

The sound is a poisonous and captivating mixture, a seduction that shows itself with immediacy and abundance.

I think it's good to put on the cloak now, turn off the light of distractions and go touch the new stalagmites, to better understand the sensation of ice melting in your hands...




Song by song


The Source


They are guitars like sick wings flapping, supported by a sharp drumming and by the voice that flies to steal the breath: the entrance to the North Pole is slow with the flames of Miss Kel's vocals to light up the night.



Pierce the Feeling

The first machine-gun fire has the Deathrock mould, bass, guitar and drums are craters with legs sliding on the ice, hurting it. Everything becomes magmatic and solid hysteria. It's a gridiron that wounds and the bandages arrive, dripping.


Four Corners


The atmosphere takes us to the Goddess DIAMANDA GALAS: it is the call of the pregnant belly that presses on the obsessive and sick drumming, the bass sweeps away the wind and the voice hisses everything. The opening guitar takes us back to London's Batcave as if time were a possible deception.


Infinite Void


The blizzard grabs the nocturnal creatures, it laughs as a painful progression, everything vibrates in the guitar that rips the ice and everything runs inside the void that claims attention.


Before the Blight


The entire recent Oakland music scene applauds this track, which sums up those artists' propensity to leave no room for doubt: it's a metallic, muddy swirl that invades the emotional corridors. And what has been the history of a musical attitude that is now forty years old finds miraculous oxygen in these minutes in order to still be able to generate emotion.


Little Mouse


Iron, worrying objects, electric tension, everything finds in the refrain the neurotic ecstasy that establishes the point of contact between the hardest, almost heavy sound to generate ecstasy of boiling amazement.



Faceless Past


The truce, the rhythm that becomes more cautious, while the two guitars create dramatic dust, the Postpunk that appears and where the atmosphere takes its time to let in this weeping voice but which sees the breaches in the sky. Hypnotic.



Caged Beast


Muffled and trembling, almost as if 1981 granted the grace to awaken, the song is a hypothetical bridge between tragedy, dissatisfaction and distrust that have the intention to escape. Gloomy, emblematic of the band's artistic growth, it offers new ways to enchant.


Schism 


We are at the dissolution of North Pole: its funeral is the band's farewell, dressed in mourning and faces full of fragility, with the song that closes the album.

It is emblematic that the rhythm is slow, the atmosphere that raises the dust of the ice is almost muffled. Visions, suppositions, with Darkwave stealing the scene smiling atrociously, but the guitars manage to vibrate without corruptions, giving the song the last chance to hush up even the silence. And this dragonfly ends its meal in glory.


Alex Dematteis

Musicshockworld 

Salford

14th March 2022


https://music.apple.com/gb/album/bloodletting-for-the-lonely/1580692357


https://open.spotify.com/track/5WL1a33nA8Iz0KHt0DyHBq?si=6VTsVEPyS2Kv3nLhS2JHaA




La mia Recensione: Midas Fall - Cold Waves Divide Us

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