mercoledì 21 dicembre 2022

La mia Recensione: Tout Debord - Ça ne veut rien dire

 La mia Recensione:


Tout Debord - Ça ne veut rien dire


Ci sono città che dormono respirando la follia degli allori che impediscono agli arti della mente di muoversi, di ossigenarsi, di continuare a produrre cibo essenziale per giustificare il presente.

Parigi invece no: instancabile, intelligente, prosegue il suo cammino creando arte in tutti i settori, con quella dimestichezza che sicuramente è albergata nel suo DNA.

Poi, in quanto a originalità, possiamo benissimo chiudere entrambi gli occhi: la qualità non manca e la vittoria del movimento sulla pigrizia è accertata, verificata, sublimata.

Lo scriba scruta, bussa alle porte della città, tutte, ed entra soddisfatto in quella aperta da Leonid Diaghilev, colui dietro e dentro il quale vive l’idea di portare la musica di Tout Debord nella stratosfera sopra il polo artico.

In questa poltiglia di elettronica propensione alla danza schematizzata ed essenziale, vi sono schizzi sublimi di pennellate estasianti, un cercare il trucco per far pendere l’ascolto verso il sacro cerchio della dotazione crescente.

Sedici minuti scarsi, cinque composizioni e la certezza che siano più che sufficienti per inquadrare musica raffinata e potente da essere in grado di instaurare una felice dipendenza grigia. 

Sì, grigia, come l’atmosfera che circonda le nuvole sopra i camini di fabbriche operative ventiquattro ore al giorno. L’elettronica basilare e contemplativa inglese della seconda metà degli anni ’70 sembra aver attratto Leonid, portando fuori asse il solito nazionalismo francese.

Quindi? Stupore in armoniosa proliferazione si presenta e cementa i grazie che abbracciano queste canzoni, che spaziano attraverso i generi musicali ma sono sempre pulsanti di buongusto e precipitazioni emotive.


La musica proposta è quindi generosa, vivace, dentro le particelle velenose di un presente che dimentica il sole, viaggiando sulle dance floors della capitale francese, come energetica dimostrazione di un ribaltamento nei confronti della concezione di quale sia la parte più desiderata di ogni giornata. Qui sicuramente è la danza, il desiderare occhi chiusi che producono sogni che sembrano essere stimolati da questo esercizio sonoro sempre attaccato alla minimal wave più contemplativa, alla Coldwave più raffinata, al Synthpop meno avvezzo alla facile digestione e ai parallelepipedi di un elettrofunk sublime.


Facile immaginarlo con gli occhi verso le sue tastiere, ricoperte di riflessi ’70 e ’80, instancabile, mentre studia la mappatura dei suoni di quegli anni per cercare libertà di manovra, indipendenza, per potersi staccare da paragoni che gli toglierebbero poesia, perché è proprio quest’ultima a regnare violentemente in questo Ep. E si presenta nella tessitura di trame spesse di storie, con strumenti e stili che già da soli sanno riempire gli occhi di acqua in movimento.


 Ci si ubriaca di impalcature essenziali ma potenti, efficaci, mancine di sicuro, perché in questi brani il diavolo non ha bisogno di provocare facilmente dolore: altri sono gli obiettivi e te ne accorgi alla fine dell’ascolto, quando l’energia ti ha abbandonato. 

Con richiami evidenti a fare dei loop i fedeli alleati per attirare consensi e slanci, tutto trova posizione nel delirio del piacere che modifica continuamente direzione e modalità.


Corriamo a guardare queste canzoni da vicino e potrete sicuramente celebrarne la bellezza…


Song by Song 


1 Les gens sont les gens


Ed è subito Synthpunk a livelli acidi, in una pozzanghera dove al posto del fango vediamo danzare farfalle piene di bracciali Synthwave: tutto è robotico e gelido, la melodia però presenta il volto nel finale.


2 Ça ne veut rien dire


Si prosegue con un ritmo e uno schema apparentemente simili, ma in questo frangente il synth disegna volti cupi e il cantato fa da contrasto solo per quanto concerne le linee melodiche. Ma è un momento che viene anestetizzato da un suono metallico, capace di circondare i fianchi della canzone.


3 Aveugle


La canzone divina arriva ed è estasi glaciale, lo sbarramento del potere del sole. La parte ritmica è incessante, i toni bassi della tastiera sostengono il cantato che è un grumo di sangue ripetuto. 


4 Le miroir 


Il livello qualitativo si conferma a quote alte: il brano raggiunge le zone di una Darkwave timida ma robusta, un tracciato di attesa crea il pathos che governa e strega il nostro respiro. Il cantato si abbassa ulteriormente per scavare il terreno dove si balla tra gocce di nero.


5 QCH


L’ultimo visibilio sorprende: si cambia panorama, mood, saltando nella Yugoslavia dei primi anni ’80 e nel Belgio fertilissimo. È la testa che pilota il tutto, in un sentire l’ebm come un flash che si contamina con bisturi elettronici di grande capacità nel tagliare la pelle e concedere spazi al prurito di una selvaggia Coldwave francese.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

22 Dicembre 2022


https://tout-debord.bandcamp.com/album/a-ne-veut-rien-dire-detriti


https://open.spotify.com/album/2zcnVLuMRh5h36iYTFTkv2?si=phzhk5YxTR-DCckZ8eypBA











martedì 20 dicembre 2022

La mia Recensione: Left for Pleasure - Human Contract


 La mia Recensione:


Left For Pleasure - Human Contract


Germania 


Synthwave - Darkwave - Postpunk 


C’era una volta l’abbondanza di generi musicali, un via vai continuo di nuove scoperte, che creavano come conseguenza stupore, assimilazione e gioia, per poi tramutarsi in genitori capaci di generare parti plurigemellari.

Ma ciò che fa più male al vecchio scriba è la mancanza della ricerca del suono, il suo sviluppo e una precisa collocazione stilistica.

Tutto è appiattito, uguale e noioso: il digitale, l’ignoranza musicale e il disinteresse nei confronti di un approccio serio e professionale hanno un fatto il resto.

Ci sono eccezioni e una di queste è rappresentata da questa band tedesca (toh, guarda caso, che casualità vero?), che arriva dopo quattro singoli all’esordio sulla lunga distanza.

Ed è alba, primavera, gioia, seduzione circolare, all’interno di atmosfere cariche di tristezza, agitazione controllata, spargimenti di lacrime a presa rapida.

Questi suoni poi: sia data alla felicità una porzione di cielo e a noi il compito di un rispettoso inchino. 

Andiamo a vedere un po’ meglio da dove vengono e cosa fa di loro una band così interessante.

Halle è una città dalla storia tormentata, difficile e di cui si parla poco anche musicalmente: sembrerebbe costretta a chiudersi in se stessa perché luoghi troppo importanti e famosi le stanno vicino (Berlino, Dresda, Lipsia), togliendole forse quella visibilità che meriterebbe.

Con una cattedrale gotica che è bene visitare come l’autore della recensione fece nel 1997, questo posto ha creato lavoro con l’industria chimica. 

Ed è proprio quest’ultima ad aver generato paura, desolazione, resa, frustrazione come i due tedeschi sono riusciti a dimostrare con questo sublime esercizio musicale.

Siamo di fronte a strutture che vagano tra spazi sonori concepiti con precisione, riferimenti stimolanti e ingressi verso circuiti di polvere di amianto che cade dentro movimenti robusti, paradisi desolati, abbandonati, per precisare la vivacità della mediocrità umana.

Le menti del duo diventano laboratori di immagini, ostinazioni, scariche voluminose di fiori appassiti, dove tutto si rende necessariamente in grado di ingravidare la tetraggine, per condurla, spalle al muro, alla conseguente fucilazione.

I Sintetizzatori dominano, nel volo torbido dell’affanno che qui viene posizionato come l’ultimo ostacolo prima del decesso.

Le voci provengono da entrambi i membri della band, capaci di stimolare suggestioni maliarde, nel doveroso esercizio deprimente, che esalta la qualità di musiche avvolgenti, rigide, robotiche e in grado di condurci verso danze che piegano gli arti. 

Le arterie si riempiono di una certificata abilità di propagandare un delirio artistico con il suono che domina la struttura delle composizioni: si viaggia continuamente avanti e indietro nel tempo, un falò che viene congelato dalle impronte Coldwave sapientemente quasi nascoste, come per certi frammenti Ebm. 

Si riscontra l’immensa attitudine a cambiare ritmi, dando alla preposta sezione un notevole raggio di azione, rendendo più semplice alle trame melodiche il compito di infierire sui nostri rapiti ascolti. Ed è un matrimonio perfetto per associazioni di necessità che mettono radice canzone dopo canzone: solo nella splendida Germania musicale poteva nascere un album così intenso e deflagrante. Non c’è bisogno di distorsioni per sentirsi crollare il cielo addosso: i due lo prendono con le loro dita nere e lo abbassano, generando frastuoni e lampi nei nostri cuori frementi.

Le atmosfere sembrano greggi multipli in un’adunata a fine esistenza: qualcosa di profondamente sacro sgorga dalle composizioni per certificare l’assenza di una via di fuga. Ed è un funerale celebrato in un anticipo così lontano. Ma noi, commettendo l’imperdonabile errore di danzare, crediamo di metterci al sicuro senza voler concedere spazio a testi apocalittici, tenebrosi, dove il disincanto diviene il sovrano assoluto. 

Ne pagheremo il prezzo il giorno in cui, invece, i nostri occhi si chineranno su queste parole pesanti come lastre di marmo.

Pazienza: al tempo sia concesso il potere di punirci.

 Se vogliamo essere un minimo attenti allora diamo almeno spazio all’osservazione, nell’economia degli strumenti, di come il basso sia determinante, con la sua propensione a fare del Postpunk il suo maestro, punto di riferimento e attore eccelso nella recitazione di tutto il suo campionario. 

E la chitarra? Compare molto meno, ma sa farlo come se al futuro volesse concedere un ricordo minimo ma straordinario.

Al synth ho già accennato ed è bene non dimenticare gli arrangiamenti, come comete sbrigative in attesa dello schianto nel vuoto.

Questo disco riesce a suscitare entusiasmo dentro una nube tossica ed è ora di descriverlo, canzone per canzone.


Song by Song 


1 Vortex


Ed è tuono iniziale, il tremore e la profezia che si annusano, un ipotetico luogo che viene mostrato tra fumi infreddoliti e la voce intensa di una donna che soffia, balza con toni suadenti all'interno di questo ritmo lento e sincopato.


2 Rainy


Selvatica esibizione di suoni lucidi ma cupi, la danza acquatica scende dal cielo per allarmare i nostri occhi, con una chitarra periferica che circonda il respiro. Ed è Darkwave e Postpunk in congiunzione perfetta, per annebbiare i sensi dentro le polveri dilatate di una musica che resiste all’attacco del tempo.


3 Blue Eyes


Basso e chitarra in entusiasta parata aprono la danza di occhi blu solo in apparenza: la malinconia vince il duello e si posiziona, convinta, sul viso, mentre un synth straziante bacia note come tergicristalli attivati perché bisogna far scomparire le lacrime.


4 Vase


Giunge una voce con un riverbero maligno, nella marcia che avanza ipnotica, lenta. Il cantato sequestra le forze e piazza un attacco vincente. Ed è terremoto al rallenty, glaciale.


5 Feel


La voce maschile arriva dopo pochi secondi ed è stupore. Una liturgia ritmica ci fa danzare come marionette stravaganti e inebetite, tutto si fa cupo e drammatico, il cantato opprime, abbatte la resistenza per lasciare spazio al gioco erotico della chitarra e del synth in stato di grazia.


6 Banish Sorrows


Nuova chicca balistica: il duo crea un altro edificio dai suoni perfetti, equilibrati, per venire a contatto con uno splendido crescente, un loop che solo la tastiera può generare. Ed è rincorsa nei corridori delle paure.


7 Angeldust


Gli anni ’80, ripuliti, disinfettati, aggiornati e corretti, trovano pace in questo brano, dominatore assoluto, capace di farci abbreviare il fiato. Come un rimbombo apocalittico, la voce accarezza atomi di secondi col suo registro alto ed è pura follia sensoriale.


8 Your Skin Turns Blue


L’inganno dei primi secondi sembrerebbe portarci verso le atmosfere drammatiche dei Joy Division. Poi, però, si va altrove, con in dono uno strazio simile a quello della band Mancuniana. Caos e visibilio si baciano.


9 Hinter Schweren Gedanken


Echi dei primi bagliori ebm dei Pankow paiono volenterosi di ribadire lo stupore, l’amore per il presente disco. Poi si corre con gli anfibi dentro l’acqua fredda di questa musica che si fa emblematicamente ancora più gelida.


10 Phantom


Il respiro sprofonda sotto la cupola di Phantom, il crocefisso che cade lentamente dentro il nostro sentore che non vi è più il tempo per sognare. Il congedo di questo strategico e stratosferico album avviene con un cantato decadente, come il pianto di una sirena ferita. E le note musicali sono il luogo di ogni scioglimento, il crollo totale, l’addio perfetto.


Alex Dematteis

Musicshockworld 

Salford

21 Dicembre 2022


https://detritirecords.bandcamp.com/album/left-for-pleasure-human-contract


https://open.spotify.com/album/1KYEQvojuIn6ufSjNpDuv0?si=7IVnATqRTbypkmzgcmW8hw







My Review: Left for Pleasure - Human Contract

 My Review:


Left For Pleasure - Human Contract


Germany 


Synthwave - Darkwave - Postpunk 


Once upon a time there was an abundance of musical genres, a constant bustle of new discoveries, which created astonishment, assimilation and joy as a consequence, and then turned into parents capable of generating multiple births.

But what hurts the old scribe most is the lack of sound research, its development and a precise stylistic position.

Everything is flattened, equal and boring: digital, musical ignorance and disinterest in a serious and professional approach has done the rest.

There are exceptions, and one of them is this German band (look, what a coincidence, right?), which arrives after four singles on its long-distance debut.

And it is dawn, spring, joy, circular seduction, within atmospheres laden with sadness, controlled agitation, shedding of quick-setting tears.

Then these sounds: let happiness be given a portion of the sky and us the task of a respectful bow. 

Let's take a closer look at where they come from and what makes them such an interesting band.

Halle is a city with a troubled, difficult history that is also little talked about musically: it would seem to be forced to turn in on itself because places that are too important and famous are close to it (Berlin, Dresden, Leipzig), perhaps taking away the visibility it deserves.

With a Gothic cathedral that is well worth visiting as the reviewer did in 1997, this town has created jobs with the chemical industry. 

And it is the latter that has generated fear, desolation, surrender, frustration as the two Germans have managed to demonstrate with this sublime musical exercise.

We are faced with structures that wander through precisely conceived sonic spaces, stimulating references and entrances to circuits of asbestos dust which falls within robust movements, desolate, abandoned heavens to specify the vividness of human mediocrity.

The duo's minds become laboratories of images, obstinacies, voluminous discharges of wilted flowers, where everything necessarily makes itself capable of impregnating bleakness, to lead it, back to the wall, to the consequent shooting.

Synthesizers dominate, in the turbid flight of shortness of breath that is positioned here as the last obstacle before death.

Vocals come from both members of the band, capable of stimulating seductive suggestions, in the dutifully depressing exercise which enhances the quality of music that is enveloping, rigid, robotic and able to lead us to limb-bending dances. 

Arteries are filled with a certified ability to propagate an artistic frenzy with sound dominating the structure of the compositions: one continually travels back and forth in time, a bonfire that is frozen by Coldwave imprints which are cleverly almost hidden, as with certain Ebm fragments. 

One finds the immense aptitude to change rhythms, giving the preposed section considerable range, making it easier for the melodic textures to rage on our enraptured listening. And it is a perfect marriage by associations of necessity that take root song after song: only in splendid musical Germany such an intense and deflagrating album could be born. There is no need for distortion to feel the sky crashing down on us: the two take it with their black fingers and bring it down, generating din and lightning in our quivering hearts.

The atmospheres sound like multiple flocks in a gathering at the end of existence: something deeply sacred gushes from the compositions to certify the absence of an escape route. And it is a funeral celebrated in such distant anticipation. But we, by making the unforgivable mistake of dancing, believe we are securing ourselves without wanting to give space to apocalyptic and gloomy lyrics, where disillusionment becomes the absolute ruler. 

We will pay the price on the day when, instead, our eyes will bend over these words as heavy as slabs of marble.

Oh well: may time be granted the power to punish us.

 If we want to be a bit attentive then we have at least to give space to the observation, in the economy of the instruments, of how the bass is decisive, with its propensity to make Postpunk its master, point of reference and sublime actor in the recitation of its entire collection of samples. 

And the guitar? It appears much less, but it knows how to do it as if to grant the future a minimal but extraordinary memory.

I have already mentioned synth and it is good not to forget  arrangements, like hasty comets waiting for the crash into the void.

This record manages to arouse enthusiasm within a toxic cloud and it is time to describe it, song by song.


Song by Song 


1 Vortex


And it is initial thunder, tremor and prophecy sniffing each other, a hypothetical place being shown amid chilled fumes and a woman's intense voice blowing, leaping in persuasive tones within this slow, syncopated rhythm.


2 Rainy


A wild display of lucid but somber sounds, the watery dance comes down from the sky to alarm our eyes, with a peripheral guitar surrounding the breath. And it is Darkwave and Postpunk in perfect conjunction, to cloud the senses within the dilated dust of a music that resists the onslaught of time.


3 Blue Eyes


Bass and guitar in enthusiastic parade open the dance of blue eyes only in appearance: melancholy wins the duel and sits, victorious, on the face, while a heartbreaking synth kisses notes like windshield wipers activated because tears must be wiped away.


4 Vase


A voice with a malevolent reverberation comes, in the march that advances hypnotic, slowly. Vocals seize the forces and place a successful attack. And we have an earthquake in slow motion, glacial.


5 Feel


The male voice arrives after a few seconds and it is astonishment. A rhythmic liturgy makes us dance like extravagant, inebriated puppets, everything becomes dark and dramatic, vocals are able to oppress, breaking down resistance to leave room for the erotic play of guitar and synth in a state of grace.


6 Banish Sorrows


New ballistic gem: the duo creates another edifice of perfect and  balanced sounds to come into contact with a splendid crescendo, a loop that only keyboards can generate. And it is a chase in the hallways of fears.


7 Angeldust


The 80s, cleaned up, sanitized, updated and corrected, find peace in this track, absolute dominator, able to make us shorten our breath. Like an apocalyptic rumble, the voice caresses atoms of seconds with its high register and it is pure sensory madness.


8 Your Skin Turns Blue


The deception of the first few seconds would seem to take us towards the dramatic atmospheres of Joy Division. Then, however, it goes elsewhere, with an agony similar to that of the Mancunian band as its gift. Chaos and rapture kiss each other.


9 Hinter Schweren Gedanken.


Echoes of Pankow's early ebm flashes seem willing to reiterate the awe, the love of the present record. Then one runs with combat boots into the cold water of this music that becomes emblematically even colder.


10 Phantom


The breath sinks under the dome of Phantom, the crucifix slowly falling inside our feeling that there is no more time to dream. The end of this strategic and stratospheric album comes with a decadent singing, like the cry of a wounded siren. And the musical notes are the place of all dissolution, the total collapse, the perfect farewell.


Alex Dematteis 

Musicshockworld 

Salford

21st December 2022


https://detritirecords.bandcamp.com/album/left-for-pleasure-human-contract


https://open.spotify.com/album/1KYEQvojuIn6ufSjNpDuv0?si=otbNk95CR9SUL1mud-yGFg







domenica 27 novembre 2022

La mia Recensione: Leech - Live 06.06.2020


Leech - Live 06.06.2020

 Spesso il desiderio è figlio di un’ipnosi inconscia, il territorio sospeso tra ciò che vorrebbe nascere e la sua inconsapevolezza. Lì e solo lì nasce ogni cosa. Ci risiedi senza conoscere ancora nulla e può durare un attimo come un’eternità.

Nella musica può capitare tutto questo e quando lo scopri esci da una trance che ti fa uscire le note dalla pelle e te le ritrovi sparse, mentre ti osservano e reclamano il tuo sguardo. Anche i sogni sanno ballare…

Partecipare a un concerto degli Svizzeri Leech conduce proprio a vivere questo marasma emozionale, senza attrito, con la materia di sconvolgimenti che generano purificazione continua. Uno shock gentile che regala elettricità nei circuiti di desideri sconosciuti: nel bel mezzo del tuo ascoltare sei immerso nella loro profonda ricerca di trame melodiche e ritmiche per una danza degli occhi e dei pensieri dal vestito più lucido che esista nei tuoi battiti sbigottiti. Definiti Post-Rock  per il genere musicale che suonano, lo scriba non ci casca e va oltre, si riduce e si rifugia a un silenzio che non disturbi la loro messa limpida di voli angelici, terrificanti per profondità e suggestioni. Perché con loro si sogna, si freme, si precipita nella bellezza di un incanto, tra le nuvole e la polvere.

Sì, chiamatelo Post-Rock, Instrumental, perdetevi pure nelle certezze che possano far stare insieme tutte le vostre fameliche esercitazioni di bravure raggiunte, io sono altrove, completamente, beatamente perso nei loro valori sonici, nei circuiti onirici di storie che non necessitano di parole. Tutta la storia musicale di un genere trova il suo momento più alto (non mi pare possibile che ciò non esista), la sua perfezione indiscutibile, ma il fatto più eclatante sono le anime poco attrezzate alla intelligenza  che debbono affannarsi nella ricerca, per vivere pacificamente questa condizione. Se volete per forza limitarvi a definire quello che fanno questi angeli delle montagne svizzere allora avete già trovato tutto. Questo Live è assolutamente l’esaltazione che trova il palco del cielo perché certa musica la si ascolta, la si vive guardando all’interno di nubi gonfie di miracoli irresistibili e irripetibili. Si viaggia per strade mentali piene di ricette per l’estasi, con le loro atmosfere imbevute di sfumature desolate e melanconiche, fiumi di delicata propensione alla ricerca di quella vibrazione che annetta e faccia dimenticare tutto. Musica che fa sospendere i pensieri e diventa immagini, film continui per  sceneggiature mutanti, attori che si scambiano sguardi e ruoli, per divenire la colonna sonora di brividi multipli. Trame mai sfocate, tantomeno frammentate, vi sedurranno conferendo a queste undici pillole di trasportare il nucleo originale lontano, trasformandosi in liquidi bollenti, colmi di fascino, ci si perde, come conseguenza non programmata, nella accattivante storia di un percorso dove tutto rimbalza continuamente nello stupore, nel buio che accende i fari di deliri che conoscono la ripetizione. Le chitarre, la tastiera, il basso e la batteria sono corpi creati per dare all’azzurro un colpo di tosse, facendo uscire molecole contagiose di quella parte del rock che non puoi controllare. La sfrenata collezione di fantasie divaricate, generose, si materializza nella magia: chiudete gli occhi, il loro magnetico esercizio di sublimazione cancellerà la noia producendo respiri e sospiri imprigionati dalla intensità e dalla bellezza, nel giardino della profondità. Conoscerete filastrocche, pastiche sensuali, morbosità antiche con la forza del fragore moderno. Sperimentatori audaci dell’impossibile, disegnano la perfezione in trame lunghe e continuamente aperte alla manipolazione, ricordando a tutti che non esiste solo il Prog a fare questo. Miscugli di surreali percorsi ipotetici qui trovano concretezza: vibrazioni ammalianti che fanno sentire le loro canzoni come se fossero lo starnuto perfetto di un angelo in cerca del sonno eterno. Ogni composizione tesse trame che non conoscono sosta, con loop che convincono a divenire ubbidienza implacabile perché siamo pure noi musicisti ascoltandole, non paresi ma pennelli a nostra volta. Raggiunta l’epicità, la riflessione, il vibrato interiore che fortifica l’età adulta, si può trovare agio nella loro identità selvaggia ma ragionevole: solo il nomade cambia la pelle, così facciamo noi ascoltando questo concerto, il loro primo dopo il disastro pandemico. Sapendo spaziare nei decenni, negli stili, mettono la benda ai cliché per respirare la libertà espressiva maturando continui sconvolgimenti. Ecco arrivare le condizioni attraenti del surreale a favorire la curiosità e gli estremi che si danno appuntamento in questi minuti benedetti dal Dio della musica, della ricerca interiore e della gioia più spavalda. Pennellate liquide, languide, nervose ed erotiche per un disegno di legge che stabilisce completo abbandono, per incontrare la violenza di emozioni fortissime. Tutto si fa marziale, abrasivo, lancinante e piacevolmente insostenibile: regalatevi cento minuti di follia totale, farete la più bella doccia emotiva degli ultimi anni…

Struggenti, nervosi, pacifici con interezza sublime, un concentrato di contraddizioni ribelli ma educativi, i Leech sono il guanto perfetto per toccare ogni instabilità uscendone intonsi, senza possibilità di infezioni bensì guariti da ogni male interiore, perché capaci di spazzare l’inutile.

Il migliore Live degli ultimi vent’anni per il vostro scriba: sono talmente sicuro che la vostra intelligenza coglierà questi fiori meravigliosi da potermi congedare felicemente… 


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

27 Novembre 2022


https://leechofficial.bandcamp.com/album/live-06062020


https://open.spotify.com/album/3cc8yjj31E6toviqZsLoo4?si=djpFQAgpR7eN30-hbdA8eA







sabato 26 novembre 2022

La mia Recensione: Claudio Baglioni - La vita è adesso

Claudio Baglioni - La vita è adesso


Ci sono pozze di fango che cercano poesie: di solito sono i poeti a concedergliele, ogni tanto gli scrittori di canzoni, ma a regalargliele sono sempre le anime sensibili e solitarie. C’è un abbraccio da donare a chi non ha ascolti, a chi non ha parole da offrire. 

Esiste però la sorpresa di chi sa farlo a distanza attraverso versi che donano entrambe le cose, che si incollano perfettamente. E certi cantanti permettono questo raro idillio, facendo divenire quelle persone fortunate, equilibrate, finalmente nella condizione di sentirsi vive in una migliore propensione verso il presente.

Tra i solchi più generosi in tutto questo vi sono quelli de La vita adesso, un crocevia di scrittura elevata e suoni perfetti, per un combo che resiste all’uscita, perché la vita più che adesso è per sempre, con le sue magagne, le sue storie appese agli alberi dei bisogni, a quegli istinti che possono donare un bacio come un proiettile in testa. Ciclica, è uno spazzacamino dell’anima che in più mette dentro di noi piume e mattoni.

Claudio Baglioni nel 1985 ha completato il suo cammino fatto di un meritato successo scrivendo però (sino a quel momento) il suo album più riuscito, centrato, in grado di rendere gli italiani uniti non solo nelle spiagge bensì nelle autostrade dei sogni, nella coscienza sveglia per dovere, senza scuse, e nei quadri emozionali con la cornice perfetta. Ed è stato un botto di capodanno anticipato: era l’8 giugno, il caldo era ancora equilibrato, la stagione quella giusta e l’Italia viveva un momento critico con la modifica dei patti Lateranensi, il Presidente era Sandro Pertini, capace di vigilare come poteva sulle malefatte di una classe politica sempre in forma per fare del proprio peggio. Per quanto concerne la musica, quella internazionale del  momento  favoriva We Are The World e la finta della solidarietà viveva quasi come se fosse vera…

A Roma il Claudio nazionale mise in commercio l’album che avrebbe fatto il record del più venduto della storia italiana, valido tuttora, testimoniando che il successo fa incontrare molte anime, ma lasciando forse ancora più sole molte altre che non potevano nuotare a proprio agio tra quelle note, quello stile e quelle parole. È sempre un poco contro il molto, la guerra delle insoddisfazioni davanti alle gioie.

Però lo scriba viveva su quelle canzoni la contraddizione di trovare un oceano incantevole e pulito e la rabbia per quella musica che preferiva e di cui in quell’album non vi era presenza alcuna. E oggi sceglie di parlarne per dare voce a quella parte soddisfatta: di quell’altra lo fa già tutti i giorni.

Inquadrare questo lavoro senza pensare a ciò che ha rappresentato è una fatica assicurata ma, tant’è, ho deciso di provarci. Risulta decisamente di appartenenza molto di più a chi l’ha amato e addirittura a chi lo ha contrastato (ed erano molti) che non al suo autore, sempre impegnato a disegnare tavolozze nuove per non sentirsi legato al suo successo. Ma ha messo radice nei cuori, nei gesti, nella modalità di osservare le persone, le relazioni, gli oggetti, e tutto l’ammasso che popola la nostra esistenza. Ha generato frenesie, brividi, pianti, specchi di sole a pettinare il buio del nostro affanno quotidiano, ed è diventato motivo di una festa da recitare ad ogni evenienza, continuamente. Disegnando il tempo, inserendolo totalmente in ogni piccolo dettaglio, Baglioni è divenuto così, velocemente, il centro di spartizione dei segreti, delle verità e finanche dei dubbi che in quelle canzoni emergono con rara raffinatezza e garbo. I quadri appiccicati al cuore consolano e accompagnano i battiti nella nostra incoscienza, avendo però il merito di lasciare un sorriso nella mente, sempre fresco. Abbandonata l’abitudine di fare fotografie alla vita con decine di canzoni che, come racconti precisi, creavano una pellicola mentale sempre disponibile alla visibilità dei ricordi, con questo disco Claudio dipinge la contemporaneità mentre decide il suo destino e indaga sul fatto che in questo la tecnica fotografica possa essere solo imprecisa. Quello fu il momento nel quale si sono aperte nuove possibilità di espressione nel suo percorso artistico, la prima davvero notevole, ed è proprio questo aspetto a stupire per il successo ottenuto: decisamente un  evento atteso da una massa di ascolti che sino ad allora ancora si spartivano liberamente, ma anche confusamente, gli ascolti. Lui avvicinò, compattò, mise le mani del suo sentire nella stretta di acquirenti che trovavano nella sua musica un appuntamento doveroso, generoso, essenziale, dove l’impegno più importante si rivelò quello privato, personale, e non quello sociale.

E il suo ruolo di cantautore tornò alla radice del tempo, ai suoi prozii, cioè i cantastorie, i primi a coniugare la necessità di un racconto di istanze personali con l’impegno. La vita è adesso è un collante, una matriosca che spazza via le convenzioni, i pruriti egoistici, ed è anche un sottofondo per pensieri confusi, una distrazione, un tuffo sospeso senza avere nel cielo l’infinito perché le canzoni, una dopo l’altra, offrono una volta celeste diversa, piena delle sue storie. Piante di note che come sempre hanno il groppo in gola, tracciano la tristezza senza mancare la precisione, in un crescendo che però sa incontrare il sogno e la necessità di smarcarsi. La capacità di precisare gli stati d’animo appartiene ai fuoriclasse e non importa lo stile, la musica utilizzata, perché ciò che è preciso avvicina le persone, le mette a contatto con la verità. Certamente l’aspetto musicale non è da meno: si assiste a un grande cambiamento, a chitarre dal piglio rock e alle orchestrazioni di Celso Valli che si amalgamano perfettamente, generando una opposizione intelligente all’elettronica del Synthpop e del New Romantic, così vivaci e onnipresenti. Fior di turnisti diedero qualità e sostanza a note, accordi, linee melodiche che, seppur avendo una tecnica decisamente distante da quella italiana, ponevano incredibilmente in risalto le peculiarità della musica nostrana, spesso avvezza a scimiottare quella di altri paesi negando la propria natura. La scrittura di Claudio Baglioni conobbe nuove necessità, nuovi agganci nel cielo, che sortirono l’effetto di un binomio non prevedibile perché lui è sempre stato legato a uno stile compositivo più classico e riconoscibile. Il suo romanticismo innato questa volta trova sede nella splendida Monte Mario, che gli consente un clima interiore perfetto, con la giusta brezza nella sua mente affamata di immagini e storie che fossero adatte al suo progetto di scrivere un album che avesse la forza dell’eternità, incentrato sull’argomento che si rivelò vincente. Ha saputo coniugare la sua modalità così profondamente legata agli anni ’70 con tutta la tecnologia della metà degli anni ’80, trasferendo la sua romanità nel centro di Londra, trovandosi così al cospetto di musicisti abituati alla grandezza, a rendere preciso ogni atomo di suono. Prese la giornata di un uomo qualunque (vittoria assoluta, senza favoritismi da contestare) e lo buttò al centro del racconto del suo percorso umano, tra incontri, soddisfazioni e lamentele, preoccupazioni varie, giochi d’amore in serie e gli inceppi di un’anima comunque turbata perché questo fa la vita con ognuno di noi. E qui viene fuori un tratto coerente e continuativo che metterà a proprio agio gli ascoltatori, potendo trovare una culla, un vestito e una scarpa da appoggiare sulla propria pelle perfettamente. Quando si scrive un disco sui singoli attimi dell’esistere il rischio di tediare, ingolfare e saturare è elevato, ma Claudio ha saputo destreggiarsi, superarlo: alzata l’asticella, le gambe della sua bravura si sono allungate compiendo un salto stratosferico verso il cielo conferendogli il mito, obiettivo che forse albergava nella sua ambizione più privata, senza la quale non si cresce. Arrivano metafore, idee di appartenenza, squilibri che ricevono il supporto di una penna dorata che dona a tutti loro la pace, dentro la pelle della sua notte avvolgente e rassicurante, perché in questo album la positività trova modo di mettere radici nella terra quasi arida delle esistenze, pericolosamente ai piedi del baratro. E quell’uomo, il protagonista che soffia in queste canzoni la sua poesia esistenziale e il suo impegno, ha il sorriso obliquo, su labbra che baciano la consapevolezza che la vita vada vissuta. Il racconto si fa illuminante, tenero, con le immancabili presenze di bolle colme di amarezza a rendere credibile il tutto. Decide di conferire trasparenza alla solitudine, baciando la sua esistenza con la possibilità di valutarne la forza e pulendo il senso della contigua sofferenza: sì, ha scritto miracoli umani dentro molti versi, donando energia elettrica ai pensieri degli uomini grigi, ops, persi. Offrendo le coordinate musicali che potessero contenere una varietà indiscutibile, l’orecchiabilità rispetto al passato è data da rime baciate perfettamente e assonanze sensate, ma esistono anche episodi nei quali l’ascolto deve essere attento perché meno facilitato, riuscendo a far sposare la semplicità e la complessità: forse anche questo aspetto spiega il perché del suo successo. Il linguaggio usato potrebbe essere risultato meno comprensibile a un pubblico più giovane, ma è stato in grado di suscitare interesse e affetto in ogni caso, perché le canzoni regalano sensibilità e intelligenza che, anche se non percepita del tutto, sono semi pronti a crescere e sappiamo bene che nella adolescenza certi appuntamenti sono solo rimandati. Altra chiave di lettura per capire questo suo dilagante arrivo alle generazioni più distanti, ognuna con il proprio tempo di assimilazione. La sfera di persone più adulte trovavano immediatamente la necessità di connettersi al lungo discorso di Baglioni, una spartizione di averi che necessitava l’assimilazione, in un momento nel quale i testi in generale stavano divenendo contenitori vuoti e inservibili. Conseguentemente lo spazio era stato preso da questo cantautore sempre più immerso nel precisare, nello sferrare calci educati alla pigrizia e alla banale contentezza che andava fermata. Un servitore socialmente utile che prestava però attenzione alla necessità dello slogan, di idee che potessero fratturare un bisogno generale. Le voci dovevano trovare un unisono e lui lo creò, lo fece trovare a nostra disposizione. Diventò capace di sperimentare l’idea di una maturità quasi obbligatoria e la formò con abilità, un tenero addio al decennio precedente dove si concesse i limiti di storie d’amore che in molti faticavano ad accettare. L’identità reclamava l’accesso verso una mutazione e affidò tutto questo non per caso alla storia quotidiana di un uomo e non di un ragazzo dal cuore acceso da impulsi ed eccitazioni varie. I brividi consegnatici sono quelli di consapevoli capogiri, di esperienze che hanno eretto il pensiero, seppure a fronte di un corpo ingobbito. Questo non fu altro che la madre di un’intesa crescente, il doveroso appuntamento di un obiettivo al quale non si poteva sfuggire: congedarsi dal passato senza dimenticare, ma maturando la doverosa esperienza per costruire basamenti concreti per il presente che divenne per la prima volta il suo bisogno primario. Un muro alzato verso la ripetizione di cliché congeniali solo per chi lo amava follemente, dal  momento che in lui emergeva una necessità di descrizione totalmente devota a un argomento specifico. Da lì partire come un sarto del pensiero per sviluppare il tutto.

Difficile è il lavoro che Claudio ci obbliga a fare: la memoria è messa sotto pressione sia per la quantità di parole che ci troviamo addosso, sia per i ritornelli che tendono a non ripetersi, sfiancando una delle caratteristiche storicizzate delle canzoni. Tutto trova una forma molto varia nelle modulazioni, nei periodi lunghi delle strofe, nel suo bisogno di scrivere un libro per ogni brano perché nulla doveva essere impreciso, per non concedere fughe ai particolari che si riveleranno essere i veri tesori di questa sua metodica. Può risultare indigesto questo percorso, capisco chi non riesce a masticare il suo stile (tra l'altro in questo album molto cambiato, quindi parrebbe stupido agli occhi dello scriba muovere accuse...), in quanto non mi pare complicato accettare l'invito a separarsi dalle convinzioni, lo faccio perché credo nel messaggio proposto, nello stile di una musica adulta, vivace il giusto, mai melensa, determinata ad avere lo sguardo fiero nei confronti delle star internazionali. Non dimentichiamo che questo disco riuscì a battere nomi altisonanti, procurando una notevole sorpresa. Per questo forse bisognerebbe concedergli almeno una opportunità, poiché le canzoni aprono il cielo verso uno sguardo scevro dai limiti che non sono i suoi ma quelli di altre persone. 

Ma la musica che troviamo? Non si può negare il lavorio mirato, curato, specializzato verso un'apertura a cui in quel momento pochissimi artisti e band avevano il coraggio di pensare, figuriamoci proporla. Il coraggio qui presente è manifestato nelle architetture, negli strumenti utilizzati, nei campionamenti, nelle teorie che conobbero la capacità di divenire realtà, dove il respiro classico delle arie ottocentesche non si chiusero timidamente, ma decisero di palesare le loro grazie davanti a quella tecnologia che sembrava essere così spavalda, piena di sé. Un matrimonio di modalità che ampliò il mare delle accoglienze e di una intelligenza che voleva essere ancora umana e non artificiale. Quando la musica vive la necessità di contemplare il nuovo e l'antico crea conseguentemente messaggi nuovi, dando l'esempio, forza, possibilità e La vita è adesso lo fa davvero molto bene. Abitare la luce nei suoni magnificamente espressivi di queste dieci composizioni è un dono e non un regalo, sottile differenza ma importante da recepire: dono perché esistente e accolto solamente se c'è necessità e interesse, non un regalo, la musica non deve esserlo, e chi lo riceve spesso ha la memoria corta.

Aggiungo che ascoltarlo, oggi nel 2022, non dovrebbe solo essere una cavalcata nella nostalgia, nei ricordi che si sa svuotano il senso e il valore principale della musica, vale a dire la sua evidente connessione con l'eternità, sempre in grado di insegnare, bensì l'occasione per evidenziarne le qualità. Stimola ancora pensare che per una volta non ci troviamo davanti a un album infarcito di misteri, ma a un raggio di sole che illumina le esigenze di anime alla ricerca di luoghi, cancellando il bisogno di legarsi alla modalità interpretativa per concedere quella libertà che un ascolto profondo non dovrebbe mai avere.

Capitolo voce e interpretazione: non vi è dubbio che il range, notevole e come sempre valido, qui trova il picco della sua carriera, esse sono legate a parole maestre e quindi desiderose di avere l'interpretazione e l'intonazione corretta. Non una di loro offre esitazioni, sono perfettamente centrate, dando una sensazione di coesione e non quella di iati che in passato avevano mostrato il volto. Una modalità che si affida a zone per lui nuove, con le tonalità basse che non congelano, anzi, sono quelle maggiormente preposte a scaldare il cuore. Il suo registro alto, la sua estensione, i suoi acuti sono ancora capaci di far vibrare i lampadari del nostro padiglione uditivo, e in un paio di episodi direi ancora di più. Interprete efficace, sicuro, mai spavaldo, sempre in grado di dare verità e credibilità a quegli esercizi raffinati che sono quelle parole magicamente incastrate tra loro.

Non scriverò la descrizione canzone per canzone, non è necessario questa volta, non voglio toccare la vostra storia con loro, rispettando anche solo l'idea di un mio esercizio sterile e privo di senso.

Concludendo: non è un supermercato questa uscita discografica, non una lista di cose dove prendere ciò di cui necessitiamo, bensì l'occasione di accendere la luce delle nostre intelligenze, perché è come se lo scrivessimo ogni giorno noi questo disco, adesso...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

26 Novembre 2022

https://open.spotify.com/album/07gMifgQGXzeoHjo7b1wbj?si=vJm1ixu-TQ2slElxtZrkpg




venerdì 25 novembre 2022

La mia Recensione: Low - I Could Live In Hope

 

La mia Recensione:


Low - I Could Live In Hope


“La paura è l’emozione più difficile da gestire. Il dolore si piange, la rabbia si urla, ma la paura si aggrappa silenziosamente al cuore.”

Gregory David Roberts


La semplicità, questa sconosciuta: una donna che fatica a resistere al dominio del nuovo che avanza e che, dimentico di lei, spazza via millenni e millenni per imporre le proprie colate di inutile ammassamento di verbose attrazioni composte di complicanze a cancellare la storia. Nella musica abbiamo assistito alla comparsa di generi musicali vogliosi di imporsi, cercando acrobazie stilistiche fatte di pallottolieri colmi di ogni tipo di esercizio sterile, di convenzioni dannose. Negli anni ’90 a predominare è stata la mancanza di stile, il caos sonoro, gli incroci a rovinare le razze che donavano chiarezze e, appunto, semplicità. Grunge, Brit pop, elettronica confusa e tanto altro hanno però dovuto fare i conti con lo slowcore, una rarità che ha fatto breccia in quegli ascolti che volevano conservare la purezza. Chi poteva fare meglio degli americani Low, il quadro senza futilità composto da Alan Sparhawk e da Mimi Parker? I due hanno deciso di combattere la paura, lo smarrimento, il vuoto, la banalità, affidandosi alla semplicità che coglie tutto e che regala mezzi enormi, come significato, per legittimare l’unico metodo utile per non sprecare la storia, per preservare il futuro dalla disperazione e dalla dispersione. Nel 1994 esce quello che sarà il loro big bang, la madre di ogni resistenza certificata, il capolavoro indiscutibile, il braccio e la mano per sostenere il vuoto. L’esempio. La partenza, la conferma che le lucciole per lanterne andavano condotte alla resa, sterilizzate, accantonate. Perché le cose semplici fanno chiarezza e impiegano solo l’indispensabile. Il suono, il metodo stilistico, gli elementi considerati per creare splendide canzoni hanno ingredienti brevi ma suggestivi, non un insieme di ingovernabili giochi beceri, che necessitano di una organizzazione faticosa e vaporosa, lasciando in bocca il gusto di un nulla privo di senso. Dalla cittadina del Maestro Bob Dylan escono timide ma determinate queste due querce dalle rughe bellissime, con le loro foglie figlie di incantevoli movimenti lenti, quasi pigri, ma dotate di nerbo e resistenze, determinate a non lasciarsi corrompere, a opporsi al vento della modernità. C’è qualcosa di pregnante, di liturgico, di irresistibile nei loro dipinti poetici, nella loro naturale propensione a sottrarre, nell’estremizzare una intuizione lasciandola nuda. Ed ecco scendere nel circo fluorescente undici giocatori senza sponsor, senza scritte stupide sulle loro magliette, con un unico schema preciso: segnare goals con un solo tocco, un tiro scagliato sotto l’incrocio dei pali. Tutto striminzito sin dai titoli: un’unica parola, secca, in cui il significato è già chiaro. Ecco che vediamo come il silenzio sia l’alleato migliore della musica: le permette il minimo indispensabile per abitare il cielo dell’eternità, del valore che non abbisogna di sovrastrutture. Un esordio tra i più grandi della storia musicale entra negli scaffali delle “cose semplici a disposizione dell’intelletto”: prendere o lasciare, facile…

La prima cosa che arriva, tra le poche ma essenziali, è una bacinella di lacrime leggere, a portata di vento, per divenire rugiada in assorbimento.

Nel bisogno di alleanze che siano in grado di tenere un profilo “basso”, ecco che gli strumenti rock per eccellenza si spogliano, si siedono ai piedi del nuovo che avanza per mostrare il loro vasto potere deduttivo, resistente, ammaliante: basso, chitarra, batteria e voce.

E come un pongo malleabile e offerto alla Dea del fato, avanzano cercando appigli, donando molecole che si appiccicano al veleno di esistenze multiple, uccidendole elegantemente. Le regole usate si riducono a due: arrivare al cuore e alla mente, affidandosi più al progetto essenziale che al talento (che non manca, sia ben chiaro), per scrivere storie pregne di valore, di resistenze significative, per dare all’esempio un trono stabile, una leva che sappia spostare quintali con un dito solo.

Sono fiori delicati nella nostra mente, dal profumo intenso, con lo scopo di distribuire nell’aria fritta e puzzolente dei nostri battiti una sequenza imbattibile di bellezza estroversa, tra piume e passi a contatto con lo stupore, che finisce per coinvolgere sentimenti ormai segregati, ma ancora dannatamente preziosi.

E cosa fanno i fiori se non rendere visibile il reale, spesso soffocato, sottratto alla vista proprio dalle cose inutili? L’album in questione è un campionario, una distesa di fiori, resi tristi dalla nostra scelta di lasciarli soli, non coltivati, non guardati con attenzione e amore vero. Brani come culle, carillon, ululati nel centro della notte a rendere chiaro che la presenza abbisogna di voci, spesso acute, spesso basse, ma costantemente accese per non regalare assenze. E i due sono angeli in continua fioritura, sempre disponibili con la loro disarmante capacità di sottolineare come ciò che diventa il loro progetto artistico in realtà sia l’essenza di personalità generose, dai pochi strumenti ma dai mille petali.


Assistiamo, in questo incredibile lavoro, a una trasposizione e alla trasfigurazione evidente e ineccepibile di un Giacomo Leopardi ai giorni nostri, nei quali decadenza, solitudine e poesia sono il matrimonio indispensabile per rendere la coscienza un punto di partenza e non di resa, per scrivere in musica la verità, il più grande nemico di ciò che al contrario ingolfa il loro quotidiano dando spazio a volumi di sciocchezze. Sono canzoni di seta in un mondo plastificato, sono briciole di pane volanti in un luogo pieno invece di luci artificiali che abbagliano uccidendo la vista. E allora l’ascolto si fa liturgico, silenzioso e abbondante, ridondante perché ciò che ci viene offerto è utile e prezioso. Unico, spazioso, profondo: undici petali che cadono inesorabilmente nel baricentro dei nostri battiti, con il loro impeto rock ridotto all’osso.

I Low ci dimostrano che non dobbiamo aver bisogno di macchine con motori dai grandi regimi di potenza ma di serbatoi capienti, per fare tanta strada seppur con mezzi di piccola cilindrata ed è quello che fanno le canzoni di I Could Live In Hope: ci portano dappertutto, senza esitazioni. Tutto raffinato, drammatico, esistenziale, progressivamente legato all’abbandono di ogni superficialità, dove il suono ammutolisce il cantato (seppure di gran classe) per fare dei giri perlustrativi tra i nostri sensi, come indagine emotiva e cerebrale, come estasi mesta, schiacciata da un umore intriso di tristezza ma mai di vittimismo. Arrivano arabeschi, intonaci da spalmare accogliendo il dirigibile del loro bagliore continuo che va da qualche parte, invitandoci, senza dire nulla: la loro musica in questo esordio si fa muta, discreta, e si gira di lato volendo incontrare le nostre labbra per un bacio candido e lungo. Sono assoli di intimità le chitarre, diventano punti cardinali i colpi di basso, sono carezze le spatole della batteria, che sanno divenire spazzole per pettinare il nostro senso ritmico dando solo l’indispensabile. 

Ci fanno volare in alto queste gemme perché ciò che sta in basso è insostenibile: la bellezza si deve distanziare, deve rifiutare la contaminazione e questo è ciò che avviene in questo perimetro del loro cielo, dove tutto si allarga e vola leggero, tra melodie frustranti per intensità ma necessarie, botti di vino pregiato tra le scie di un cielo ebbro della loro purezza, canzoni come gustose gocce di amara estensione, che passeggiano per abbandonare il mondo. Sono eroi questi minuti, senza più passato né presente: la loro ricerca è volta a creare un futuro dove l’immortalità sia il loro abito, unico e irripetibile.

Una valanga di soffi per chiudere la finestra da dove si vedono i cadaveri di atteggiamenti banali: ascoltare queste tracce significa serrarla bene e accendere il fuoco che queste brillii sonanti hanno nella loro intimità, per generare una corrente, illuminante, decisamente diversa.

Note che adempiono al loro semplice ordine: creare disordine nel tempo dove tutto viene catalogato, indirizzato e sublimato dal rumore. Con i Low, con questo esercizio stilistico, i bisbigli sonori diventano i nostri nuovi esercizi spirituali, legati da un senso corale che lentamente (eh già, proprio così, inevitabilmente) costruisce una spugna dove l’abbondanza non somiglia a una fiumana tossica di possibilità, ma a poche idee che circolano con il sorriso impertinente e determinato a difendere la sua unicità. Sono momenti nei quali ci si abbandona, si deve far posto a queste due voci che cantando insieme separano la sessualità, le caratteristiche primarie, per essere uno spiraglio di luce. Si piange, si ha paura, davanti a questa distesa verticale di tremori che gli amplificatori regalano, siamo cuccioli con il pannolino perché le emozioni generano liquidi in ogni parte del nostro corpo.

La disperazione viene metabolizzata, resa efficace e maestra, condottiera verso una verità da consumare e mantenere viva: altre band slowcore ci hanno provato, sono riuscite a fare altro, pure benissimo, ma questo aspetto è una esclusiva dei Low, senza dubbi. Quando la devastazione conosce questo tipo di approccio, la lentezza è già una corsa, irrefrenabile e quindi invito alla pazienza, ad essere attenti ai pregiudizi perché questa band non li merita. 

E non è più del tutto corretto definirlo come uno dei migliori gruppi slowcore: hanno la capacità di liberarsi da quella che potrebbe essere una zavorra, per agganciare quegli impasti sonori di un Alternative in cerca del loro range, in grado anche di visitare lo Shoegaze minimalista. Accadono cose meravigliose mentre ci si approccia a questo lavoro e se ne esce alla fine maggiorati di stupore, informazioni, con l’identità in volo…

Apprestiamoci a essere visitati dai loro cosmi: non sarà solo un insieme di viaggi, ma un crescere inevitabile dentro la melodica tristezza della loro arte.




Song by Song 


N.B.

Sarebbe bene che tutti i testi di questo album ricevessero un approccio profondo e accurato: ne va della comprensione di un insieme che non merita spreco.


1 Words


Dopo 14 anni (allora era quella di Ian Curtis a bruciare) ora è l’anima di Alan a farlo e il cantato iniziale ne fa sentire il dolore, trovando poi sostegno nella voce di Mimi per un viaggio musicale tra le stelle, dove gli Slowdive si spogliano e si fanno abbracciare da questa minimalistica  forma di tormento, con il basso a strappare l’equilibrio.


2 Fear


Atomi con Alternative, donando respiri più ampi che costeggiano la canzone, in modo che sembra avere accenni di colori più solari. Il senso corale delle voci supporta la chitarra ritmica che si fa più graffiante. Ma la bellezza più estrema sta in quella parola cantata in modo decadente: Fear.

Solo 134 secondi, ma infiniti…


3 Cut


Atmosferica, per la sua dose di enigmatica necessità di viaggiare dentro un film drammatico, Cut è una pellicola visiva che crea tremori, nella quale il basso proietta scene epocali e la voce è una piuma che cade nel vuoto.


4 Slide


Vogliamo una fiaba, un appiglio tra i raggi solari mentre piove nel cuore e lo troviamo in queste note dove echi di Nick Drake e Red House Painters sembrano giocare con il duo di Duluth. Ed è incanto che si infila tra le lenzuola del cielo.


5 Lazy


Se vi mancano i Mazzy Star e Mira, ecco quello che potrebbe essere un nuovo trio congiunto, votato a una devastante esibizione di pioggia, in caduta obliqua. Quasi sorniona, quasi psichedelica, del tutto magnifica per suggestione e senso di protezione. Qui si piange che è una meraviglia..


6 Lullaby


Forse la canzone più bella degli anni ’90. Di certo capace di creare un circuito emotivo senza molte possibilità di paragone. Il cantato di Mimi è la corteccia di un dolore su una breve chitarra paralizzante e sul basso che fa cadere tutto il silenzio nel vuoto. Poi questo miracolo decide di aprire le ali verso un grappolo di note che nuotano dentro se stesse, accelerando la percezione che le lacrime siano madri e non figlie di una tristezza conclamata. La chitarra di Alan in seguito si trasforma in un uragano, visita melodie che paiono arrivare dal medio oriente per qualche frangente e ci fa attorcigliare il fiato, con una acrobazia di cui solo gli angeli sono capaci. Ci si smarrisce dentro il delirio, sentendo l’umidità divenire vapore acqueo in ogni nostro pensiero. Quando la chitarra si fa quasi cattiva non possiamo che crollare e solo il ritorno di quell’arpeggio iniziale nei suoi ultimi secondi riesce a pacificarci il cuore…



7 Sea


Consapevole per prima del fatto che non possa ripetere la meraviglia di Lullaby, decide, per legittimare se stessa, di essere una breve presenza, per il tempo necessario a togliere il peso dal cuore e donarci un sorriso incantevole, in mezzo a voci morbide e la chitarra che vola tra la melodia rock più leggera e una sequenza di accordi che fanno in tempo a portarci al mare.


8 Down


A scuola di dolcezza abbinata all’incanto. Down si rivela una scheggia non urticante che si accuccia nel cuore, con la sua struggente propensione a divenire, secondo dopo secondo, un episodio unico di sospensione della vita. Sazia, svuota il superfluo e si affaccia al cospetto della perfezione.


9 Drag


Poche devastanti parole, dentro una nuvola sonora che ci riporta agli anni ’60, quelli dove il sole non presenziava alle giornate. Ed è estasi caparbiamente contenuta, una esibizione che pare uscita dallo Shoegaze totalmente denudato dai frastuoni. 


10 Rope


Un accenno Darkwave iniziale, poi è un siluro caotico congelato, un loop amniotico tra raggi pieni di freddo. La chitarra sibila come frastornata da una centrifuga e ipnotizza, come se fosse quella di Robert Smith tornato dentro una giornata piena di dolore.


11 Sunshine


Come se fosse conclusa la messa all’interno di una cattedrale, pare di trovare qualcosa di maestoso nella chitarra a cui basta un accordo per donare l’ampiezza del cielo: tocca alle due voci congedarci, testimoni di un incanto irripetibile…


P.s.

Cerchiamo di non essere limitati dall’essere umani: siamo noi a compiere l’unico miracolo possibile e rimettiamo la puntina sul disco per non separarci da questa infinita bellezza…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

25 Novembre 2022

https://open.spotify.com/album/61dByu8oBt4qdym9Rkz39w?si=3o2_rvkZR2aVria9zt-zAQ



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