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martedì 21 maggio 2024

La mia Recensione: Gene - Olympian


 

Gene - Olympian


“La vita e i sogni sono fogli di uno stesso libro. Leggerli in ordine è vivere, sfogliarli a caso è sognare…”.

Arthur Schopenhauer 


Una bolla antica, di piccole dimensioni, si posiziona nel cielo musicale di un momento delicato, quel 1995 che aveva l’onere di dare alle note nuove forme, regalare ossigeno, far dimenticare il dolore dell’anno precedente e di tenere compatta l’intenzione di timonieri con una diversa mansione, una fuga dal rock sporco, macchiato di sangue e frustrazione.

Londra, la regina di quest’arte, muove i suoi cavalli, le sue regine e i suoi re nel trambusto di una effervescenza che nacque con i Suede poco prima.

La pressione sanguigna degli entusiasmi circola nelle strade, nei locali, nelle radio, una effervescenza che assomiglia all’incoronazione di un nuovo sogno.

I Gene spazzano via tutto, incuranti, a proprio agio solo nel loro vagare tra le zone in cui tutti, da tempo, non mettevano più piede. La musica non come veicolo di confronto, bensì come un'impronta marmorea da guardare con sospetto. Troviamo, così, evidenti segnali di migrazione, uno spegnere i riflettori sul superfluo e un incanalare, invece, una stretta e fitta serie di relazioni con i dubbi, le pene, le forme iniziali di smarrimenti e depressione, senza mancare però il desiderio di gonfiare la vena romantica, di mettere in contatto tra loro il sogno e la positività. Olympian, per iniziare, considera questi elementi per allargare le note e stringere i polsi, in atti contraddittori che stordiscono, senza però far mancare una fascinazione che odora di antico. Un lavoro pregno di quella impronta inglese come da tempo non si aveva più modo di godere: la terra di Albione stava perdendo le sue radici, l’indole e, cosa molto più grave, il senso di appartenenza a una parte conservatrice che sembrava in fase di morte.

Canzoni con il bavero e i guanti di seta, con la luce fioca a rendere lo sguardo una fatica inevitabile: le realtà e gli sbalzi di umore di Martin Rossiter sono rasoiate, baci gelati nel fuoco di un addio urlato con garbo, una gentilezza non priva di cinismo e decadenze assortite, in un quadro generale dove la cupezza sembra un arcobaleno macchiato, in un giorno lavorativo. Un album diurno, fastidioso come le ore passate al lavoro, quello fatto di una ritrosia assoluta nei confronti dello scambio gioioso dei movimenti, che siano essi spostamenti fisici o mentali. 

La struttura di queste undici composizioni è quella di una nave che attraversa la calma e l’irruenza con lo stesso approccio: guardare per imparare, senza scomporsi. Per fare ciò ogni brano oscilla, come onda piena di risorse impreviste, senza rimanere ancorato ai cordoni della forma canzone, in chiaroscuri evidenti, come le salite e le discese, nelle quali i cambi ritmo evidenziano anche il bisogno di non incontrare la noia.

Seppure Steve sia un chitarrista eccelso, in tutto l’album notiamo un solo assolo: già questo fatto evidenzia come i quattro ragazzi abbiano determinato scelte artistiche specifiche, per donare al mondo dell’ascolto quella compattezza che, specialmente nello stupido movimento denominato Britpop, soleva, invece, mostrare con cupidigia. Ma non dovremmo mai smettere di considerare la band londinese come un miracolo impreciso, ribelle, non voluto e non digerito dalla maggioranza degli inglesi, in quanto tutto ciò che si ascolta in questo lavoro non mostra per nulla il futuro, negando quella gioia e quella stupidità che invece stavano cercando. Ogni frammento è un sogno, un atto di vita da devitalizzare, un dente affetto di nostalgia, di ricordi cattivi come lupi nella foresta di un pop privo di saggezza e maturità. I Gene, invece, si inchinano al tempo, alle storie su cui nessuno spende le giornate, e raccontano esistenze di emarginazione senza riflettore, come Dio comanda…

Un album fatto di domande, di tendine abbassate, di libri antichi, di un linguaggio a volte arcaico, altre volte invece di una immediatezza quasi scostumata. Basterebbe la splendida copertina per riuscire ad accordarsi in anticipo con l’attenzione, il gioco dei colori, la penombra, la sensazione che l’ascolto abbia a che fare con un viaggio a ritroso, ed è esattamente quello che compie la nave Gene.

Sono giochi di potere quelli che i tre strumenti principali attuano con il supporto, a volte, di archi che allargano il respiro per poter esplorare meglio l’emozione di lacrime che ruotano nel petto, come caviglie  macchiate di piombo. 

Il cantato, sigillo di qualità e di abbondanti dosi di tremori regalati senza risparmio, è un pugno onesto dentro le nostre disattenzioni, un invito perfettamente maleducato per farci sentire in colpa, senza rinunciare a una melodia che ottunde, semina riflessioni e conquista, malgrado le parole siano corone di spine vaganti, in missione spesso punitiva: Martin ti fa sentire un porto di mare, accogliente e sempre operativo, ma soprattutto il luogo dove contenere i suoi marasmi alla fine fa piegare le gambe. La sezione ritmica è uno stupore continuo: il gruppo sembra avere decenni alle spalle, con mosse strategiche che allineano i pianeti della bellezza con quelli della ricchezza. Quasi silenziosa, e, quando fragorosa, sa concedere sempre l’illusione che quel temporale sonoro si arresterà presto. Sanno dipingere, disegnare, stampare, fotografare le possibilità di sviluppi non desiderati, per sconfiggere la previdibilità. Ed è proprio qui che Olympian svetta, si distacca dai colleghi e se ne va, in un salotto con la moquette per fruire di tazze di assenzio e whiskey, senza nessuna preoccupazione nel suo polso. Sciabolate, abbracci, carezze e poi lei, la regina dell’album: l’intensità, a prescindere. Nulla è effimero, leggero, destinato a scomparire in queste undici composizioni, in un patto dove viene garantita la memoria, la conservazione di questi semi odoranti di sacralità e di scomodità a cui non si nega il consenso di vivere nel perimetro del proprio battito…

Osservando le uscite di quell’anno, ci si rende conto di come nulla poteva far presagire il successo della band: canzoni come queste sono adatte ad anime inquiete, dolci sino a quando il sole smette di rovesciare calore sulla pelle, a cuori che indagando perdono la sicurezza, a menti che provano sempre il desiderio di concedersi il lusso di esitazioni e confusioni. E poi non manca quella delicata propensione a emarginare gli altri: di questi testi è difficile discutere, in quanto si è vinti, sin dall’inizio, da una sorta di preoccupazione nei confronti degli abitanti della nave, per non parlare del timoniere, che spesso sembra gettare le parole sotto la pelle delle onde per crocifiggerle nella più crudele immediatezza.

Prendiamo l’ancora, il salvagente e salpiamo. Undici onde attendono di essere vissute senza paura…




Song by Song



1 - Haunted By You


Quando si parte, lo si fa con decisione, con ritmo, con quella forza che regala entusiasmo e vigore. Abbiamo subito le coordinate del viaggio: corteggiare l’impero del mistero, fluttuare tra parole che sembrano sberle relegate nel buio della cantina del nostro cuore. La ricerca melodica è pregna del nerbo corrosivo della chitarra, del basso che pare fratello gemello di una dinamite educata a esplodere con morbidezza, e la batteria che trascina si prende la canzone sulle spalle  e la conduce nel bel mezzo dell’oceano…

Il rock si toglie le paillettes, le unghie dipinte di stupidità e si tramuta in un serpente che bacia i primi anni Settanta, quelli della sponda americana, con le note acute e graffianti della chitarra. 



2 - Your Love, It Lies


La magia è una prostituta che si stende spesso nella ingenuità dei talenti inconsapevoli. Il brano è un gioco di luci e umori, di scorribande e di diverse frenate: la melodia conosce diverse possibilità e riesce a salire al cospetto dei fulmini, facendo piangere ogni sogno. Il blues che Steve accenna è un miracolo intimo che viene subito spodestato da una irruenza gravida di necessità, in un matrimonio angelico che permette agli stacchi di batteria di salire in cattedra. La voce di Martin è un nastro che soffoca l’inutilità, e lo fa con fermezza e un lieve vibrato nel registro basso, per un risultato che è un grido di Munch senza tempo, senza aver alcun bisogno di spalancare la bocca… 



3 - Truth, Rest Your Head


Ecco cosa mancava alla musica inglese: l’incanto che risiede tra onde melodiche in cerca di uno schianto, di una carica elettrica che segua una serie di morbidezze ammassate. Come per i primi due brani, pure questo utilizza lo stratagemma del dualismo, della diversificazione, di facce che ruotano dentro l’anima promiscua di soluzioni effervescenti. La voce è un cilindro romantico, le parole molto meno, e in questa convivenza nulla appare forzato perché la struttura, di matrice Alternative, finisce in un jingle-jungle perfetto, nel quale gli anni Sessanta della Swingin London tornano nel pieno della loro decadente lucentezza… 



4 - A Car That Sped


Si piange, in educata lentezza, su questo oceano con le mani tremanti: A Car That Sped è una scudisciata, una fluorescenza improvvisa che piega la notte e imbavaglia la voglia di vivere. Tutta la tradizione delle strade di Marble Arch sembra darsi appuntamento in questo racconto poetico, nevrotico, un condensato di erba gramigna (la chitarra di Steve è un graffio che stordisce il cuore) che sembra tagliarci fuori da ogni possibilità di trovare il fazzoletto di seta asciutto. Il piano all’inizio e il synth alla fine sono gli interruttori logistici di questo apparato per lo stordimento, dove il ritmo, il clap-handing, i giochi degli effetti degli strumenti sono come l’impasto che deve lievitare…




5 - Left-Handed


I New York Dolls cercano nipoti e li trovano: come una scossa del cielo, nella parte iniziale del brano, tutto sembra indicarci che i quattro sappiano come rovesciare del petrolio nei loro movimenti e attitudini. Ma poi vira, come una scalata inevitabile, verso i territori dove loro possono dimostrare che la coesione, l'architettura sonora deve avere sempre la meglio.Abbiamo la limpida sensazione che questo gioiello pieno di nevrosi sia solo l’anticipo di un futuro che verrà…



6 - London, Can You Wait


Eccolo il passato (evidente sin dalle parole desuete scelte da Martin) proseguire in questi tocchi delicati, in un'atmosfera grigia che cerca il sole e che invece ne perderà subito le tracce, perché ruota intorno al mistero, al buio, a una richiesta che non sarà esaudita. 

Quando si giunge al ritornello la progressione degli accordi e la splendida sporcizia di semi-distorsioni diventano una stretta al collo che uccide il sogno, per far morire ogni indirizzo nella perdita fisica inevitabile…



7 - To The City


Cavi ad alta tensione ci sbattono in faccia un'urgenza che pilota lo stupore verso i canali di una modalità imprevista: legare il fragore degli Who, dei Kings, dei Jam più arrabbiati, per arrivare a far tremare quella solidità che sino a qui avevamo riscontrato. Il brano vive di piccole zone di pacatezza, ma poi, quando il basso, la batteria e la chitarra decidono di essere un treno, risulta evidente che nulla può essere fermato.

Senza dimenticare un finale che odora di una band che non dovrebbe mai essere citata a caso…



8 - Still Can’t Find The Phone


Immaginereste mai questa band capace di mostrare raggi di luce, di finanziare i sogni del ritorno dei clamorosi corridoi musicali degli anni Sessanta? Ecco un nuovo trattato di non belligeranza, usando la cortesia di pennellate, sia con la chitarra che con la batteria, per poi concedersi qualche chilo elettrico, ma senza mai esagerare. È poesia con il ritmo, con la voglia di assaggiare la capacità di arrangiamenti che qui sono mostrati con leggeri tocchi di pianoforte…





9 - Sleep Well Tonight


Questo secondo lato è gravido di sorprese, si abbattono cliché, si dipinge la storia con eleganza e distorsioni accennate, per portare la fase onirica a contatto con galassie più gentili della realtà. La penna di Martin qui invade ogni corsia, non la si può paragonare a nessuno, e sfreccia sul foglio dove il dolore e la tensione diventano gemelli di un parto in cui la poesia regna nel suo respiro dormiente. E l’organo regala quella sacralità che ogni sogno deve avere…



10 - Olympian


La vita muore, il battito è un ricordo lontano, che appartiene agli altri, e il bisogno di Rossiter diventa una richiesta che cede, sui tasti bianchi del pianoforte, sul basso pulsante quasi con timidezza, per poi trovare attraverso la chitarra di Steve, una zona dove far atterrare ogni frustrazione. Notturno, epico, lento, sognante, in realtà questo brano è la stufa che riscalda ogni tentativo di dare alla musica l’estrema unzione, in quanto l’armonia e la melodia sono sposi che escono di casa per giocare a carte con il ritmo, secco e teso…




11 - We’ll Find Our Own Way


La magia è uno sgarbo, nelle mani dei Gene, che decidono di terminare questo album di esordio con una palma piena di vento in caduta lenta dentro la Swinging London, per farci sentire la nostalgia del tempo, delle pulsioni, e per farlo gioca sui cambi ritmo, su una impalcatura classica dove l’iniziale chitarra acustica trova, lungo il percorso, compagni di chiacchiere e vapori, una dolce tensione che conosce l’implosione, per sconfinare dentro un’attitudine blues pur avendo invece atomi psichedelici più evidenti, ma sempre nel contesto di una canzone pop che mostra con fierezza la sua fragilità.

Sembra che Martin voglia concedersi metri e metri di positività ma, come ben constateremo, saranno sconfitti presto da una evidente depressione che renderà i suoi versi degli splendidi cimiteri…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

21 Maggio 2024





Martin Rossiter -  Vocals, Keyboards

Matt James - Drums

Kevin Miles - Bass

Steve Mason - Guitars


Phil Vinal - Producer


giovedì 9 maggio 2024

La mia Recensione: Joy Division - Closer


 

Joy Division - Closer


“Il dolore più grande del mondo è quello che, goccia a goccia, trafigge l’anima e la spezza”

Francisco Villaespesa


Nella storia umana esistono legami che si tramandano senza che ci sia il contatto diretto, come una traiettoria che oscilla nascostamente. In questo caso stiamo parlando della Odissea, il trapianto delle avventure più estreme che, nel marzo del 1980, in soli tredici giorni, ha deciso di entrare nel corpo musicale di un progetto pieno di sintomi adiacenti all’originale, un viaggio catastrofico e allucinante, planato nella radura fredda degli studi Britannia Low, a Islington, Londra, per consegnarci non un idillio bensì il metro che misura la differenza tra il bene e i malesseri più estremi.

Tra Salford e Macclesfield esistono 41 chilometri e i quattro ragazzi si spartivano questa distanza recandosi a Manchester, la cupola grigia dell’esistenza più torbida e sconquassata. Il divertimento consisteva nella fuga dalla realtà, creando isole immaginifiche all’interno di un circuito elettrico fatto di note musicali ed estremi paradossi. La cultura della città lasciava l’ozio dei primi anni Sessanta e nel bel mezzo degli anni Settanta sprintava per accaparrarsi simpatie, favori e il consenso delle stelle. I Joy Division furono la frattura più evidente, ma mai vennero ostacolati: i Buzzcocks intravidero la loro nera bellezza e li accolsero per un tour durante il quale i JD scrissero le 9 canzoni che dettero a Unknown Pleasures un triste primato, vivo ancora oggi, ovvero quello di fare un album nuovo che smentisse molta di quella attitudine senza mancare però di qualità. Closer è un urlo ragionato, diabolico, magnetico, un’onda magmatica di stanchezze, introspezioni, una febbre in bianco e nero che permane, senza esitazioni. Raccoglie i detriti di un’anima allo sbando, il pulsare entusiasta degli altri tre componenti, giovani pieni di vitamine e speranze, deliziosi fannulloni in cerca di uno status che li porti via da questo agglomerato urbano sempre più in conflitto con la vita quotidiana. I testi, infatti, sono un diario giornaliero nei quali i pensieri non sono assunti a manifestazioni artistiche disarticolate dalla realtà ma ne sono invece il calco, l’impronta, lo scatto attitudinale di una volontà che si precisa nell’affermazione della debolezza come il limite che non può essere battuto. Nove composizioni divise in due lati: il primo gravita dentro la sistematica intenzione di mostrare l'inaccessibilità, il non piacevole che richiede il congelamento riuscendo però a far sudare l’anima. Il secondo è un ammasso di pensieri in totale putrefazione che si fanno accompagnare da musiche tetre, lapidarie, piene di pioggia e vento, per portare lontano, nel ricordo postumo, un’assenza di energia che somiglia a un canto senza i magneti della disperazione.


Sin dalla copertina, dove viene eliminato il significato religioso (della Madonna appare solo un braccio e il Gesù di Nazareth è quasi totalmente nascosto), capiamo che siamo innanzi a una immagine che non riassume il contenuto bensì indica la partenza, l’intenzione, l’estrema bellezza e intensità della fascinazione nei confronti della morte, qui mostrata nell’atto della vicinanza, dell’accoglienza, della spartizione delle lacrime. Ma il secondo lavoro dei JD non è una sintesi del dolore, nemmeno un cielo che attraverso l’esaltazione possa condurlo alla devozione. È un resocontare con la bilancia su un palmo e lo sguardo smarrito sull’altro, in un gioco dinamico di forze in grado di far perdere le coordinate. Closer è un boato sotto forma di un giocattolo con le guance essiccate attraverso un Post-Punk chirurgico che contempla l’assunzione di nuove metodologie espressive. Ecco, dunque, nei solchi apparire, “dolcemente”, i pruriti di una Coldwave spaventata, i primi vagiti di quella Darkwave che si prenderà la giusta quota di responsabilità subito dopo l’uscita di questo gioiello. Non mancano quote di una psichedelia elaborata e di una propensione a dare ai rumori quella validità che nella musica industrial poteva anche procurare fastidi. Il disco, per mezzo della maledetta capacità di Martin Hannett di raggiungere quella perfezione non gradita dai quattro, mummifica l’emozione (quella spontanea) per generare un corto circuito mentale nel quale lo smarrimento, la paura e la tensione fanno sembrare il tutto il frutto di una proiezione cinematografica, per consentire all’horror e al drammatico la convivenza, non forzata.

Troppo si è detto sul suicidio di Ian Curtis, del testamento e di tante altre gratuite ingenuità e sciocchezze: ci troviamo, invece, nel territorio di espressioni sbilanciate, impeti ingovernabili, gioia e dolore come una pastoia inevitabile, con la capacità di suscitare pensieri pieni di magneti sanguinei in costante caduta. Ian parla di se stesso e lo fa davanti a un microfono: nessun testamento conosce questa dinamica…


Dovremmo pensare a come per una volta la musica si sia disinteressata dei testi e che solo una magica congiunzione abbia potuto far credere a un legame tra le due parti. Ma Bernard, Peter e Stephen in quel tempo non ascoltavano nemmeno il cantato del povero ragazzo diviso e atrofizzato dagli spasmi. Dopo quarantaquattro anni si può affermare che sia stato un bene, una coincidenza strabiliante da lasciare sbigottiti. 

I temi affrontati nel disco sono circumnavigazioni spettrali, con la fatica incollata alla mancanza di ogni speranza, un lucidare la morte spegnendo la vita, depositando i sogni nel caveau dove ogni interesse non poteva maturare. Eretto, nerboso, elettrico e potente, una incudine lenta con accelerazioni che precedono la lunga processione che conduce nella zona del silenzio che può consegnare la verità. I brani sono uniti solo dal fatto che i musicisti e la voce risultino  perfettamente riconoscibili: per il resto è una slavina che scompone ogni armonia e la delicatezza muore secondo dopo secondo, snervando i sogni e le velleità per conquistare un eremo che si chiama Capolavoro, quello che non rende felice nessuno, il più triste che si possa immaginare…

Tutto, in questo getsemani moderno, si dirige verso la non piacevolezza e l’urto incombente tra il desiderio di sentire come procede e l’assoluta volontà di spegnere ogni transistor.

Ed esistono ancora persone che definiscono questo lavoro “dark”...

Il delicato vetro di quest’ultima creazione non è nient’altro che un circo dove il clown non esce, mostra il suo trucco attraverso ombre cinesi, e i cavalli, quelli di solito non domati, qui si siedono e si fanno pettinare la criniera dalle lacrime congelate di Ian, assoluto protagonista, non voluto, di un assolo lacerante, verso dopo verso. L’atmosfera, plumbea e vibrante, conduce spesso al fastidio, alla reazione di anime che vorrebbero negare la vera identità di un ascolto che spezza lo stomaco. Riti, ideali, dispersioni, scontri, dal “No Future” del Punk al “Sono fottuto”: sembrano essere passati tanti anni e invece no, i Joy Division con questo gioiello dimostrano come ogni impeto possa perdere foga e trovare la melma di attriti sempre più coscienzosi e capaci. Sconvolge il fatto che la band dimentichi la poesia della metodica Post-Punk, fatta di riferimenti letterari della fine dell’Ottocento per divenire l’avamposto di una serie di furibonde analisi introspettive: forse è proprio per questo motivo che la definizione del genere nei confronti di Closer perde valore, in quanto veniamo catapultati su un lettino scoprendo che uno psichiatra fatica a raccogliere informazioni. Avviene per le parole come per la musica: la forma canzone, solo apparentemente, aiuta a credere che la pazzia non sia una molla che prende la vita e la fa rimbalzare ordinatamente. È esattamente il contrario e da qui inizia la difficile gestione di artrosi, artriti e degenerazioni che parrebbero cadere nel lago del malcontento. 


Si debbono individuare le zone di appartenenza, quelle di rifiuto, quelle nelle quali la band si scontra con se stessa, con il produttore, con il tempo che non sembra in grado di accettare che questi figli non vigilino sul reale, ma decidano invece di posizionarsi sulla coda del tempo per dare una serie di addii. Muore tutto in queste nove canzoni, nessuna ipotesi di copia e incolla, di una riproduzione o di una continuazione, perché il vero capolavoro è quello in cui il proprio senso, il proprio spazio, nella collocazione misteriosa che non mette a proprio agio nessuno, sia un archivio irraggiungibile anche per il futuro.

Closer, dall’iniziale terremoto sensoriale, diventa una galassia in continua esplosione, tra ritmi tribali, circonferenze genetiche in ebollizione e la smagnetizzazione di ogni fiducia. Non può e non deve piacere questo insieme di tensioni, ma devono essere insegnanti ingobbiti dalle diottrie dubbiose in quanto, forse, il primo guadagno di questo lavoro è proprio quello di dare alla vista meno importanza possibile. Ed ecco quindi che l’apparato uditivo si trova a soccombere, incapace di gestire queste non canzoni, queste disarmonie, stonature, ansie, apprensioni e suoni cadaverici che sotterrano ogni sorriso.

Ha una collocazione temporale scolorita dalla mancanza della conoscenza e della memoria da parte di chi quegli anni non li ha conosciuti, vissuti, desiderati: molti album del 1980 sono coperte lise, bucate, assottigliate, e se questo ha resistito è solo apparentemente per un legame con la tragedia.

Ora è tempo di scendere nelle corsie di queste composizioni per assestare alla consapevolezza un uppercut deciso, perché nulla è concesso all’ascolto se non avere un vuoto vicino nel quale gettarsi…


Song by Song


1 - Atrocity Exhibition

Con un inizio tribale da cui i Cure prenderanno moltissimo, si entra nella zona della non melodia, di una continua infiltrazione psichedelica che viene controbilanciata dal cantato di Ian, l’unico in grado di dipingere una sottile linea armonica. Ma è un tripudio di suoni, sciabolate, con il basso che pare affiancarsi al funk per rallentare la venatura acida dell’approccio chitarristico di Bernard, mentre Stephen mette ghiaccio nelle vene per una omogeneità, non voluta, con le parole del cantante. Un inizio snervante, lungo, che subito mette in chiaro le cose: Closer non sarà la festa dei sensi ben pettinati…



2 - Isolation

Unknown Pleasures si affaccia solo per il basso pieno di nevrosi e il drumming, per il resto avvertiamo la presenza di un synth che getta la band in una nuova zona e prospettiva: precedere il tempio della musica con una esagerata esibizione di mute espressioni in circospetta esibizione. Pare mettere dosi di allegria quella tastiera ma, invece, il brano è una splendida contorsione, nel dirupo di una solitudine che avanza e reclama attenzione. Si danza come robot in prestito dai Suicide, evidenziando piuttosto i confini di un rock in fase di escursione. 



3 - Passover

L’autonomia dell’intenzione, quando è ingravidata da certezze nerastre, si fa supportare da chitarre accennate e taglienti, un basso quasi nascosto, un drumming semplice ma militare, sino a quando si scopre una evoluzione che genererà, nell’arpeggio di Bernard, un nuovo genere musicale di cui i The Sisters Of Mercy saranno i primi discepoli. Ian è un rabdomante calcolatore, spietato, chirurgico, mai impulsivo, trattiene la catastrofe dei versi in un cantato che sembra solo apparentemente privo di ogni emozione. Brano che mostra lo scricchiolio dell’anima e una capacità della musica di continui allarmi, la non voglia di trovare un momento in cui la canzone possa conoscere vette diverse. Misteriosa, dilegua in ogni suo movimento il desiderio di vivere…



4 - Colony

L’attacco glam, poi via, dopo pochissimi secondi, nei territori dei Killing Joke, dove il nervosismo passa attraverso i cavi, le rullate e le oscillazioni di una chitarra epilettica…

Roboante, sfibrante, una progressione di tagli sulla pelle e la sensazione di una gemma che desidera nascondersi…



5 - A Means to an End

Il futuro conosce se stesso solo dopo la morte: questo miracolo balistico spazza via la storia del Post-Punk, di ogni dottrina preventiva per spalancare lo stupore e irrigidire i nervi. Invita la danza a rimanere legata come una prostituta mentale, per generare delirio e maldicenze varie. Il primo momento di una costruzione scheletrica dei futuri New Order appare come un arcobaleno in decadimento, che misura le cose, gli impeti, affidandosi a una chitarra che pare figlia dell’album Scream dei Banshees. Ma il basso di Hook è il vero mantra, colui che ipnotizza prima che il cantato baritonale di Ian ci sequestri l’anima per l’eternità….



6 - Heart and Soul

Una vita, gli eccessi, gli estremi, le calamite, i disordini e l’ubbidienza a un destino da scrivere in fretta assorbono l’intera composizione con un cantato quasi dolce, perfettamente intonato, quasi potente, del tutto devastante, all’interno di una architettura che non indugia ma che trova il metodo per strutturare il tutto in pochi movimenti sino a dare, nel finale, l’impressione di un abbandono volontario a se stessa. Tutto è accennato, misurato, scheletrito, raffreddato, messo nella cantina delle decisioni che logorano i nervi, annichilendoli…



7 - Twenty Four Hours

Il manifesto e l’apoteosi di un attorcigliamento dei muscoli trova la pulsione Post-Punk all’interno di bacilli e virus che rendono l’ascolto un cielo in caduta libera, senza appigli. Magnetica, buia, devastante, affida al terzetto musicale il compito di disegnare lacrime, mentre a Ian tocca illuminare il disastro esistenziale, in un epilogo che frantuma ogni sogno. La voce, sapientemente illuminata dalle polveri oscene di un villaggio artico, rende inutile ogni gioia, con l'imbarazzo di un ascolto che potrebbe, da solo, spezzare ogni respiro…



8 - The Eternal

Martin Hannett scrive il suo epitaffio con la band di Manchester, donando la sua classe a una canzone che non è altro che una processione misurata dal minimalismo di un piano che tocca le lacrime portandole dentro le parole di Ian, per dare a questo palcoscenico l’odore di macerie intellettuali e fisiche, in un abbandono floreale che incanta sebbene paralizzi. Si entra nell’intimo, nei posti normalmente inaccessibili, di un'anima in litigio con se stessa, dove la frattura evidente si specchia nella teatralità di cupe e avide atmosfere. Muore la Musica attraverso uno spettro cupo rimbalzante nella voce piovigginosa che annichilisce il pianto. Niente di simile era mai apparso prima e non troverà il futuro a sospirare per un seguito: il brano è una processione che oltrepassa le definizioni, perché inserito in una nuvola che si dissolve secondo dopo secondo…



9 - Decades

L’ultimo petalo è sintetico, una tastiera che sembra uscire da un videogame in bianco e nero, un progressivo e lacerante consumo di ogni vitalità entra nel cimitero dei sogni a sincronizzare la giovinezza con la vecchiaia di ogni volontà, nella sfibrante decadenza di una esistenza che cancella ogni scatto. Un assolo della tastiera conduce Ian a porre una domanda che mette l’assenza sul trono, a testa bassa, in uno spazio dove ogni respiro nel microfono diventa un grido sincopato che non fa altro che pronunciare una sentenza obbligatoria, lasciando il cuore nella sua dannazione. Secca, come una tavolozza acrilica senza pulsioni, la canzone esalta il mood dell’album e abbraccia la band nel suo saluto: non esiste addio quando la storia ha deciso che questo lavoro rappresenterà un unicum per i posteri, con l’imposizione che nulla dovrà assomigliargli…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

9 Maggio 2024


domenica 21 aprile 2024

La mia Recensione: Duran Duran - The Chauffeur

 


Duran Duran - The Chauffeur 


Quando le favole si tingono di nero, si caricano del dramma, affondano le mani nel sacrilegio del dolore, la confusione diventa l’unica chiarezza, in una corsa affannata verso quell’amore che nega di spalancarsi, di essere consumato senza onde malefiche.

Abbiamo la fortuna di poter pensare a tutto questo ascoltando una chicca che resiste all’usura, che ancora oggi ferisce, per una strana apologia che non può essere scalfita da teorie opposte. Un gioiello pieno di brillantini che non soffoca la magnificenza che alberga nella sua profondità, regno dove la magia e il segreto continuano a pulsare.

La band di Birmingham, che ha depositato nello scrigno del tempo questa cometa senza morte sul suo dorso, scrisse nella maturità della sua adolescenza questo brano, vascello, treno e soprattutto auto, per portare concetti morali a bordo di una storia dove l’amore, la passione, il fastidio, l’ineluttabile consumo dei desideri potessero divenire un messaggio spinoso, una puntura mentale che, insinuandosi ascolto dopo ascolto, causasse una paralisi, come unico vero atto di devozione a un circuito che già di per sé era in grado di generare dipendenza. Saper coniugare la sensazione pop a una fascina di tensioni grigiastre con l’uso dei synth (veri piloti di questa lenta corsa), è un’operazione davvero notevole, con la capacità di lasciare nella bocca degli ascolti un gusto amaro e dolce, in un connubio che azzera ogni competizione. Il pianoforte in modalità flanger, il basso sensuale, il lavoro di programming, della drum machine e poi della batteria confluiscono tutti quanti in un testo, nella voce, per direzionarsi nel ventre della notte, lo scenario perfetto dove relazionarsi con la meditazione, fatto, in sé, da vivere come un avvenimento disarmante se si prendono i Duran Duran per quello che erano, ragazzi alla ricerca del successo e ingiustamente non considerati musicisti di talento e grandi capacità. Ci pensa questo brano a sgombrare dubbi, a immergere la classe nella clessidra del tempo, dove nulla può avere data di scadenza. Quello che magnetizza il tutto è il flusso poetico di questo testo, una storia che puzza di frustrazione, di un amore segreto che spia senza avere possibilità di essere corrisposto, in una flagrante detonazione razionale che coinvolge i battiti del cuore, in una pulsante drammaticità, che vede convogliare generi musicali in un atrio dove l’accoglienza e lo studio sono incrociati per completare la perfezione di un progetto. In questo scenario il divertimento sparisce, dissolto da queste trame sonore e dalla voce nasale di Simon che sembra soffocare le parole con il suo registro alto per sfumare poi nel crooning finale.


Tracce di Baudelaire, di Ian Curtis, del teatro folle che cerca di dipingere le pareti del cervello con cupi colori, scendono nelle onde ipnotiche del brano sin dall’inizio, con note drammatiche del piano che già esibiscono il respiro pesante, per convogliare il magnete senza possibilità di sgancio verso il nostro ascolto: l’insieme è una spinta verso le viscere del desiderio, la sua attrazione verso l’impossibilità che esalta la morte.

L’arpeggio del synth è la vera goccia diabolica che scende sui nostri timpani: ingannevole in quanto apparentemente piacevole, con il passare dei secondi diventa una tortura che non lascia scampo, concedendo a un flauto sintetico di recare un sollievo momentaneo, una nuova forma che cattura l’apparato uditivo. 

Il nervo synthpop è in grado di perlustrare la decadenza tipica del post-punk, per un miracolo mesmerico, una “piacevole” camicia di forza, un loop da cui correre via è impossibile, come dal penitenziario di Alcatraz. In questo contesto, si rende evidente lo sconvolgente approccio nella scrittura di un impegno, che qualifica la band e la mette in condizione di essere meritevole di essere ascoltata da chi storce il naso: tutto spazzato via da questi trecentoventuno secondi di amletica propensione, dove tutto si complica, diventa una metafora adulta che si appiccica allo scettro di qualità innegabili. Eccoci nella cruda realtà, non c’è nulla di profetico, nessuna bugia, ma un lungo calvario che non declina responsabilità, anzi, fa l’opposto, per generare moti consapevoli che oscurano il futuro…


Minuti come insetti prendono sede nell’alchemica forma di una canzone che fugge pure da se stessa, avendo sulle caviglie tenebrose note che rimarcano la sensazione che negli anni Ottanta anche essere dei voyeur dell’amore significava far parte della squadra della sofferenza, in cui l’oggetto del desiderio, così agognato, diveniva l’unico colpevole. I Duran Duran lo presero e lo rinchiusero nella canzone che ne attesta la colpa, per l’eternità…

Si ha la sensazione che i cinque abbiano preso gocce d’acqua e le abbiano depositate nelle note, filtrate, coccolate, per lasciarle poi andare verso il loro destino, come se tutto fosse solo l’anticipo di una nuova modalità artistica che di lì a poco si sarebbe palesata del tutto. E avvenne: da questa perla sono nate imitazioni sghembe, ma anche artisti in grado di cercare di ripetere il miracolo di questa processione razionale e sensoriale. La raffinatezza, la produzione, il lavoro di sinergie protese verso la luce della candela che rende cupa la scena fanno rabbrividire, finendo con l’avere nelle tasche fazzoletti pieni di lacrime che danzano lentamente durante l’ascolto, da sole.

Quando la musica non ha possibilità di negarsi la permanenza nella volta celeste, ecco che divenire succubi rimane l’unica gioia praticabile, malgrado il contesto…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

21 Aprile 2024

giovedì 18 aprile 2024

La mia Recensione: David Potts - The Blue Tree / The Red Tree (2 album)



 

David Potts - The Blue Tree / The Red Tree (2 albums)


Come è buffa la vita, quando riempie il pianeta di esistenze che sembrano avere poca visibilità e poi, immediatamente, le ributta nelle strade dando loro una nuova occasione. È il caso del protagonista di questo scritto, un talento indiscutibile, in grado di creare, con la sua fantasiosa e abile versatilità, due album in uscita contemporanea, quasi per tappare il buco di un’assenza che a parere del Vecchio Scriba sembrava una bestemmia, visto il valore di queste ventuno composizioni totali. Due alberi, due figure paterne, proprietari del percorso di questo artista, dai connotati solo in parte simili, vedono il musicista (chitarrista e bassista) e cantante muoversi tra l’alternative, l’indie pop, il folk più solare, la dance elegante e leggera.

Nel 1989 a Manchester il bassista dei Joy Division formò una band che si chiamava Revenge. Uno dei loro membri, che sostituì l’originale chitarrista David Hicks, è il soggetto di questa recensione. Dopo quella esperienza con Peter Hook i due misero in piedi il progetto Monaco che tanto ebbe successo con il brano What do you want from me, antipasto dell’insieme di attitudini dance che scrissero.

E dopo diversi anni eccoci a parlare dell’esordio come solista di David Potts con gli album The Blue Tree e The Red Tree

The Blue Tree appare come la descrizione di una giornata primaverile attorno a questo albero, con canzoni che volano come uccelli felici di tornare ad abitare in quei luoghi, libere di muoversi con gioia e capaci di contaminare l’entusiasmo con la loro esuberanza giovanile.

The Red Tree pare, invece, un insieme di brani scritti da quegli stessi uccelli con qualche anno in più, dove la maturità si mostra anche con approcci più spigolosi, in cui il ritmo rimane alto ma con maggior decisione nel tracciare il percorso di quei voli. Si ha come l’impressione che si sia nei paraggi dell’autunno, ma con la volontà di avere ancora quei sorrisi che solo la primavera sa distribuire.

In entrambi i lavori la scrittura è sorprendente, scavando nei territori celesti degli anni Settanta e proseguendo nella decade successiva per quanto riguarda l’aspetto di brani eclettici, che fanno danzare. La chitarra, quando si presta ad esibire assoli brevi ma efficaci, dimostra l’intenzione di catturare il senso delle composizioni, perfezionandole ulteriormente, facendoci vibrare e volare con la mente attorno a quei due alberi, che, alla fine dell’ascolto dei due dischi, paiono essere amici di lunga data.

Si riesce a sorridere, ridere, pensare, ballare in un cielo che sembra così lontano da quello di Manchester, per trovare immagini, luoghi e sensazioni che ci mostrano il mondo in lungo e in largo, con il merito di farci salire sulla sospirata macchina del tempo. 

Decisamente un debutto meraviglioso che non deve sfuggire alla vostra fame  musicale, se volete che sia ricoperta di qualità.


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
19 Aprile 2024


My Review: Gene - Olympian

  Gene - Olympian ‘Life and dreams are sheets of the same book. To read them in order is to live, to leaf through them at random is to dream...