giovedì 20 giugno 2024

My Review: Clone - CL.1


Clone - CL.1


Here is Brooklyn, alive and well, still pulsating, eager to change the world, to express its artistic and cultural needs.

We attend the debut album of the band called Clone and embrace it, given the quality that emerges from these ten compositions, so vibrant, ferocious, muscular, with a powerful determination to unite rock and post-punk, without lacking the reflection that the lyrics can deliver, like a sweet punch in the stomach. The quartet consists of two keyboards, two guitars, a bass guitar and drums.

The vocalist, LG Galleon, plays guitar and keyboard, as does Dominic Turi, for a work that in its entirety has great proximity to the career of Sonic Youth of the 1990s, and the intention to elaborate songs that know how to maintain high concentration and attention. Powerful guitars, rebellious vocals, a drummer who knows the way to transport us in decomposed, oblique dances, where the bass expresses the magic of precision and connections with less 'visible' genres, but which characterise the versatility of the entire American ensemble.  The lives of individuals here are put under pressure, analysed and criticised, with a constant push to find answers and offer sufficient energy for change, always in an urban hemisphere where negativity is easier to spot. A perfect amalgam, irritating in the positive sense, as the band knows how to stimulate reactions, offering an enormous service.

The melodic research, which is present, flanks the rhythmicity and the remarkable fact is the absence of a song that overpowers the others: an incredible continuity that makes it appear almost like a concept album. 

An evident bundle of spontaneity appears united with an equally evident projectuality: the impression is that of long hours in the rehearsal room warming the heart of each instinct and learning to govern it by giving it a task, for a final assimilation that is pleasantly disconcerting. We seem to see modernity disappear and return to the dreams, the rage, the rapacious instincts of a youth not intent on lazing around, but rather on warming up its engines and instilling an amphetamine petrol into its instruments.  Insides is the glaring example, the fuse that catches fire and leaves the skin as if tarred, in an inner rather than physical rush, like a tribal call that enters the streets of New York, to irritate and frighten.

Dividing Line is a resounding example of mental athleticism, a meteor that oxidises nerves through its psychedelic structure in a rhythm that galvanises with powerful guitar inserts.

Dazzle is the neurotic gem that expands its toxins in an imaginary association with Sonic Youth still endowed with the will to scratch the world.

With the final track Resurrection we witness a farewell that demonstrates all the processing work of the impetuses, orchestrated to generate inevitable chaos, in which the vocalist becomes a jackhammer with his "come back", surrounded by guitars thirsty for sadness.  But, if you can and want to, linger on the edelweiss of Redeemer, the episode in which everything seems to camouflage the previous episodes, only to represent them at their best when the drums start beating and the singing seems to be a polite scream with the task of representing suffering, yet not failing to visit the dream. An amazing moment that will surely bring back your memory of the American alternative rock epic of the entire nineties.

A killer, essential and addictive album that would do well to stir the dull and surrendered minds...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

20 Giugno 2024


https://clonebk.bandcamp.com/album/cl-1

 Clone - CL.1


martedì 18 giugno 2024

La mia Recensione: James - Live in Manchester 14 June 2024 Co-Op Live Arena



James - Live in Manchester

14 Giugno 2024 Co-Op Live Arena


È sempre un insieme di prospettive quelle che compongono l’unione di persone, partendo da quella fisica per arrivare a quella attitudinale e comportamentale. Se si raggruppano ventitremila e cinquecento creature per un concerto tutto si moltiplica, per raggiungere il cielo dove vengono esaminate le bolle di vapore che fuoriescono dalle anime coinvolte. Essere presenti a tutto questo, partecipare con sguardo attento e cuore aperto per essere parte di questa esperienza della band Mancuniana, confermare un amore assoluto, perdersi nella bellezza dell’evento, trovare nuove melodie interiori certifica il valore di questa moltitudine, in una serata epica ed energizzante, nella quale era difficile rimanere indifferenti.

C’è chi ha messo l’accento su alcuni limiti della nuova venue, probabilmente per il piacere malsano della polemica, dimenticando che alla fine ogni singola situazione sfugge allo sguardo e all’interesse di chi non vive quelle determinate lacune. La nuova arena ha comunque ospitato una possibilità che i James hanno onorato con una prestazione eccellente, un abbraccio collettivo continuo, un sorriso, una stretta di mano bella salda, un eco continuo di emozioni e pensieri che si inseguivano, determinati dalla loro ancora viva passione e determinazione nel fare di uno spettacolo una serata ludica, onirica, vitaminica, in cui l’encefalogramma e il battito del cuore si sono trovati sempre sulla zona del fremito, dell’esplosione gentile di una gioia che con i nove membri non conosce data di scadenza. Il tutto maggiorato dal quartetto del coro Inspirational Voices di Manchester, con il risultato di ampliare la spiritualità dei testi e la loro forza evocativa già grande per conto suo.

Ventuno momenti e la sensazione che la scaletta abbia messo a fuoco la coralità dei brani, in una successione avvolgente, ben spalmata, tenendo continuamente alta la tensione e l’attenzione. C’è chi non ama i grandi luoghi per i concerti (il Vecchio Scriba è tra questi), ma poi una situazione come questa mescola le carte e il gioco cambia, si arriva allo stupore e al beneficio, inatteso, dimenticando le proprie esigenze, vedendosi trasformati in veicoli che portano a bordo le novità e sentendosi migliori. Nove dei loro diciotto lavori hanno trovato spazio con canzoni che hanno dato al tempo il timbro della complicità, del ricordo, e l’ultimo album Yummy ha ancora una volta dimostrato la capacità della band di farci sentire tutto come nuovo, diversificato, come un’ennesima nascita che cambia le interpretazioni ormai storicizzate in questi due mesi dall’uscita, per ampliare il nostro benvenuto e il nostro grazie più sincero. I James sanno addomesticare le riluttanze, i rifiuti, dare uno scossone a chi storce il naso e consegnare alla storia del loro favoloso percorso artistico un’ulteriore medaglia al valore. 

I loro spettacoli sono gravidanze e parti naturali, nei quali intelligenza, pathos, impulsività, slanci tra il razionale e il bisogno dell’attimo vengono compattati, senza filtri, per generare nuovi figli, e le trame che fuoriescono da tutto questo sanno essere sconvolgenti, in quanto loro sanno dare alla bellezza un senso diverso, soprattutto vestendo il senso di nuovi umori, colori, odori, con il risultato di ascoltare un intero nuovo disco.

Il palco è il loro giardino, il loro tappeto, dove i corpi esercitano pratiche yoga immaginarie e la mente vola sugli orizzonti di occhi pronti a cibarsi, a ritrovarsi vestiti di incanti e vibrazioni. 

Saul Davies ha giustamente riconosciuto a Jim Glennie il merito di aver formato la band più di quattro decadi fa, una band nella quale molti sono arrivati e molti se ne sono andati, ma lui è la colonna di una intenzione e di una capacità di assemblare nel progetto la vitalità, la capacità di scrutare, il mettersi in gioco responsabilizzando, gentilmente, chi in quel momento fa parte della formazione. 

Non ci sono forme di esibizione, sterili tentativi di accattivarsi il favore del pubblico, ma il desiderio di far trasudare professionalità, di spendere le abilità, di rinnovare il repertorio delle capacità per elevare il tutto in un percorso dove la luce vera è data da tutto questo, malgrado, sia chiaro, il gioco sul palco offrisse una forma spettacolare. Il vecchio Scriba non ama molto l’incontro di arti diverse in un concerto, ma durante questo si è ricreduto e non poco, perché nulla ha tolto potere alle note musicali che, ripeto, non si vedono ma si sentono.

Tanti i momenti nei quali le lacrime si sono ritrovate sospese nello spazio della Co-Op: durante Ring The Bells, Better With You, Shadow Of A Giant, Way Over Your Head, Rogue, Sound tutto questo è accaduto, senza ritrosie.

Ma con Jam J credo si sia toccato il cielo, in quanto la forza del groove, l’estensione melodica, la danza tribale e l’esplorazione dei suoni hanno donato ai membri del gruppo un prato dove disegnare intensità, grandezza e ricerca, sia intima personale che collettiva.

Su Mobile God l’impianto visivo ha coinvolto l’attenzione, la riflessione, e la tecnologia, in questo caso, ha fatto molto bene il suo dovere, proiettando le nostre consapevolezze verso e dentro il futuro, dispensando confusione e smarrimento, paura e grande curiosità, per un risultato davvero effervescente.

Sometimes è stata ancora una volta la scintilla di un amore che abbraccia il passato confermando la verità nelle parole del ritornello, sempre più necessarie e clamorose, un fiume che raccoglie i bastoni delle nostre esistenze per portarli nell’oceano fluorescente del gruppo di Manchester. Una dichiarazione collettiva che precede il futuro, ogni volta…

Tim Booth si è concesso come sempre, ma ciò che è risultato evidente è stata la sua grande curiosità, attenzione, portando il suo spirito critico a essere un raggio di sole, tra sorrisi, strette di mano, richieste e speranze.

Il pubblico è cambiato in questi anni, credo non ci si debba vergognare nell’affermare in peggio, con alcune persone che non hanno avuto rispetto degli altri. Ma alla fine ha vinto la voglia di partecipare donando il meglio di sé, in un senso collettivo in cui la pulizia dell’anima ha avuto la meglio sugli aspetti più beceri.

Gli inni scritti negli anni hanno confermato l’empatia e la partecipazione corale, un happening evidente, ma anche le altre canzoni hanno saputo generare flussi di gioia. Beautiful Beaches ne è l’esempio più lampante.

L’encore, nella sua perfezione, ha congedato le tredici presenze sul palco, lasciando però intatta la connessione mentre si usciva dalla venue, con facce, discorsi e canti che hanno fatto sì che nulla si potesse considerare concluso. Ed è proprio lì che si determina il successo, il senso, la forza di una serata…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

19th June 2024 

My Review: James - Live in Manchester 14th June 2024 Co-Op Live Arena


 James - Live in Manchester

14 June 2024 Co-Op Live Arena


It is always a set of perspectives that make up the coming together of people, starting with the physical and ending with the attitudinal and behavioural. If twenty-three thousand five hundred creatures gather for a concert everything multiplies, to reach the sky where the bubbles of vapour escaping from the souls involved are examined. To be present at all this, to participate with an attentive gaze and an open heart to be part of this Mancunian band experience, to confirm an absolute love, to lose oneself in the beauty of the event, to find new inner melodies certifies the value of this multitude, in an epic and energising evening in which it was difficult to remain indifferent.  There are those who have emphasised some of the limitations of the new venue, probably for the unhealthy pleasure of controversy, forgetting that in the end every single situation escapes the gaze and interest of those who do not experience those particular shortcomings. However, the new arena hosted a chance that  James honoured with an excellent performance, a continuous collective embrace, a smile, a firm handshake, a continuous echo of emotions and thoughts chasing each other, determined by their still lively passion and determination to make a show a playful, dreamlike, vitamin-packed evening, in which the encephalogram and the heartbeat were always in the zone of the quiver, of the gentle explosion of a joy that with the nine members knows no expiry date. All this is augmented by the quartet of Manchester's Inspirational Voices choir, with the result that the spirituality of the lyrics and their already great evocative power are extended.  Twenty-one moments and the feeling that the setlist focused on the chorality of the songs, in an enveloping, well-spread succession, continuously keeping tension and attention high. There are those who do not like large concert venues (the Old Scribe is among them), but then a situation like this shuffles the cards and the game changes, one arrives at astonishment and benefit, unexpected, forgetting one's own needs, seeing oneself transformed into a vehicle that brings new things on board and feeling better. Nine of their eighteen works have found a place with songs that have given time the stamp of complicity, of remembrance, and the latest album Yummy has once again demonstrated the band's ability to make us feel everything as new, diverse, as yet another birth that changes the interpretations now historicised in the two months since its release, to extend our most sincere welcome and thanks.  James know how to tame the reluctance, the rejections, give a shake to those who turn up their noses and deliver to the history of their fabulous artistic journey another medal of valour.   Their shows are pregnancies and natural births, in which intelligence, pathos, impulsiveness, impulses between the rational and the need for the moment are compacted, unfiltered, to generate new children, and the plots that emerge from all this can be unsettling, as they know how to give beauty a different sense, above all by dressing the sense with new moods, colours, smells, resulting in a whole new disc.

The stage is their garden, their carpet, where bodies practice imaginary yoga practices and the mind flies over the horizons of eyes ready to feed, to find themselves clothed in enchantments and vibrations. 

Saul Davies has rightly credited Jim Glennie with forming the band more than four decades ago, a band in which many have come and many have gone, but he is the pillar of an intention and an ability to assemble in the project the vitality, the ability to scrutinise, the putting oneself on the line-up by empowering, kindly, those who are part of the line-up at that moment.   There is no showmanship, no sterile attempts to curry favour with the audience, but a desire to exude professionalism, to expend skills, to renew the repertoire of skills to elevate the whole in a path where the true light is shed by all this, despite, let it be clear, the play on stage offering spectacular form. The old Scribe does not really like the meeting of different arts in a concert, but during this one he changed his mind and not a little, because nothing took away from the musical notes that, I repeat, are not seen but heard.

There were many moments in which tears found themselves suspended in the space of the Co-Op: during Ring The Bells, Better With You, Shadow Of A Giant, Way Over Your Head, Rogue, Sound all of this happened, without any reluctance.  But with Jam J, I believe we have touched the sky, as the strength of the groove, the melodic extension, the tribal dance and the exploration of sounds have given the members of the group a meadow in which to draw intensity, greatness and research, both intimate personal and collective.

On Mobile God, the visual installation engaged attention, reflection, and technology, in this case, did its job very well, projecting our consciousness towards and into the future, dispensing confusion and bewilderment, fear and great curiosity, for a truly effervescent result.

Sometimes was once again the spark of a love that embraces the past, confirming the truth in the words of the refrain, ever more necessary and resounding, a river that collects the sticks of our existences to carry them into the fluorescent ocean of the Manchester band. A collective declaration that precedes the future, every time...  Tim Booth indulged as always, but what was evident was his great curiosity, attention, bringing his critical spirit to be a ray of sunshine, amid smiles, handshakes, requests and hopes.

The public has changed over the years, I think we should not be ashamed to say for the worse, with some people who had no respect for others. But in the end, the desire to participate by giving the best of oneself won out, in a collective sense in which the cleanliness of the soul got the better of the boorish aspects.

The anthems written over the years confirmed the empathy and choral participation, an obvious happening, but the other songs were also able to generate streams of joy. Beautiful Beaches is the most striking example.

The encore, in its perfection, bid farewell to the thirteen people on stage, but left the connection intact as they left the venue, with faces, speeches and songs that meant that nothing could be considered finished. And that is where the success, the meaning, the strength of an evening is determined....


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

19th June 2024

domenica 9 giugno 2024

La mia Recensione: Black Rose Moves - Summer Of Sorrow


Black Rose Moves - Summer Of Sorrow


Si possono ballare sentimenti e pensieri che sono avvolti tra le nuvole, tra disagi, nella sabbia che rende la pelle una polveriera, tra la claustrofobia e i sogni pieni di ansia e la voglia di sciogliersi in una resa nascosta dai riflettori?

Se si ascolta Summer Of Sorrow, del duo di Birmingham, ci si rende conto di poterlo fare, con certezza e fermezza, e di ritrovarsi a contatto con la coscienza che suggerisce devozione e fedeltà. Un riverbero, un'eco evidente di un passato glorioso, la celebrazione di due generi musicali congiunti sembrano gli elementi per definire ciò che si ascolta, ma il brano è uno stupore che appare interamente solo dopo uno studio attento, in quanto al suo interno vivono particelle di novità, un atteggiamento che pare nascondersi, come una nebulosa in una tempesta spaziale, dove tutto può anche non essere notato. E le preghiere del testo diventano stalagmiti per raggiungere la volta celeste. Per quanto riguarda la struttura musicale ci troviamo con il Post-Punk vestito di mistero e con il vapore acqueo di una Dark-Wave vellutata mentre affoga i suoi petali nel disagio, per un risultato che galvanizza la tristezza e la rende lucida. Il synth e il basso, dritti e rigidi, bilanciano il vuoto con cui tutto si sviluppa, in una magnitudine evidente e trascendentale, mentre la voce asserisce verità e comanda le emozioni congiungendole alla danza che le ha precedute.

Nell’apparente semplicità della sua struttura, la canzone procede come imbalsamata da quei tocchi nevrotici acuti della chitarra e dalle poderose sferzate del basso, ma poi si libera di tutto questo con quel synth che sembra riassumere le parole e la metodica del cantato, per togliere ossigeno e immobilizzare i nostri arti. È una prigionia che ha le stigmate di una favola grigia, per adulti, in un giorno in cui lo tsunami dei pensieri invade i margini delle nostre difese. 

Si ha l’impressione che il senso di perdita sia rilevato in queste note, che si distribuisca un sorriso tetro e non esistano svincoli, vie di fuga, che sia celebrata una verità che si cerca di negare, per sottolineare che la libertà assomiglia spesso a una forma stupida che nega la realtà delle nostre esistenze. Un esordio che sublima l’intelligenza, che abbraccia le menti che vivono con il senso di abbandono riportando in auge gli albori di un’arte (quella musicale) che non solo fotografa le cose, ma le rende percepibili al tatto…

Gli idioti, la maggioranza, noteranno solo ciò che paiono i rimasugli della gloria di alcune band note e usate spesso nel modo sbagliato: il Vecchio Scriba vi invita a non cadere nella trappola e ad acconsentire, invece, alla gioia di vibrazioni misteriose che non hanno petali che giungono dal passato. Il mondo è andato a peggiorare e questa canzone stabilisce il contatto con la coscienza e l’antica connessione al ballo, forse l’unico modo che abbiamo per non fustigare le nostre anime ripetutamente.

Le ombre, il buio, la pazzia data da una frustrazione evidente, vengono qui messe in comunicazione costante, con il loop della chitarra che guida verso i territori dove il nostro pensiero può trovare ristoro e benedizione, in una romantica e mefistofelica espressione che raggela il respiro. Tutto appare come un vestito pieno di ragnatele, di strappi, che scivolano nei minuti con la grazia moderna di due magneti che si preoccupano di generare un ritornello atipico, anomalo, seducente, incastonato nella strofa divinamente, in un paesaggio umorale che non è incline a mutare.

Mark Neat e Grant Leon catechizzano le nuove leve gotiche insegnando loro a prestare attenzione, distribuendo minuti solo apparentemente conformi con la storia di una costola musicale troppe volte esaltata dal suo popolo, fatto di seguaci quasi indemoniati. Il duo si rivolge, invece, agli individui, in una scena solitaria e per nulla propensa alla santificazione: c’è da lavorare su se stessi e i due riescono nell’intento. Che sia allora questo strepitoso singolo motivo di riflessione, con ceri spenti e zone buie finalmente acclamate con rispetto, per poter delineare una prospettiva diversa. La canzone merita tutto questo e anche di più: si dia all’estate un nuovo abito, possibilmente privo di stupide fluorescenze e si consegni l’equilibrio della realtà alla danza che unisce…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

9 Giugno 2024


https://www.youtube.com/watch?v=DbLAm61ep38



My Review: Black Rose Moves - Summer Of Sorrow


  Black Rose Moves - Summer Of Sorrow


Can you dance feelings and thoughts that are shrouded in clouds, in discomfort, in the sand that makes your skin a powder keg, between claustrophobia and anxiety-filled dreams and the desire to melt into a surrender hidden from the spotlight?

If you listen to Summer Of Sorrow, by the Birmingham duo, you realise you can do it, with certainty and firmness, and find yourself in touch with a conscience that suggests devotion and loyalty. A reverberation, an evident echo of a glorious past, the celebration of two conjoined musical genres seem to be the elements to define what one listens to, but the song is an astonishment that only appears entirely after careful study, as particles of novelty live within it, an attitude that seems to be hiding, like a nebula in a space storm, where everything may as well go unnoticed.  And the prayers of the lyrics become stalagmites to reach the vault of heaven. As for the musical structure, we find ourselves with Post-Punk dressed in mystery and the water vapour of a velvety Dark-Wave as it drowns its petals in unease, for a result that galvanises sadness and makes it lucid. The synth and bass, straight and rigid, balance the emptiness with which everything unfolds, in an evident and transcendental magnitude, while the voice asserts truth and commands the emotions, joining them to the dance that preceded them.

In the apparent simplicity of its structure, the song proceeds as if embalmed by those neurotic sharp touches of the guitar and the mighty lashings of the bass, but then it frees itself of all that with that synth that seems to sum up the words and the method of the singing, to take away oxygen and immobilise our limbs. It is a captivity that has the stigmata of a grey fairy tale, for adults, on a day when the tsunami of thoughts invades the edges of our defences.  One gets the impression that a sense of loss is detected in these notes, that a bleak smile is distributed and that there are no releases, no escape routes, that a truth is celebrated that we try to deny, to emphasise that freedom often resembles a stupid form that denies the reality of our existences. A debut that sublimates intelligence, that embraces minds that live with a sense of abandon by bringing back the beginnings of an art (that of music) that not only photographs things, but makes them perceptible to the touch...

Idiots, the majority, will only notice what appear to be the remnants of the glory of a few well-known and often misused bands: the Old Scribe invites you not to fall into the trap and instead to indulge in the joy of mysterious vibrations that have no petals from the past. The world has taken a turn for the worse and this song establishes contact with consciousness and the ancient connection to dance, perhaps the only way we can avoid flogging our souls repeatedly.  The shadows, the darkness, the madness of evident frustration, are here put in constant communication, with the guitar loop guiding towards the territories where our thoughts can find refreshment and blessing, in a romantic and mephistophelian expression that chills the breath. Everything appears like a dress full of cobwebs, of rips, slipping through the minutes with the modern grace of two magnets that take care to generate an atypical, anomalous, seductive refrain, embedded in the verse divinely, in a mood landscape that is not inclined to change.

Mark Neat and Grant Leon catechise the Gothic newcomers by teaching them to pay attention, doling out minutes that only seemingly conform to the history of a musical ribaldry too often exalted by its people, made up of almost indemonized followers. Instead, the duo turns to individuals, in a lonely scene not at all inclined to sanctification: there is work to be done on oneself and the two succeed. So let this resounding single be a cause for reflection, with extinguished candles and dark areas finally acclaimed with respect, in order to outline a different perspective. The song deserves all this and more: give summer a new dress, possibly without silly fluorescence, and hand over the balance of reality to the dance that unites...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

9th June 2024


https://www.youtube.com/watch?v=DbLAm61ep38



mercoledì 5 giugno 2024

La mia Recensione: The Halo Trees - Where The Deep Ends

 


The Halo Trees - Where The Deep Ends


Esistono luoghi nell’anima che sembrano deserti silenziosi, in attesa di una conversazione che possa veicolare compagnia, scambi, vibrazioni, determinare una possibile ricchezza per annichilire la fiumana di incertezza che quei posti generano. In un contesto del genere The Halo Trees potrebbe essere tutto ciò, un sostegno e una presenza per generare appigli e un senso diverso per la propria esistenza. La band proviene da Berlino e incorpora un ipotetico ponte con l’Inghilterra, l’Australia e gli Stati Uniti, in quanto il loro immaginario visivo e sonoro prevede una valigia costantemente piena di desideri, di curiosità e soprattutto di malinconia, il sentimento che risiede in ogni parte del mondo, e nel caso specifico perché le loro musiche paiono uscire da colonne sonore di film provenienti dai tre paesi citati e rendono il tutto amalgamato e perfetto. 

Il mistero, la penombra, la delicatezza, la potenza accennata e mai devastante, il porre domande facendo della curiosità un punto di partenza, sono elementi che escono come una pioggia autunnale da queste dieci composizioni, che si trasformano in semi nell’atrio del cuore e della testa, per ossigenare con realtà e sapienza le nostre smisurate esagerazioni, visto che la saggezza, l’equilibrio e la poesia sono il marchio di fabbrica del quartetto della capitale tedesca. La duttilità nel visitare diversi generi musicali è sorprendente ma ancora di più lo è il fatto che il loro stile viene confermato, e questa riconoscibilità diventa il loro passaporto, per confermare quella unicità che in questi casi spesso, invece, si perde.

L’incertezza, la confusione, la fatica del vivere, la presenza, la volontà di saper manovrare le parole, l’insicurezza dell’eccessiva informazione che destabilizza, la tridimensionalità delle cose sono alcuni degli argomenti che l’abile Sascha Blach sa affrontare, per un connubio sonoro che ipnotizza per precisione, in una danza mentale più che fisica che conquista definitivamente. Si vivono estasianti paralisi con la voce baritonale, quell’approccio che spesso ci ricorda Stuart A. Staples con i suoi Tindersticks e Liam Mckahey e i Cousteau.

Ma generare un elenco di comparazioni svilisce, non serve: in questo album siamo davanti a una profonda appartenenza alla fierezza volta a presentare unicità e differenze. Si sente spesso il bisogno di abbracciare queste composizioni perché si avverte immediatamente il debito verso la bellezza, la ricchezza e il beneficio che l’ascolto genera, per entrare in favole in cui la fine non giunge per via della loro capacità di permeare il tutto ai piedi del cielo, dove tutto inizia e nulla muore…

Si piange dal momento che in questo cilindro musicale l’atmosfera diventa un rifugio, come anche una deliziosa sporca dolcezza da mantenere segregata nell’intimo delle proprie considerazioni. La produzione riesce a rendere perfetta l’alta cifra stilistica della scrittura, un collante, uno scudo, una protezione nei confronti di queste dieci lacrime col sorriso che fanno di Where The Deep Ends uno schermo per tenere la giusta distanza da ciò che opprime. Brani che liberano l’aria da atomi inquinati e la sospendono, come in una fiaba che passa dallo stile fantasy al noir, per legittimare la loro sete di esposizione. 

Si attraversano i decenni, si bussa alla porta della memoria come a quella di un futuro che loro sanno stuzzicare, per mettere mattoni su mattoni, senza dimenticare l’obiettività dell’inganno del vivere.

La profondità e la saggia decisione di arrangiare le canzoni con una metodologia che richiama la musica classica conferisce al tutto un profumo inebriante. Ogni strumento sembra spalleggiare l’accoglienza di quello che conferisce mistero e una grande espressione evocativa: può essere il violino così come l’utilizzo di synth che stordiscono per qualità e precisione in un notevole gioco di equilibri.

Come suggerito nel testo della canzone finale, siamo ospiti, ma soprattutto testimoni di una qualità fuori dal comune e stupisce il modo in cui il gruppo, con il terzo album, conferisce un senso di continuo bisogno dell’ascolto, di divenire una carta assorbente, per stipulare un contratto con la dipendenza, una droga che non dà assuefazione bensì beneficio.  

Gli ascolti si trasformano in viaggi dove la lentezza genera l’estensione della fantasia, l’interiorizzazione e la proiezione di immagini che escono con eleganza da storie che sono scritte per divenire la nostra occasione di accoppiarci con la magia…

E allora che sia Alt-Pop, Post-Punk, Progressive, Alternative non ci interessa e non è per quello che possiamo amarli: saremo costantemente devoti al loro essere una pellicola cinematografica in bianco e nero, in grado di ridicolizzare i nostri finti colori facendo sì che questo album ci governi e ci disciplini, dando alla loro arte lo scettro del comando…

Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

5 Giugno 2024


COP International


https://thehalotrees.bandcamp.com/album/where-the-deep-ends-album-2024


My Review: The Halo Trees - Where The Deep Ends


 The Halo Trees - Where The Deep Ends


There are places in the soul that seem like silent deserts, waiting for a conversation that can convey companionship, exchange, vibration, determine a possible richness to annihilate the flood of uncertainty those places generate. In such a context The Halo Trees could be all that, a support and presence to generate footholds and a different meaning for one's existence. The band hails from Berlin and incorporates a hypothetical bridge with England, Australia and the United States, as their visual and sonic imagery involves a suitcase constantly full of longings, curiosity and above all melancholy, the feeling that resides in every part of the world, and in the specific case because their music seems to come out of movie soundtracks from the three aforementioned countries and makes the whole thing amalgamated and perfect.   The mystery, the penumbra, the delicacy, the hinted and never devastating power, the asking of questions by making curiosity a starting point, are elements that come out like an autumn rain from these ten compositions, which turn into seeds in the atrium of the heart and the head, to oxygenate with reality and wisdom our boundless exaggerations, since wisdom, balance and poetry are the trademark of the quartet from the German capital. The ductility in visiting different musical genres is amazing but even more so is the fact that their style is confirmed, and this recognizability becomes their passport, to confirm that uniqueness that is often, instead, lost in these cases.  Uncertainty, confusion, the drudgery of living, presence, the will to know how to manoeuvre words, the insecurity of excessive information that destabilizes, the three-dimensionality of things are some of the topics that the skillful Sascha Blach knows how to address, for a sonic combination that hypnotizes by precision, in a mental rather than physical dance that definitely conquers. One experiences ecstatic paralysis with the baritone voice, that approach that often reminds us of Stuart A. Staples with his Tindersticks and Liam Mckahey and the Cousteau.

But to generate a list of comparisons is debasing, unnecessary: in this album we are faced with a deep belonging to pride aimed at presenting uniqueness and difference. One often feels the need to embrace these compositions because one immediately feels the debt to the beauty, richness and benefit that listening generates, to enter fairy tales in which the end does not come because of their ability to permeate everything at the foot of heaven, where everything begins and nothing dies...  One weeps since in this musical cylinder the atmosphere becomes a refuge, as well as a delicious dirty sweetness to be kept segregated in the depths of one's considerations. The production manages to make perfect the high stylistic figure of the writing, a glue, a shield, a protection towards these ten tears with a smile that make Where The Deep Ends a screen to keep the right distance from what oppresses. Songs that clear the air of polluted atoms and suspend it, as in a fairy tale that switches from fantasy style to noir, to legitimize their thirst for exposure. 

They cross decades, knocking on the door of memory as well as that of a future they know how to tease, to lay brick upon brick, without forgetting the objectivity of the deception of living.

The depth and wise decision to arrange the songs with a methodology reminiscent of classical music gives the whole an intoxicating fragrance. Each instrument seems to shoulder the reception of that which lends mystery and a great evocative expression: it can be the violin as well as the use of synths that stun with quality and precision in a remarkable balancing act.  As suggested in the lyrics of the final song, we are guests, but more importantly, witnesses to a quality that is out of the ordinary, and it is astonishing how the group, with the third album, imparts a sense of the continuous need for listening, to become a blotting paper, to enter into a contract with addiction, a drug that is not addictive but beneficial.  

Listening turns into journeys where slowness generates the extension of imagination, the internalization and projection of images that emerge elegantly from stories that are written to become our chance to mate with magic...

So whether it's Alt-Pop, Post-Punk, Progressive, Alternative we don't care and that's not why we can love them: we will be constantly devoted to their being a black and white cinematic film, able to ridicule our fake colors by making this album govern and discipline us, giving their art the sceptre of command...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

5th June 2024


COP International


https://thehalotrees.bandcamp.com/album/where-the-deep-ends-album-2024

La mia Recensione: Midas Fall - Cold Waves Divide Us

  Midas Fall - Cold Waves Divide Us La corsia dell’eleganza ha nei sogni uno spazio ragguardevole, un pullulare di frammenti integri che app...