Visualizzazione post con etichetta Inghilterra. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Inghilterra. Mostra tutti i post

sabato 2 dicembre 2023

La mia Recensione: The Slow Readers Club with Joe Duddell & No. 7 Ensemble - Live at Canvas Manchester / 1-12-2023





The Slow Readers Club with Joe Duddell & No. 7 Ensemble
Live at Canvas
Manchester


Una bolla può riempirsi di emozioni volute, improvvise, e poi anche sospendere il respiro, vagabondare nello stupore? Se partecipi all’evento musicale dell’anno certamente sì, ed è esattamente ciò che è accaduto nell’elegante Canvas di Manchester, dove sul palco si è assistito a un miracolo generoso: l’unione di modalità, ruoli e approcci diversi alla musica, per un risultato che fa, questa volta, dello shock un beneficio multiplo. L’ipnosi ha toccato le spalle di ognuno dei partecipanti, tranne che di quelle poche persone che hanno preferito chiacchierare, pagando, finendo per disturbare pure Aaron. Ma è innegabile che il risultato sia penetrato negli animi sensibili e votati all’attenzione. Le canzoni scelte dai fan ed elaborate da Joe Duddell in pochissimo tempo hanno modificato l’interpretazione nei confronti di quelle originali: tutto si è trasferito su un altro piano emotivo e sensoriale, con la piacevole sensazione di una nascita notturna dentro i cuori. Struggevolezza, malinconia, tristezza, che sono spesso l’habitat naturale di queste composizioni, hanno spiccato il volo fasciate da un foulard di lino, per poter arrivare, indenni, all’interno dei raggi lunari. Pazzia, tremore, tensione ma mai senso di perdita hanno governato i sedici flussi pieni di magia per ritrovarsi in un’entrata diversa: una catapulta infinita di brividi ha stabilito che questa esperienza potesse creare con la memoria uno strumento infinito colmo di forza e vitalità. I cambiamenti, i ritocchi, la verve di un direttore davvero capace di intuire prima e di portare poi il tutto in uno status intoccabile fa di questa serata la rappresentazione di unioni che sono parti naturali, e di cui si può solo sperare in una continua proliferazione. 

Gli archi, come già avvenne nel 2017, spingono sia verso l’addome che verso la volta celeste consapevolezze nuove, diramando nei sentieri dei pensieri nuovi luccichii. E si è fragili, avvolti da segreti interpretativi che esaltano l’individualità, mentre a pochi centimetri dalla propria persona altre sembrano essere riempite di scuotimenti simili. Su un piccolo palco undici persone hanno avuto la capacità di avvicinare il pop alla musica classica, di annullare eventuali distanze per esaltare il calore, il colore delle note e sintonizzare la passione all’interno di un circuito visitato densamente, e non per caso. La voce di Aaron, molto più attenta rispetto alla settimana scorsa, ha graffiato, fatto conoscere tumulti, spaccando vene e vertebre grazie a una intensità micidiale: come se si fosse accovacciato nella propria intimità e avesse deciso di lasciarla cadere nel microfono. Accordato ai toni grevi di sette musicisti perennemente in uno stato di grazia, di serietà, e pure di responsabilità, il frontman ha fatto scivolare la sua ugola sul tappeto di vibrazioni talmente appiccicate tra loro da far nascere un unico groppo in gola per tutta la durata del concerto. Il via libera al pianto, allo struggimento è stato semplicemente impressionante e devastante: tutte le parole che conoscevamo già a memoria, e che forse avevamo la presunzione di aver capito, questa sera sono state in grado di insegnarci nuovi elementi, sbattendoci per terra, nel caos, nella gioia, nell’abbraccio tra il bianco e il nero di un cielo stellato all’interno del Canvas. Il drumming questa sera, grazie a lunghe pause, ha messo in mostra un'efficacia notevole, perfetta, esaltando anche il basso, per un insieme che ha reso illuminante l’interpretazione: è stato così per ogni brano suonato insieme. Poi, a un tratto, Aaron è rimasto da solo con l’ensemble, ed è stato come prendersi un pugno caldo nel gelido della notte Mancuniana. La lentezza, la densità, l’energia fosforescente è uscita dagli amplificatori per baciare la nostra inerzia, l’immobilità, per produrre un diverso schianto nelle nostre percezioni. Le catene, quelle menzionate in Know The Day Will Come, sono cadute sulla nostra pelle, come un generoso atto liberatorio: a volte nelle contraddizioni si stabiliscono patti di saggezza infinita…


Nella nuova prigione, le ali della agognata libertà si sono trovate ridimensionate, insegnando, sprigionando l'entusiasmo mentre le lacrime bagnavano il pavimento. Quattro delle sei canzoni, che erano state pubblicate sei anni fa, dopo il primo contatto tra la band e l’ensemble, sono state riproposte ma anch’esse modificate, accarezzate e baciate da una nuova idea, attraverso una “vivacità” espressiva che ha donato loro ancora più l’impressione di una drammaticità in estensione.

Le luci hanno veicolato la rara capacità di connessione con le note: fatto che ha impressionato il Vecchio Scriba, che non ha rinunciato a chiudere gli occhi per volare, con precisione, in uno stato di assorbimento più che mai necessario. Il tempo è sembrato uno speleologo lanciato nel cratere dei brani per mettere in luce frammenti di meraviglia continua, con lo stupore in grado di correre nelle vene senza volontà di fermarsi. Il pubblico, entusiasta e inebetito, ha potuto ancora una volta legittimare il proprio amore e portarlo nello spazio di un ricordo dove poter bussare spesso: serate come queste non capitano spesso.
Un’esperienza che mette in risalto anche la fiducia della band di Manchester nel lasciare che qualcuno, esternamente, metta una lampada nel ventre di questi gioielli: se esiste una perfezione questa va cercata negli altri e i quattro lo hanno ampiamente dimostrato. La lotta, l’abnegazione, il limite e il suo opposto hanno stabilito una pioggia di lacrime e riflessioni che hanno generato paralisi e al contempo una “strana” gioia: parole come messaggi francobollate a note che hanno cambiato d’abito sono riuscite a spalancare il raggio d’azione delle nostre antenne consegnandoci la mappa di nuove verità. I sorrisi non sono mancati: durante l’esecuzione di Grace of God Aaron è caduto nell’esitazione, con il sostegno dell’adorante pubblico, per concludersi in un applauso ritmato che ha veicolato un’emozione incandescente: laddove esiste un errore, esiste anche un supporto…
Everything I Own, Sacred Song, Grace of God, Afterlife e All the Idols sono stati i momenti più spettacolari della serata, con Block Out The Sun a guardarle dall’alto. Ma innegabile è la qualità dell’intero concerto, un ammasso denso e generoso che ha spaziato nella discografia esaltandone ancora di più la bellezza, la forza, l'intensità per rendere preciso il senso di devota appartenenza alla band. Il lavoro di Joe è da premio Nobel per la letteratura emozionale, per aver consegnato ad Aaron lo scettro di angelo indiavolato ma rispettoso, e per aver consentito ai suoi ragazzi di lasciare un incredibile tatuaggio raffigurante l’arte al massimo livello su quel palco: la storia ha una data, una direzione e un incanto che renderà per sempre quelle catene libere di essere sentite come ali dei nostri sogni migliori…

Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
2 Dicembre 2023

mercoledì 15 novembre 2023

La mia Recensione: The Beatles - Now and Then





The Beatles - Now and Then

Esistono magie che non richiedono spiegazioni, disturbi, nessuna gravità ulteriore ad affondare il senso. Vagano, sfiorano, specificano, rimanendo libere di essere intoccabili. Proseguendo nel tempo una corsa instancabile, precisa, diritta, diretta a farle entrare nell’Olimpo, dove la perfezione regna sovrana. Si può discutere quanto volete su tutto, non su questo evento, perché la canzone pubblicata sotto la sigla The Beatles è tale e va proporzionata a un significato globale che sorpassa il tempo in quanto i quattro sono, senza dubbio, la band più influente, e non solo, di sempre. Sono i regnanti terreni di una bellezza riconosciuta già dalla volta celeste. Più che di un ritorno qui si parla di una operazione di assemblaggi, per poter rendere eterna e infinita la necessità di avere continuamente l’esigenza dell’idea che quel serbatoio dal combustibile prezioso non conosca fine. Che sia stata la tecnologia a favorirne l’ascolto poco conta. Davvero. Il brano è una struggente testimonianza di quanto la semplicità sia stata la scintilla di ogni loro produzione, per arrivare a toccare le emozioni più accessibili, forti, in una adunata indiscutibile. Si piange, ci si stringe alla consapevolezza che il testo, nella sua fluidità, garantisce l’accesso alla comprensione. Che poi non piaccia, non sfiori il cuore non ha importanza: esiste in quanto veicolo di incontri, di messaggi da verbalizzare, di sfrenate corse al suo interno. E perché la morte non appartiene agli Dei.


Come spesso accade con i quattro di Liverpool, la musica è ambasciatrice di delicatezza, di una struggente, percepibile inclinazione nei confronti di ciò che reca dolore, con la voce di John Lennon che sembra bucare le nuvole e cadere in un volo lento verso le nostre orecchie che diventano un abbraccio. Ci sono certezze che abbisognano della giusta modalità per essere espresse e in questo gioiello morbido tutto fuoriesce senza attriti, in un vagabondaggio terreno che raccoglie battiti e pensieri, intrisi di preoccupazioni e dubbi grigi, e dell'emblematica verità che la distanza sia da sempre un problema irrisolto. E niente più dell’amore lo certifica. Un testo che affronta, nello specifico, la relazione con il tempo nel campo amoroso, dove tutto può appannare le forze e le convinzioni. Duecentoquarantotto secondi di una clessidra che smuove, agita, spalanca la sua interezza dentro la nostra fragilità, distribuendo, con il suo incedere morbido, all’interno del nostro esercizio mentale, petali che sembrano conoscere l’immortalità: per farlo, basta considerare che l’ascolto potrebbe essere prolungato, senza tentennamenti. Lo stile degli scarafaggi più famosi al mondo è intatto, non pare vero che abbiano attraversato i decenni di assenza riapparendo come se nulla fosse cambiato. Invece… Dicevamo della magia, ed è tutto vero. L’armonia regna sovrana, gli arrangiamenti, minimalisti, e la produzione non esagerata consentono al brano di avere un posto notevole nel loro percorso. In quale periodo la si potrebbe collocare questa canzone? Anni Sessanta? Settanta? Ora? No: non esiste una risposta per via di questa abilità, sempre incredibile, che rende il loro operato artistico in grado di sfuggire al tempo, precedendolo, per sistemarsi, come un fiore su una roccia, nel luogo della perfezione. E poi: riuscire a rendere reale l’impossibile, e farlo nel modo perfetto, poteva accadere solo ai Beatles. La strofa, il ritornello, abbracciati e convincenti, testimoniano come in pochi minuti si possa essere partecipi di un incanto, irresistibile, di cui abbiamo il compito di beneficiare. Compatta e struggente, trasferisce ciò che non era altro che un demo di Lennon sul pianeta Beatles: che sia giusto, sbagliato, ragionevole, poco serve perché quella formazione musicale va oltre la ragionevolezza, per via del fatto che certi appuntamenti sono immancabili, doverosi, e nulla dovrebbe trovare spazio per mettere ciò in discussione. 

Una perfetta Pop Song che rende immaginabile la sua collocazione all’interno di una valle colma di gente all’ascolto, per rendere possibile l’abbraccio con il cielo. Lenta, veloce a toccare una inevitabile dipendenza, la canzone riassume ed espande le capacità di quei quattro fenomeni, dimostrando che, per quanto la tecnologia abbia agevolato questo processo creativo, tutto proviene da una umanità, da una classe infinita, indiscutibile. Che poi sia un testo che affronta la distanza ad avvicinare e riavvicinare le persone dimostra ancora una volta il loro potere assoluto. Non c’è nulla di nostalgico in questo brano, dato lo spessore. Piuttosto, ed è inevitabile, si sprecherà tempo ad accusare i due Beatles in vita di voler approfittare di questa nuova produzione. Ma l’hanno sempre fatto, tutti e quattro insieme, inondando il nostro cuore con quantità e qualità perfettamente connesse. Non è cambiato nulla. Perché una composizione dei Beatles può rendere una giornata qualcosa di speciale: NOW AND THEN…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

16 Novembre 2023

https://www.youtube.com/watch?v=AW55J2zE3N4

lunedì 13 novembre 2023

La mia Recensione: One Little Atlas - Wayfarer

One Little Atlas - Wayfarer

Un foulard sonoro si alza da Manchester per portarla a fare due passi nel cuore della sensibilità maschile, restituendo luce che da troppo tempo latita nella città del centro nord inglese. La delicatezza, gli orizzonti attraversati e la modalità fanno di quest’opera un girasole romantico e ben attrezzato per resistere al logorio. Due gli artefici che, a distanza di dieci anni, tornano per sconvolgere con un trattato incantevole di bellezza, sussurri, frastuoni presi per mano e fatti arrendere. Kevan Hardman (titolare di un timbro stratosferico, roboante e in possesso di una vibrante propensione alla carezza del pentagramma su cui poggia le sue corde vocali) e Dean Jones (mago dell’elettronica e messaggero di complicate trame melodiche rese comprensibili e di conseguenza assolutamente capaci di sequestrare i sensi), sono i principali autori di questo album, coadiuvati, perfettamente, dalla Up North Orchestra e Heather Macleod, Helena Francesca, Rosie Brownhill, Tim Davies e dai cori di Rose Feaver, Lynn Shuttleworth, Siobhan Donnelly e Obie & Kitt.
Con un impeto che si affaccia alla modalità della musica classica, utilizzando però i mezzi moderni dell’elettronica più dolce e rarefatta, i brani fanno emergere con vibrazione continua la certezza che può esistere ai giorni nostri un’espressione artistica che raccoglie i raggi lunari, la pace, la contemplazione e la disciplina nel portare il caos a trasformarsi in una rugiada che rinfresca gli ascolti. Ed ecco che appaiono sussurri e cambiamenti nelle trame che portano il tutto oltre la forma canzone, con dilatazioni e sperimentazioni così simili al progressive, ma senza averne lo stile. Qui si visita la profondità del suono e il suo accorpare girandole lente e caleidoscopiche, nell’arcobaleno musicale che utilizza tutte le note per poter alleggerire il respiro e gli occhi. Con attitudini Post-Rock ma in moderata parata e l’utilizzo di stratagemmi consoni alla New-Age, i due si prendono la responsabilità di essere sussurri e si catapultano nella orchestrazione più sottile, quasi come se non volessero disturbare e intendessero regalarci l’occasione di una esperienza conoscitiva in grado di sottolineare la distanza tra il mondo da loro creato e il nostro. Diventa inevitabile, quindi, un innamoramento profondo e non un colpo di fulmine: nessuna seduzione artificiale per attirare gli stupidi, bensì una profondità che nasce e si sviluppa con la mano maestra della lentezza.
Perlustrano i territori folk con leggiadria, si inoltrano con profondo rispetto nel dream pop (senza scopiazzare, ma presentando notevoli novità), entrano nella tradizione britannica con ottima qualità di rivisitazione, snellendo la matrice ambient che generosamente mostra i suoi confini e le sue diramazioni. L’aspetto etereo viene alleggerito dalla costante sacralità che si trova quando la si ascolta da altri autori: ecco un nuovo aspetto che cavalca la struttura dei due fuoriclasse mancuniani, che decidono di scartare la possibilità di un impegno morale e filosofico esagerato, costruendo invece un giardino sempre incline alla freschezza, con fiori che risplendono senza sosta. Queste composizioni non sono altro che bolle di speranza che si aggrappano al sogno, sapendo però anche rilasciare una reale capacità innovativa, seminando mattoni leggeri ma potenti, per tenere la nostra mente avvolta e protetta. Le tastiere, quando dipingono i coriandoli delle note, riescono a farci sorridere, per poi toccare le corde emotive in una alternanza clamorosa, destabilizzando, pettinando l’incredulità. La voce è un miracolo educato all’espiazione dei peccati, un salto del canguro oltre l’universo, una calamità morbida, smussata perfettamente e in grado di rendere sognanti gli occhi e i pensieri. Notevole il lavoro dell’aspetto ritmico, che, seppure nelle mani di una drum-machine, riesce a farci percepire l’umanità, il talento e la possenza, senza mai arrivare a sovrastare le delicate armonizzazioni. Quando si sentono i leggeri tocchi del piano, si intuisce come la musica classica sia presente per sussurrare, ispirare, indicare la strada, senza prendere il sopravvento, in un matrimonio di sospiri e alchemie davvero notevoli.
Hanno coraggio questi due angeli dalle piume dorate: mettono sul mercato un lavoro incurante delle mode, dell’abitudine di confezionare qualcosa di comodo e sbrigativo, dimostrando quello che dovrebbe essere l’arte e cioè un esercizio generoso senza il desiderio dell’accoglienza, eliminando l’usufrutto, alimentando invece emozioni continue…
Undici episodi che scorrono in modo impeccabile.
L’iniziale Ascend (pillola sintetica in odore di santità orchestrale e con petali trip-hop nascosti), apre lo stupore, poi il duo entra in un prato con la seducente Lyn, giunge Devotion e si capisce come tutto si stia elevando, come uno spirito nell’atto della sua formazione.
Tra post-rock e dream pop l’emblematica Roads ci butta in una pista piena di fiori e l’emozione si appiccica ai corpi e alla mente.
Quando Holo arriva si è nuvole nel vento, le voci di Kevan e di Helena Francesca sono l’estasi danzante su una pellicola sonora sussurrante sorrisi e il luccichio delle stelle.
Of Love ci ricorda l’importanza di Vini Reilly (The Durutti Column), aggiungendo alla splendida chitarra graffiante con delicatezza un umore elettronico essenziale e spettacolare.
La canzone che dà il titolo all’album (Wayfarer) è l’aurora boreale raccontata attraverso note celesti, in uno scampanellio sia sonoro che emotivo: quando i sogni diventano materia hanno questa liturgica modalità…
Continuano le sorprese e le novità: Realise è un viaggio dentro le onde, come se fossero anestetizzate per poi essere rinvigorite da un'energia misteriosa che l’espressione vocale di Kevan riesce a tradurre. La new-age trova un contatto perfetto con la world-music e il trip-hop e tutto si fa mantello dorato.
Ceremony è una scossa improvvisa: il ritmo, la base, il suo sviluppo, la metrica del cantato sono poesie abbracciate, perfettamente in grado di dare fiducia alla modernità che la parte elettronica offre.
Si accennava alla musica classica, ed ecco che con Twilight il suo fascino viene trasportato nei giorni nostri, come una piuma che vola come una tartaruga: dalla sua lentezza le voci riescono nell’impresa di accelerare, in una sensazione che questo binomio sia un nuovo miracolo…
La conclusiva Autonomous è un congedo pazzesco: i baci del tempo e l’esplorazione delle anime si incontrano nel canto, come in un matrimonio delle stelle. John Grant sarebbe felice di vedere come Kevan sia allineato alla sua capacità di esprimere sentimenti con respiri di suoni che gravitano nel registro basso, ma dando la sensazione di una elevazione sino ai bordi del cielo. Spettacolare!


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
14 Novembre 2023






venerdì 6 ottobre 2023

La mia Recensione: Magazine - Real Life

 Magazine - Real Life


“You always collect your fists

When my shadow falls upon your hands

You're just giving body heat away

But they say you're a nice enough young man”

Tulsa


I lampi, nel cielo di Manchester, sono un artefizio miracoloso, un malessere che abita migliaia di solitudini, instaurando un malcontento che genera un vistoso senso di soddisfazione: dove c’è luce le genialità escono fuori, come funghi in una giornata settembrina. Nel 1977 il Punk era un lampo opaco, pesante, indigesto, fastidioso, che nulla aveva a che fare con i sintomi introversi della città del cotone. Le classi operaie avevano voci depresse, la scuola viveva di stratagemmi momentanei e, più che al No Future, si pensava al presente.

I Magazine furono il primo vero gruppo Post-Punk, fatto da considerarsi totalmente straniante, visto che proprio la sfera Mancuniana, fu la maggior officina punk di tutta l’Inghilterra. Ma l’Establishment musicale britannico non aveva fatto i conti con Howard Devoto che, dopo la convivenza forzata con i motori punk dei Buzzcocks, non poteva rimanere ancorato a una prassi che non aveva nulla di geniale, costruttivo, che era privo di finestre sotto il cielo cupo di un agglomerato urbano totalmente inclinato verso la depressione. La sua dipartita dalla band di Pete Shelley fu una nascita refrigerante, una fontana di aria fresca in caduta libera all’interno della sua mente spavalda, scaltra, libera e infelice. Il genio vive sempre circondato da esseri normali per potersi rivelare.

Nacque un gruppo che allungava il minutaggio delle canzoni, allargando le possibilità di espressione, inserendo il talento come punto di partenza di un tutto che solo in parte era da riferirsi alla musica.

Real Life: nel titolo tutta la forza di chi vive, di chi del pessimismo non sa che farsene, una impronta rivelatrice di intenzioni descrittive, non fotografie ma radiografie: Howard voleva entrare negli involucri degli aspetti di una città sempre meno succube dello strapotere Londinese. I suoni, nel Punk, sono una gittata di vomito con il vuoto come spettatore, dove l’anima alberga per due/tre minuti per poi morire, senza alcun commiato. Devoto voleva presenziare alla parte più importante della musica iniettando schemi innovativi, fiumi di birra ipnotica, spunti nati dagli sbadigli perché trovava quella suddetta forma musicale noiosa, inutile, effervescente ma alla fine incapace di galvanizzare.

Nove spie, nove ghiacciai spostati nei pressi dell’equatore, nove fiammate (a volte lente, a volte no, ma in ogni brano i cambi ritmo sono una necessità più che una modalità), nove dipinti, nove agglomerati dove gli istinti sono solo un'ipotesi, non un dogma.

Solo gli XTC di White Music (sarà un caso che abbiano lo stesso produttore? Non credo!) sapranno giocare con la spinta di un cadavere come quello che aveva già esalato gli ultimi respiri all’inizio del 1977. Sì, nessun dubbio: saper deridere la più grande forma ingannevole musicale del recente passato è stato il maggior merito di queste cinque anime spavalde, un ensemble coraggioso, testardo e soprattutto menefreghista.

Canzoni come punti di domanda, fasci occidentali in spostamento, limpide osservazioni attraverso testi che, all’improvviso, spostano il baricentro delle argomentazioni, rimpicciolendo l’illusione di un popolo abituato a criticare e a criticarsi. Parole che sorvolavano il disagio della città per sedersi nei pressi di nuovi moti, non istigando o sbeffeggiando, bensì prendendosi cura dei detriti. Solo i The Fall faranno lo stesso e infatti il produttore di questo album lavorerà con Mark E. Smith e soci nel 1985.

John Leckie, che ha collaborato come assistente per John Lennon, Pink Floyd e molti altri, comincia proprio dai Magazine a produrre musica, cambiando il ruolo, il senso, divenendo un vero e proprio termometro degli umori, delle propensioni, compattando il talento e il progetto per poter conferire alle composizioni dignità, senso e resistenza.

Proprio così: a partire da questo album vediamo il Post-Punk affiancato all’Art Rock, per poter, direi finalmente, togliere le catene a questo nuovo genere musicale che avrebbe rischiato una deriva simile a quella del Punk. Ecco, necessariamente, il bisogno di affiancare nuove strutture, un embrione Progressive non nella forma bensì nella sua sostanza. Bisognava sorpassare il confine e lasciare alla musica il timone del comando.

Per fare questo, la band ha rovistato nei tre cilindri, nei tre motori, nei tre terminali espressivi: Devoto, Formula, McGeogh.

Fuoriclasse, anarchici ma con i nervi saldi, titolari di intenzioni che tendevano alla pazienza laddove il Punk preferiva l’esplosione. Ogni singolo brano di questo esordio comporta, da parte dell’ascoltatore, il comprendere i fiumi di questa qualità di cui si era persa traccia. Sono brividi metallici, escoriazioni cutanee, abrasioni mentali che necessitano di fughe e contrattempi, di guai da risolvere, di personalità forti che decidano di ululare invece di gridare.

Musica tossica, schematica, impostata verso la freddezza, dove gli impeti sono governati per non far morire l’attenzione.

Senza alcun dubbio questo è il disco più rilevante, possente, assurdo, efficace per offrire al Post-Punk il biglietto di sola andata per una necessaria lavanda gastrica. Dal rock, al glam, al Kraut Rock, alla musica classica, al funky, tutto entra nel circo clownesco di un’operazione assai urticante ma necessaria. Brani che non curano, e che offrono la temperatura di un'esistenza che in questa specifica arte non trova beneficio, interesse, dilaniando ogni possibilità di arricchire il quotidiano.

La voce sgraziata di Howard è una fortuna, uno stimolo, un termine di paragone per i futuri cantanti: a lui non è mai fregato nulla del giudizio (vero Mark E. Smith? Vero Doctor John Cooper Clarke?), si è invece preso cura di dare alle parole un luogo di residenza, non in cerca di slogan, non volendo convincere nessuno ma con l’intenzione di dialogare con lo psichiatra che abitava dentro di sé: sia gli amici che i suoi nemici erano tutti nel suo cranio…

Cosa colpisce di questo album?

La gestazione, il momento e il luogo dove tutto è stato concepito e dato alla luce; i suoni che non tentavano l’agglomerazione dove i riferimenti furono brevi e poco evidenti, la condotta di gara: nessuna vittoria, nessun pareggio, nessuna sconfitta. Solo la grande determinazione a dare a questo esordio un senso per chi l’aveva concepito. Solo i The Fall faranno lo stesso, once again…

La Manchester che si vede in questo progetto ha chiavi inglesi tra le dita, non ha fucili, non spara sulla ricchezza, conservando, per ogni classe sociale, il diritto all’esistenza, per poter offrire una finestra nuova: non per costruire bensì per non distruggere…

I Roxy Music e David Bowie sono la spina dorsale di ogni idea, che trova poi la modalità per congedarsi da loro, ma è innegabile che la band più performante di questa incredibile città non poteva non volgere uno sguardo verso le due più grandi influenze dei primi cinque anni di un decennio che dopo il Punk poteva solo deperire.

E invece.

E invece Real Life ossigena, rispolvera, scaccia le paure e crea le giuste tensioni: sebbene siano presenti elementi pop, nulla è davvero comodo e un inevitabile fastidio ronza continuamente nelle orecchie degli ascoltatori. Da qui la sua importanza, bellezza, rilevanza, con un destino crudele in arrivo: pochi avrebbero confidato in questo album, quasi nessuno avrebbe voluto divenire famoso. Devoto, come John Foxx degli Ultravox, come poi ,scusate, ancora una volta Mark E. Smith, non poneva l’attenzione sul successo, preso dal costruire nuove forme espressive, con l’impronta della decadenza che viveva i passi della sua mente sicuramente vivace ma al contempo contorta.

Barry Adamson ha rivoluzionato l’approccio al basso.

Dave Formula ha fatto delle tastiere un laboratorio analisi, stravolgendo la storia con il suo approccio pieno di nuove metodiche.

Martin Jackson, con il suo drumming rotante, spigoloso, secco e gonfio di calore, ha schiaffeggiato tutti i batteristi punk.

John McGeogh è l’unico musicista nell’album a suonare tre strumenti e ad apportare accorgimenti, arrangiamenti, supportando la vulcanicità di Devoto.

Howard Devoto è Howard Devoto. Punto.

Il senso di terrore che i Damned praticavano, approdando sulle rive del cabaret, quì visita l’introspezione e l’indifferenza, così come l’arroganza, per un risultato che evidenzia l’unicità del format, delle spezie musicali che rendono il gusto dell’ascolto maggiormente variegato. La pazzia vive in ogni poro di questo disco, in quanto i cinque voltano le spalle alla storia scrivendone una nuova.

Real Life è il dizionario dell’ignoto, dell’incompreso, di ciò che è riluttante a mostrarsi ma che quando si palesa spazza via ogni confronto. Un lavoro operaio scritto da geni e da individui con spiccate forme egoistiche, tenuti a bada da John Leckie, per seminare il futuro di nuove prospettive, soluzioni.

Indagando, spendendo tempo dentro queste articolate fiammate artistiche, ci si imbatte nel volume di ricchezze perfettamente compattate ma, attenzione, che non avevano avuto il tempo per essere collaudate, poiché gettate immediatamente nel mercato musicale.

Morti subite in quanto abbandonate, resuscitate subito attraverso il successivo secondo album, rivisitate, corrette, messe a bagnomaria della loro follia, tutto ciò che si trova nel suo interno è una lucida forma nevrotica non ribelle, uno stetoscopio, un faro, un clic mentale che descrive e dipinge le privazioni, le depravazioni, lo sconvolgimento di una città seduta sui carboni ardenti, in attesa di trasformarsi in un cadavere sorridente…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

6 Ottobre 2023


https://spotify.link/q5f2jNBUFDb





mercoledì 4 ottobre 2023

La mia Recensione: Andrew Cushin - Waiting For The Rain

 Andrew  Cushin - Waiting For The Rain


Heaton è un sobborgo di Newcastle, un quartiere di questa splendida città del nord dell’Inghilterra, da dove proviene Andrew, un talento cosciente, audace, capace di portare il Pop nella zona dell’Alternative, comprimendo il Blues e il Country. Dopo una gavetta voluta e che l’ha portato ad aprire per diverse band importanti, firma un contratto con uno dei due protagonisti dei Libertines, Pete Doherty, e registra canzoni con le ali aperte, capaci di far arrivare le sue melodie nel centro del cuore, attraverso parole davvero profonde e mature data la sua giovane età. Profumi di Paul Weller, Noel Gallagher e la scia del Northern Soul sono i primi evidenti segni della sua rotta di provenienza. Poi: il duro lavoro di lasciare l’appartenenza delle sue emozioni e del suo viale dialettico, consentono una portentosa valanga di pensieri mentre le bocche sorridono e la pelle prende il sole. 

Visto di supporto ai The Slow Readers Club, da solo sul palco a imbracciare una chitarra che sembrava l’eco primordiale di un bambino che afferma la gioia di essere al mondo, pare essere un lontano parente di se stesso: entrambe le identità sono autentiche ed è indubbio che il disco suoni come frutto di un lavoro collettivo, con una vibrante tensione che viene addomesticata dalle linee romantiche ma che non riescono a nascondere la tensione perché non esiste un modo migliore per non scontentare nessuno. 


All’interno del suo vagabondaggio, per perlustrare personaggi intinti di olio e sale, trova anche l’occasione per scrivere un toccante testo sull’alcolismo e in cui i due protagonisti sono Padre e Figlio. È proprio in questo brano che tutto evapora, sciolto nella sua maturità che presenta la canzone successiva, nella quale la malinconia e la preoccupazione trovano slancio verso aspetti pieni di raggi di luce.

Colpisce, stordisce, accarezza la storia degli ultimi trent'anni della musica inglese sapendo anestetizzare il tempo, tenendo lucida la pelle della gioia, senza abrasioni. La sua magia è quella di avere la capacità di dare spazio a modalità diverse di espressione: non solo la sua chitarra semiacustica, bensì il desiderio di attraversare binari diversi che portino il treno del suo talento all’interno di zone disabitate.

La solitudine, le scelte, gli affanni, i sogni e gli entusiasmi sono i suoi cavalli, liberati nella prateria della sua scrittura sempre mirata a non concedere interpretazioni sbagliate. Con un uso sapiente dell’elettronica riesce a visitare il cielo, con la chitarra elettrica trova arpeggi semplici ma che provocano brividi, ma, soprattutto, con la sua voce ci possiede, incanta, seminando dolcezza anche quando la sua gola e la sua anima bruciano. Spesso parrebbe usare alcuni trucchi, nel cantato, del fratello più grande dei Gallagher: dare, cioè, l’impressione che i cambi di registro possano sembrare prevedibili, ma arriva il guitto, l’invenzione per spostare il paragone dentro il fango.

Prima semplici episodi (con i suoi singoli) e poi una collettività sonora per rendere il tutto una grande nave con brani che, grazie a una effervescente produzione, rendono evidente che il concept è più nei suoni che non nei testi, in quanto le sue parole sono onde che non possono essere comandate. 

Un insieme musicale che non vive di momenti che spiccano: questo giovane musicista ha la colla nel talento e non è in grado di fare di quell’onda, di cui prima, un sali e scendi, evidente è il suo polso, la sua fermezza per rendere l’ascolto un’esperienza compatta, il tempo necessario per sognare mentre la vita chiede di fare lo stesso, tra il fuoco e il vento della sua penna, capace di una scrittura precisa e libera. 


Il Vecchio Scriba invita ad ascoltare l’album facendo attenzione al titolo: una metafora pericolosa, se non colta: inutile nascondere il fatto che la pioggia non è in attesa, ma operativa, perché in realtà non è altro che un fiume denso di gocce di vita che vogliono essere viste e accolte, raccolte, per spargersi poi all’interno dei nostri bisogni. Un disco veloce, senza velleità di trovare la canzone indimenticabile, tantomeno l’hit della vita.

Piuttosto: ascolti la prima e avanzi, senza tentennamenti, poiché hai subito coscienza che sentire queste composizioni è un regalo che giunge dall’estremo nord dell'isola che necessitava di questo entusiasmante artista. Notevole è la sensazione di calore e freschezza al contempo: le orchestrazioni, gli arrangiamenti brevi ma di grande impatto, conferiscono al fascio sonoro una presa che non costa fatica: riascoltarlo tutto è un desiderio necessario e non una impresa…

Saper portare le canzoni nel cuore degli anni Novanta (boyband comprese) è un pregio sottile, in quanto poi, non temete, ci si rende conto dello spessore artistico, dell’impegno e delle sue qualità.

Si fischia, si canta con la bocca aperta, e poi quando la musica prende piede ci si sente al sicuro, in quella prateria dove i suoi cavalli corrono non felici ma capaci: e anche in questo caso Andrew si rivela maturo e spiazzante…

Seal, George Michael, i Travis, gli Oasis, i James, i Clash: tutti loro entrano nei respiri espressivi del ragazzo, spesso con la maschera sulla pelle delle note e degli accordi, ma ben presenti, con la loro che lascia scie di suono del tutto riconoscibili, se solo le orecchie ragionano…

Ma poi, più di tutto, questo lavoro di esordio rivela come non sia l’età ma l'esperienza, lo studio e il desiderio a permettere a queste angeliche composizioni di spiccare il volo, accompagnando la corsa di quei cavalli che avranno biada per l’eternità.

Il debut album del 2023 per il Vecchio Scriba: i dubbi non possono esistere davanti a queste gemme…



Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
4 Ottobre 2023






domenica 24 settembre 2023

La mia Recensione: The Kinks - You Really Got Me

The Kinks -  You Really Got Me


“L’amore a prima vista è come vivere un secolo in un secondo”

 François Truffaut


Le cose viste dall’alto sortiscono il medesimo effetto di un ricordo: si ha sempre l’impressione che quella distanza non sia raggiungibile.

Londra. Primi anni Sessanta.

Una officina di sensi liberati, il servizio militare obbligatorio abolito, la volontà di procreare senza il timore di una nuova guerra liberavano le anime di migliaia di famiglie e la Middle Class conosceva uno splendore e uno sviluppo mai vissuto prima. Di lì a poco sarebbe nata la Swinging London, il motore della sicurezza emotiva, economica, alla conquista del mondo. Un agglomerato urbano attratto dalla forma espressiva delle arti in genere, sentenziando un dominio totale nei confronti delle altre città inglesi. Ma un pesante limite adombrava quei movimenti in eccitamento continuo: le fortune, le attenzioni erano concentrate nel nord, tempio di una intimità anomala in grado però di accentrare gli interessi.

Nella musica c’erano i Beatles.

Le robuste inclinazioni a differenziare quello stereotipo (mi riferisco ovviamente alla musica) furono rese manifeste da una band di minorenni, intenti a suonare principalmente cover e con due soli loro pezzi in repertorio. Si chiamavano The Kinks, l’autentica e vera scintilla in grado di illuminare e spegnere, al contempo, il futuro della capitale inglese e i fasti di città come Liverpool, Newcastle e Manchester.

Una ventata di pazzia geniale, inconsapevole, sotto pressione da parte di una casa discografica che aveva fretta di incassare in quanto il tempo, tra il 1962 e il 1964, era misurato in base alla capacità di riempire le casseforti di banche che erano le prime a essere interessate.

Qui arriva il  miracolo: una festa, la band che suona e una ragazza, senza nome, mai più rivista dal cantante, che fa vivere l’adrenalina del giovane sino a condurlo a una vera e propria sbandata. 

Tutto inutile: l’amore non si concretizzò, bensì nacque uno dei riff di chitarra più famosi della storia.

Potrebbe bastare? Neanche per scherzo.

La pressione della Pye Records, la ragazza scomparsa nel nulla, nuove band che emergevano, avevano creato una fulgida esplosione contenuta e fu un rasoio da barba a cambiare la faccia e la storia del rock. Che, seppur non nacque con la canzone di cui vi sto parlando, da qui innalzò il tiro, divenne strategica, contemplativa, una libellula dalla pelle ruvida, lanciata a modificare le impalcature sia del suono che della forma espressiva.

Già, il suono: quel rasoio che tagliò il rivestimento dell’amplificatore ne rivelò uno mai udito prima. Nello studio di registrazione si fece di tutto per riprodurlo e ci riuscirono. Pochi accordi, il testo, circolare, ripetitivo, dal concetto semplice: il tutto divenne la prima bomba benigna della musica degli anni Sessanta. Un pezzo  con l’incredibile capacità di fare di tutto una locomotiva dalla presa rapida, veloce e scattante, con una forza notevole che, giunta a uno straordinario solo di chitarra sbilenco, sconclusionato, imperfetto, ma in grado di rapire i sensi per farli esplodere, definiva per sempre un via libera alla creazione di note robuste, che in poco tempo entrarono prima nella psichedelia e poi nel rock, per toccare le caviglie del punk.

Londra non credette ai suoi occhi e soprattutto alle sue orecchie: un brano solo aveva fornito l’ulteriore scusa per accentrare gli interessi e tutto si illuminò, spingendo nuove formazioni musicali a seguire quel sentire semplice ma in grado di dare le stesse emozioni forti del blues e del rock ‘n’ roll.

Lo stile dell’esecuzione non trova che pochi precedenti ma privi della dissacrazione che quell’amplificatore mutilato aveva conferito, per regalare alla Storia un esempio mastodontico. 

Influente, rilevante e generosa, un regalo del fato che nella durezza è stato gentile con quei giovani ragazzi vicini alla depressione: quando la rabbia diventa preziosa i risultati non possono mancare.

Interessante è invece la genesi, i primi accordi, con un marcato bisogno di approcciarsi a Fats Domino, vero idolo della band. Poi il fattaccio e ora siamo qui a gridare al miracolo… 

Le voci, quando si raddoppiano sin prima del ritornello, diventano l’onda che dalla Manica arriva agli Usa, spiazzando la nutrita e potente unione di formazioni musicali che giocavano con il blues più robusto, ma che ancora non sapevano che nuovi generi  erano in un ventre che doveva ancora partorire una novità poderosa. 

Quella cavità era in mano ai Kinks, con una canzone sola, per  dare al futuro un ventaglio di accessi, possibilità, squilibrando il Beat, il Pop, per creare un nucleo distante e accessibile.

Breve, come consuetudine dei tempi, ha avuto il merito di divenire lunghissima con il passare degli anni perché da quei bagliori un universo parallelo scese sul pianeta Terra. I Byrds, i Cream, Jimi Hendrix, i Led Zeppelin sino ai Deep Purple, avevano solo da accendere un cero all'interno dei loro circuiti compositivi e riconoscere ai Kinks un merito che dura sino a oggi… 


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

24 Settembre 2023


https://youtu.be/fTTsY-oz6Go?si=y5FQXu5YwQRr3GU2







giovedì 21 settembre 2023

La mia Recensione: Cranes - Loved

Cranes - Loved


“La magia è un ponte che ti permette di passare dal mondo visibile a quello invisibile”
 Paulo Coelho


Il Vecchio Scriba, affacciandosi nuovamente all’ascolto di questa opera, si ritrova a essere erubescente, trafitto da audaci emozioni che scavalcano la comprensione, in quanto il terzetto, capitanato dai due componenti della famiglia Shaw (Alison e Jim), con Loved continua il percorso nomade di un campionario ialino, capace di frustare la gioia all’interno di un perimetro nel quale la volontà maggiore della band è quella di postergare, di non rimanere ancorata alle modalità espressive del passato. Continua la sperimentazione nell’ingramagliare le acque artistiche, sperimentando gli effetti del bagliore dentro la sfera magnetica della depressione, ma solo apparente. Tutto naviga, in queste tracce piene di olio lento, nel raggiungere l’esposizione del progetto iniziale, domarlo, renderlo ubbidiente per poter sfornare potenti incandescenze sonore. Si è succubi di una magia viscerale, conturbante, con composizioni che raggiungono il luogo dell’asprezza, apparentemente astruse, spingendo il nostro animo a un rivoltamento interiore quasi spettrale. La sensazione primaria è di stupore innanzi alla marcata necessità di ascoltare i brani con un atteggiamento ulimoso, perché davvero le canzoni inebriano, sanno attrarre come fa l’incantevole tramonto alpino. Le circostanze che hanno generato questo lavoro sono all’interno di un'ampolla ricoperta di segreti e astuzie: Alison non è mai stata ambasciatrice delle strategie e delle incombenze della band, piuttosto una regina armata del silenzioso modus operandi, quello che miete vittime senza colpo ferire. Un concept album vergato di fasci chitarristici inclini a substrati psichedelici, senza lasciare indietro il sapore dolciastro di chitarre acustiche che hanno il compito di rendere più approcciabili i numerosi ribaltamenti che fanno di ogni singolo episodio la chiave della sorpresa e dell’incanto. L’eleganza, quando crepuscolare, non conduce mai all’urlo bensì a governare la caverna di segrete considerazioni che tendono ad avviluppare il tutto senza che prenda la strada del successo.


Il suono raschia, cattura, immalinconisce, stabilisce il contatto con la frustrazione che diventa orgasmo assicurato, sebbene non ci si possa mai staccare dalla preoccupazione che questo LOVED non sia solo una necessità e una espressione governata dall’arte, ma che sia incline a ospitare frammenti di una realtà forse contraria alla convinzione che possa esistere la serenità. La musica, come la voce di Alison, è un continuo avvenimento icastico, che nemmeno una buona pellicola a volte riesce a trasmettere. 

Quando si riescono a far coordinare rotte di stili e generi diversi all’interno di un cilindro impolverato di mistero significa che l’essere poliedrici non è un fatto solo strutturale. E loro l’avevano già dimostrato nei tre precedenti momenti a lunga distanza. Il quarto episodio ha un approccio maggiormente conturbante e spiazzante: le dissonanze, le progressioni, gli abbandoni umorali vengono affiancati da nuovi strumenti e di conseguenza da nuove possibilità nella scrittura di quelle che somigliano sempre di più ad anime ingabbiate in un giorno di tempesta. Lo scenario onirico non manca, dato non solo dalla fanciullesca voce della cantante, ma dal continuo e fluente circolo di pennellate che suggeriscono la loro delicatezza. Vi sono impronte di glaciazioni, di umori che si impennano, di ritmi tribali educati ma pur sempre corrosivi, come un magnete che porta a sé tutto il tesoro richiesto. La propensione a creare scenari apocalittici rimane ed è un incessante palpito che regala unicità all’ascoltatore, il quale si ritrova a essere privilegiato da un lavoro che non ha uguali. Concentrico, intenso, non dilapida mai l’intensità sebbene sia soprattutto nel lato B che tutto si riempie di mistero, nella catarsi che necessita di calma e destrezza. Infatti, dopo le prime tre robuste canzoni, i tre membri si concentrano nella spartizione delle fiamme, educando le giovani composizioni a studiare la Storia, anche quella musicale, ed è in quel momento che il baricentro si sposta, deliziando e facendo smarrire, al contempo, ogni nostra previsione per quanto concerne le successive ambientazioni sonore. Quando il cedimento umorale si affaccia nei pressi dei nostri alveoli polmonari, ci si sente come sbarrati all’interno di un campo nomade, con l’argento sporco tra le mani…


Gli stereotipi gotici non mancano (al DNA non si può disobbedire), ma non sono quelli a generare un imprinting plumbeo e scosceso, perché l’amalgama tra periodi e stili non simili è il coronamento della loro evidente maturità. Le idee sono talmente chiare che il caleidoscopio sonoro diventa un quadro impressionista, senza dimenticare la copertina dell’album, nella quale tre figure guardano in direzioni diverse all’interno di un fango colorato di luce incline al torpore emotivo. L’imbrunire, le stagioni stanche, il male del vivere trovano una modalità di locazione convincente, e, attraverso i vocalizzi ansiosi pieni di tenerezza di Alison, si può raggiungere l’abbraccio con un compimento che lascia di stucco: un mappamondo artistico genitoriale dal quale procreare un futuro sembra inevitabile. E così è avvenuto…

Una quasi nascosta gioia cammina sulle punte, leggera, senza disturbare grandi connessioni in cui la fatica della presenza quotidiana vengono espressi da testi che visitano storie capaci di essere anche ambigue, a tratti non percepibili del tutto donando un altro, estremo, piacere. La spiritualità nelle dieci tracce (undici nel cd) viaggia ad alta velocità, sorpassando il ritmo di diverse ballads, di canzoni dal passo lento, offrendo un altro segno tangibile di una maestria non comune. 

Si presenta, per la prima volta, la necessità di un accorpamento orchestrale che veicola intensità al di sopra del suono, facendo roteare gli occhi in sogni pieni di adrenalina classica. La desolazione diventa la testimone di una autenticità che non si può negare, ma alla quale viene affiancato un bavaglio, per governarla e non lasciarle troppo spazio. Toni sommessi, lampi improvvisi, suite per elasticizzare straordinari loop musicali, fanno urlare al miracolo in quanto tutto è organizzato con stile, rispetto, lasciando una fessura nella quale la meraviglia può respirare…

Lo xilofono e gli archi sono assi magici, il regalo degli Dèi, che hanno posizionato il loro lasciapassare all’interno di queste composizioni che fanno rabbrividire per tensione e malinconia: sia riconosciuto che LOVED è un assolo di una giornata destinata a rintanarsi nel perpetuo sfiorire dei nostri respiri…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

21 Settembre 2023


https://spotify.link/8N590QDTgDb




La mia Recensione: Sinéad O’Connor - The Lion and the Cobra

  Sinéad O'Connor - The Lion and the Cobra In un mondo che cerca la perfezione, i capolavori, lo stupore garantito senza dover fare fati...