venerdì 21 marzo 2025

La mia recensione: The Bolshoi Brothers - The Bolshoi Brothers


 

The Bolshoi Brothers - The Bolshoi Brothers


C’era una volta e c’è ancora un luogo nel Wiltshire, nel sud dell’Inghilterra, non lontana da Bath, una località resa famosa da una formazione post-punk e darkwave (Bolshoi), che di nome fa Trowbridge e che ha portato per un pò, nel suo ventre, le prelibate peripezie del quartetto.

Nel 1990 la band si sciolse e ora il Vecchio Scriba si accinge a portarvi in un oceano in fuga, lenta, verso il cielo, con una miscela armonica che ha richiami antichi, delicati, profumati, dove il folk, la psichedelia, la pelle inumidita di Alternative e Indie Rock fa da base per un circolo razionale inevitabile. Le undici canzoni sono state scritte durante il lockdown, a distanza: Florida chiama, Seattle risponde, in un percorso solo fintamente separato. Le idee, gravide di umori e maturate esposizioni all’addensamento di pensieri a braccetto con la filosofia, vengono rese libere dal talento, dal lavoro sul senso, sulla schiena di storie dall’involucro protetto dai suoni che spargono tenerezza e curiosità. Molti i luoghi su cui le canzoni planano, molti i riferimenti in  cui si potrebbe trovare un sorriso, un sollievo, ma, soprattutto, grande è il perimetro dei versi, degli arrangiamenti, del cantato, del flusso energetico, dei raggi di sole che fanno dei Bolshoi di un tempo un piacevole ma non essenziale ricordo. 

Trevor Tanner, come sempre chitarrista e voce, disegna, attira l’ascoltatore nelle sue praterie mentali, mentre Paul Clark (tastiere) è il grande artefice di questo caleidoscopio, di questa foresta che cerca di catturare la luce per nutrirsi di speranze. E le loro nuove residenze, americane, hanno favorito un parto artistico nel quale, tra i due poli, vengono compresse sensazioni, dolori, impeti e una folta vegetazione sensoriale: un album come uno slancio che non conosce direzione, per dar senso alla vera libertà.

È rock che sembra nato dalle bave di Lou Reed, dalla psichedelia australiana della seconda parte della carriera dei Church, sino a chiamare a sé il periodo degli anni Novanta di band inglesi che riprovavano il brivido della sponda americana che si ispirava specificatamente a quella di Boston. E quella della band inglese Eat. Inoltre vi è presente l’ebbrezza data dai lavori di gruppi vicini allo slowcore, specialmente poi quando nei ritornelli a prevalere è un senso malinconico.

Non sono assenti gli antichi petali cupi, le bordate di tossine ma il tutto è più levigato, con la capacità di entrare anche nelle zone del country, quasi come una sfida, facilmente vinta, in quanto i due non hanno mai mancato all’appuntamento con l’ironia (come nel brano Cowboy Chords). Però in tutto questo esercizio artistico, le chitarre sono sempre lontane dal voler inghiottire il tutto: sono generose, attente e scrupolose, volenterose nel tradurre il passaggio delle loro esistenze. 

Ci vuole coraggio per scrivere un battito di ali, quando prima si descrivevano passi insicuri nella notte buia delle strade di Londra.

La testimonianza dell’età adulta, di un percorso che cerca lo sviluppo non può legarsi alla nostalgia.

Ci sono elementi di contatto con un’idea gloriosa e pericolosa: orchestrare l’esistenza con canzoni come una matrioska con l’intenzione di un contatto, come se i brani fossero pagine all’interno di una biblioteca vogliose di entrare nei palmi delle nostre mani.

Quando poi arriva Beautiful Creature si capisce come la radice rock americana sia capace di rivelare il lato post-punk di un tempo ma rivestito di una pellicola luminosa vicina all’incanto di un miracolo, perfettamente riuscito. Forte è la presenza degli anni Novanta in almeno la metà dei brani, tuttavia non come limite, bensì come palestra muscolare di assoli in grado di riportare il suono nel luogo che gli compete. E poi i Blue Aeroplanes che spesso fanno capolino, come lo fa la sensazione di un cabaret pop in cerca di un applauso timido, e il recitato di Trevor sale sul palcoscenico della pazzia, con citazioni, riferimenti davvero notevoli. Si danza con consapevolezza, si sorride e si trovano lacrime generose nella splendida e conclusiva This Town, vero gioiello intuitivo, capace di sorprendere e trascinare nell’intima località del ragionamento ogni  paura…

Fulcro, baricentro e freccia libera di separarsi dalle prigioni è la mastodontica Platitudes of Scorn, un trattato biologico, un vocabolario di bellezza che, partendo dalla psichedelia inglese, atterra nella ballad claustrofobica americana, per divenire il pezzo su cui collegare il lato solare e quello cupo dei due artigiani musicali, qui in totale armonia, per dare non solo al brano ma all’intero album un senso di epicità inevitabile.

Hanno colto il senso dello spargimento del tempo e lo hanno lasciato libero di voltare loro le spalle, senza acredine, senza eruzioni inutili di rabbia. Una clamorosa disciplina, resa possibile dalla loro stessa produzione, fa sentire il tutto come un lungo soffio dalle undici piume, dove ognuna rincuora le altre.

Piccole scintille del loro passato  si possono trovare nella penultima composizione, Built in Obsolescence, un crocevia, una pillola che dalla mente di un passato prova ad arrivare alla realtà. Amniotica, nevrotica, elettrica, è sicuramente epidermica in quanto sa come tenere un lasso di tempo enorme comprimendolo in un minutaggio che, seppur breve, è molto rappresentativo per quanto concerne il periodo che fu per loro glorioso.

Non si può rinunciare a Suburbs, quel secondo incanto sonoro che mette i brividi, per la scrittura che brucia le ostilità e ridà senso al vivere della provincia, a storie che rischiano di rimanere inascoltate.

Si può fare a meno del passaporto ma non dell’identità: ecco che la già citata This Town rivela antichi amori rimescolati (The Velvet Underground), che in un momento di freschezza riescono a ingannare il movimento delle lancette dell’orologio, per poi trasferirsi verso i Beatles e l’Inghilterra, per un ritorno a casa.

Che è perfettamente il fattore dominante di questo disco: partire dal limite (il lockdown), per trovare una nuova residenza: quella dentro di sé, per un risultato clamorosamente armonioso e intenso…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

21st March 2025


https://thebolshoibrothers.bandcamp.com/album/the-bolshoi-brothers






My Review: The Bolshoi Brothers - The Bolshoi Brothers


 

The Bolshoi Brothers - The Bolshoi Brothers


Once upon a time, and still is, there was a place in Wiltshire, in the south of England, not far from Bath, a place made famous by a post-punk, darkwave band (Bolshoi), whose name is Trowbridge and which for a while carried the quartet's delicious vicissitudes in its belly.

In 1990 the band disbanded and now the Old Scribe is about to take you on an ocean voyage, slow, to the heavens, with a harmonic blend that has ancient, delicate, fragrant overtones, where folk, psychedelia, the dampened skin of Alternative and Indie Rock form the basis for an inevitable rational circle. The eleven songs were written during  lockdown, at a distance: Florida calls, Seattle answers, in an only pretendedly separate path. The ideas, pregnant with moods and matured exposures to the thickening of thoughts at arm's length with philosophy, are set free by talent, by working on meaning, on the back of stories from the protected envelope of sounds that shed tenderness and curiosity. Many are the places over which the songs glide, many the references in which one might find a smile, a relief, but, above all, great is the perimeter of the verses, the arrangements, the singing, the energetic flow, the rays of sunshine that make the Bolshoi of yesteryear a pleasant but not essential memory. 


Trevor Tanner, as always guitarist and vocalist, draws, attracts the listener into his mental prairies, while Paul Clark (keyboards) is the great creator of this kaleidoscope, of this forest that tries to capture the light to feed on hope. And their new residences, American, have favoured an artistic birth in which, between the two poles, sensations, pains, impetuses and a thick sensory vegetation are compressed: an album like a momentum that knows no direction, to give meaning to true freedom.

It is rock that seems to be born from the burrs of Lou Reed, from the Australian psychedelia of the second half of Church's career, and even calls to mind the 1990s period of British bands that reproduced the thrill of the American shore that was specifically inspired by that of Boston. And that of the British band Eat. Moreover, there is the thrill given by the works of bands close to slowcore, especially then when a melancholic sense prevails in the refrains.


The old sombre petals are not absent, the broadsides of toxins, but the whole is more polished, with the ability to enter even country areas, almost like a challenge, easily won, as the two have never missed the appointment with irony (as in the song Cowboy Chords). However, throughout this artistic exercise, the guitars are always far from swallowing the whole: they are generous, attentive and scrupulous, willing to translate the passage of their lives. 

It takes courage to write a flutter of wings, when previously they were describing insecure footsteps in the dark night on the streets of London.

The testimony of adulthood, of a path that seeks development, cannot be tied to nostalgia.

There are elements of contact with a glorious and dangerous idea: to orchestrate existence with songs like a Matryoshka doll with the intention of contact, as if the songs were pages inside a library eager to fit into the palms of our hands.


When Beautiful Creature arrives, it becomes clear how the American rock roots are capable of revealing the post-punk side of yesteryear, but clothed in a luminous film close to the enchantment of a miracle, which is perfectly successful. The presence of the nineties is strong in at least half of the tracks, however not as a limitation, but as a muscular gymnasium of solos capable of bringing the sound back to its rightful place. And then the Blue Aeroplanes often peep in, as does the feel of a pop cabaret in search of shy applause, and Trevor's acting takes the stage of madness, with quotations, references that are truly remarkable. One dances with awareness, smiles and finds generous tears in the splendid and conclusive This Town, a true intuitive jewel, capable of surprising and dragging into the intimate locality of reasoning every fear...   

Fulcrum, barycentre and arrow free to separate from the dungeon is the mammoth Platitudes of Scorn, a biological treatise, a vocabulary of beauty that, starting from English psychedelia, lands in the claustrophobic American ballad, to become the piece on which to connect the sunny and the sombre sides of the two musical craftsmen, here in total harmony, to give not only the song but the entire album an inescapable sense of epicness.

They have grasped the sense of the passing of time and let it turn its back on them, without bitterness, without unnecessary eruptions of anger. A resounding discipline, made possible by their own production, makes the whole thing feel like one long breath from eleven feathers, each one heartening the others.

Small sparks from their past can be found in the penultimate composition, Built in Obsolescence, a crossroads, a pill that from the mind of a past tries to reach reality. Amniotic, neurotic, electric, it is definitely epidermic in that it knows how to hold an enormous amount of time by compressing it into a minute-length that, although short, is very representative of the period that was glorious for them.  One cannot do without Suburbs, that second sonic enchantment that sends shivers down one's spine, for the writing that burns away hostilities and restores meaning to provincial living, to stories that risk remaining unheard.

One can do without a passport but not without identity: here, the aforementioned This Town reveals remixed old loves (The Velvet Underground), which in a moment of freshness manage to fool the movement of the hands of the clock, only to move on to the Beatles and England, for a homecoming.

Which is perfectly the dominant factor of this record: starting from the limit (the lockdown), to find a new residence: the one within oneself, for a resoundingly harmonious and intense result...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

21st March 2025


https://thebolshoibrothers.bandcamp.com/album/the-bolshoi-brothers


mercoledì 19 marzo 2025

La mia recensione: HA : ZE - Healers


 

HA : ZE - Healers


Partiamo abbordando un’amica, l’immaginazione, e mettendola al centro di una chiacchera, intensa, insieme alla storia, per poi ribaltare il tutto nella capitale della Lettonia, Riga, entrando nelle stanze, mentali prima e fisiche poi, di un musicista e produttore, figlio quasi incosciente di quella città che ha trafficato con la vita in modo davvero difficile durante la seconda guerra mondiale, con migliaia di ebrei condannati a una morte ingiusta.

In questo secondo album a nome HA : ZE, Tomass Bekeris continua il viaggio iniziato nel 2018 mediante l’esordio con quel Passage che tanto aveva colpito il Vecchio Scriba.

Però è bene sapere che l’artista in questione ha un lungo percorso nel campo dell’heavy metal per poi maturare, come un big bang improvviso, una dilatazione multipla e sorprendente.

Qui, in queste mastodontiche nove tracce, ci ritroviamo nel vapore acqueo di umore in cerca di un attimo di tregua, con la premura di entrare in generi musicali abituati solo a sfiorarsi. Si presentano in questo modo l’elettronica, l’hip hop, il post punk, il post rock, l’ambient, con una chitarra spesso midi a contornare il cielo di questo maremoto, incredibilmente lento, ma denso, come una tempesta che gioca ad avvicinarsi quasi di soppiatto. Lo spazio della ricerca si concentra nell’assimilazione delle distanze, delle rotte pianificate dai luoghi e dalle persone, per escludere totalmente la voce, come atto spirituale necessario per non macchiare queste proiezioni sonore.

Tomass, al fine di giungere al nucleo di una realtà balbuziente, rallenta l’apoteosi dei ritmi, così diseducativi, per iniettarvi dentro trame sonore che arrivano a sedimentare, sedurre, sventrare il superfluo e ricaricare l’anima di una nuova luce.

Si è sicuramente in quel lato del mondo dove l’ipnosi giunge dai luoghi impervi, dalla durezza del vivere contro una natura che non si piega. Ed è in quella stanza, in cui nulla è minuscolo, che le note di questo fuoriclasse compositivo trovano la perfetta simbiosi con i paesaggi non lontani dalla sua città: tutto è conversione, contatto, moto a luogo continuo. I loop, le dinamiche non fanno altro che portare l’intuizione della trama in una apertura obbligatoria, con arrangiamenti roventi ma tenuti a bada con classe e sapienza.

La varietà, che comprende dolcezza e spremute elettriche al limite della sopportazione (per chi non ama le chitarre anche solo leggermente pesanti), è al servizio di un prodigioso rigore: a vincere non è il ritmo, l’armonia e molto altro (compito soprattutto della forma canzone e della musica Pop), quanto piuttosto l’ascolto precedente a quei singoli attimi qui compressi, raggruppati e poi disseminati nelle multiple variazioni, per rendere l’ascolto un viaggio onirico ma all’interno di una attenta attività cerebrale. L’elettronica non è mai la pelle e tantomeno le ossa di questa architettura musicale bensì la colla che, dalla bassa temperatura a quella alta, riesce a mantenere connesse situazioni che riempiono il cielo della confusione il luogo perfetto per avvertire la drammaticità di queste composizioni.

Ed è caos. Petali industriali che perlustrano. Disagio che inquieta. Terrore fondente. Schizzi di luce e buio in avanzamento.

Il basso è lo strumento atto a rendere inospitale per i deboli di cuore l’ascolto in quanto rovista il ventre, mentre i sintetizzatori fanno da riassunto, con le chitarre a dipingere i fianchi del dolore.

L’orizzonte diventa la stagione del coraggio: chi ascolta Healer si mette al sicuro, nel rifugio antiatomico di queste pillole nervose in cerca di dolcezza, come colonna sonora inevitabile di smottamenti interiori.

Tomass Bekeris non dimentica l’effervescenza metal del suo passato ma la trasferisce, smussando la durezza e l’impeto, per portare il tutto anche in un quasi invisibile strato progressive, per amicarsi gli angeli delle note, che qui, in questo marchingegno ipnotico, trovano spesso momenti di calma e serenità. Ma assistiamo a degli splendidi imprevisti, a delle perversioni amare miracolose e miracolanti, che danneggiano, in modo straordinario, la sicurezza che l’ascolto potrebbe creare. Si spiegano così i mille inserti, minuscoli e sensuali, che seducono e rendono ibride le note che sembrano essere quelle “principali”.

Per arrivare a tutto ciò il musicista lettone chiama a sé otto artisti, ognuno di loro a rendere un cuneo, un sasso, un nervo che si appesantisce solo per provare a vibrare nello spazio vulnerabile della fantasia. Non ospiti, ma ulteriori architetti che ispessiscono il progetto iniziale.

Ci ritroviamo, dunque, davanti a bordate minimali e poi oggettive, con i transistor che si appiccano al suono, vero Re di questo incredibile progetto: non a sua immagine, tantomeno somiglianza, bensì un fuggitivo, un atleta fondista che scappa da quelle terre per trovare altre dimensioni.

Un impulso primitivo governa l’aspetto e l’assetto elettronico: tastiere ed effetti che spaziano nei secondi, mentre ricercano la ridondanza del delay per generare polvere e liquidi amniotici, con il risultato di assistere a un parto lungo nove brani e non nove mesi…

L’amarezza, l’indisciplina, l’onestà e il suo contrario brillano infelici in queste chitarre che riassumono ciò che il dream pop degli esordi faceva. Ma non poteva rimanere puro.

Il segreto della bellezza e, soprattutto, della ricchezza di questo effluvio sonoro è proprio da precisarsi nella volontà di mischiare le carte, i decenni musicali, di specificare la necessità di abbracci anche forzati ma sensati, per far divenire l’insieme un prefabbricato di cui abitare con meno paura l’interno…

Non si può che risultare viaggiatori, magari per molti perplessi e insoddisfatti, ma almeno il Vecchio Scriba è assolutamente convinto che ciò che si è esplorato sia un mistero geografico, storico, pieno di pulviscoli, di diademi, di strategie, di ingenuità in cerca di un'adozione, per finire, stremati, in una coccola infinita, piena di lividi…


Album of the year 2025


Alex Dematteis

Musicshockworld 

Salford

19 Marzo 2025


https://haze.bandcamp.com/album/healer

My review: HA : ZE - Healers

 


HA : ZE - Healers


We start by boarding a friend, the imagination, and putting it at the centre of a chat, intense, along with the story, and then turn the whole thing around in the capital of Latvia, Riga, entering the rooms, mental first and physical later, of a musician and producer, almost unconscious son of that city that trafficked with life in a really difficult way during the Second World War, with thousands of Jews condemned to an unjust death.

In this second album under the name HA : ZE, Tomass Bekeris continues the journey begun in 2018 through his debut with that Passage that had so impressed the Old Scribe.


However, it is good to know that the artist in question has a long history in the field of heavy metal and then matured, like a sudden big bang, into a multiple and surprising dilation.

Here, in these mammoth nine tracks, we find ourselves in the watery vapour of moods in search of a moment's respite, with the urge to enter musical genres that are only used to brushing up against each other. This is how electronica, hip hop, post punk, post rock, ambient present themselves, with an often midi guitar contouring the sky of this tidal wave, incredibly slow, but dense, like a storm that plays at approaching almost by stealth. The space of the research is concentrated in the assimilation of distances, of the routes planned by places and people, to totally exclude the voice, as a spiritual act necessary not to stain these sound projections.


Tomass, in order to get to the core of a stuttering reality, slows down the apotheosis of rhythms, so diseductive, to inject into it sound textures that come to settle, seduce, gut the superfluous and recharge the soul with a new light.

It is definitely in that side of the world where hypnosis comes from impervious places, from the harshness of living against an unbending nature. And it is in that room, where nothing is minuscule, that the notes of this compositional ace find perfect symbiosis with the landscapes not far from his city: everything is conversion, contact, motion at a continuous place. The loops, the dynamics do nothing more than bring the intuition of the plot into a compulsory opening, with scorching arrangements but kept at bay with class and wisdom.


The variety, which includes sweetness and electric juices at the limit of endurance (for those who do not like even slightly heavy guitars), is at the service of a prodigious rigour: what wins is not rhythm, harmony and more (the task above all of the song form and Pop music), but rather the listening prior to those single moments here compressed, grouped and then disseminated in multiple variations, to make listening a dreamlike journey but within a careful cerebral activity. Electronics is never the skin, let alone the bones of this musical architecture, but the glue that, from low to high temperature, manages to keep connected situations that fill the sky of confusion the perfect place to feel the drama of these compositions.

And it is chaos. Industrial petals that scour. Disturbing unease. Melting terror. Splashes of light and advancing darkness.

The bass is the instrument that makes listening inhospitable to the faint-hearted as it rummages the underbelly, while the synthesisers summarise, with the guitars painting the sides of pain.

The horizon becomes the season of courage: whoever listens to Healer puts himself in the safe haven of these nervous pills in search of sweetness, as the inevitable soundtrack to inner breakdowns.  Tomass Bekeris does not forget the metal effervescence of his past, but transfers it, smoothing out the harshness and impetus, to bring it all into an almost invisible progressive layer, to befriend the angels of the notes, who here, in this hypnotic contraption, often find moments of calm and serenity. But we are witnessing some splendid unforeseen, miraculous bitter perversions, which do extraordinary damage to the security that listening could create. This explains the thousands of tiny, sensual inserts that seduce and hybridise notes that seem to be the ‘main’ ones.

To achieve all this, the Latvian musician calls upon eight artists, each of them to render a wedge, a stone, a nerve that weighs itself down only to try to vibrate in the vulnerable space of the imagination. Not guests, but additional architects that thicken the initial project.  We find ourselves, then, in front of minimal and then objective broadsides, with transistors sticking to the sound, the true king of this incredible project: not in his image, let alone likeness, but a fugitive, a cross-country athlete fleeing from those lands to find other dimensions.

A primitive impulse governs the appearance and the electronic set-up: keyboards and effects ranging in seconds, while seeking the redundancy of delay to generate dust and amniotic liquids, with the result of witnessing a birth that is nine tracks long, not nine months

Bitterness, indiscipline, honesty and its opposite shine unhappily in these guitars that sum up what early dream pop did. But it could not remain pure.  The secret of the beauty and, above all, of the richness of this sonic effluvium is precisely to be found in the willingness to shuffle the cards, the musical decades, to specify the need for even forced but sensible embraces, to make the whole become a prefabricated structure whose interior one can inhabit with less fear...

One cannot but turn out to be travellers, perplexed and unsatisfied perhaps for many, but at least the Old Scribe is absolutely convinced that what has been explored is a geographical, historical mystery, full of dust, of diadems, of strategies, of naivety in search of adoption, to end up, exhausted, in an infinite cuddle, full of bruises...


Album of the year 2025


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

19th March 2025


https://haze.bandcamp.com/album/healer

mercoledì 12 marzo 2025

La mia Recensione: Pink Turns Blue - Black Swan


 

Pink Turns Blue - Black Swan


Erano gli anni Ottanta, Leeds generava un flusso razionale ed emotivo enorme, a cui era stato dato l'appellativo di Post-punk, e tutto si era fatto nucleo, viscere, corteccia, piuma, spranga, per contaminare prima il suolo europeo e poi quello mondiale.

La città musicale per eccellenza guardava, studiava, prendeva prima le misure e poi le distanze, sapendo divenire in fretta un faro buio, nelle vicinanze di un coinvolgimento gotico e letterario senza possibilità di contraddirne la forza.

Berlino creò un infinito grigio di cui due musicisti furono paladini, ma senza nessuna volontà di esserne il cardine e gli esponenti più in vista.

I Pink Turns Blue sono una istituzione quasi religiosa per quella Germania che sa come amare i propri figli, sicura che il duo (ora diventato trio), non tradisce, tiene tra le proprie talentuose braccia chilometri di arte che non desidera essere esposta alla luce dei media, delle persone, di chiunque, per quella semplicità, modestia, senso teutonico del lavoro che non cerca applausi, per una non strategia che sa fluttuare tra le ombre prendendosi quel poco ossigeno che basta per generare pillole sonore in odore di anestesia, nell’apoteosi di sussurri e suggerimenti che spesso sono davvero praticamente invisibili.

Mic Jogwer, Paul Richter e Luca Sammuri sono riapparsi, come prede scheggiate, come cilindri sonici in un giorno di lavoro, con la valigia piena di storia, geografia, sociologia e una dieta che invita l’egoismo moderno a sciogliersi. Esplorano con sempre maggior meticolosità gli anfratti del Post-punk, diminuendo ancora di più la fantasia, le illuminazioni, mettendo a tacere l’istinto e lavorando, piuttosto, su poche linee, su ampi loop da cui trarre la vitalità che serve sia a loro che a noi. 

Un’orchestra mentale invita le note a essere discrete, trasparenti, feroci, come cannibali antichi che sanno come mordere le caviglie: la malinconia non viene lasciata sola, bensì accompagnata da una visione che spinge a un’unità umana degna della scuola filosofica del 1900 che, guarda caso, veniva proprio da un’altra città tedesca.

Un disco come un viaggio con un sacco di iuta sulle spalle, a raccogliere, a seminare, ad aspettare, a sorridere, mai a far piangere, perché quello non è il loro compito.

La claustrofobia del vivere moderno entra nella nebbia di chitarre obbedienti, del drumming secco e votato alla semplicità, con il basso che rimane affezionato ai Red Lorry Yellow Lorry per un tappeto che, grazie a tastiere velate, rende omogenea l’intensità e la erige al ruolo di semaforo mentale.

Riff non complicati ma profondi affondano, il cantato di Mic è sempre più uno scheletro con palpitazioni sghembe, irresistibile e provocatorio, con il suo inconfondibile accento a farci sorridere come tenera forma di abbraccio. Le sue parole, però, sono lamine e spine che non tornano mai nella sua gola…

Il suono è un marchingegno oscuro, un mistero che cerca l’ampiezza del pop, tossendo, prendendo da quella Leeds di cui si diceva prima le particelle velenose delle sue fabbriche, per un ipotetico ponte con Berlino, al fine di seminare un invisibile territorio di morte e lutti.

Il trio non cerca di essere convincente con canzoni piene di varianti, di trucchi e accessi colmi di eccessi: preferisce una modalità desertica, insieme al sole e alla luna, al caldo e al freddo e il dolore e la poca gioia tutti confluiti in pochi accordi, raggiungendo il risultato di essere maggiormente convincenti e in grado di divenire uno specchio mai appannato.

La magia delle dodici composizioni sta tutta nella direzione, in questi proiettili gentili con il bavero alzato, insieme alla dose perfetta di struggenti affermazioni, nelle quali i rapporti tra l’io e gli altri pare essere un film quasi muto, per generare oscillanti proiezioni colme di sudore e tosse: incute paura, il giusto disagio e, se si presta attenzione, tutto è perfettamente posizionato tra il meccanismo freddo e distaccato e una generosa esplosione affettiva.

La produzione conferisce la giusta continuità rispetto al precedente, e in essa è ben chiaro che i quasi quarant’anni di carriera ci propongono persone molto distanti dagli esordi, ma con la stessa propensione a fare della musica un lavoro serio e non un parco giochi privo di specifiche premure.

Il fascino con loro diventa la palestra di una intelligenza che non può avere tanti seguaci: sempre stati avanti loro e queste tracce dimostrano, grazie a un’ossatura verticale e mai pomposa, di lasciare da parte le velleità del successo, che è per loro un avvenimento inutile. Tutto ciò lo si comprende bene perché sono undici sentenze, dove nessuno sale sul loro treno ma, davvero, credetemi, è preferibile per la massa evitare i suoi binari.

Molte band attuali sono cresciute grazie ai PTB e hanno poi preferito imbalsamare la ricchezza dello spirito con la bellezza estetica, quella sterile.

Il rosa, il blu e il nero: tre colori messi di fila, come un logico mantello di appartenenza, con la pelle, il cielo e la morte saggiamente rappresentati in questi solchi.

Non possiamo fare altro che avvicinare le orecchie al suo interno e deglutire la gioia e la paura, come unico atto intelligente… 



     Song by Song


1 - Follow Me

I synth pieni di crepe e la chitarra malinconica battezzano l’album. E poi un’anima si pone domande, cerca risposte nel cielo e nelle persone per una canzone piena di dolore in transito, con la pelle che trema in questo riff elettronico figlio dei Kraftwerk e nelle chitarre piene proprio della luce cupa di questa band ai loro esordi. Un invito che è la risposta muta di chi adora questa prima traccia, come una cosa buona e giusta…



2 - Can’t Do Without You

Eccola la canzone pop, o meglio, che prova a entrare in un posto di cui la band non ha mai voluto fare parte. Diventa un singolo, un generatore di collante tra quel genere e l’indie elettronico, con il ritmo che assume le sembianze di un mantra semplice su cui si appoggia la linea del synth.




3 - Dancing With Ghosts

Si provi a immaginare un punto nel cielo in cui le traiettorie chitarristiche dei Mission e dei Red Lorry Yellow Lorry si incrociano. Ecco: da qui parte un arcobaleno di bellezza liquida con invocazioni, desideri verso una metrica essenziale e tipicizzante per i Berlinesi. Ed è stupore e gioia in miscelata danza.



4 - Fighting for the Right Side

Come tradurre la claustrofobia in un calendario in cui le candele sono spente e spinte da questo basso a portare la voce sulle pareti tappezzate da un profondo bisogno di giustizia. Chitarre che assorbono il glam, quasi hard rock, brevi attimi e poi è poesia decadente per condurre questo pezzo sul loro podio di cui noi non possiamo che desiderare di condividere lo spazio.



5 - Why Can’t We Just Move On

Ci ritroviamo nella dark electro zone degli Slow Readers Club, con Manchester che chiama a sé Berlino. Una grazia sonora viene invasa da una tristezza che paralizza. Ed è mantra come una epilessia genetica che sparge sale e miele…



6 - Black Swan (But I Know There’s More to Life)

Siamo al punto più alto, dove il Dio del volo perde il fiato. Nasce un pianto onesto su questi tasti in bianco e nero, sulla voce grigia, su questo cigno che pare volare tra le pareti di un testo perfettamente adiacente alle frustrate di una chitarra che cerca di graffiarci il respiro, per una sensazione di ipnotica dannazione senza fine…



7 - Like We All Do

Ogni lampo ha una invisibile forza contraria: ecco ciò che accade in questa improvvisa corsa che ci ricorda i Belfegore, con quel medesimo impeto che raggelava la notte. Il crescendo di chitarre rock (nei pressi dei Cult di Sonic Temple) ci induce a una gioia di cui non si conosce l’indirizzo ma, come farfalle drogate di vita, ci arriveremo trafelati. E gli errori dell’esistenza trovano in questo piccolo gioiello urbano un catino perfetto…



8 - Friday Night Out 

Accordi ingannevoli precedono uno sputo fumogeno, velenoso, con il ricordo dei primi singoli dei Fields of the Nephilim (specialmente nel giro del basso e nella “semplicità” della chitarra), a rendere questa canzone la sintesi dell’evoluzione della band della capitale tedesca: tutto qui è visione poetica, in chiaroscuro, in stato di peccaminosa forma di avviso per ciò che potrebbe succederci…



9 - Please Don’t Ask Me Why 

Mai dimentichi del loro disco d'esordio, i tre sciorinano canzoni come gocce d’acqua piene di memoria. Il brano è un abbraccio temporale, un bacio alle tempie e un invito a leggere la vita dei sentimenti con attenzione. La voce diventa esiziale, propedeutica, recitativa sulle agghiaccianti vibrazioni di una sei corde in stato di trance…



10 - I Can Read Your Name in the Stars

Terzo episodio in cui il pianoforte prende il palcoscenico: è solo il trampolino di lancio per una serie di parole che sanno essere una fionda gentile, in attesa del tuono. Che arriva, dolcemente, come se il tutto fosse la base di una inconsueta ballad, per un baritonale approccio dimenticato al fine di favorire l’inclinazione di una serie di inaspettati sorrisi…



11 - Stay for the Night

La gloria deve avere una corona ben visibile da tutti. Si chiude sempre un percorso con l’infinito che illumina il passato. Così fa questa canzone, sintesi sontuosa e perfetta di un delittuoso atto di bellezza che fa del loop congenito e sviluppato in tre precise fasi lo spettacolare anfiteatro di una barriera corallina sonora che fa piangere malgrado tutto. Una densità onirica, una sequenza di riferimenti resi sottili e quasi nascosti, ma in queste poche note succede il caos, il suo contrario, in un avvicendamento ondivago, con il cuore del pezzo che mostra i bagliori della sua complessità quando viene a mancare il drumming e il synth. Proprio in quel momento capisci le zone di smottamento che sa produrre questo pazzesco brano che chiude l’album e apre il cuore verso una paranoica e irresistibile volontà di circondarsi di questa magnetica dipendenza…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

12 Marzo 2025



https://pinkturnsblue.bandcamp.com/album/black-swan


ORDEN-RECORDS BERLIN - MusicBrainz



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