mercoledì 4 settembre 2024

La mia Recensione: Kodaclips - Gone is the day


 

Kodaclips - Gone is the day


Ci sono tracce di avventure e altre di ricerca che stabiliscono flussi cognitivi in espansione continua, una energica volontà di accaparrarsi i favori di suoni che mettano in isolamento ogni incompiuta dannazione emotiva.

Da Cesena, piccola città del centro Italia, una band scrive il secondo album contrattando micidiali flussi linguistici, creando vagabondi segnali sonori sanguigni, ipnotizzando gli albori dello shoegaze della metà degli anni Ottanta, iniettando uno stile che si è raffinato e che tocca marginalmente la rovente fila di nuovi gruppi italiani.

Ma sono evidenti in queste canzoni gli abbracci solari, la ricerca melodica più da parte del cantante Alessandro Mazzoni che non da parte delle sue chitarre e di quelle di Lorenzo Ricci, che sono tenaglie e congelatori al contempo di soluzioni spesso nelle vicinanze di un noise purificato e disinfettato.

La propensione è quella a un combo deciso a stabilire confini, attitudini, a darsi regole affinché questa marea di watt conosca il senso di appagamento e di naturale propensione a vivacizzare il percorso di idee sempre più imbevute di quei crismi che lo shoegaze americano negli ultimi anni ha precisato.

Composizioni fresche, piene di quella malinconia che pare  nascondersi ma che non desidera l’anonimato completo: un gioco di luci e riflessi mediante la classica formazione a quattro, decisa a fare del rumore un rifugio, del suono un sodalizio e della poetica forma del canto un armistizio che funziona perfettamente. L’indole selvaggia è quella di un feedback controllato seppur generoso, ma l’ottima produzione di questo secondo lavoro mette in risalto nuove gemme, due sorprendenti brani che probabilmente potrebbero essere l’avamposto di un futuro che considererà possibile l’intuizione di un approfondimento che passi attraverso la psichedelia e un industrial elaborato.

Le melodie sono un fiore contemporaneo che si fa avvolgere da antiche traversie, da cliché abbondanti e famelici nello stringere un patto di serenità con questi ragazzi che, grazie a una notevole spavalderia e ostinazione, sembrano disinteressati al copia e incolla di questo genere che, è bene dirlo, soffre di colpevoli disattenzioni da parte della massa.

C’è chi ha rilevato un insieme di scintillii post-punk, ma il Vecchio Scriba dissente: la band non ha quella arrendevolezza o quella attitudine prepotente di spegnere la vita, piuttosto usa uno spray emotivo per accelerare una forma di contatto che viva in un cuneo ipnotico tipico del dream-pop senza averne le caratteristiche musicali specifiche, finendo per divenire un dolcissimo miracolo.

Gone is the day è un patto volontario con i segreti, le movenze cerebrali di quattro individui che seminano flagranti detonazioni, in un sali e scendi di note che scartavetrano spesso la pelle e il cuore. Tutto è compatto, una forma espressiva tipica del concept: non il tema, non una storia, bensì suoni radicati in un percorso che racconta la genesi di una serie di incontri, rifiutando il caso, per generare infine poco più di trenta minuti, in cui il tempo scivola tra le nebbie di istantanee che si raccolgono in un abbraccio.

Un lavoro che non avrà il plauso del pubblico italiano, istupidito da inutili rincorse volte a una ridicola omologazione. Ed è un bene: non ci sono in queste composizioni elementi di precarietà e di superficiali teorie che portino l’ascoltatore a sentirsi inutile…

Troverà, invece, considerazione negli individui che sanno studiare, toccare il baricentro di queste effervescenti creazioni. 

Se non bastasse, le domande nascono tiepide, perché è proprio il mistero di questo lavoro a permettere alla nostra mente di creare recinti in cui confinare stupore e dolcezza.

Il caos viene controllato e spinto all’introspezione attraverso un lavorio analitico davvero impressionante.


È giunto il tempo di andare a definire queste dieci tracce e di porre nell’avamposto della nostra intelligenza un fascio di curiosità…


Song by Song


1 - Glaze Over


Un impatto ritmico, l’incrocio lunare di un basso grigio e caldo con chitarre votate a voli armonici fa da apripista a questo lavoro ed è subito incanto: dove l’irruenza cerca di offendere, Glaze Over chiama a raccolta il tempo in una danza sognante…



2 - Viola


Il ritmo si mantiene elevato, la voce di Alessandro Mazzoni visita la Sarah Records e il drumming di Francesco Casadei Lelli si insinua nei muscoli con stacchi, stop and go che permettono alle due chitarre di scaldare le nuvole dei primi anni Novanta…




3 - Gone is the day


La frustata melodica dei Catherine Wheel di Ferment trova dei nipoti perfetti: è catarsi lunare, è una primitiva forza animalesca che passa attraverso queste chitarre oblique e questo basso che sembra far cadere il suono… Una poesia può avere un ritmo sincopato e la buona intenzione di chitarre che esplorano il ventre di un tempo ormai immalinconito…




4 - Interlude


Poco più di un minuto, ma un cratere trova il modo di lasciare una lava priva di luce: un misterioso intermezzo che crea suspense, visitando una forma che si allinea con la ricerca di suoni minimalisti…



5 - Failure


Eccola la ballad ipnotica che sposa la dolcezza di trame cospicue, di incursioni vocali attente a precisare uno splendido fraseggio chitarristico sino a dare al duo basso-batteria la voce che copre questo gioiello. E poi è fragore che fuoriesce dai pedali e da idee che baciano il buongusto…



6 - Deadlock 


Pixies, Nirvana, Melvins: potrebbero essere loro i nonni di questa splendida introduzione, ma non si commetta mai l’errore di essere sanguigni in quanto, dopo pochi secondi, l’emisfero di questa volta sonora va molto più lontano e in luoghi ben diversi. E così si  ritrova nella dolce custodia di una prigionia che, quando desidera espandersi, diventa un vulcano notturno…



7 - Fall Apart


Eccola qui, rapida e sexy, una cometa che accoglie intuizioni, che ruba il fiato e ci porta verso i tappeti sonori cari a una pletora sconosciuta di band di Bristol e di Brighton, quando le due città erano delle vere e proprie industrie di variazioni di scoppiettii sonori. Aggressiva, funambolica, con le due chitarre che come streghe si portano via le sicurezze per regalarci una gioia, finendo per danzare tra le onde del cielo…



8 - Number 87


Canzone perfetta per sottolineare la maturità compositiva della band di Cesena: tutto sembra ruotare attorno a un riff che matura e coinvolge, facendo tesoro di un’alchemia evidente con il periodo di una effervescenza tipica dell’adolescenza, ma il suono maturo e la direzione di queste meccaniche suggeriscono una precisa attenzione, perché nella coda fumosa del suono si nasconde un abbraccio sensoriale notevole…



9 - Surface 


Bolle di sangue creano vapori umorali, una frenetica modalità prossima all’antico industrial distribuisce mistero e vocazioni suggestive, in un horror lento e cacofonico, dove viene distrutta, saggiamente, la forma canzone, e si adopera il sistema del sondaggio, attraverso suoni espliciti che raccontano più di mille parole.

Ed è confusione tribale, disagio che conosce saggezza e che tritura ogni dipinto musicale precedentemente espresso nell’album. Se esiste l’Everest in questo disco, eccolo: da qui si vede tutta la capacità della band di andare oltre se stessa..



10 - Sleep, Doom, Shelter 


Come concludere un percorso come questo? Con una ninnananna atipica, fuorviante, ma generosa, al contempo, nei confronti del suono di questi gentiluomini che spaziano nei jack, imbevuti di tristezza, con un cantato che esprime una commovente propensione a parole esibite con orgoglio, mentre piccole esplosioni di chitarra proseguono il contagio di questa malinconica veste sonora…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
4 Settembre 2024

My Review: Kodaclips - Gone is the day


 

Kodaclips - Gone is the day


There are traces of adventure and others of research that establish ever-expanding cognitive flows, an energetic will to curry favour with sounds that isolate any unfinished emotional damnation.

From Cesena, a small town in the centre of Italy, a band writes its second album by negotiating deadly linguistic flows, creating bloodcurdling sonic signals, hypnotising the dawn of shoegaze in the mid-eighties, injecting a style that has refined itself and marginally touches the red-hot ranks of new Italian bands.


But evident in these songs are the sunny embraces, the melodic research more on the part of singer Alessandro Mazzoni than on the part of his guitars and those of Lorenzo Ricci, who are at once pincers and freezers of solutions often in the vicinity of a purified and disinfected noise.

The propensity is that of a combo determined to establish boundaries, attitudes, to give itself rules so that this tide of watts knows the sense of fulfilment and natural propensity to enliven the path of ideas increasingly imbued with those methods that American shoegaze in recent years has specified.

Fresh compositions, full of that melancholy that seems to be hiding but does not desire complete anonymity: a play of light and reflection through the classic four-piece line-up, determined to make noise a refuge, sound a partnership and the poetic form of song an armistice that works perfectly. The wild character is that of a controlled if generous feedback, but the excellent production of this second work brings out new gems, two surprising tracks that could probably be the outpost of a future that will consider the intuition of a deepening through psychedelia and an elaborate industrial.


The melodies are a contemporary flower that gets wrapped up in ancient traverses, in abundant and ravenous clichés in making a pact of serenity with these guys who, thanks to a remarkable bravado and obstinacy, seem uninterested in the copy-and-paste of this genre that, it must be said, suffers from guilty mass disregard.

There are those who have detected a set of post-punk sparkles, but Old Scribe disagrees: the band does not have that surrender or that overbearing attitude to extinguish life, rather they use an emotional spray to accelerate a form of contact that lives in a hypnotic wedge typical of dream-pop without having its specific musical characteristics, ending up as a sweet miracle.

Gone is the day is a voluntary pact with secrets, the cerebral movements of four individuals who sow flagrant detonations, in an ups and downs of notes that often scratch the skin and the heart. Everything is compact, an expressive form typical of the concept: not the theme, not a story, but sounds rooted in a path that tells the genesis of a series of encounters, rejecting chance, to finally generate just over thirty minutes, in which time slips through the mists of snapshots that gather in an embrace.


It is a work that will not meet with the approval of the Italian public, stupefied by useless chasing after ridiculous homologation. And this is a good thing: there are no elements of precariousness or superficial theories in these compositions that would make the listener feel useless...

Instead, he will find consideration in those who know how to study, to touch the centre of gravity of these effervescent creations. 

If this were not enough, questions arise tepidly, because it is precisely the mystery of this work that allows our minds to create enclosures in which to confine astonishment and sweetness.

Chaos is controlled and pushed to introspection through a truly impressive analytical work.


The time has come to go and define these ten tracks and place in the outpost of our intelligence a bundle of curiosity...



Song by Song


1 - Glaze Over


A rhythmic impact, the lunar crossover of a warm, grey bass with guitars devoted to harmonic flights opens this work and it is immediately enchanting: where impetuosity tries to offend, Glaze Over summons time in a dreamy dance...



2 - Violet


The rhythm is kept high, Alessandro Mazzoni's voice visits Sarah Records and Francesco Casadei Lelli's drumming insinuates itself into the muscles with staccato, stop-and-go sessions that allow the two guitars to warm up the clouds of the early nineties...




3 - Gone is the day


Catherine Wheel's melodic lash of Ferment finds perfect grandchildren: it's lunar catharsis, it's a primitive animalistic force that passes through these slanting guitars and this bass that seems to make the sound fall... A poem can have a syncopated rhythm and the good intention of guitars that explore the belly of a time now full of melancholy


4 - Interlude


Just over a minute, but a crater finds a way to leave a lava without light: a mysterious interlude that creates suspense, visiting a form that aligns with the search for minimalist sounds...



5 - Failure


Here it is the hypnotic ballad that marries the sweetness of conspicuous textures, of careful vocal incursions that specify a splendid guitar phrasing to the point of giving the bass-drums duo the voice that covers this jewel. And then it's roar emanating from pedals and ideas that kiss good taste...



6 - Deadlock 


Pixies, Nirvana, Melvins: they could be the grandfathers of this splendid introduction, but never make the mistake of being sanguine as, after a few seconds, the hemisphere of this sound vault goes much further and to very different places. And so it finds itself in the sweet custody of a captivity that, when it wishes to expand, becomes a nocturnal volcano...



7 - Fall Apart


Here it is, swift and sexy, a comet that welcomes insights, stealing our breath and taking us towards the sound carpets dear to an unknown plethora of bands from Bristol and Brighton, back when the two cities were veritable industries of sonic outburst variations. Aggressive, tightrope walking, with the two guitars taking away safeties like witches to give us joy, ending up dancing in the waves of the sky...


8 - Number 87


A perfect song to underline the compositional maturity of the band from Cesena: everything seems to revolve around a riff that matures and engages, treasuring an alchemy evident with the period of an effervescence typical of adolescence, but the mature sound and the direction of these mechanics suggest a precise attention, because in the smoky tail of the sound hides a remarkable sensory embrace



9 - Surface 


Blood bubbles create moody vapours, a frenetic mode close to ancient industrial distributes mystery and suggestive vocations, in a slow and cacophonous horror, where the song form is destroyed, wisely, and the system of probing is used, through explicit sounds that tell more than a thousand words.

And it is tribal confusion, unease that knows wisdom and that shreds every musical painting previously expressed on the album. If there is an Everest in this record, here it is: from here one can see the band's capacity to go beyond itself..



10 - Sleep, Doom, Shelter 


How to end a track like this? With an atypical lullaby, misleading, but generous, at the same time, towards the sound of these gentlemen who range in jacks, imbued with sadness, with a vocal that expresses a moving propensity for words proudly displayed, while small explosions of guitar continue the contagion of this melancholic sound...


Alessandro Dematteis

Musicshockworld

Salford

4th September 2024

giovedì 29 agosto 2024

La mia Recensione: Nick Cave & The Bad Seeds - Wild God


 

Nick Cave & The Bad Seeds - Wild God


“ Alla luce, anche l’albero desidera il sole.”

(Proverbio italiano)


Ci sono girasoli che volteggiano nel cuore di intenzioni assopite, come stravaganti dannazioni in cui il terminale viene mostrato appena si accende la luce.

Nick Cave lascia il cratere e sale tra le vette di un sentimento non utilizzato da anni: concentrare il lascito del dolore per immergerlo nel volteggio di un sorriso costruito come barriera corallina.

Un terremoto al contrario: dalla cima della conversione piccoli frammenti di lava salgono nel cielo di una determinazione per ossidare quel nero che l’ha sempre definito, che non ha mai nascosto e che ha attraversato il battito di ogni titubanza.

Wild God è una installazione artistica che non cerca consensi, viaggia per confini che non possono essere afferrati: esiste una contaminazione, durante l’ascolto di questi dieci crateri, che inchioda lo stupore, per farci inchinare di fronte a questi cambiamenti stilistici che sono quasi invisibili ma efficaci. Molti aggiornamenti nella scrittura, l’adozione, definitiva, di un’assenza che sembrava causa di disperazione per i suoi fedeli fans: l’uso della chitarra è quasi totalmente sparito, con l’orchestrazione massiccia, ostinata, necessaria, al fine di poter confluire in un abbraccio con gli stilemi della musica classica.

Ed è trionfo di armonia, la melodia si appiccica alla luce della vita, che in queste tracce si scontra con chi vorrebbe l’opposto. 

La morte, la dannazione, l’ansia, la difficoltà, gli spettri, il rumore del precipizio non mancano di certo: sono incolonnati molto abilmente in un respiro accogliente, che concede loro spazi e possibilità di manovra, ma con l’accortezza di non essere preponderanti sul tutto.

Nick visita il territorio perfetto per i Bad Seeds e l’innesto di un membro dei Radiohead indirizza la curiosità verso un sentiero diverso. Erano almeno dieci anni che la band non aveva spazio, che non gettava il cuore nella scrittura. Si dia solo un dato: tantissimi musicisti sono passati dentro il mondo di Cave ma lo stile è sempre rimasto lo stesso, e cioè quello di apostoli disciplinati e liberi.

I testi sono un albero ispirato dalla vita per girare le gambe e cominciare a sondare nuove possibilità: ecco emergere la sua fede nel dono, il bisogno di imparare dai lutti, dagli scontri, di far precipitare l’oblio nell’assenza e catturare un vento spirituale che blocchi ogni negatività. Scende, avanza nella natura, si scosta da se stesso senza perdere il suo stile, e affonda in un attacco mai verboso, con parole cariche di una semplicità mai noiosa, sapendo ancora toccare il vento di ogni battito. Una serie di frasi che stordiscono, mai precipitose, sempre bilanciate e messe in naftalina, come metodo per provarne la resistenza. 

Nove musicisti, dieci canzoni, un faro, una voce, cori femminili, la matita che diventa una macchia azzurra e che va a baciare la morte. Toccante la dedica ai figli finiti a camminare tra le nuvole, come il suo grazie all’antica musa Anita Lane, insegnando ancora una volta il rispetto nei confronti della memoria e il voler imparare dall’esperienza. Visita la saggezza, la misura, le dà la possibilità di non separarsi dalla sua antica indole furibonda, ma camuffa i toni con composizioni in cui nella lentezza i fulmini appaiono come sempre famelici…

L’ironia che lo ha reso accostabile a Morrissey, almeno per il Vecchio Scriba, si presenta ancora in un paio di versi che paiono essere stati scritti dal bardo di Stretford: ecco, Cave ha costantemente posseduto un vocabolario interiore, ma non ha mai rinunciato ad avere gli occhi degli indiani capaci di scrutare profondamente, per nutrire la sua anima ulteriormente. I cori, l’assenza di assoli, la coesione della band, la volontà della produzione di far apparire il disco come un dettato di filosofia seduce e riesce nell’intento, in quanto la dinamicità del tutto sembra essere attraversata da un’euforia educata e gentile.

Magnetica l’intenzione, complessa la modalità, tuttavia alla fine l’artista australiano mette il bavaglio a ciò che pareva spegnere la sua attività, per sospendere l’approccio oliato ma forse un po’ logoro. Questo album è una nascita, una conversione gioiosa verso la sperimentazione che non è quella degli ultimi suoi tre lavori, grandiosi (mai pensato il contrario) ma che soffrivano di una forma limitata di espansione sensoriale e visiva. Qui, invece, siamo sul podio di un tremore che è violento, se lo si lega a questo cantante, perché potrebbe negare al suo passato l’accesso alla disperazione, a una frustrazione che forse lo aveva limitato. 

Ci sono guitti, ci sono carezze, c’è il caos del blues, esistono momenti nei quali il silenzio costituisce la sua nota nativa, la chiave di violino del suo nuovo sistema operativo per lacrime che nascono e si nutrono di una sensibilità fuori dal comune.

La sua voce viene passata al setaccio: liquida, densa, piena di bagliori notturni che si spostano per ossigenare la sua mente, una lunga attesa, un equinozio, un brindisi in un bicchiere che non può macchiare la sua essenza. Canta come un angelo che ha appena terminato una sessione di analisi: graffiante ma pacifico, in attesa di una concessione divina che giunge attraverso queste musiche che sembrano dipinti scavati nella roccia e in cui il suo canto si immerge.

Come gli capita raramente, scrive senza fretta, e concede spazio a cori e controcanti come mai prima: qualcosa del passato pare essere finito tra questi solchi, come se le Murder Ballads fossero andate a rinfrescarsi nell’acqua di Lourdes: nessuna canzone presente nell’album è immune da un confronto, si percepisce che qualcosa di antico compare sempre, ma è la direzione a essere cambiata, e questo basta per farci ascoltare questo terremoto al contrario e uscirne purificati, preoccupati quasi, perché non siamo abituati al fatto che l’uomo con la ruga nell’anima apra una corsia dove la luce vince, stravince e ci mette al tappeto.

Senza dubbi forse un artista non è credibile, lui più di altri, ma questa è la scommessa di chi ascolterà questa cascata: approfittarne e rinsavire, abbandonarsi a un gioco nuovo e perdersi in queste colonne di coriandoli improvvisi sebbene non improvvisati.

Lo shock più evidente è il senso di riconoscenza che lui attribuisce a tutto ciò che toglie il respiro: non si adegua a un eventuale pessimismo e costruisce un’arca che approda in queste lente processioni, dove al posto dell’incenso lui spande sorrisi e abbracci.

Musicalmente assistiamo a un limpido affresco in cui soprattutto il basso e la batteria riprendono il colore che avevano negli anni Ottanta: tolto il rumore rimane la sensazione che i due strumenti e i due musicisti siano in grado di stregare pure Dio, giocando a ribaltare l’ecosistema di Cave, per incantare, mentre il pianoforte è uno gnomo che salta sui tasti, senza affanno, con la gravità che quasi in modo rotondo circonda le note.

Il gospel, il blues, quella malinconica psichedelia nascosta stipulano un patto e tutto scorre, per tornare in un ascolto sempre vergine…


Spiazzante, pericolosa come la gioia che mai consideriamo afferrabile, questa fascina di sorprese faticherà a convincere chi avrà gioco facile nell’opposizione, ma il Vecchio Scriba ne è certo: Nick Cave riderà di gusto, perché la scrittura di questa opera rimarrà nelle rughe del suo leggendario sorriso… 


Song by Song


1 - Song Of The Lake


Il cielo si apre per finire sulla pelle di un lago: ed è l’antico spoken word che torna, ma affacciandosi su una superficie che fa rimbalzare la luce in un tintinnio delicato, e ciò che era grave ora è un “Never Mind” che stordisce. Lenta, angelica, solare, avanza secondo dopo secondo sino a far vibrare le lacrime di un celestiale nuovo cibo. L’influenza della canzone è molto sottile, ma siamo sulle sponde americane di vecchi spiritual in attesa di essere coccolati…


2 Wild God


Tutto torna alla base: il Nick Cave che ha perlustrato negli anni Novanta la secchezza della forma canzone si ripresenta, in una modalità minimalista che abbisogna solamente di questa voce salata, mentre torna nella sua Jubilee Street e afferra il passato per cercare in una smorfia di Dio la sua benedizione. L’insieme si fa angelico e convincente. Lo story telling è inusuale, ma sembra una storia già sentita per via dello stile che qui riceve una piccola scossa grazie ad assonanze preferite alle rime.

Nel finale l’anima scura scuote e un certo affanno, nel cantato, rende il brano uno dei più maestosi dell’intero album.


3 Frogs


Può un delirio surreale essere l’avamposto di un cambiamento? Certo che sì: Frogs è un generatore di novità, un ponte tra Cohen (l’adorato Leonard) nel suo abito grigio e la visionaria creatività di un infarto sonoro, perché qui tutto si ingrossa nel petto, nell’architettura che stordisce. La produzione rivela l’abilità di mantenere alta la tensione, quasi come se un suicidio annunciato stesse per arrivare, ma in realtà è la lungimiranza nella vita da parte di Cave a farci sprofondare in una storia che potrebbe essere stata scritta dai messageri del cielo.

Intanto Leonard dal cielo applaude, felice…




4 Joy


Si trema perché si è impreparati ad accogliere i miracoli al risveglio e Nick scava nell’atrio del suo lutto, un sogno che gli fa sentire una presenza che passeggia lontano nel cielo ma non nel suo cuore. Un padre che scrive una canzone del genere è un fazzoletto su cui le nostre anime vacillano. Incisivo, con la voce che è una pietra che si scioglie, il tutto diventa una nuvola tra timpani, tromboni, corni e la sensazione che quando arriva il fascio di voci tutto sia una sentenza: Cave ha scelto di vivere dentro l’arcobaleno, l’unico luogo dove la gioia non muore…



5 Final Rescue Attempt 


Nuove spine, nuove melodie che sembrano uscite da un album che i suoi fans non hanno mai particolarmente amato, riescono a far sentire un carosello, un carillon di una sospensione che gravita in accenni mai paludosi ma fragorosi: si dia spazio alla sottile lamina di una tastiera che regge questo ingresso nel dolore senza dargli la possibilità di vincere. Ed è ipnosi che passa al pianoforte e lubrifica l’intera struttura, con note dal registro basso e tuttavia solari…



6 Conversion


L’aquila non dorme se il cielo è nuvoloso: le sue vittime possono nascondersi. E allora Nick se ne inventa uno: cambia la direzione del suo percorso per intrufolarsi in ritmi pieni di battiti lenti, con la tastiera di Warren che aspetta l’ululato del fedele amico, mentre il drumming si affaccia e il corno piega la melodia per questa composizione che anticipa una nuova tempesta…



7 Cinnamon Horses


Sacra, austera, turbolenta nel suo principiare, e poi muta, come una boccata di aria fresca che è stata benedetta dalla contemplazione. Devastante, conduce l’immaginazione alla resa. Il modo in cui Cave gioca in anticipo rimane una sorpresa: se si osserva la struttura del brano tutto sfugge alla ripetizione, ma si rimane incollati a quei tocchi delicati nel contesto di un’orchestrazione che davvero si presenta come una triste benedizione angelica. La voce quasi trema ma le parole no: avanzano sicure mentre tutto si dilata…



8 Long Dark Night


Il brano più vicino a un passato glorioso assembla il conosciuto a un vortice di nuovi ingressi. Primo fra tutti l’utilizzo di un fare pop nel ritornello che può essere utilizzato come un crocevia: a ognuno la scelta tra perdersi o trovare la mano di una lunga notte scura, ma solo in apparenza…

Saper visitare il dubbio innanzi a una grande gioia appartiene al potere della notte. Le parole, cadenzate e ben scandite, sembrano proprio quell’atrio personale in cui ognuno di noi può sentire una gustosa sensazione di perdita…



9 O Wow O Wow (How Wonderful She Is)


La devozione della band a rendere luminosi i suoni in progressione è arcinota. Forse questa modalità un po’ meno ed è impressionante come si stia in attesa di un miracolo tecnologico: la voce di Anita, registrata durante una conversazione telefonica, arriva a fare del nostro cuore un sepolcro in tumulto, dopo che il testo di Cave ha preparato il colpo di scena in modo impressionante. E come un novello Jean-Michel Jarre, ecco che l’australiano si invaghisce di suoni quasi freddi per scaldarli con la sua generosità.

Quando l’amore entra in questo brano ci si sente fortunati: niente muore se esiste la memoria e infatti Anita si affida proprio a questo con Cave. E si piange nella prigione della risata di questa fantastica musa… 




10 As the Waters Cover the Sea


Il lato B della canzone che ha aperto l’album.

Ecco la dolce e tenera modalità con la quale Nick e la band si congedano, per costruire la coperta adatta a farci dormire, con un’armonia che sale nel tetto, al fine di proteggere questo lavoro di ottima e sensazionale fattura: il fatto che sia una forma corale a concluderlo non è un caso…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
30 Agosto 2024

My Review: Iamnoone - The Joy Of Sorrow

Iamnoone - The Joy Of Sorrow Whether it is confusion or clarity that generates an oxymoron such as the title of this album is not known and ...