sabato 16 luglio 2022

La mia Recensione: Slowdive - Souvlaki

 La mia Recensione:


Slowdive - Souvlaki


Nella complessità dei bisogni occorre esplorare e lasciarsi tutto alle spalle: la valigia è nella mente, nelle direzioni da prendere e nella volontà di raggiungere l’indefinito, lo sconosciuto.

Deve aver fatto così la Shoegaze band dal suono più sexy, quegli Slowdive che con Eps e l’album di esordio avevano eccitato migliaia di anime in sogni e condotto verso pulsioni vicine all’estasi.

Just For A Day ha cambiato il cielo musicale, segnato la necessità per molti di rovistare dentro i suoi gioielli e di godere di una boccata di ossigeno composto da atomi di musica dalla pelle di velluto alla ennesima potenza.

Poi la band ha fatto quella valigia di cui parlavo e ha scritto un nuovo capitolo dello stupore. 

Perché è sorprendendosi che si mette la distanza con ciò che si è fatto in passato, che costituisce spesso proprio il limite mentale per sondare nuovi terreni.

Gli scrittori di fiabe soniche di Reading hanno imparato a dipingere le nuvole danzando, sorridendo, corrompendo la tristezza verso la più determinante malinconia col freno a mano tirato. Ed è così che Souvlaki ha trovato il modo di conferire alla band freschezza e maggior luminosità al talento, che, vorrei ricordare e specificare, non è dato dalla bellezza delle composizioni, bensì dall’agilità con la quale si individuano necessità e modalità per creare canzoni che siano l’unica espressione di tutto questo. I cinque hanno per molti perso il coraggio di sperimentare, mentre a mio avviso, se questo è il pensiero più importante (non per me, sia chiaro), l’hanno fatto proprio perché si sono confezionati abiti nuovi, nell’approccio e nella resa.

È un album che rappresenta momenti difficili, specialmente per Neil, che è riuscito a penetrare la sua anima donando alle sue mani strutture che si scambiano affetto tra il paradiso e il pianeta Terra.

Un lavoro pieno di colori, di atmosfere ampie, che si muovono agilmente, che rendono il tutto un covo di sorprese e ammirevoli intuizioni: dilatata la forma compositiva, il suono diventa più importante e conferisce alle canzoni un abito morbido ma al contempo solido.

Sembra di entrare dentro una favola, una lettura che diventa un film per i nostri occhi a causa di una sensazione che ci stringe tutti nella poesia di architetture sonore sempre agili e intime. Non è solo rarefazione del suono ma anche dei propri battiti, dei respiri che cercano ingressi. È lasciare questo suolo ormai sporco e impolverato per elevare lo sguardo dentro le correnti del cielo: Souvlaki diventa proprio questo, l’insieme di vocalizzi paradisiaci con movenze sensoriali che paralizzano e guidano verso l’estasi che mette la giusta distanza tra la noia e le tribolazioni dell’esistenza. Crea una parentesi, una chance di coniugarsi ad un estremo limpido, che sembrava irraggiungibile. Le chitarre si rivelano in grado di piegare le onde sonore sublimali, spostando il tutto verso un suono che ci incolla all’ascolto, nutre la parte psichedelica trasformandola in sentieri pulsanti di  Shoegaze e Alternative, per equilibrare l’ordine della bellezza verso l’esplosione.

La scrittura è spigliata, pop, romantica, spoglia l’idea e il concetto dello Shoegaze per portarlo sulle rive del fiume melodico che contempla nuove connessioni, distribuendo in questo modo nuovi incantesimi e irrorando il serbatoio di questo genere di nuove vibranti possibilità.

Tutto sembra essere stato concepito nella stanza iperbarica dove si incontrano l’attività ludica e quella onirica, per creare la difesa del proprio processo creativo. Ecco allora chitarre acustiche, stop and go inediti, nuovi assemblaggi sonori che entrano nel cuore per leggerezza e luce.

Lo definisco un album che integra e crea distanza nella prima parte della  loro carriera, un robusto tentativo (riuscito) di separare un suono multiplo e capace di essere stimolante e rilevante e fondamentale per molte nuove band, per renderlo goccia e piuma e iniziare un nuovo volo, che sconfina e ci lascia indietro, a bocca aperta. Non è facile intuire e peggio ancora impossessarsi di tutta la sua bellezza senza avere calma e metodo nello studiarlo, perché ci troviamo innanzi a esercizi nuovi di stile e i magneti che vengono sganciati dal loro passato vanno amati, senza paura.

Vi è una notevole spinta identitaria, un discostarsi, un procedere verso un impatto emozionale che cresce, di brano in brano, con la clessidra che sorride felice, perché testimone di un percorso che certifica idee chiare, pilotate non solo dal talento ma soprattutto da un lavoro strutturale che è in ogni caso avanguardia dello Shoegaze.

Un ascolto davvero efficace non solo rivela il contenuto dell’album ma ci mette nella condizione di vedere i nostri pensieri stratificati, amplificati per andare a far emergere i nostri bisogni di afflati continui, verso ciò che libera tutte le tossine dentro il vuoto. Una volta accaduto tutto questo Souvlaki diventerà un amico generoso e prezioso.

E allora nuotare nelle acque placide e pulite di questi brani sarà non un passatempo gradevole, ma un prezioso alleato per il nostro bilanciamento psico-fisico.

Come un bouquet di fine millennio Souvlaki è in grado di portare i profumi di un tempo che seppur affaticato ancora sa inebriare: non tutto è da buttare dell’ultimo decennio del ‘900 e questo album propone pennellate chirurgiche di diamanti in forma perenne, senza usura. Linee di basso come martellate di gomma per non ferire, chitarre umbratili, massicce senza strabordare e argentee e inquiete.

Si vive l’introspezione galante di un flusso di energia che convoglia verso latitudini estreme. Con il suo fare viscerale, questo gruppo di candele dalla fiamma tenue riesce a rendere possibile un ascolto che risulta essere portatore sano di brina e arcobaleni tenuti per un filo: solo l’ignoranza potrebbe lasciarsele scappare.

E allora sia spazio al fluttuante peregrinare di atomi connessi all’abbondanza candida e proibita di linee melodiche, quasi nostalgiche, una modalità che da parte di ragazzi così giovani parrebbe illogica. Ma in loro vi è una maturità consapevole: sono eletti dallo stato di grazia e dagli Dèi. Le loro distorsioni oniriche sono le ancelle del matrimonio tra la perfezione e l’incanto, in mezzo ad acrobazie senza sosta.

E quando le note sembrano tristi ecco che scopriamo la loro stessa felicità: è tutto situato in dinamiche che sospendono i sentimenti per renderli sottili e volatili. Sembrano capaci di far sbiadire la maniera tipica di quegli anni che tendeva a fare dello Shoegaze un cliché. Loro vanno oltre. 

Un album prezioso, pensato con amore per l’amore, che è una supernova non solo nel cielo di Reading, in quanto da questo lavoro molte suggestioni diventano ispirazioni, aspirazioni per nuove band volte avere lo stesso modo di controllare l’evoluzione e la specificazione di un percorso artistico, con la forza di una fragilità che diventa una piuma dentro le nostre paure.

Nella delicatezza di questo avvento musicale si approda alla sensazione, lucida, di essere travolti da sogni e realtà che sono riusciti a localizzarsi in quelle note, appiccicandosi al bisogno della band di convolare a nozze con questa fila di battiti dalla faccia blu. 

Ma se tutto questo non vi convince, perché troppo legati al loro esordio, siate onesti e curiosi nell’ascoltare la voce di Rachel: colei che ha creato un modo nuovo di cantare supera se stessa e rende ancora più piccola la sua presenza, ma ancora più lucente è il significato, la capacità di un canto che bacia la fragilità, la spossatezza, la paura e diventa un battito di ciglio con il riverbero nel cuore. Una ragazza che sa essere potente senza vocalizzi, che riesce a farti sognare e sentire tutta la leggerezza del mondo anche dentro momenti di difficoltà, perché capace di fare del suo strumento l’accordo con l’infinito dell’universo. E le nuove composizioni, più intime e dilatate, vengono compattate perfettamente da questa sua inclinazione a essere la ragazza che canta con la voce accennata, quasi nascondendola, per non disturbare. Con Neil l’amalgama è cresciuto e i giochi di alternanza e di condivisione delle parti cantate raggiunge il trono della perfezione, indiscutibilmente. Non è necessario dare alla potenza del disco canti esagerati perché Souvlaki vive dentro le corde del cuore e irradiando la mente con facilità, planando sulle chitarre magiche che diventeranno l’aeroporto da cui separarsi da tutte le altre band per un volo unico. Souvlaki è uscito quando la fiamma del grunge si spegneva e quindi ha fatto provare alla gente la necessità dell’ascolto per non dimenticare Seattle e dintorni. Il Britpop veniva fuori come una sana catastrofe illusoria e mediamente tutto ciò che era straordinariamente unico nel disco dei ragazzi di Reading non è stato approcciato nella giusta maniera. Rivoluzionario (molti lo avrebbero capito in colpevole ritardo), le chitarre arrivano all’Ambient, con i pedali abili nel creare tappeti di magie nuove e innovative, mostrando chilometri e chilometri di versatilità, ancora oggi capaci di rimanere estremamente validi. Hanno saputo ingannare la pressione del secondo album che doveva per molti ripetere lo stupore generato dal primo (la presenza auto-imposta da Brian Eno venne ridotta al minimo, segno di un carattere immenso e sicuro), scrivendo canzoni come bombole di ossigeno dei propri scrigni, nuove stelle elette dal cielo per l’eternità, facendo alla fine di tutto questo secondo atto di bellezza il più amato dalla stragrande maggioranza delle persone che adorano questi ragazzi impenetrabili. I motivi sono dentro il mistero che tre decenni non hanno ancora avuto modo di spiegare. E quando non sai spiegare un mistero, l’attrazione, la devozione diventano il connubio per la vita eterna.

In tutto questo quello che seguirà non sarà una vera descrizione di ogni loro canzone, ma un atto d’amore con le braccia aperte, perché questi sussurri celestiali li puoi abbracciare, imparare a memoria, suonarli, ma sarai sempre tenuto lontano dal capirne la ricchezza ed è questa l’attrazione a cui non si può sfuggire…


Song by Song


Alison



E’ pop da tradizione 60’s, in un vestito morbido, capace di portare lo sguardo dentro la voce da gatto sornione di Neil. Nel ritornello l’efficace apporto di Rachel lancia il brano verso l’incontro tra i Byrds psichedelici e le nubi di Reading.


Machine Gun


Rarefazione pura: l’esordio qui torna nella sua evidenza, un episodio unico che rivela come il DNA non lo si possa dimenticare, fosse anche solo per un attimo. Commovente, vibra dentro chitarre piene di zolfo e sole, nel pomeriggio bisognoso di magia, mentre Rachel ci rapisce per sempre con la sua ugola color incanto.



40 Days


Ed ecco un nuovo esempio di questa evoluzione: frammenti pop, una predisposizione alla strofa nella quale cullare la melodia come semina in attesa, per poi creare la parte strumentale come vera attrazione verso il pieno abbandono dei sensi.



Sing


Composizione che rileva la sperimentazione necessaria per approcciarsi a nuovi lidi, vede la presenza di Brian Eno che probabilmente avrà captato segnali di vita su Marte. Si gravita dentro lo stupore di una ipnosi inaspettata, un navigare sul drumming reso etereo e quasi distante, con la voce di Rachel che si rivela un sorriso di quel pianeta, con la parte elettronica che avanza tra psichedelia e new age. 



Here She Comes


Bussa alle tastiere angeliche di Brian questo brano, con le slide guitars ingravidate di sottili bagliori, liquidi, immersi di malinconia, per un viaggio dentro la sottile linea della favola intravista.



Souvlaki Space Station


Con un inizio che ricorda i poderosi riff dei Héroes Del Silencio, il brano viaggia presto dentro la bolla di polvere e dolcezza miscelate perfettamente, per rendere questa lunga dimostrazione di classe il basamento per la voce irraggiungibile di Rachel, Dèa del cuore, madre di sogni fatti di baci. Un mare di chitarre come onde divine per consentire pause e nuovi avvii sempre in grado di mantenere la tensione della gioia a livelli incredibili.



When the Sun Hits


Gli Dèi tornano per decidere che una canzone può essere il loro respiro, tra le corsie melanconiche di descrizioni che sono dipinti dalla faccia trasparente. Estasi, calamita di ogni sogno divenuto reale, un globo pulsante di magnificenza benedetta, questo è il punto da cui si separano le idee e le impressioni per compattarsi, insieme a pennellate e riff potenti, verso il giardino del piacere assoluto. E il luogo in cui vivere gli impeti di un sole bisognoso di affetto: gli Slowdive gliene regalano in incredibile quantità con la canzone perfetta.



Altogether


Le acque rallentano, i sensi si tolgono la brina dalla pelle e giocano nella decadente ma al contempo dolcissima ballata che vede i ragazzi legittimare la notevole forza d’impatto di un crescendo che non necessita di esplodere per contaminare i nostri piaceri all’ascolto: rimane una carezza dolce di duecentoventi secondi, essenziale per poter condividere le loro delicate propulsioni.



Melon Yellow


Neil veste la sua voce di sale e miele, la musica, sottile e delicata, come una saetta addormentata, riesce a sentire l’urgenza di visitare i brividi sussurrando la sua presenza, stregando l’atmosfera con magnifica efficacia.



Dagger


Prima idea di quello che diventerà il progetto Mojave 3, dando spazio al bisogno di rendere acustico il movimento delle nuvole, il brano è un respiro di luce, tra le voci che si coniugano al bisogno di affondare i sogni dentro polmoni accoglienti.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

16 Luglio 2022


https://open.spotify.com/album/53eHm1f3sFiSzWMaKOl98Z?si=G6X80XcTT4WeyxgnPlbdbg







venerdì 15 luglio 2022

La mia Recensione: The Churchhill Garden - Always There

 La mia Recensione:

The Churchhill Garden - Always There


Anno di grazia 2022

Luogo: Lucerna, Svizzera

Cosa accade: il ritorno del mago Andy e della fata Krissy.


Il mondo decade, perde volontariamente i pezzi, distrugge valori e ne crea nuovi ma poco comprensibili, almeno per lo scriba.

Poi Krissy mette tutto a posto: lei non dimentica la sacralità dell’amicizia e scrive un inno, parole col cuore e la mente connesse per manifestare che quel sentimento rimane prezioso, sposta il mondo verso la bellezza e la concretezza.

Andy è in stato di grazia: come sempre, più di sempre. Dopo averci regalato fiammate Shoegaze avviluppate a melodie dal profumo infinito con Grounded, eccolo tornare con un brano che rivela come la complessità possa essere resa un sorriso nutriente e robusto, con un viaggio di scintille che riporta il tempo a portata di abbraccio. Non mi interessa rilevare o meno alcuni riferimenti che potrebbero essere stati voluti dallo stesso Andy nei confronti di qualche band: quello che respiro in questo collage sonoro è il suo talento nel rendere la sua arte al di sopra di ogni paragone, nel far viaggiare la sua poesia sonora oltre le stelle, nel dare ai nostri respiri fiducia.

E allora troviamo chitarre col brivido appiccicate a note che operano il cuore, un trascinante seguito di grappoli di luce. E chi pensa che lo Shoegaze abbia perso consistenza e possibilità di sviluppo sia così gentile da affacciarsi in questo universo di curve sinuose, con la direzione precisa in ogni suo secondo: si sentirà rassicurato e troverà lacrime a benedire questi 274 secondi di sogno contagioso.

La canzone regala sensazioni infinite, le voci di Krissy diventano pillole di magia, la storia descritta conforta e consola e ci si ritrova con questo dipinto sui nostri piedi danzanti lentamente, mentre la chitarra circonda il nostro stato emotivo, compattandosi con un ritmo che con il ritornello sembra lanciarci verso nuove strade. 

E cosa accade alla fine? Che ci si rende conto che la Musica, grande amica nostra, ci offre persone speciali come Andy e Krissy, per poter esaltare la nostra fortuna.

Always There è la voce di un bisogno che deve essere riconosciuto, portato nel profondo mare di ogni nostro gesto per connettersi con tutto il resto. I miracoli a Lucerna li fa Andy e la fata Krissy li espande: la vita è splendida con The Churchhill Garden!


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford,

15 Luglio 2022




https://open.spotify.com/album/7nevgRdPdoYl5xhByfmjgj?si=OjN2rDT5T96K5gFqI0Fo5A




 2022


My Review: The Churchhill Garden - Always There

 My Review:


The Churchhill Garden - Always There 


Year of grace 2022

Location: Lucerne, Switzerland

What happens: the return of the magician Andy and the fairy Krissy.


The world decays, deliberately falls apart, destroys values and creates new ones but difficult to understand, at least for the scribe.

Then Krissy makes it okay: she does not forget the sacredness of friendship and writes a hymn, words with heart and mind connected to show that feeling remains precious, it moves the world towards beauty and concreteness.

Andy is in a state of grace: as always, more than ever. After giving us shoegaze flames enveloped in infinitely fragrant melodies with Grounded, here he is back with a track that reveals how complexity can be turned into a nourishing and strong smile, with a journey of sparks which brings time back into the condition of being embraced. I'm not interested in detecting or not detecting some references that may or may not have been intended by Andy himself to some bands: what I breathe in this sound collage is his talent in making his art above comparison, in pushing his sound poetry to travel beyond the stars, in giving our breaths confidence.

And so we find guitars able to send shivers down your spine clinging to notes that operate the heart, an enthralling succession of clusters of light. And those who think shoegaze has lost substance and possibilities for development have to be kind enough to look at this universe of sinuous curves, with a precise direction in every second: they will feel reassured and find tears to bless these 274 seconds of contagious dreaming.

The song conveys endless sensations, Krissy's vocals become pills of magic, the story described comforts and consoles, and we find ourselves with this painting on our feet slowly dancing, while the guitar surrounds our emotional state, compacting with a rhythm that with the refrain seems to launch us towards new paths. 

And what happens at the end? That we realise that Music, our great friend, provides us with special people like Andy and Krissy, so that we can exalt our good fortune.

Always There is the voice of a need that has to be recognised, brought into the deep sea of our every gesture to connect with everything else. Andy creates the miracles in Lucerne and the fairy Krissy expands them: life is wonderful with The Churchhill Garden!


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

15th July 2022


https://open.spotify.com/album/7nevgRdPdoYl5xhByfmjgj?si=OjN2rDT5T96K5gFqI0Fo5A







sabato 9 luglio 2022

My Review: Diavol Sträin * Elegía del Olvido - Elegía del Horror

 My Review:


Diavol Sträin * Elegía del Olvido - Elegía del Horror


The Chilean city overlooking the harbour has enchanted the Italians so much that they have named it Valley of Paradise: where there is a conquest there is always a foolish kindness. It cannot be denied that those places are fascinating, but let the citizens decide on the name. It is from here that I start: from the name, the beginning of a life with so much of its destiny already determined right from the outset. 


Here we are talking about the dark beauty, the one that does not deny the high expressive capacities of a combo devoted to splendour inside a cave where mysteries and intertwined affairs live on.


The two gothic corsairs create a more complex work than the previous Todi El Caos Abita Aquí, producing a magnetic box full of innovations and contaminations: they surprise themselves and make all this an achievement on our part.

Energy comes out of garages full of symbols and sacred dust, blessed by the God of pain, to give the dark sound a remarkable strength. Energy and melody become a necessity that explains events capable of producing shivers and bitter but wise observations. The bass sound is muffled, fraught with molecular fates capable of producing power and suggestions.  The guitar is an intense den of hard-working mosquitoes, with the propensity to be enveloping, looking to the sky and the world's piles of rubble. 

Compact songs, with marks of mental viruses out of control, with Deathrock stigmata that refuse to let themselves be imprisoned and know how to visit the range of possibilities they need. Intelligent, with an innate propensity to expand their feeling, they are Priestesses of the human mystery that elevates to the utmost power the sacred temple of the fragility of places, of seemingly joyless stories: real, concrete, we can only bless their aptitude for discovering the intercourses of fragility. Ethereal dreams for our ears to convert into precious files for our reasoning: each song on this album defines a loss from which to learn about reality.

With these gems, we experience a sonic menace which is made graceful by music that allows bows and prayers, like long days on the books of world history. On the curtain embalmed lights of the most seductive blackness contemplate ideas of aggregation with grey flashes, like crystals corrupted by a necessary and splendid carousel of complicity. A continuous outburst into pugnacious moors, with decisive steps, where nothing is shaky but where the dream sometimes leads to atmospheres layered and corrupted by the beauty of their ever-expanding feeling.

One is impressed by tracks that can reveal a dynamic propensity for non-violent but politely rude wickedness, just enough, in swinging games of austere and multifaceted seeds. They are attractive grains of wheat, lost in their own beauty, masters of versatility and candour. With the capacity for a sound derivative of Post-Punk and the Californian Deathrock zone, the band writes songs to give their vocals a chance to be flames of lethal gas, with the gothic redundancies of the 80s, evident but sweetened.

A visceral and magmatic sea, sonic paths that make beauty precise, a poem on the skin made steep by human events full of multiple incandescences. There is the life of stray souls, but not meaningless: the lungs, listening to these mental robberies, wriggle dreamily, with black confetti smiles, for a cathartic process with a light cap on the surface. One is compelled to pleasurable suffering, one senses and then understands that the two are enchanters of rituals that perform a beautifully crafted analytical process, one feeds on crumbs of shuttered happiness.

Mortality is applauded, despair and anxiety are companions of obligatory breaths and they know how to coexist, giving the impression that the night extinguishes the fear that is invited to emerge. They are steel songs, fragile sheets that have ghosts protecting them, to become rituals of perfect neurotic dances.

One lives in a necropolis that is more confused than ever, in a collapse of happiness that is no longer necessary: all this does not, however, make the album exclusive for black souls because it grants access to all those eager to investigate the irregular flows of difficulty, of the world in constant abandonment of the capacity to create serenity. Listening should be enforced by law: black coats to be worn, univocal, to wisely decree the reality of existences now close to the fall of hope.

We come out of the tombs not as zombies but as living beings who try to live again differently, noting the inevitable repetition of errors by which we are subjugated. Diavol Strâin is a real flame, a skein of spastic nerves necessary for the conscience that tries deception but fails with them.

They are witches with poisonous hands, quick, slow, succulent, conjugated to their hieroglyphic writing, emotional storms that sweep through to separate the fog from the fake rays that invade the streets. Chile here finds precise apostles in wanting their expressive autonomy, where elegance marries anger with crooked, decadent, sublime smiles.

They are black-clad gangsters, ancient, groping, but not devoid of consciences that stir the limbs of the mind, like violently suspended peristalsis: to listen to this beam of darkness is to become aware of the traffic of pain that spreads in the strings of their hearts.

They are vampires facing the moon, scorching souls who penetrate with an album that grates the wind and sweeps away confusions: methodical, precise, alienating, abundant in their sonic mantras, queens of the realm of dissatisfaction, they make their songs like loaves of bread without crumb. The taste is bitter, like certain dreams, opening the funereal skies of the night zone in search of peace, finding damnation instead.


There are darkwave dregs between the fingers of the two musicians: Ignacia and Lau do not seem afraid to surround their emotional burden with foams clinging to that musical genre that has managed to arrive even in that land generous in hospitality. And so here they are plunging towards boundaries that can enhance and better specify an undeniable ductility, that openness granted only to those who make knowledge a point of departure and not of arrival. 

Warriors of enigmas, in a world filled with news but not with information, these coupled turbulence know how to generate questions, offer doubts, with melancholic propensity, even to the point of making us cry bubbles of despair, understandably. A wild band that starts with Edgar Alan Poe, because of a writing that faces the terror of existence with kilometres of nightmares lined up, of a horror that becomes literary lymph, until it meets the religious belonging of one's own identity, annexing insecurities that convey a preparatory enthusiasm. One can surrender to difficulties, but with this band one learns to love them, rejecting whining in order to shake ourselves and begin the journey into darkness.

They seem to throw acid, heavy stones and then retreat into their intimacy, without delay. Magical, almost naive, very powerful tracks that live on the outskirts of our dreams with the tide, when the water seems to leave our lungs. They can be trusted. Because they are necessary, companions of solitudes that improve our breaths. They put eye-liner on our energy-deprived flows to encourage us, like an apparent deception. Digging into these forty-seven minutes, however, we have the certainty of their authenticity. Which becomes the altar where we lay down our mediocrity and hand them a papyrus of ancient velleities, burning them before their eyes with devotion.

Often the guitars are shrieks that move with bass lines (daughters of the spirits of Araucania), to dance full of impeccable solicitations towards the place of perdition. Like a hill of sins in search of forgiveness, the songs are often splinters that flee from hope, as rivals of nonsense, to breathe in all reality as proof of abilities that are applauded by the sacred fire of the sun.

The distorted arpeggios create metaphors, lamps of oblique wind, the bass instead serious and obscure melodies, pulsing with sick oxygen: necessary incandescences to understand what we are in the days of deception.

Music like quality whiskey, to stun, inebriate, corrupt every temptation. Music that clears the past of all misunderstandings: there is also something new that lives in the breaths of timeless songs, valid for eternity. It is hypnotic fluid that knows how to fill the flasks of our gothic need, like an effervescent cascade of healthy desire.

I guess it’s time, in order to better understand this album full of seaweed and sharp flights of consciousness, for a complete incursion through its tracks, arming ourselves with an open mind and a black lipstick in our hands…



Song by Song 


Caida Libre


Tenebrous, fast, an attack on our heart with its limpid connection between Darkwave and Post-punk kissing in the rush of a flash.


Destiny Destrucción


With a stylistic approach reminiscent of many bands from the Oakland scene, the track lives on the explosive connection between the distorted bass and the guitar full of gothic fog.


Lilith


It shows all the duo's ability to make their music magnetic: the rhythm decreases and the suggestions increase, a slow ascent to the sky with a melancholic flight.


El Reflejo de Mi Muerte


The syncopated drum machine, the bass pressing on our belly and then off: the guitars bring all the sadness and vitality of awareness, with the voice magnificently capable of being hysterical and malignant.


Herz Der Niemand 


Deathrock shows itself with light footprints, on vocals that explode with magnets stuck in the fog. An almost hidden electronic inlay presents itself in this track, which ultimately turns out to be the most elaborate and mysterious song on the album.


Ruinas


Hell is dressed for a moment of sweetness, almost shoegaze, with the guitar cradling the dream of being a black caress for a few minutes.


Nacidas del Fuego


Pins of moss-filled caves, the gothic belly pulses bloody liquids for a track that creates a tense, soft, hypnotic atmosphere.


Cotard 


Surprising and astounding, all the duo's imaginative talent sows its seeds in a breath that touches the corals of poetry.


El Ansia


Between Xmal Deutschland and Esses, Diavol Strâin launches into an anxious dance, grating all the Darkwave scenery that looks towards Deathrock with religious devotion. The bass and guitar seem at times to take turns to seduce the satanically laughing ghost.


Ylak 


Queen of clouds filled with pathos, the song declares all the creative possibilities of the Chilean band. A gentle howl, the guitar scratching respectfully and the vocals seducing like honey does with a bear's nails.


Inferno


After a beginning that leaves seeds of The Banshees, here is the jerk and the rush in the Los Angeles that welcomes anyone with the need for deathrock urges in their veins. 


Uroboros


Everything comes to a close in the best way: still something new, amazing, with echoes of Hannett's work with Joy Division. Something shatters while keyboards take the stage for a magnetic track, full of continuous loops. A stratified song, with cleverly connected zones that convey pleasant connections to Anja Huwe's band and the dark Germany of the 80s. Vocals disappear and an enveloping and sensual atmosphere sings.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

10th July 2022


https://open.spotify.com/album/2izATdFOO5hG5deyCyUt4a?si=ossBb4YlSSuxHIKl9fDyug










La mia Recensione: Diavol Strâin * Elegía del Olvido - Elegía del Horror

 La mia Recensione:


Diavol Strâin * Elegía del Olvido - Elegía del Horror


La città cilena affacciata sul porto ha incantato gli italiani così tanto che l’hanno denominata Valle del Paradiso: dove c’è una conquista esiste sempre una gentilezza stupida. Che poi quei luoghi siano incantevoli non lo si può negare, ma lasciamo che siano i cittadini a deciderne il nome. È da qui che parto: dal nome, l’inizio di una vita con tanto del suo destino già determinato sin da subito. 


Qui stiamo parlando della bellezza cupa, quella che non nega le altissime capacità espressive di un combo votato allo splendore dentro una grotta dove vivono misteri e faccende legate tra di loro.


Le due corsare gotiche creano un lavoro più complesso rispetto al precedente Todi El Caos Abita Aquí, confezionando una scatola magnetica colma di innovazioni e contaminazioni: si sorprendono e fanno diventare tutto questo una nostra conquista.

L’energia esce da garage pieni di simboli e polvere sacra, benedetta dal Dio del dolore, per conferire al suono cupo una forza notevole. Energia e melodia diventano una necessità che spiega vicende capaci di produrre brividi e constatazioni amare ma sagge. Il suono del basso è ovattato, gravido di destini molecolari capaci di produrre potenza e suggestioni.  La chitarra è un covo di zanzare laboriose, intenso, con la propensione ad essere avvolgente, guardando al cielo e ai cumuli di macerie del mondo. 

Canzoni compatte, con impronte di virus mentali fuori controllo, con le stigmate Deathrock che non si fanno imprigionare e sanno visitare la gamma di possibilità di cui abbisognano. Intelligenti, dalla propensione innata a espandere il loro sentire, sono Sacerdotesse del mistero umano che eleva alla massima potenza il sacro tempio della fragilità dei luoghi, di storie apparentemente senza gioia: reali, concrete, possiamo solo benedire la loro attitudine a scovare gli amplessi della fragilità. Sogni eterei per le nostre orecchie da convertire in file preziosi per i nostri ragionamenti: ogni canzone di questo album definisce una perdita da cui apprendere la realtà.

Con queste gemme si vive l’esperienza di una minaccia sonora aggraziata da musiche che consentono inchini e preghiere, come lunghe giornate sui libri della storia del mondo. Sul sipario luci imbalsamate dal nero più seducente contemplano idee di aggregazione con lampi grigi, come cristalli corrotti da una necessaria e splendida giostra di complicità. Uno sfociare continuo in lande combattive, con passi decisi, dove nulla è malfermo ma dove il sogno a volte conduce ad atmosfere stratificate e corrotte dalla bellezza del loro sentire in espansione continua.

Si rimane impressionati da tracce che sanno rivelare una dinamica propensione alla malvagità non violenta ma educatamente rude, giusto  il necessario, in giochi altalenanti di semi austeri e poliedrici. Sono chicchi di grano attraenti, smarriti per la loro stessa bellezza, maestri di versatilità e candore. Con la capacità di un suono derivativo dal Post-Punk e dalla zona californiana del Deathrock, la band scrive canzoni per dare alle voci la possibilità di essere fiamme di gas letali, dalle ridondanze gotiche degli anni 80, evidenti, ma edulcorate.

Un mare viscerale e magmatico, percorsi sonori che rendono precisa la bellezza, una poesia sulla pelle divenuta ripida da vicende umane pregne di incandescenze multiple. C’è la vita delle anime sbandate ma non per questo prive di senso: i polmoni, all’ascolto di queste rapine mentali, si contorcono sognanti, con sorrisi dai coriandoli neri, per un processo catartico con il tappo leggero in superficie. Si è costretti a una sofferenza piacevole, si intuisce e poi si capisce che le due sono incantatrici di riti che espletano un percorso analitico di grande fattura, ci si ciba di briciole di felicità otturate.

Alla mortalità si applaude, la disperazione e l’ansia sono compagne di respiri obbligatorie e loro sanno convivere, dando l’impressione che la notte spenga la paura che viene invitata ad emergere. Sono canzoni siderurgiche, lamiere fragili che hanno fantasmi che le proteggono, per divenire riti di  danze nevrotiche perfette.

Si vive in una necropoli più che mai confusa, in un collasso della felicità non più necessaria: tutto questo non rende però l’album una esclusiva delle anime nere perché concede accesso a tutte quelle desiderose di indagare sui flussi irregolari della difficoltà, del mondo in costante abbandono della capacità di creare serenità. L’ascolto dovrebbe essere imposto per legge: camici neri da indossare, univoci, per decretare sapientemente la realtà di esistenze ormai prossime alla caduta delle speranze.

Si esce dalle tombe non come zombie ma come essere viventi che riprovano a vivere diversamente constatando l’inevitabile ripetersi di errori da cui siamo soggiogati. Diavol Strâin è fiamma reale, una matassa di nervi spastici necessari per la coscienza che prova l’inganno ma che con loro fallisce.

Sono streghe con le mani velenose, rapide, lente, succulente, coniugate alla loro scrittura geroglifica, tempeste emotive che travolgono per separare la nebbia dai finti raggi che invadono le strade. Il Cile qui trova apostole precise nel volere la loro autonomia espressiva, dove l’eleganza si sposa alla rabbia dai sorrisi storti, decadenti, sublimi.

Sono gangsters dagli abiti neri, antichi, brancolanti, ma non scevri di coscienze che smuovono gli arti della mente, come peristalsi violentemente sospesa: ascoltare questo fascio di tenebra significa divenire consapevoli del traffico di dolore che si sparge nelle corde del loro cuore.

Sono vampire affacciate sulla luna, anime roventi che penetrano con un album che grattugia il vento e spazza via le confusioni: metodiche, precise, alienanti, abbondanti nei loro mantra sonori, regine del regno della insoddisfazione, fanno in modo che le loro canzoni siano pagnotte di pane senza mollica. Il gusto è amaro, come certi sogni, che aprono il cielo funesto della zona notturna in cerca di pace, trovando invece dannazione.


Ci sono scorie Darkwave che stanno nelle dita delle due musiciste: Ignacia e Lau non sembrano impaurite nel circondare il loro carico emotivo con schiume aggrappate a quel genere musicale che ha saputo arrivare anche in quella terra generosa nell’accoglienza. E allora eccole immergersi verso confini che sanno esaltare e meglio specificare una innegabile duttilità, quell’apertura concessa solo a chi fa della conoscenza un punto di partenza e non di arrivo. 

Guerriere degli enigmi, in un mondo colmo di notizie ma non di informazione, queste turbolenze accoppiate sanno generare domande, offrire dubbi, con malinconica propensione, sino a farci piangere bolle di disperazione, comprensibile. Una band selvaggia che parte da Edgar Alan Poe, per via di una scrittura che affronta il terrore dell’esistenza con chilometri di incubi messi in fila, di un orrore che diventa linfa letteraria, sino a incontrare la religiosa appartenenza della propria identità, annettendo insicurezze che veicolano impeti propedeutici. Ci si può arrendere alle difficoltà, ma con questa band si impara ad amarle, rifiutando i piagnistei per darsi una scrollata e iniziare il percorso dentro le tenebre.

Sembrano lanciare pietre acide, pesanti, per poi ritirarsi dentro la loro intimità, senza indugi. Brani magici, quasi ingenui, molto potenti, che vivono nella periferia dei nostri sogni con la marea, quando l’acqua sembra congedare i polmoni. Di loro ci si può fidare. Perché sono necessarie, compagne di solitudini che migliorano i nostri respiri. Mettono l’eye-liner ai nostri flussi privi di energie per rincuorarci, come un apparente inganno. Scavando in questi quarantasette minuti abbiamo però la certezza della loro autenticità. Che diventa l’altare dove posare la nostra mediocrità e consegnare loro un papiro di antiche velleità, bruciandole innanzi ai loro occhi, con devozione.

Spesso le chitarre sono degli strilli che si muovono con giri di note di basso (figlie degli spiriti dell’Araucania), per danzare piene di sollecitazioni irreprensibili verso il luogo della perdizione. Come una collina dei peccati in cerca di perdono, i brani sono spesso schegge che fuggono dalla speranza, come rivali delle sciocchezze, per respirare ogni realtà come prova di capacità che trovano l’applauso del sacro fuoco del sole.

Gli arpeggi distorti creano metafore, lampade di vento obliquo, il basso invece melodie gravi e oscure, pulsanti di ossigeno malato: incandescenze necessarie per capire cosa siamo nei giorni dell’inganno.

Musica come whiskey di qualità, a stordire, inebriare, corrompere ogni tentazione. Musica che sgombra il passato da ogni equivoco: c’è anche del nuovo che vive nei respiri di canzoni senza tempo, valide per l’eternità. È fluido ipnotico che sa riempire le borracce del nostro bisogno gotico, come una cascata effervescente di salutare bramosia.

Direi che è venuto il momento, per  meglio intendere questo album pieno di alghe e acuti voli di coscienza, di una completa scorribanda tra le sue tracce, armandoci di apertura mentale e di un rossetto nero tra le mani…


Song by Song 


Caida Libre


Tenebrosa, veloce, un attacco al cuore con la sua limpida connessione tra Darkwave e Post-punk che si baciano nella corsa di un lampo.


Destino Destrucción


Con un approccio stilistico che ricorda molte band della scena di Oakland, il brano vive dell’esplosiva connessione tra il basso distorto e la chitarra piena di nebbia gotica.


Lilith


Mostra tutta l’abilità del duo di rendere magnetica la loro musica: il ritmo diminuisce e aumentano le suggestioni, lenta ascesa al cielo con un volo malinconico.


El Reflejo de Mi Muerte


La drum machine sincopata, il basso che preme sulla pancia e poi via: le chitarre portano tutta la tristezza e la vitalità della consapevolezza, con la voce magnificamente capace di essere isterica e maligna.


Herz Der Niemand 


Il Deathrock si mostra con impronte leggere, sulla voce che esplode di magneti conficcati nella nebbia. Un intarsio elettronico quasi nascosto si presenta, in questa che alla fine risulta essere la canzone più elaborata e misteriosa dell’album.


Ruinas


L’inferno si veste per un attimo di dolcezza, quasi Shoegaze, con la chitarra che culla il sogno di essere per pochi minuti una carezza nera.


Nacidas del Fuego


Spilli di grotte piene di muschio, il ventre gotico pulsa liquidi sanguinolenti per un brano che crea un’atmosfera tesa, morbida, ipnotica.


Cotard 


Sorprendente e stupefacente, tutto il talento fantasioso del duo getta i propri semi in un fiato che sfiora i coralli della poesia.


El Ansia


Tra Xmal Deutschland ed Esses, Diavol Strâin si lancia in una danza ansiosa, grattugiando tutto lo scenario Darkwave che si affaccia sul Deathrock con religiosa devozione. Il basso e la chitarra sembrano a volte alternarsi per sedurre il fantasma che ride mefistofelicamente.


Ylak 


Regina delle nuvole dense di pathos, la canzone dichiara tutte le possibilità creative della band cilena. Un ululato gentile, la chitarra che graffia rispettosamente e le voci che seducono come il miele fa con le unghie dell’orso.


Inferno


Dopo un inizio che lascia semi di Banshees, ecco lo scatto e la corsa nella Los Angeles che accoglie chiunque abbia nelle proprie vene la necessità di pulsioni Deathrock. 


Uroboros


Tutto approda verso il congedo nel modo migliore: ancora qualcosa di nuovo, stupefacente, con echi del lavoro di Hannett con i Joy Division. Qualcosa si frantuma mentre la tastiera prende il palcoscenico per un brano magnetico, pieno di loop continui. Canzone stratificata, con zone sapientemente collegate che regalano piacevoli connessioni con la band di Anja Huwe e la Germania scura degli anni 80. Le voci spariscono e a cantare è un’atmosfera avvolgente e sensuale.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

10 Luglio 2022












martedì 5 luglio 2022

La mia Recensione: S.M.S. - Da qui a domani

 La mia Recensione:


S.M.S. - Da qui a domani


Ci sono distanze che si subiscono, che si creano, per necessità, per volontà, per un’attitudine spesso ingovernabile. Vi è chi le coglie, spesso guardando il tutto da un albero, osservando la caduta di foglie perplesse e stanche, mettendo all’erta i propri sensi. 

Monica Matticoli, una piuma Molisana che con la sua sensibilità vive le approssimazioni di questo mondo, ha raccolto le sue grazie mettendole su fogli gravidi di precise e acute osservazioni, permettendo a Miro Sassolini di divenire una voce che vola dentro le nostre disattenzioni.

I due artisti hanno preso le distanze e le hanno infagottate, cucite nei loro respiri e portate su scintille dolci di suoni elettronici e sensuali.

Quello che si ascolta è una coperta che avvolge il silenzio, per bluffare le paure e i vuoti.

Con le mani sapienti di Cristiano Santini e Federico Bologna, i quattro incantatori fatati hanno scritto sul cielo melodie e parole fradicie di bellezza, generando stupore nel cuore dello scriba, dove la fragilità del genere umano diventa un luogo di lavoro, una risorsa, un arcobaleno poetico su cui poter ancora scommettere sulle possibilità di un tempo favorevole. La parola, attraverso Monica, diventa gazzella leggera e la voce baritonale di Miro incredibilmente non fa abbassare la quota su cui vive. È il primo miracolo di un disco sorprendente. Una stanza che esce lenta di casa per visitare il vulcano del mondo: non c’è affanno, tensione o tristezza tra queste pareti, bensì un senso di tranquillità che sa come opporsi al tutto e sa porgere la propria guancia sulla quale sono dipinte scie di saggezza, stancando il buio. Miro protegge, incanta, traduce con maestria il cammino vorticoso di Monica, in una unione artistica che consente a Federico Bologna di far spaziare le sue linee melodiche dentro un palcoscenico fatto di suoni equilibrati, con l’abilità di tastiere e sintetizzatori come seducenti ancore sulle quali trovare un equilibrio.

Dal canto suo Cristiano Santini è un mago nel dare alle canzoni la forza e l’identità di essere parte di una vera e propria band, abile nella sua sottile presenza per compattare questo flusso di luce che rende le composizioni moderne senza rinunciare a evocare un tempo che sembra ormai troppo lontano. Si sente che l’esperienza con i Disciplinatha gli ha donato l’intuito di avere la mano leggera, di sapersi coniugare con Federico per un combo in grado di fluttuare con eleganza tra note leggere.

Dodici sogni, dodici albe, dodici segreti a portata di ascolto, dodici bussole del cuore per poterci dare una direzione nella quale raggiungere il sentiero del conforto.

Quanto splendore in tutto ciò che si può constatare: i quattro non cercano il brano pop, la forma canzone né provano di planare nell’apparato di ascolto con ruffiane manovre per strappare l’applauso. Non si concedono alla banalità e la loro sostanza è un vocabolario moderno, capace di perlustrare movimenti nuovi, per spegnere l’impeto di ritornelli scontati. Si discostano. Trovano l’autenticità che spavalda li sostiene, diventando corsari in delicato assalto, portando sogni e fantasie molto più che consolatorie: ci sono idee da scoprire, da interiorizzare. 

L’infinito dello spazio accoglie i quattro, li abbraccia e tutti insieme sembrano essere un romanzo ottocentesco, dove le nostre orecchie diventano occhi per leggere queste pagine, per vagare e trovare segni precisi dove indirizzare le proprie necessità.

La sensualità dei testi di Monica si bagna di umida propensione verso immagini libere di sorvolare i confini del mondo e della mente. E la voce di Miro magicamente smista i flussi percettivi della poetessa verso la coda di arcobaleni applaudenti.

Le riflessioni, le propensioni verso la captazione di Monica rendono evidente la sua connessione con il reale, il moderno che lei tende a volere esente dalla stupidità. Tutto, conseguentemente, si fa serio e preciso, in un viaggio in cui Miro semina forza, magnetismo e una inossidabile propensione a scavare le parole. I due musicisti sono i comandanti supremi di forme espressive che permettono una rotta che conduce al raggiungimento della vita notturna delle comete, visitando l’universo come necessità vitale.

L’amore nell’album è una distanza, un palo della luce che vorrebbe muoversi, che trova comunque nell’attesa una forma, un motivo, un senso attraverso i respiri della scrittura che Monica sa vestire di luce mentre Miro li salda per l’eternità, con il tempo che si astiene dal giudicare e mostra, altresì, la sua collaborazione per rendere tutto meno complicato. Sono canzoni che non abbisognano di scintille di ritmo, di fare piroette artistiche per poter arrivare al cuore: hanno nel loro nucleo la potenza minimalista che sa conquistare senza artefici, curandosi dei messaggi e privandosi, felicemente, di sovrastrutture. Non sono nate per essere uno spettacolo del circo pop, ma piuttosto pillole di saggezza musicali per condurre alla salvezza.

Fa estremamente piacere vedere associata la figura di Miro agli altri tre artisti: più libero, più vero, più a suo agio con la musicalità della sua voce, riesce a penetrare l’anima con il suo tono potente ma alleato alla dolcezza, allineato perfettamente alle vibrazioni che il suo passato non sempre gli ha concesso. Sa diventare ipnotico, sinuoso come un’onda del cielo che nuota nel suo petto, architetto e muratore di una casa melodica che lo rende snello, anche pungente, meno sacro ma più crepuscolare e in questo aspetto le musiche sono alleate perfette. 

Notevole è pensare che questi flussi musicali sanno essere magnetici perché passano attraverso le parole come fossero loro stessi vocaboli, in un incrocio che lascia in dotazione una morbidezza totale che trasporta il tutto lontano da una dimensione già nota. Le dosi di novità e di amalgama col già sentito elettrizza l’ascolto, come brina autunnale su montagne che attendono il vento e la neve. Tutto sembra sospeso, come una poesia di Ungaretti, con la sensazione che chi ascolta legga il presente dentro una matrioska smussata da una elettronica che la riveste di luce sinuosa. Vince la sensazione di un ripostiglio all’interno di una grotta dove la musica ha trovato la sua temperatura ideale: non più l’elettronica come forma gelida di espressione, bensì un vestito di cotone miscelato alla lana. 

Se deve essere Pop allora è di alta montagna: si muovono agili gli echi di David Sylvian, Brian Eno, Mark Hollis, Massive Attack, e l’idea che Miro sia stato affascinato come Ferretti da sonorità distanti dal Postpunk, guardando dentro il vascello del Nord dove la linfa è ancora abbastanza vergine.

La clessidra lascia passare la sensazione di una sabbia lenta nei versi di Monica che, essendo alleata della calma, veste deliziosamente trame che, erette e fiere, si muovono dentro pennellate che sgombrano il nero per svelare segreti sussurrati. 

L’ascolto migliore nasce dalla predisposizione a guardare le fotografie del booklet e sognare di incastri di mare e di cielo infinito. Perché poi si arriverà proprio lì, grazie ai flussi lucenti di Cristiano e Federico, i custodi di questa meraviglia che conquista ascolto dopo ascolto, sino a diventare occhi sordi per orecchie sognanti.

Ora possiamo entrare dentro questi dodici luccichii per trovare compatta la gioia di un tuffo nel cielo della poesia.



Song by Song



Sul limite


L’album incomincia con una suggestione strumentale che sembra condurre al Digiridoo, anche se non lo è. Ma da qui, da questa tribale danza addomesticata che Monica Matticoli ci porta fiori di forme e distanze che il canto di Miro specifica su una tavolozza elettronica baciata dalla dolcezza del pianoforte.



Leonard 


Il silenzio e il tempo entrano dentro un vetro, il drumming ci fa danzare mentre dovremmo andare via. Monica scrive parole come unghie che accarezzano la saggezza, con Cristiano e Federico a lasciare a un minimalismo elettronico l’indispensabile che seduce.



In quiete


Onde di world music e sinfonia mediterranea sembrano coniugarsi a un trip-hop atipico, come un salto nello sconfinamento di generi musicali, per dare al cantato di Miro la possibilità di essere libellula che alza e abbassa il registro della  voce con grande maestria. 



Disvelo


È un miracolo che abita le zone di Garbo, per ipotetica similitudine, ma riservandosi il diritto di esaltare un testo amoroso come se ne scrivono pochi: la poesia trova la voce in parole vere e piene di rugiada. E la notte vola sulla tastiera che seduce quasi come se fosse anch’essa muta.



Rimane addosso la veste lacerata del risveglio


Uno dei titoli di canzoni più bello di sempre genera un capolavoro di morbidezza e un groppo in gola ci fa risvegliare emozioni limpide, veloci, su una chitarra che sussurra alla tastiera che farà del suo meglio per sembrare quasi muta. La musica è un loop che strega, la voce di Miro, che viene raddoppiata, per meglio conquistare la sorte di un brano che rimane addosso tutta la notte, diventa un abbandono di luce. 



Semel heres 


Ipnotica, quasi Ferrettiana nel canto, magnifico esempio di teatralità sonora con la parte finale affidata a un pianto dal sapore tetro.



Idea dell’alba 


Spettacolare esibizione di classe da parte di tutti e quattro i pittori di fiabe: brano che vede una parte cantata breve ma suggestiva e poi una  strumentale che visita l’alba e mostra gli odori di un giorno che attende di trovare energia. Un fine lavoro di elettronica che ammalia e suggestiona consegna un pathos notevole.


A nudo


Su un testo intimo, sensuale, potente, David Sylvian sembra visitare i quattro con una base musicale magica invitando gli angeli a benedire la voce di Miro, con una modalità di canto sorprendente, calato perfettamente nel perimetro di parole che sono  dentro il contatto più crudo, in attesa della forza della resa…



Petit mort


La dolcezza che veste la malinconia, un piano sonoro che ricorda i Madreblu come capacità di fare delle note un fine trattato di melodia affidato ad una veste elettronica ermetica e calorosa, armoniosa e seduttiva.



Da vetro allo specchio


Sospeso, sognante, essenziale, brano capace nella sua limitata espansione di trasmettere la sensazione di viaggio nel tempo, passando attraverso uno specchio che conta le rughe.



Mai troppo chiuso il tempo


Monica Matticoli rivela ancora una volta una penna spaventosamente capace di intimità e profondità, un microscopio di vicinanza alla realtà di ogni molecola di verità. E su queste parole la musica è un formicolio elettronico di bagliori sul quale la voce di Sassolini trova una dimensione di grande commozione, sottile e delicata, quasi vicina al cielo, volante e sognante.



Oltremodo 


Si chiude questo viaggio tra le albe del mondo con un brano quasi orchestrale elettronico da una parte, quasi ambient House dall’altra, per conferire al tutto una verace sensazione di essere una fionda che sa colpire il Tempo, delicatamente.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

5 Luglio 2022


https://open.spotify.com/album/2LDu7tRMjFPNSqaKecJsom?si=iPvZCwb0SMikwLYy22mS6g








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