sabato 10 agosto 2024

La mia Recensione: Leech - Sapperlot


 

Leech - Sapperlot


Il cielo, dalle parti di Strengelbach, nel canton Argovia, è un testimone cosciente di flussi energetici pregni di astensione e gentili esercizi melodici che provengono dal quintetto svizzero che con l’ultimo lavoro si è concesso una navigazione tra le nuvole, in un binomio continuo tra l’essenza della musica che pilota i sogni e i fantasmi indecenti della realtà.

L’emozione vince sulla fisicità immersa nell’astratto e il concetto che insegue le somme della bellezza, in cui la contaminazione è una freccia contemplativa che si attacca alla sperimentazione, nell’imbuto dello smarrimento il senso di perdita acquista sensualità e l’esistenza ultraterrena converge in uno stato di sospensione.

I cinque manipolano ventotto anni di carriera per sintetizzare il poderoso imprinting post-rock e dirigersi verso una mastodontica foresta colma di colorati fiori ambient e in un pop pieno di vette attrattive che cambiano lo sguardo del loro percorso. Ecco che la loro arte si trasforma in un abbraccio seducente fatto di segnali luminosi che modificano il passato in un presente non più ipnotico e cadenzato, bensì in un groviglio di magia che bacia il battito con riff meno adiacenti alla tristezza e un uso più evidente di tastiere, piano, vibrafoni, per rendere sottile il dolore di un caos che in queste sette tracce è evidente, come domanda e non come risposta al trambusto sonoro quotidiano.

Si sale in montagna, con una pragmatica propensione a trovare due situazioni per ogni singola canzone: un loop su cui l’insieme si fa adiacenza mutante, e un secondo momento nel quale il cambio ritmo, reale o apparente, muta gli accordi e le percezioni. Questo è un atipico stratagemma per fare un concept album, non per argomenti (no, non si commetta l’errore di pensare che un album strumentale non possa essere anche un concept sonoro…), ma grazie alla costruzione aritmetica che diventa un aquilone in grado di trascinare le pulsioni verso il senso di vuoto che viene obbligato  a compiere un percorso di riempimento, riesce a realizzare il desiderio.

Quando la poesia non ha bisogno delle parole allora si rimane basiti, defraudati delle proprie abitudini (stupide), e si corre il rischio di imparare che da queste sette tracce esiste la scorciatoia nei confronti della flessibilità mentale.

Nel gioco delle visioni tutto si rimpicciolisce perché la band svizzera sfrutta l’ossessione del dettaglio, della ripetizione, in una corsa pirata nell’individuazione dello stretto necessario, per rendere l’ascolto un manichino di seta, in una giornata nella quale ciò che arriva è una valanga, sostanzialmente lenta, quindi ancora più greve e spavalda.

Il post-rock degli esordi rimane una intuizione, una necessità che riduce l’impatto verso la perdizione, ma, in questo gioiello balsamico, fa da spalla e non riveste il ruolo principale, per nutrire una vorticosa aspirazione di schemi stilistici ormai saturi, tra ripetizioni che ogni genere musicale tende a vivere.

Sorpresa, rinnovamento, percorsi nuovi che riempiono le strade degli ascolti verso una tempesta al rallentatore, in cui il proprio destino è quello di scrivere, nella propria mente, una storia che ci vede sconfitti con onore…

Sapperlot è una sfida segreta alla vita, nessuna foto, poco cinema, qualche proiezione, solo una lenta tazza di caffè che entra nel cuore, lasciando un gusto afono, un brivido di paura e sgomento, con carezze vitaminiche che ci riportano al tempo in cui la musica era una carneficina, data la somma di emozioni che si subivano, senza potersi opporre. Ed è ciò che accade in questo contesto: la clessidra scivola, tutto si fa sghembo, e una lucidità nucleare fa esplodere i nostri spasmi.

Il rock dei Leech è un'anestesia, un piacevole inganno, una viscerale protesta nei confronti dell’affanno e una cura razionale verso le esagerazioni di un'industria musicale che non coltiva più la bellezza vergine della magia.

Non è chiaro da dove nasca questa attitudine del gruppo a sorprendere gli ambitissimi spazi dello smarrimento, della perdita, in un quasi silenzio che opera in frequenze a stretto contatto con l’assimilazione di giochi prospettici diretti, diritti, mai abitati dalla ingenuità. Si piange sorridendo, si sogna camminando, si fa l’amore tremando, e ci si dirige nella periferia del tempo, con  il dono di perderlo del tutto.

In questa simbiosi di stili e generi musicali, niente è vacante, e la melodia, un tempo conferita dagli incroci di chitarre piene di sale e pepe, oggi preferisce dare alla tastiera la guida, per rendere più tiepidi i raggi solari di queste morbide frustrate, in un bacio tra rive piene di acqua e tormento. Un’orchestra che pare comprendere tutti i 540 strumenti musicali, nell’apoteosi che mette il cielo in ginocchio.

Urs Meyer come sempre prende la sua sei corde e cammina tra le ortiche, Marcel Meyer fa lo stesso, utilizzando però anche le tastiere. Serge Olan suona la batteria come se dovesse farci toccare la vibrazione del tempo, in un applauso all’Olimpo continuo. David Hofmann gioca da playmaker, distribuendo il suo talento tra il basso, le chitarre e la tastiera. Alessandro Giannelli siede su uno sgabello per illuminare l’armonia con la tastiera, il vibrafono e spostandosi per percuotere tenui tamburi.

Sono cavalieri silenziosi di una solennità che turba, entra nei nostri balbettanti contorsionismi, distribuendo pillole di saggezza, proferendo una sola parola in tutto l’album: Love…

Ed è proprio l’amore da cui arriva l’idea, il concetto di una espiazione minimalista che induce chi ascolta a riflettere sul significato di un rapporto impari: sono canzoni che ammutoliscono, non permettendo assolutamente di rivelare cosa la cassa toracica stia vivendo.

Ossessionante è la ricerca di una produzione capace di guarire l’anomalia moderna che non la vede più come parte integrante di un percorso di costruzione. Qui, invece, si assiste a un patto, compatto, di alleanze e proiezioni.

Ed è shock, che si attacca alla speranza che il disco non finisca, in quanto in ogni rapporto salute e malattia diventano complici di un progetto celeste: sono note che scendono per volare nell’acqua, nella rovente estate dell’esistenza, dove il calore rende secca la gioia. 

Vengono colpite, secondo dopo secondo, le zone del pressapochismo, del dilettantismo osceno, con un esame di maturità di cui il Vecchio Scriba è certo non verrà compresa l’importanza: con un lavoro come questo si diventa gnomi nel circo delle aquile volanti, senza becco, senza cibo ma con la pancia degli occhi sazia…

È tempo di perlustrare questi vicoli: allacciate le cinture e bevete un bicchiere di vino rosso, perché nella lentezza del sapore vive il segreto di ogni scintilla di intelligenza…


Song by Song


1 - Knock Knock 


Knock Knock è uno shock: scintille di Beautiful People dei Marilyn Manson sembrano confiscare una intera carriera ma è solo un attimo, basta avere pazienza e noterete come le note grasse e distorte si combinano con la strategia ipnotica delle tastiere e del piano, per legittimare il volo di un masso…



2 - Rotor Heart


Ancora un suono denso iniziale, e poi il ritmo si mette una corsa sulle spalle, con il basso che grattugia le scie del cielo e il verticale ingresso delle tastiere fa oscillare la sensazione che un ciliegio abbia abbandonato la stabilità per divenire una impronta di luce. Il drumming dipinge la traiettoria, la tastiera sembra un sax in una giornata priva di nuvole e il fiato diventa la prigione di un sogno senza più piume…



3 - Crown Me With Whisper


Una ipnotica danza del pensiero si traveste, nel circolo atmosferico di una tastiera che circonda l’asfalto, in un sottile approcciarsi a drammatiche visioni tipiche della western music, per collaudare l’approccio all’ambient e alla world music, consentendo alla lentezza di essere una spugna, dove i drammi delle nuvole arrivano ai nostri sensi. Il drumming è una marcia che pare portare le chitarre a dormire sul ciglio di una strada senza pareti…



4 - Pick A Cloud 


Nyman e Sakamoto, uniti anche se in due dimensioni diverse, prendono appunti nei primi secondi del brano, e poi è un vistoso e antico gioco mnemonico di cosa fosse il post-rock agli albori, un dilemma ritmico che non riesce a togliersi di dosso il fiato di una pulsante radioattività melodica: poche note possono bastare a rendere lucido il volto…



5 - Starmina


Si rallenta il ritmo, ma aumenta il senso di perdita, di struggimento che plana in una zona in cui le note paiono in attesa: non di una esplosione bensì di una fuga sommessa, pacifica e silente. Invece no: tutto si fa mistero e, come in un film di Bergman, il precipizio sembra un piacevole luogo dove rendere mute le stelle. Un carillon dei sensi che diviene più pesante, irrobustito da una chitarra che gratta via la pelle, lentamente…



6 - Alfonso’s Night


Di cosa è fatto il vento? Qual è la sua velocità ideale? Dove vorrebbe andare e cosa gli impedisce di raggiungere l’obiettivo? Chiedetelo a Alfonso’s Night: in questa gemma poliedrica sicuramente troviamo custodito il mistero, in una seduta psicologica dove l’ipnosi è data da un rovistare tra le vene di una emozione ridotta al minimo, ma urlante… Si piange con ossessione e gravità, in un cilindro che sembra aspettare la traiettoria ritmica che arriva quando Serge batte il suo piede sulla grancassa e i suoni si fanno più sibilanti. Momento strategico che ci riporta alla mente il brano di Peter Gabriel nel film Birdy - Le ali della libertà, quando lui riesce a volare ed è evidente che accada anche qui: siamo tutti uccelli in un volo pieno di tristezza celestiale…



7 - Everything Will Be The Same


Lottare contro il destino, l’ostinata volontà dell’uomo di ripetere ogni sciocchezza viene evidenziata da questa litania sepolcrale, summa dell’intero lavoro: si alzano le spalle, sgomenti, si trovano brillantini sonori che sembrano carezze davanti al cadavere della esistenza. Rimane l’amore. Pronunciato. Descritto con questo assione che rende i circuiti elettrici del cervello in trepidante attesa, un addio che  non si può fermare. Il brano mostra più varietà rispetto agli altri sei in quanto deve ospitare una serie di addii, di congedi, un abbraccio liquido che con coraggio ci riporta nella condizione di intendere che quello che abbiamo ascoltato è uno spettacolare volo di piume abbandonate per sempre alla loro bellezza… E in questa lacrima la loro musica si siede per baciarci, nel tempo di un sodalizio che avrà reso noi tutti esseri viventi fortunati…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
10 Agosto 2024


Su Bandcamp l'album uscirà il 13 Dicembre 2024

My Review: Leech - Sapperlot


 Leech - Sapperlot


The sky in the vicinity of Strengelbach, in the canton of Argovia, is a conscious witness to energy flows full of abstention and gentle melodic exercises emanating from the Swiss quintet who, with their latest work, have indulged in a navigation among the clouds, in a continuous union between the essence of music that pilots dreams and the indecent ghosts of reality.

Emotion triumphs over physicality immersed in the abstract and the concept chasing the sums of beauty, in which contamination is a contemplative arrow that sticks to experimentation, in the funnel of bewilderment the sense of loss acquires sensuality and otherworldly existence converges in a state of suspension.

The five manipulate twenty-eight years of their career to synthesise the mighty post-rock imprinting and head towards a mammoth forest filled with colourful ambient flowers and into a pop full of attractive peaks that change the look of their path. Here, their art is transformed into a seductive embrace made of luminous signals that change the past into a present that is no longer hypnotic and cadenced, but into a tangle of magic that kisses the beat with riffs less adjacent to sadness and a more evident use of keyboards, piano, vibraphones, to make subtle the pain of a chaos that in these seven tracks is evident, as a question and not as an answer to the daily sonic bustle.


It climbs the mountain, with a pragmatic propensity to find two situations for each song: a loop on which the whole becomes mutant adjacency, and a second moment in which the change of rhythm, real or apparent, changes chords and perceptions. This is an atypical stratagem for making a concept album, not in terms of subject matter (no, do not make the mistake of thinking that an instrumental album cannot also be a sound concept...), but thanks to the arithmetical construction that becomes a kite capable of dragging the impulses towards the sense of emptiness that is forced to take a path of filling, it succeeds in realising desire.

When poetry does not need words, then one is left dumbfounded, defrauded of one's (stupid) habits, and one runs the risk of learning that there is a shortcut to mental flexibility from these seven tracks.

In the game of visions, everything shrinks because the Swiss band exploits the obsession with detail, with repetition, in a pirate race to find the bare minimum, to make listening a silk dummy, in a day in which what arrives is an avalanche, substantially slow, and therefore even more raw and swaggering.


The post-rock of the beginnings remains an intuition, a necessity that reduces the impact towards perdition, but, in this balsamic jewel, it acts as a shoulder and does not play the main role, to nourish a swirling aspiration of stylistic schemes that are now saturated, amidst repetitions that every musical genre tends to experience.

Surprise, renewal, new paths that fill the roads of listening towards a slow-motion storm, in which one's destiny is to write, in one's mind, a story that sees us defeated with honour

Sapperlot is a secret challenge to life, no photos, little cinema, a few projections, just a slow cup of coffee that enters the heart, leaving an aphonic taste, a shiver of fear and dismay, with vitaminic caresses that take us back to the time when music was a carnage, given the sum of emotions that one underwent, without being able to oppose. And that is what happens in this context: the hourglass slips, everything becomes unhinged, and a nuclear lucidity explodes our spasms.

Leech's rock is an anaesthesia, a pleasurable deception, a visceral protest against breathlessness and a rational cure for the exaggerations of a music industry that no longer cultivates the virgin beauty of magic.


It is not clear where this group's aptitude for surprising the coveted spaces of bewilderment, of loss, in a quasi-silence that operates in frequencies in close contact with the assimilation of direct, straightforward perspective games, never inhabited by naivety, comes from. One cries while smiling, dreams while walking, makes love while trembling, and heads into the periphery of time, with the gift of losing it altogether.

In this symbiosis of musical styles and genres, nothing is vacant, and the melody, once conferred by the intersections of guitars full of salt and pepper, now prefers to give the keyboard the lead, to make the sunbeams of these soft frustrations warmer, in a kiss between banks full of water and torment. An orchestra that seems to include all 540 musical instruments, in the apotheosis that brings heaven to its knees.

Urs Meyer as always takes his six-string and walks through the nettles, Marcel Meyer does the same, but also uses keyboards. Serge Olan plays the drums as if to make us touch the vibration of time, in a continuous clap to Olympus. David Hofmann plays playmaker, distributing his talent between bass, guitars and keyboard. Alessandro Giannelli sits on a stool to illuminate the harmony with keyboard, vibraphone and moving to beat soft drums.  They are silent knights of a solemnity that unsettles, entering into our babbling contortions, dispensing pills of wisdom, uttering a single word throughout the album: Love...

And it is precisely love from which the idea comes, the concept of a minimalist atonement that induces the listener to reflect on the meaning of an unequal relationship: these are songs that muffle, allowing absolutely no disclosure of what the ribcage is experiencing.

Haunting is the search for a production capable of healing the modern anomaly that no longer sees it as an integral part of a path of construction. Here, instead, we witness a compact pact of alliances and projections.

And it is shock, which clings to the hope that the record does not end, as in every relationship health and illness become accomplices in a celestial project: they are notes that descend to fly in the water, in the scorching summer of existence, where the heat makes joy dry. 

Second after second, the areas of obscene amateurism are hit, with a maturity exam whose importance the Old Scribe is certain will not be understood: with a job like this one becomes a gnome in the circus of the flying eagles, without a beak, without food but with the belly of the eyes full...

It is time to patrol these alleys: fasten your seatbelts and drink a glass of red wine, for in the slowness of flavour lives the secret of every spark of intelligence...


Song by Song


1 - Knock Knock 


Knock Knock is a shock: sparks of Marilyn Manson's Beautiful People seem to confiscate an entire career but it's only a moment, just be patient and you'll notice how the fat, distorted notes combine with the hypnotic strategy of the keyboards and piano to legitimise the flight of a boulder...



2 - Rotor Heart


Again, a dense initial sound, and then the rhythm takes a run on the shoulders, with the bass scratching the trails of the sky and the vertical entrance of the keyboards swinging the sensation that a cherry tree has abandoned stability to become a footprint of light. The drumming paints the trajectory, the keyboard sounds like a saxophone on a cloudless day and the breath becomes the prison of a dream with no more feathers...



3 - Crown Me With Whisper


A hypnotic dance of thought disguises itself, in the atmospheric circle of a keyboard surrounding the asphalt, in a subtle approach to dramatic visions typical of western music, to test the approach to ambient and world music, allowing the slowness to be a sponge, where the dramas of the clouds reach our senses. The drumming is a march that seems to lead the guitars to sleep on the side of a road without walls...


4 - Pick A Cloud 


Nyman and Sakamoto, united even if in two different dimensions, take notes in the first few seconds of the track, and then it's a flashy, old-fashioned mnemonic game of what post-rock was in its early days, a rhythmic dilemma that can't shake off the breath of pulsating melodic radioactivity: a few notes may be enough to make the face shine



5 - Starmina


The rhythm slows down, but the sense of loss increases, of yearning that glides in a zone where the notes seem to be waiting: not for an explosion, but for a subdued, peaceful and silent escape. Instead, no: everything becomes a mystery and, as in a Bergman film, the precipice seems a pleasant place to render the stars mute. A music box of the senses that becomes heavier, strengthened by a guitar that scratches away at the skin, slowly.


6 - Alfonso's Night


What is the wind made of? What is its ideal speed? Where would he like to go and what prevents him from reaching his goal? Ask Alfonso's Night: in this multifaceted gem we surely find the mystery enshrined, in a psychological session where hypnosis is provided by a rummaging through the veins of a minimised but screaming emotion... It cries with obsession and gravity, in a cylinder that seems to be waiting for the rhythmic trajectory that arrives when Serge stamps his foot on the bass drum and the sounds become more sibilant. A strategic moment that reminds us of Peter Gabriel's song in the film Birdy , when he manages to fly and it is evident that it happens here too: we are all birds in a flight full of celestial sadness...


7 - Everything Will Be The Same


Struggling against destiny, man's stubborn will to repeat every nonsense is highlighted by this sepulchral litany, the summa of the entire work: one shrugs, dismayed, one finds sonic glitter that seems like caresses before the corpse of existence. Love remains. Pronounced. Described with this axion that makes the electrical circuits of the brain in anxious anticipation, a farewell that cannot be stopped. The track shows more variety than the other six in that it must accommodate a series of goodbyes, of farewells, a liquid embrace that courageously brings us back to the condition of understanding that what we have heard is a spectacular flight of feathers abandoned forever to their beauty... And in this tear their music sits down to kiss us, in the time of a fellowship that will have made us all fortunate living beings...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

10 August 2024


https://leechofficial.bandcamp.com/merch/sapperlot-vinyl-lp


On Bandcamp will be available on 13/12/2024

mercoledì 24 luglio 2024

La mia Recensione: Genesis - Foxtrot


 

Genesis - Foxtrot 


Nel tempo della banalità che si ripete e sbianca l’oceanica, iniziale, nutrita forma di colori, non c’è posto per interessarsi a un fenomeno, generazionale e sociale, che ha reso l’acqua e l’aria fratelli siamesi, in volo dentro note nate per essere assorbite e dilatate, sotto una forma che pareva una sterile esibizione di tecnica e un passatempo per generare gioia in chi la formulava e noia in chi la ascoltava. Quelle gradazioni, ingigantite con la psichedelia e con la post-psichedelia, stavano cercando la magia per potersi evolvere, spostando il senso della loro esistenza, buttandosi a capofitto nel primo e fondamentale album dei King Crimson. Da lì tutto emerse, esplose, si dilatò per fare del progressive rock un vero e proprio genere musicale, ma, detto questo, era solo per principiare un discorso molto ampio. In realtà un tessuto enorme incominciò a creare una massa densa di contenuti, satelliti e scintille in grado di dare al tutto un inspiegabile fascino, aggregando milioni di ascoltatori a deliri acidi privi di supporti indotti da droghe. Si doveva dare spazio alla fantasia, alla cultura, a un impegno che rendesse la coscienza parte attiva di un generoso e inaspettato scambio. Il blues, la musica classica si unirono ai due aspetti stilistici accennati in precedenza e venne fuori una “progressiva” fiumana di intuizioni, esperimenti sempre fertili in grado di far vedere la musica, in un book fotografico sempre disposto ad accoppiare la mente e il cuore, in una camminata che conduceva a nuovi orizzonti. Occorreva coraggio, forza, un impegno e la convinzione che ci si inseriva già, sin dall’inizio, in un percorso astruso, verticale, una discesa libera all’inferno in attesa che il paradiso accorciasse la distanza. Cambiava l’istinto, il senso, la canzone diveniva una banalità sorpassata, da guardare senza eccitazione, in quanto quello che si stava facendo andava oltre la sfida: la massa solitamente rifiuta chi si tira fuori dalla comodità, dalla pigrizia, dal prendere uno strumento come il fedele compagno che darà visibilità e successo.

Ne apparvero anche di nuovi, come nuovi erano gli approcci mentre il suono era la scintilla che esercitava quel candore che la musica popolare aveva perso già da decenni. La musica divenne così un gioco serio in cui misurare l’intensità e non solamente le capacità. In questo panorama intenzionale si doveva strutturare il senso che prevedeva sorprese, cambi di direzione e continui flussi di energia.


L'approssimazione (notevole ciò che ha fatto il mellotron richiamando intere sezioni d’archi senza esserlo), la devozione e l’intuizione, diedero una schiena liscia su cui la letteratura trovava ganci e un paio di sci su cui scivolare perfettamente, sollecitando i testi a spalancare percezione e impegno. Favole divenute storie con la morale da andare a cercare, personaggi scomodi, buffi, ma intenti a rendere la coscienza una vittoria e non un peso.

Ogni avventura che abbia in sé chili di eccentricità e di passione, sposta equilibri offrendo al contempo dubbi e certezze, che, amalgamandosi, favoriscono modi diversi di riflettere, di fermare il proprio tempo per entrare, simultaneamente, in altri. 

Eccolo, il nocciolo della questione: tutto ciò che aveva preceduto questo nuovo volto era privo di questa intensità, della elaborazione, gioiva per il successo non cogliendo la possibilità di dare alla musica una dignità che avesse propensioni e intenzioni più radicate nella concettualità e nella diversa forma spirituale.

Poi arrivarono i Genesis con questo disco, dopo un ottimo riscaldamento durato tre album con il quarto (mediante due innesti nella formazione fondamentali) gettarono le carte sul tavolo in un giorno di settembre del 1972 e tutto divenne orgia sinuosa, un febbrile appoggio che si flesse e diventò il nido per fluttuare nei nuovi confini delle stanze mentali. 


La psiche entra nella mitologia, nel frullatore che crea la visione e la drammaticità del dolore per renderlo invincibile, data la volontà di trasformarlo, senza che l’opposizione possa riuscire a impedirlo, in un sorriso gioioso che si intende alla fine del percorso. Che è esattamente quello che è successo con Foxtrot, un immaginario libro educativo per menti spezzate, per realtà senza ossigeno, per la cupezza che pare avere un solo epilogo. Ma queste lunghe gittate sono la palestra di mondi che aspettano a braccia aperte per liberare tossine e affanni, codificarli, catalogarli e, sotto un soffio magico, trasformarsi in una radura dove l’armonia torni a presentarsi.

La controcultura dell’epoca si discostava molto da quella americana: in queste tracce tutto evidenzia questo scarto e non c’è nessun bisogno di fare una scelta. I Genesis posano la fierezza di un avamposto, uno dei tanti che sono necessari per quel preciso momento.

Ci si ritrova, così, ad assistere a trasformazioni, a vivere le pause, i rallentamenti, le accelerazioni, gli sviluppi di metriche ritmiche che sembrano venti contenenti ali di aquile in spostamento rapido, senza avere il respiro di una lucidità che possa far capire ciò che accade.


Sei perlustrazioni, ventagli, temporali, scie gassose, specie animali che con disinvoltura mutano, con le voci che pilotano ulteriormente lo stordimento.

Foxtrot, passo dopo passo, posa la sua gabbia toracica sopra i nostri polmoni e trasforma il respiro in un potente flusso cognitivo dove l’incanto rallegra, stordisce con il giusto limite, dando al vapore la possibilità di diventare una coperta che protegge l’ascolto. Gli scenari conducono gli occhi a vedere l’immaginazione come un festival delle opportunità, dove la divagazione è un merito e non un limite: conta raccogliere le informazioni e spogliarle delle banalità e introdurre un nuovo modo per accentrare la concentrazione. I ritornelli, ad esempio, sono quasi uno scherzo, una quasi inutilità che si usa solo quando si è dato loro un volto diverso.

Ma cosa dire della teatralità dell’insieme, che si prende notevoli rischi, stracciando per sempre la modalità storica della sua imponenza? Musica che ha un copione immenso, assoluto, che cambia scenografia, prima ancora di finire sul palco dei loro incredibili concerti per la tournée promozionale: tutto era già cerone, quinte, camminamenti di personaggi con le storie dipinte sui volti accelerati dall’orgiastica sensazione di invulnerabilità. Parole e suoni che, come cavalli di troia, matriosche bizzarre e impenetrabili, per un lungo viaggio che fa dello sconvolgimento e dell’imbarazzo le redini per rendere impotente ed entusiasta l’ascoltatore, entrano senza imbarazzi nel fascicolo creativo.


È rock senza flessioni, aggrappato come un respiro voglioso di viaggiare nella storia, per sostenere lunghe jam mai in stato di stupida divagazione ma puramente ondivaghe, e il desiderio di concettualizzare temi della storia terrestre, dove il potere, la religione e la libertà espressiva vengono pressurizzati in assoluti e vigorosi esercizi di incolonnamento. Tutto ciò per specificare ogni cosa in raggi di sole da vedere mentre le note e le parole sembrano un lungo drago incapace di ferire, bensì di mostrare la mostruosità che si avvicina all’ascoltatore per indicargli la strada dove il cartello “verità” è esposto. Musica che fluttua come una particella gassosa che non esplode mai, ma si ingrossa per mantenere il nostro fiato privo di precipitazioni.

 Apocalittico (basta osservare l’ultima splendente traccia per vedere come il capitolo dell’antico testamento sia stato scandagliato con meticolosità), analitico (il destino che viene osservato, criticato, suggerito come avamposto dell’umana comprensione), acustico (diverse luccicanti espressioni sonore, in questo contesto, dimostrano come il precedente Nursery Crime non avesse questa determinante peculiarità) e attento alla produzione (qui un paritario esempio di grandezza senza sbavature), permette la percezione di una complessità che può mettere in difficoltà chi non ha una precisa educazione alla varietà. Una sfida vinta avendo in seno qualità indiscutibili e generose.

Quando si ha l’ardore di unire rock, progressive e musica sinfonica, il cammino non può che essere all’insegna del buon gusto, della sottile propensione a non preferire nulla, ma a favorire una coabitazione che sia a disposizione di chi fatica nell’accesso di una delle sue parti. La melodia nell’album è un reattore nucleare: pericoloso ma utile per scaldare i muscoli della mente e rendere coesi i filtri che hanno potuto rendere possibile tutto questo. Si diventa angeli, demoni, profeti, umili anime silenziose e sbigottiti esseri nella lunga traversata temporale che costruisce un dipinto che scioglie il timore e lo trasforma in un vanto. 


La calma, l’aggressività, i cambi ritmo, le pause, i voli pindarici e le stagionature delle progressioni degli accordi sono un continuo saliscendi che crea stupore e alla fine una fedeltà indiscutibile. Esistono gli assoli per ogni strumento (potenti, maestosi ed evidenti), ma mai giocatori dell’effervescenza sprecata: l’ordine impartito è quello di valorizzare, specificare e far diventare questo insieme  adiacente al senso. Il fare barocco della chitarra di Steve Hackett in Horizons è emblematico. Quello di Tony Banks in Supper’s Ready è una nuvola grassa che sposta l’equilibrio del cielo. Michael Rutherford in tutto l’album pare un gendarme che controlla e impartisce ordini con fierezza e precisione, facendo da collante perfetto per i generi espressi. Phil Collins fa crescere l’impatto del ritmo con la fantasia, senza rinunciare alla forza, con un lavoro che si compatta perfettamente con le composizioni. Peter Gabriel, in una forma strepitosa, specifica il termine genialità tra interpretazioni vocali, canti, testi che come vagabondi raccolgono un insieme infinito e l’uso di quattro dispositivi suonati con grazia e un timing perfetto.

Nella danza più che centenaria del Foxtrot, con lunghe gittate e possibilità di elevare i suoi concetti dinamici, troviamo un passaggio di consegne con questo quadro sonoro dei Genesis, e nello specifico le parti strumentali, pur impegnando per estensione e forza d’impatto, non fanno mai attendere la parte vocale: una ulteriore e voluttuosa qualità che fa intendere come l’unione delle due entità sia stato studiato e specificato. Non sono presenti gelosie né prevaricazioni, ma un lungo perimetro nel cui interno ciò che vive è pieno di vino dai sapori molteplici.  

Un lavoro che consente di veder conquistare nuove terre mentali e fisiche, con l’abilità di modificare, laddove l’egoismo e il senso di libertà lo esigono, per inoltrare, con il furore artistico, la necessità di non dare all’accettazione della storia umana il suo ghigno malefico (un esempio lampante è la nuova Gerusalemme che troviamo in As Sure as Eggs Is Eggs, ultima parte di Supper’s Ready), finendo per donare a chi ascolta un imprevisto scettro, un telecomando dei sensi che fa brillare la pelle dell’anima.

L’ispirazione, che gioca un ruolo dominante, è molteplice, in grado di essere un faro, un’onda che trasporta, che permette l’intuizione come un lavoro analitico per darle modo di non vivere in isolamento. Ecco che l’attualità, la storia, l’attenzione all’aspetto sociale del vivere, lo spazio da consegnare ai sogni, sono alleati precisi, uniti e in ottima armonia per fare di questo vento una carezza inattesa.


La grande fluidità è uno stupore impressionante, poco gestibile: sembra un riassunto di ciò che ha sempre vissuto nelle potenzialità dei musicisti. I Genesis sanno attualizzarla e con grandi manovre fanno dell’ascolto un atto di beneficio e gratitudine senza fine, perché nella marea dolce di queste onde imponenti tale elemento sarebbe l’ultimo da desiderare. Panta rei, dunque, per consentire per davvero l’accesso alla trasformazione, per identità in progressione, dove al tempo è concesso solo di essere testimone di questa grande capacità. 

Nel ben di Dio a disposizione non manca di certo l’oscurità, l'inafferrabile e l’incomprensibile, la fantascienza (epocale la magnetica Get ‘Em Out By Friday), la grande “inglesità” lirica di Peter Gabriel, assoluto portabandiera sia della modalità conservatrice che di quella progressista, finendo per essere un incredibile maestro che sa come unire differenze e striduli feroci.

La musica è come il cantato di Gabriel: in grado di essere sussurri eleganti ed educati, così come lacerazioni rispettose che diventano amiche dei tuoni senza dover mai gridare e sfidare il suono, in un quasi perverso stato comatoso dove molto è consentito, e quello che non si può fare non diviene una mancanza. Questa è un’altra strepitosa qualità di Foxtrot.


Watcher of the Skies, brano nato a Napoli e che vede il sussurro ispirativo di Arthur C. Clarke, stabilisce il suono dei Genesis, il furore domato ma ancora in grado di sbuffare e di far intuire una sacralità prorompente attraverso l’utilizzo del Mellotron. Poi tutto si allarga, si sviluppa e si trasforma in  una corsa lucida nella follia.


Time Table presenta il passaggio del tempo, inevitabile, con un inizio classico (quanta presenza dei Procol Harum si avverte, ma non è mica un difetto…), conferito da un tintinnio di tasti del pianoforte per poi ospitare una simil ballad fluorescente. 

Get ‘Em Out By Friday evidenzia l’elegante esuberanza, assoli e cambi ritmici che consentono a tutta la band di essere pittori e di creare una tela programmata all’accoglienza. Una suite minimalistica, una mano offerta ai senza tetto e un vigoroso schiaffo al potere.

Can-Utility and the Coastliners offre l’espressività acustica e la progressione degli ingressi strumentali che dal barocco e con dei sentori medioevali si getta nella contemporaneità in modo delicato.

Si gira il vinile e il lato B inizia con Horizons, il manifesto classico di una rivisitazione di Bach, quella struggente parentesi armonica che si intitola Suite per violoncello solo BWV 1007, performata da Steve Hachett, per dare alla poesia immaginaria una goccia di sale negli occhi.

L’ultima composizione fece entrare la band nella leggenda senza possibilità di smentita: Supper’s Ready è un miracolo, un mantra multiplo, diviso in sezioni, che non stanca mai, un generatore continuo di luci e ombre, di spazi occupati con maestria, mettendo a contatto misticismo e religione, in sette atti amalgamati e fissati con la colla dell’eternità. Tutto all’insegna di una evidente intimità, di uno studio che permetta alla suggestioni e alla fantasia di espandere la scrittura per determinarla in un caos controllato dove quello che lo specifica sia un infinito da non possedere mai, proprio per la sua vistosa capacità di fuga.

Più ci si distanzia, temporalmente parlando, dal momento in cui questo leggendario, folle, maestoso capolavoro è stato composto, maggiormente ci si rende conto della responsabilità che abbiamo nel non trascurarlo, del dovere di studiarlo ancora e di essere lucidi testimoni di come la musica abbia perso questa epicità, questa estensione magnetica, questo delirio che si può solo celebrare e incensare, in dosi abbondanti. Il rischio è il vuoto e lo smarrimento, ma rimane l’ascolto, in grado di esercitare la memoria e il beneficio.


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
25 Luglio 2024

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