giovedì 18 aprile 2024

La mia Recensione: David Potts - The Blue Tree / The Red Tree (2 album)



 

David Potts - The Blue Tree / The Red Tree (2 albums)


Come è buffa la vita, quando riempie il pianeta di esistenze che sembrano avere poca visibilità e poi, immediatamente, le ributta nelle strade dando loro una nuova occasione. È il caso del protagonista di questo scritto, un talento indiscutibile, in grado di creare, con la sua fantasiosa e abile versatilità, due album in uscita contemporanea, quasi per tappare il buco di un’assenza che a parere del Vecchio Scriba sembrava una bestemmia, visto il valore di queste ventuno composizioni totali. Due alberi, due figure paterne, proprietari del percorso di questo artista, dai connotati solo in parte simili, vedono il musicista (chitarrista e bassista) e cantante muoversi tra l’alternative, l’indie pop, il folk più solare, la dance elegante e leggera.

Nel 1989 a Manchester il bassista dei Joy Division formò una band che si chiamava Revenge. Uno dei loro membri, che sostituì l’originale chitarrista David Hicks, è il soggetto di questa recensione. Dopo quella esperienza con Peter Hook i due misero in piedi il progetto Monaco che tanto ebbe successo con il brano What do you want from me, antipasto dell’insieme di attitudini dance che scrissero.

E dopo diversi anni eccoci a parlare dell’esordio come solista di David Potts con gli album The Blue Tree e The Red Tree

The Blue Tree appare come la descrizione di una giornata primaverile attorno a questo albero, con canzoni che volano come uccelli felici di tornare ad abitare in quei luoghi, libere di muoversi con gioia e capaci di contaminare l’entusiasmo con la loro esuberanza giovanile.

The Red Tree pare, invece, un insieme di brani scritti da quegli stessi uccelli con qualche anno in più, dove la maturità si mostra anche con approcci più spigolosi, in cui il ritmo rimane alto ma con maggior decisione nel tracciare il percorso di quei voli. Si ha come l’impressione che si sia nei paraggi dell’autunno, ma con la volontà di avere ancora quei sorrisi che solo la primavera sa distribuire.

In entrambi i lavori la scrittura è sorprendente, scavando nei territori celesti degli anni Settanta e proseguendo nella decade successiva per quanto riguarda l’aspetto di brani eclettici, che fanno danzare. La chitarra, quando si presta ad esibire assoli brevi ma efficaci, dimostra l’intenzione di catturare il senso delle composizioni, perfezionandole ulteriormente, facendoci vibrare e volare con la mente attorno a quei due alberi, che, alla fine dell’ascolto dei due dischi, paiono essere amici di lunga data.

Si riesce a sorridere, ridere, pensare, ballare in un cielo che sembra così lontano da quello di Manchester, per trovare immagini, luoghi e sensazioni che ci mostrano il mondo in lungo e in largo, con il merito di farci salire sulla sospirata macchina del tempo. 

Decisamente un debutto meraviglioso che non deve sfuggire alla vostra fame  musicale, se volete che sia ricoperta di qualità.


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
19 Aprile 2024


My Review: David Potts - The Blue Tree / The Red Tree (2 albums)






David Potts - The Blue Tree / The Red Tree (2 albums)


How funny life is, when it fills the planet with existences that seem to have little visibility and then immediately throws them back into the streets, giving them a new chance. Such is the case with the protagonist of this piece of writing, an unquestionable talent, capable of creating, with his imaginative and skilful versatility, two albums released at the same time, almost as if to plug the hole of an absence that in the Old Scribe's opinion seemed like blasphemy, given the value of these twenty-one compositions in total. Two trees, two father figures, owners of this artist's path, with only partly similar connotations, see the musician (guitarist and bassist) and singer move between alternative, indie pop, sunnier folk, elegant and light dance.

In 1989 in Manchester, the bass player of Joy Division formed a band called Revenge. One of their members, who replaced the original guitarist David Hicks, is the subject of this review. After that experience with Peter Hook, the two of them set up the Monaco project, which was so successful with the track What do you want from me, a starter for the set of dance attitudes they wrote.

And after several years, here we are talking about David Potts' solo debut with the albums The Blue Tree and The Red Tree

The Blue Tree appears as a description of a spring day around this tree, with songs that fly like birds happy to be back in those places, free to move with joy and able to contaminate the enthusiasm with their youthful exuberance.

The Red Tree seems, on the other hand, to be a collection of songs written by those same birds with a few more years, where maturity also shows itself in more angular approaches, where the rhythm remains high but with more decision in tracing the path of those flights. One gets the impression that one is on the verge of autumn, but with the desire to still have those smiles that only spring can distribute.

In both works the writing is astonishing, delving into the heavenly territories of the 1970s and continuing into the next decade in the aspect of eclectic, danceable songs. The guitar, when it lends itself to exhibiting short but effective solos, demonstrates its intention to capture the meaning of the compositions, further refining them, making us vibrate and fly with our minds around those two trees, which, at the end of listening to the two discs, seem to be long-standing friends.

One is able to smile, laugh, think, dance in a sky that seems so far away from Manchester, to find images, places and feelings that show us the world far and wide, with the merit of getting us into the long-awaited time machine. 

Definitely a wonderful debut that should not escape your musical hunger, if you want it to be covered in quality.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

19th April 2024


https://davidpottsmusic.bandcamp.com/album/the-blue-tree


https://davidpottsmusic.bandcamp.com/album/the-red-tree-2

 

La mia Recensione: Adrian Borland - Beautiful Ammunition


 

Adrian Borland - Beautiful Ammunition


“Lo stress, l’ansia, la depressione nascono quando ignoriamo chi siamo e iniziamo a vivere per piacere agli altri “ - Paolo Coelho


Ci sono anni che assomigliano a delle tempeste, precipitose, vogliose di resettare il sistema Terra, in tutte le sue funzioni.

Nel 1994 uscirono Superunknown dei Soundgarden, No Need to Argue dei Cranberries, Grace di Jeff Buckley e venne registrato l’Unplugged dei Nirvana.

E poi Adrian Borland.

I cantanti di tutte queste formazioni sono anime che ora si esibiscono nel cielo, tra disagi, agi e perlustrazioni per noi inaccessibili.

Se il Vecchio Scriba deve scegliere quali, tra questi  album, hanno saputo miscelare meglio il sogno, la positività, l’ombra, il gelo e il disgelo, il flusso di impeti in cerca di luce, è indubbio che quello dell’ex leader dei Sound sia quello a cui guardare con più profondità, dato l’enorme flusso di elementi che ha reso il suo terzo ma primo vero disco solista quello più vicino al miracolo umano. 

Vi sono segnali di arcobaleno, schizzi di una mente che cerca di riparare i danni di un circuito leso e indebolito da abusi precisi, come sono anche presenti paracaduti, fionde, il sudore di una slavina che nella scrittura della musica cerca uno specchio sincero. Adrian crea un insieme di canzoni con l’intenzione di ripararsi ancora di più dalla disillusione, lui che aveva investito sogni e realtà per portare il suo talento sul palco del mondo. Non aveva fallito, così come i suoi compagni di viaggio che avevano fatto dei Sound dei cavalieri dalla bella divisa ma perdenti. Qui sembra di vedere (finalmente, aggiungerei) uno scrittore in grado di adoperare ponti e riflessi per attingere a generi musicali poco praticati o difficilmente associabili al suo percorso. Coraggioso, epidermico, intransigente, dolce, romantico, non manca di dare pennellate della sua psiche frustata e frustrata, ma con l’intenzione di mettere una candela nei versi e soprattutto nell’impianto sonoro, dove le chitarre semiacustiche prendono il sopravvento e prova a giocare con i cambi di atmosfera, di ritmo, per condurre la sua potente sensibilità nei bordi di una costruzione più pop e cantautorale, sfiorando i sentieri di Leonard Cohen, Tim Buckley e Neil Young. Niente paragoni, ma solo l’intenzione di mettere in evidenza la vera indole di un’anima che cerca di alleggerire le lame taglienti della sua chitarra elettrica e della sua voce, che, in questo lavoro, si attesta su un registro medio-basso e quando cerca il cielo lo fa senza gridare, piangere o intenta a far sentire la mancanza di ossigeno.

Il pronome personale Io viene utilizzato all’interno di una quasi totale assenza di interlocutori, e sembra di trovarsi nel vascello di uno Storytelling pieno di acqua da cullare, curare e spargere lontano da quelle dita che in questo disco preferiscono deviare la corrente elettrica per favorire luoghi in grado di offrire un minimo di serenità. Se si scava all’interno dei testi l’amarezza, la delusione, la rabbia vengono sostituite dall’impotenza, la rassegnazione e una incredibile positività che sbuffa, spinge, vuole emergere e nuotare in quei giorni che paiono costruiti per dare ai suoi piedi una strada più sicura su cui camminare.

Assistiamo a un processo concepito ed eseguito quasi totalmente da Borland, mostrando eclettismo, determinazione e la volontà di quella intimità che in qualche modo si era sempre negato. Rispetto ai primi due lavori senza i Sound questo pare essere un colloquio riservato con una mente che si sgancia dai propri cliché per strutturare nuove ipotesi. Certo, la produzione è vicina alla perfezione, le canzoni, pur non mostrando l’idea di essere inclini alla zona della conquista della massa di ascolti (non ha mai corso il rischio, per dire la verità, e sicuramente è stato meglio così), sembrano affermare una indipendenza, come se il momento dovesse essere storico soprattutto per loro. Ma si ha una strana sensazione: si avverte come le sedici edere siano piene di un veleno dalla faccia ingannevole, come una truffa che il rock non può più permettersi. Adrian cerca di scrivere ballate atipiche, spesso forza il colore del suono, alcune volte impasta la zona acustica e quella elettrica come un clown che gioca, maldestramente (ma solo apparentemente) con il dolore, per poi pentirsene e tirare giù la saracinesca e farle immergere nel solito buio…

Si piange, con una levatura spirituale indenne dallo scorrere del tempo, per sorridere e abbracciare il futuro e poi quella canzone nella quale sembra dipingere un raggio di sole mai visto prima: la porta è aperta…

Ma Beautiful Ammunition è un coriandolo che conosce il modo di perdere i colori, di cadere velocemente, di finire incastrato sotto il tappeto, di appiccicarsi alla pelle, come un piacevole fastidio da cui è impossibile separarsi. Il suo cantato fa flettere i famosi nervi, calcola spazi nuovi, perlustra traiettorie visive inimmaginabili e pare correre lentamente, in un ossimoro doveroso e alla fine straziante.

Niente da fare: la sofferenza non l’ha abbandonato ma gli ha permesso, perlomeno, di alzare lo sguardo e di fargli credere che il presente e il futuro non sono più nemici che si guardano in cagnesco.

Quando i toni si fanno drammatici, la paura ci stringe il cuore, si diventa complici della sua fragilità e le lacrime si mischiano.

Il lavoro più delicato nei testi è accompagnato da graffiti sonori che sembrano lontani dalla drammaticità, ma spesso si nota come nessuno possa rinunciare all’altro: la guerra delle parole, le quasi farneticazioni, i punti più bassi, vengono come redarguiti dal pentagramma che vorrebbe una scrittura svincolata dalla tristezza. Missione impossibile, ma tutto ha rischiato di raggiungere i colori della maschera di Arlecchino. Quanta bellezza, inconfutabile, offre questo esercizio, questa lotta con il tatuaggio di un armistizio, che si palesa nella totalità di un album che non fotografa ma scrive il destino, come una identità postdatata che troverà la sua precisazione e la sua eterna forma dolorosa il 26 Aprile del 1999…

Ora non ci rimane che uscire da quella porta aperta, prendere Adrian per mano e andare a fare una bella passeggiata con questo fiume dalla faccia pulita che, se però ti soffermi a guardarlo bene, nella sua oscena profondità, saprà farti tremare le gambe…


    Song by Song


1 - Re-united States of Love

“Redraw the map, push the frontier back”

Un inizio che sembra un congedo: non c’è nulla di chiaro se non nelle note di una chitarra e di una batteria che cercano di stoppare le parole, ma niente impedisce alla voce, al coro con Vikki Stilwell (presente in diversi episodi nell’album), di tracciare un sorriso…


2 - Open Door

“I’ve felt the darkness of the world, but now I need some light”

Lou Reed si affaccia, come paiono fare i Church e gli Alarm, in una adunata che odora di anni Ottanta, con il canto che cerca appigli nel proprio passato. Incandescente in una giornata di pioggia.


3 - Rocket

“We could blast right of here if you put some thrust in me”

Gli applausi del cielo cercano i polpastrelli di Adrian e la sua ugola: come un racconto di Joyce, tutto pare anelare alla primavera. La chitarra elettrica sembra in odore di e-bow, ma poi scivola in un semi approccio blues…


4 - Stranger in the Soul

“But I don’t feel the pain that loneliness brings”

Uno degli episodi più toccanti di questa anima pungente: scava, annaspa, con una chitarra circolare che cerca di estraniare la solitudine dai suoi fianchi, in un groviglio di emozioni nel quale nulla cambia ma si vuole fingere il contrario. Lo stop and go ci mostra la delicatezza, note quasi spagnoleggianti, e un sole incline a cadere…


5 - Break My Fall

“You’ll break my fall and my heart will never know”

Echi iniziali dei Cocteau Twins vengono immediatamente stoppati dalla voce di Adrian che in modo cadenzato avanza nella trappola della realtà, sgomitando con leggiadria nel cunicolo della depressione…


6 - Station of the Cross

“I can’t relive each moment when I got too close to truth”

Il programming trova l’apoteosi, nuove soluzioni cavalcano la scena, in una veste musicale eccellente e piena di novità. Gli accordi del piano sono baratri, mentre la voce angelica vola nel labirinto sentimentale colorando la fiducia e fermando il dolore…




7 - Simple Little Love

“They took apart your simple heart with their calculating minds”

Il ritmo torna a farsi vicino al Country, con la spinta americana del sogno più famoso del mondo che entra nei versi, per poi catapultare l’attitudine australiana dei già citati Church in una girandola ritmica altalenante…


8 - White Room

“Can’t you see how this splits me then you’ll see how I crack”

I Radiohead hanno saputo trarre spunto, come molte altre band, da questo brano irresistibile e straziante: anche il dolore ha una poesia nel suo baricentro e Adrian l’ha trovata, registrata, esibita, con la musica che sembra uno scivolo che, partendo dall’infanzia, conclude il suo girovagare nella morte…



9 - Past Full of Shadow

“Between the lines you misread the signs”

Quando l’autore di Winning decide di toglierci il respiro non abbiamo scampo: la produzione perfetta conferisce al brano la giusta dose di drammaticità, in un circuito soffocante che brama la pelle bianca di un’anima ormai spenta. Segnali di arrangiamenti e di arcobaleni pieni di pioggia conferiscono al pezzo il premio Nobel per il maggior numero di lacrime versate…


10 - Ordinary Angel

“I tasted grace and got drunk on bliss”

Si corre, i suoni adiacenti al pube, si cade e si rotola nel prato alcolico di un sogno mai così apparentemente libero, con la chitarra elettrica che spinge Adrian verso il registro alto della voce per accarezzare le nubi dove gli angeli lo attendono…


11 - Lonel Late-nighter

“A song in the sad key from the heart of man tell me not to be ashamed to cry”

Come collegare le ballads degli anni Ottanta a quelle ancora da rodare degli anni Novanta: Borland cerca il ritornello, il cantato che oscilla, per trovare le lacrime libere di sciogliersi. Uno dei momenti più verosimilmente pop dell’intero album: splendido, innocente e crudele allo stesso tempo…


12 - Someone Will Love You Today

“Could be the man who sells you the paper a cynical sparkle of hope in his smile”

Gli U2 saranno gelosi (quelli di Gloria, per intenderci), in quanto Adrian Borland dimostra un talento che gli irlandesi non hanno mai avuto: come passare dall’ironia, alla goccia pop che invoca l’alternative per poi dilagare, con estrema semplicità, in un ritornello gonfio di aria da baciare, sino alle gocce finali di una chitarra in odore di J.J. Cale.


13 - Forgiveness

“But we are full of pollutants”

Arriva l’inverno della mente, i passi si fanno lenti e le ombre cupe, archi camuffati gettano le loro tensioni nel testo che sgomenta ma precisa il percorso di un’esistenza in cerca di aiuto. Quando i due registri di voce si trovano all’unisono non c'è più possibilità di resistere al dolore…


14 - Rootless

“I’ve been sawing through these chains”

Il brano più atipico di questo album, con le sue soluzioni in cerca di approdo, l’inventiva del cantato, una impalcatura che cerca sostegno nel talento. Tutto fugge e probabilmente fa di questo episodio il meno convincente…


15 - In Passing

“These yellow lights are not enough to illuminate this night”

Un arpeggio, un cielo, un bisogno che non trova identità e permanenza: la sensazione è di un doveroso tentativo di mostrare le crepe di una mente che ricorda i giorni passati e si ritrova con i calici vuoti…



16 - Shoreline

“And you wish you had a life at least somebody you could die for, why don’t you open up and breathe?”

Il momento più alto e toccante è riservato alla fine: chi non piange non ha cuore, non ha passioni…

Si entra nella psiche di un sogno, il contrasto con il rumore assordante della tragedia che imperversa nel calendario e la scommessa di non forzare la mano. Le parole vincono, rubano la scena, e la voce diventa il palcoscenico di un teschio che cade nella sabbia ancora ricoperto di pelle e di battiti del cuore. Quando si plana nel ritornello le lacrime si sono già ossidate…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

18 Aprile 2024


My Review: Adrian Borland - Beautiful Ammunition







Adrian Borland - Beautiful Ammunition


"Stress, anxiety, depression arise when we ignore who we are and start living to please others" - Paolo Coelho


There are years that resemble storms, precipitous, wanting to reset the Earth system, in all its functions.

In 1994, Soundgarden's Superunknown, The Cranberries' No Need to Argue, Jeff Buckley's Grace and Nirvana's Unplugged were released.

And then Adrian Borland.

The singers of all these bands are souls who now perform in the sky, amidst hardships, comforts and scours inaccessible to us.

If the Old Scribe has to choose which of these albums best blended dream, positivity, shadow, frost and thaw, the flow of light-seeking impetuses, there is no doubt that the former Sound leader's is the one to look at most deeply, given the enormous flow of elements that made his third but first true solo album the one closest to a human miracle. 


There are rainbow signs, splashes of a mind trying to repair the damage of a circuit injured and weakened by precise abuse, as there are also parachutes, slingshots, the sweat of an avalanche that seeks a sincere mirror in the writing of music. Adrian creates a set of songs with the intention of sheltering himself even more from disillusionment, he who had invested dreams and reality to bring his talent to the world stage. He had failed, as had his fellow travellers who had made the Sound into knights in fine uniforms but losers. Here we seem to see (at last, I might add) a writer capable of using bridges and reflections to tap into musical genres that are little practised or difficult to associate with his path. 


Courageous, epidermic, uncompromising, sweet, romantic, he does not fail to give brushstrokes of his frustrated psyche, but with the intention of putting a candle in the verses and above all in the sound system, where semi-acoustic guitars take over and he tries to play with changes of atmosphere, of rhythm, to bring his powerful sensibility to the edges of a more pop and songwriting construction, skimming the paths of Leonard Cohen, Tim Buckley and Neil Young. 


No comparisons, but only the intention to highlight the true nature of a soul that seeks to lighten the sharp blades of its electric guitar and its voice, which, in this work, is in a medium-low register and when it reaches for the sky, it does so without shouting, crying or intent on making the lack of oxygen heard.

The personal pronoun I is used within an almost total absence of interlocutors, and it seems as if we are in the vessel of a Storytelling full of water to be cradled, cared for and scattered away from those fingers that in this record prefer to divert the electric current to favour places that can offer a minimum of serenity. 


If one digs inside the lyrics, bitterness, disappointment, anger are replaced by helplessness, resignation and an incredible positivity that puffs, pushes, wants to emerge and swim in those days that seem to be built to give his feet a safer path to walk on.

We witness a process conceived and executed almost entirely by Borland, displaying eclecticism, determination and a desire for the intimacy that he had somehow always denied himself. Compared to the first two works without the Sound, this one seems to be a confidential conversation with a mind that breaks free from its clichés to structure new hypotheses. 


Sure, the production is close to perfection, the songs, while not showing the idea of being prone to the zone of conquering the masses of listeners (they never took the risk, to tell the truth, and it was certainly for the best), seem to assert an independence, as if the moment should be historic for them in particular. But you get a strange feeling: you can sense how sixteen ivies are full of a poison with a deceptive face, like a scam that rock can no longer afford. 


Adrian tries to write atypical ballads, often forcing the colour of the sound, sometimes kneading the acoustic and electric zones like a clown playing, clumsily (but only apparently) with pain, only to regret it and pull down the shutter and plunge them into the usual darkness...

One cries, with a spiritual stature unscathed by the passing of time, to smile and embrace the future, and then that song in which he seems to paint a ray of sunshine never seen before: the door is open...


But Beautiful Ammunition is a confetti that knows how to lose its colours, to fall quickly, to get stuck under the carpet, to stick to the skin, like a pleasant nuisance from which it is impossible to separate. His singing makes the famous nerves flex, calculates new spaces, scours unimaginable visual trajectories and seems to run slowly, in a dutiful and ultimately heartbreaking oxymoron.

Nothing to be done: suffering has not abandoned him, but has at least allowed him to look up and make him believe that the present and the future are no longer enemies who look at each other in the eye.


When the tones become dramatic, fear clutches our hearts, we become accomplices in its fragility and tears well up.

The more delicate work in the lyrics is accompanied by sound graffiti that seem far removed from the dramatic, but often one notices how no one can renounce the other: the war of words, the almost rambling, the lowest points, are as if rebuked by the stave that would like a writing free of sadness. Mission impossible, but everything risked reaching the colours of Harlequin's mask. 


How much beauty, irrefutable, is offered by this exercise, this struggle with the tattoo of an armistice, which is manifested in the totality of an album that does not photograph but writes destiny, like a post-dated identity that will find its precision and its eternal painful form on 26 April 1999...

All that remains now is to walk out of that open door, take Adrian by the hand and go for a nice walk with this clean-faced river that, if you stop to look at it, in its obscene depth, will make your legs shake...



Song by Song


1 - Re-united States of Love

'Redraw the map, push the frontier back'

A beginning that seems like a farewell: there is nothing clear except in the notes of a guitar and drums that try to stop the words, but nothing stops the vocals, on the chorus with Vikki Stilwell (present in several episodes on the album), from tracing a smile


2 - Open Door

'I've felt the darkness of the world, but now I need some light'

Lou Reed faces off, as Church and Alarm seem to do, in a gathering that smells of the eighties, with the song searching for footholds in its past. Glowing on a rainy day.


3 - Rocket

"We could blast right of here if you put some thrust in me"

The applause from heaven seeks Adrian's fingertips and his uvula: like Joyce's tale, everything seems to yearn for spring. The electric guitar seems to smell of e-bow, but then slips into a semi-blues approach...


4 - Stranger in the Soul

"But I don't feel the pain that loneliness brings".

One of the most poignant episodes of this prickly soul: he digs, he fumbles, with a circular guitar that tries to extricate loneliness from his hips, in a tangle of emotions in which nothing changes but one wants to pretend otherwise. The stop and go shows us delicacy, almost Spanish-like notes, and a sun inclined to fall...


5 - Break My Fall

"You'll break my fall and my heart will never know".

Initial echoes of the Cocteau Twins are immediately halted by Adrian's voice, which cadencedly advances into the trap of reality, gracefully scampering through the burrow of depression...


6 - Station of the Cross

"I can't relive each moment when I got too close to truth".

The programming finds its apotheosis, new solutions ride the scene, in an excellent musical guise full of novelty. The piano chords are chasms, while the angelic voice flies through the sentimental labyrinth colouring the trust and stopping the pain...


7 - Simple Little Love

"They took apart your simple heart with their calculating minds".

The rhythm becomes close to country again, with the American thrust of the world's most famous dream entering the verses, then catapulting the Australian attitude of the aforementioned Church into a swinging rhythmic whirlwind...


8 - White Room

'Can't you see how this splits me then you'll see how I crack'

Radiohead were able to take their cue, like many other bands, from this irresistible and heartbreaking track: even grief has poetry at its centre of gravity and Adrian has found it, recorded it, performed it, with the music sounding like a slide that, starting from childhood, concludes its wanderings into death


9 - Past Full of Shadow

"Between the lines you misread the signs".

When the author of Winning decides to take our breath away, we don't stand a chance: the perfect production gives the song the right amount of drama, in a suffocating circuit that yearns for the white skin of a soul now extinguished. Signs of arrangements and rainbows full of rain give the piece the Nobel Prize for the most tears shed...


10 - Ordinary Angel

"I tasted grace and got drunk on bliss"

There's running, pubic-adjacent sounds, tumbling and rolling in the alcoholic meadow of a dream never so seemingly free, with the electric guitar propelling Adrian into the high register of his voice to caress the clouds where angels await...


11 - Lonel Late-nighter

"A song in the sad key from the heart of man tell me not to be ashamed to cry"

How to connect the ballads of the eighties to the yet-to-be-broken-in ballads of the nineties: Borland searches for the refrain, the swinging vocal, to find the tears free to melt away. One of the most verisimilarly pop moments of the whole album: gorgeous, innocent and cruel at the same time...


12 - Someone Will Love You Today

"Could be the man who sells you the paper a cynical sparkle of hope in his smile"

U2 will be jealous (Gloria, that is), as Adrian Borland demonstrates a talent the Irish never had: how to switch from irony, to a pop drop that invokes the alternative and then ramps up, with extreme simplicity, in a refrain swollen with air to kiss, until the final drops of a guitar in the smell of J.J. Cale.


13 - Forgiveness

"But we are full of pollutants"

The winter of the mind arrives, the footsteps become slow and the shadows gloomy, camouflaged strings throw their strains into the lyrics that dismay but specify the path of an existence in search of help. When the two registers of voice are in unison, there is no longer any possibility of resisting the pain...


14 - Rootless

"I've been sawing through these chains".

The most atypical track on this album, with its searching solutions, inventive singing, a scaffolding that seeks support in talent. Everything escapes and probably makes this episode the least convincing...


15 - In Passing

"These yellow lights are not enough to illuminate this night".

An arpeggio, a sky, a need that cannot find identity and permanence: the feeling is of a dutiful attempt to show the cracks in a mind that remembers days gone by and finds itself with empty glasses...


16 - Shoreline

"And you wish you had a life at least somebody you could die for, why don't you open up and breathe?"

The highest and most touching moment is reserved for the end: he who does not cry has no heart, no passions....

One enters the psyche of a dream, the contrast with the deafening noise of tragedy raging in the calendar and the gamble of not forcing one's hand. The words win, they steal the show, and the voice becomes the stage for a skull falling into the sand still covered in skin and heartbeats. By the time you glide into the refrain the tears have oxidised...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

18th April 2024




 

La mia Recensione: Midas Fall - Cold Waves Divide Us

  Midas Fall - Cold Waves Divide Us La corsia dell’eleganza ha nei sogni uno spazio ragguardevole, un pullulare di frammenti integri che app...