Death in June - Nada!
C’erano un tempo, che sembra lontanissimo, piccole botteghe dove l’aspetto del lavoro artigianale, oltre a connettere caratteristiche romantiche e uniche, constava di passione e specificità che non facevano parte della metodologia industriale.
In una di queste un numero ristretto di esseri umani dall’impeto ribelle e dissacratorio escogitavano teorie esistenziali e suoni molteplici, legati comunque a sonorità post-punk. Il loro breve percorso bastò per incendiare menti esigenti e affamate di oblique propensioni contenenti pillole di cattiverie camuffate ad arte. Un progetto che rapidamente prese una direzione diversa, essendosi affidato alla geniale creatività di sole due anime: Douglas Pearce e Patrick Leagas, due fiaccole di creatività dal DNA davvero distante, ma capaci con il loro effettivo secondo album di tracciare semi che da una parte germoglieranno nella creatura del solitario Douglas e dall’altra vedranno Patrick ideare e formare i Sixth Comm.
Ecco allora una freschezza contagiosa che si dirama per volontà, possibilità, capacità di creare una piramide sghemba ma assolutamente in grado di suscitare furori passionali di gemme ancora splendenti in un oggi dove la solitudine, la disperazione, la distruzione rappresentano maggiormente il segno di una attualità soffocante.
Il lavoro è un insieme di masse nichiliste moventi, un arcipelago di follie tenute ferme con lo scotch e l’intenzione di fissare poliedriche onde di depressione dalla matrice nostalgica.
Le personalità dei due sembrano creare un lavoro diviso, dove ognuno dipinge la propria propensione con caratteristiche distanti ma che possono amalgamarsi magicamente all’ascolto, come un unicum siderale e potente. Lacerazioni continue che fanno rimbalzare le emotività distribuendole nei vari meandri Darkwave e Industrial con l’avanguardia che riassume il tutto mediante la propria volontà di scatenare gli animi in un incendio emotivo impressionante.
Album davvero seminale, capace di espandere flussi di magnetica propensione alla miscela di icone, di movimenti dove i paradossi vengono anestetizzati, e nel quale tutto converge verso un amalgama che compatta la fine degli anni ’70 alla prima parte degli ’80, in un collage dove progettualità, ispirazione e dinamismo sonoro sono stati capaci di far conoscere una modalità diversa di fare musica. Grazie anche alla supervisione di David Tibet, questo smeraldo dal color tenebra riesce a vivere di trasformazioni continue, un crocevia dove trova posto la techno pop dance assemblata con scintille minime di post-punk, con l’affacciarsi di quel neo-folk che dall’album successivo sarà sempre più presente. I testi vivono di picchi assoluti ma anche di qualche banalità: quest’ultime spariranno definitivamente dal prossimo lavoro. La matrice industrial mostra timidamente le sue pulsioni e tutto ciò è dovuto a Patrick, l’unico davvero desideroso di inserirlo in questo episodio che è comunque capace di un range stilistico impressionante.
I due però sono stati in grado di essere manovratori calibrati di magie e tragedie, di cavalcate apocalittiche, di saper affascinare per questo calvario musicale nel tempo della dispersione dei valori umani, contribuendo a suggerire riflessioni e studi che, partendo dalla storia fatta di eccessi, ha trovato equilibrio in claustrofobici dettagli.
Con la loro musica si è inscatolati tra tripudi emotivi e pensieri che stremano, con la fatica che diventa una preziosa alleata per tenere allenate le tensioni: con Nada! siamo nel ventaglio che diventa il dettaglio dei loro forzieri, in una palestra dove allenare la nostra flessibilità per poter accettare l’ampiezza di proposte intense e folgoranti.
Tutto sembra estetismo, gloriosa e manifesta intenzione di far echeggiare la potenza del fallimento umano, con la violenza e l’operazione a farci sentire in una cella nel giardino delle torture future. Come se l’ossigeno non fosse l’elemento più indispensabile delle nostre esistenze, i due sono stati capaci di buttarci dentro tonnellate di vapori acquei, annebbiando la nostra positività e propensione alla serenità. Dieci sono i riflessi di questo diamante ondivago e sfuggente, che ci fanno galleggiare tra l’oceano e la tenebra invocata con sollecitudine e potenza.
Sono pazzie cucite sulla pelle queste canzoni, una lampada a petrolio di infinita bellezza, con una forza tellurica notevole atta a sconquassare sistemi di appassita qualità del vivere, in una frustata di effervescente propensione all’urto sensoriale: i due sono stati intensi e pieni di carburanti più che mai tossici, per poter far impallidire le nostre stanche inquietudini.
Nada! è la nuda e cruda allergia a ciò che è noto, risaputo e stanco, un calcio alle caviglie che sa rendere tiepide le nostre doloranti lamentele.
Se la disgregazione può essere la terra di una rinascita compiuta ed efficace, ecco che questo lavoro diventa il viatico di speranze di nero vestite per allarmare la nostra bocca con gusti incatramati e acidi, ma dopo la digestione di questi diamanti un senso di eterna purezza saprà rendere più sereno il nostro vagare.
Il piano visionario del progetto esercita dipendenza, in una cascata di elementi che sembrano legati ad una disciplina dalla gestazione complessa ma redditizia, facendo tremare il cuore, con stati di agitazione appiccicati ai gangli della base come i genitori di una malattia degenerativa che conduce al sorriso macabro e succulento. Si possono trarre deduzioni e conclusioni, ma queste composizioni sanno come indurci all’insicurezza e a ogni ascolto tutto sembra franare, mentre una sensazione di sudditanza psicologica ci scarta e strappa la mente per condurci dentro una dipendenza carnale e non salvifica: sono peccati mortali a cui noi possiamo solo arrenderci con illuminata convinzione.
Stazionare in questa palude dalle scintille atomiche ci riporta alla sensazione di una guerra che drappeggia i sensi di antichi sogni quasi malefici e dissacratori, nel contesto di un freddo interiore che brucia i pensieri: Nada! scavalca la comprensione e come una deflagrazione interrotta ci riduce a brandelli sparsi nel potere magico di una follia oncologica.
Sono mari di introspezione visiva e letterale quelli che sgorgano dalla penna di Douglas: la bassezza e il declino del mondo qui hanno ancora una maschera, che verrà tolta e sostituita nel giro di poco tempo. Intanto apprendiamo come la musica, soprattutto dove è Patrick al timone, abbia molto spazio e questo conduce il combo a trovare bilanciamenti che, quando è Douglas a scrivere, propendono verso parole più copiose e pregne di luce soffocante e tetra. Non siamo a livelli di dualità o di una separazione forzata in casa, bensì nel territorio dove intelligenze, propensioni e sensibilità diverse sono il perimetro in cui estrarre dalla melma il materiale che dai due, conviene specificarlo, è bene amalgamato. Si è comunque all’interno di specchi che invece di riflettere le altrui capacità gettano ombre che si amano in ogni caso, senza difficoltà. Spruzzate di psichedelia dal mantello affettato di graffi e grumi sanguigni conferiscono al progetto un’aura quasi biblica, con leggero rimando al periodo più nebuloso di quella corrente musicale, sponda Londinese.
Concludendo: un esempio di come certe unicità abbiano solo apparentemente vita breve, possedendo invece, tra le pieghe del mistero, tutta la motivazione e la capacità di trasferirsi nel futuro per vivere la maestosità dell’eternità.
Song by Song
The Honour of Silence
Semi di neo-folk creano l’avamposto e il cielo diventa una lampada scossa dai tamburi, gli arrangiamenti da film western trovano residenza in una tromba che sublima il senso apocalittico di una vicenda che vuole onorare il silenzio. Le fondamenta del futuro di Douglas Pierce sono rese evidenti in questo brano, che suona tra il sepolcro e la volta celeste.
The Calling (Mk II)
Patrick canta sul brano dalla più evidente propensione elettronica dell’album, in modalità Evocazione accesa: qualcosa di sacro si impasta con le sonorità provenienti dalla Germania per un risultato di cupa bellezza, su innesti industrial che contemplano una chitarra acustica, mentre la danza ci rende ingobbiti.
Leper Lord
Douglas diviene un arciere medievale, capace di melodie vocali vibranti, baritonali con propensione a salire verso la volta celeste. Sono gli angeli che lo invocano in questo breve brano che spalanca la notte per udire le creature piangere.
Rain of Despair
È una convulsa e quasi techno danza a farci vibrare sulle rive ipnotiche del canto, cantilena che causa dipendenza e trasporto, per farci notare come il loop di Fields sia stato scarnificato all’insegna di una magnetica espressione industrial.
Foretold
In una stanza, dove un’introduzione quasi in odore di funzione religiosa dipinge le pareti di cupezza, echi di Kraftwerk provano l’approccio ma poi la via percorsa è quella della fuga e dello spostamento verso un cabaret dalle unghie nere, con la voce di Douglas che sembra invocare intensamente divinità dai volti osceni. Brano dall’inclinazione ebm rallentata, fenomenale ed evocativa.
Behind the Rose (Fields of Rape)
Funghi allucinogeni approcciano il folk contaminando gli umori e le movenze: altro brano simbolo dell’enfasi del nuovo sacerdote delle terre perdute, dove il tempo è un vuoto in cui perdere ogni coscienza. Gli arrangiamenti sono l’esempio di accurate perlustrazioni verso un’estetica antica, con le voci tenute leggermente a bagno nell’eco e nel riverbero.
She Said Destroy
Fulmini, ancora, per entrare nell’oscurità con una melodia scarna ma efficace, dove ogni ritrosia collassa davanti a questo nuovo diamante pieno di decadenza e furore ammaestrato, per condurci al tempio dove si contemplano fiori essiccati e la bellezza dell’assenza della luce. E anche su questo brano migliaia di nuovi discepoli metteranno le mani per estrapolarne i segreti.
Carousel
Ecco il tappeto del mistero che viaggia tra dosi generose di groove elettronici dal ghigno ipnotico e la polvere settecentesca tirata fuori da una nuvola addormentata, appoggiata alla chitarra e a trombe evocative. Il cantato sembra essere uscito da un Marc Almond innamorato e incantato dalla sequenza di bugie e peccati.
C’est Un Rêve
Stridori, graffi e scintille di lacrime, unite al vociare caotico di ansie abbondanti sono il preludio di questo cuore nero evocato e trovato: la claustrofobica danza che ne consegue è un bouquet di follie severe e ordinate per dare in compattezza la sensazione di una doverosa prigionia sensoriale.
Crush My Love
Si conclude l’ascolto del diamante a dieci facce con l’incantevole Crush My Love, paranoica esibizione di confusione dei raggi lunari in cerca del sonno definitivo. Tra la Francia ipnotizzata degli anni ’60 ai vapori dei Can, con spruzzate psichedeliche ammalianti, la canzone rende evidente l’ampiezza dell’antenna del pianeta Death in June che trasmette frequenze colme di suggestioni e brividi congelati.
Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
1 Settembre 2022
https://www.youtube.com/watch?v=RwtE_PJB4rI&t=18s