giovedì 9 maggio 2024

La mia Recensione: Joy Division - Closer


 

Joy Division - Closer


“Il dolore più grande del mondo è quello che, goccia a goccia, trafigge l’anima e la spezza”

Francisco Villaespesa


Nella storia umana esistono legami che si tramandano senza che ci sia il contatto diretto, come una traiettoria che oscilla nascostamente. In questo caso stiamo parlando della Odissea, il trapianto delle avventure più estreme che, nel marzo del 1980, in soli tredici giorni, ha deciso di entrare nel corpo musicale di un progetto pieno di sintomi adiacenti all’originale, un viaggio catastrofico e allucinante, planato nella radura fredda degli studi Britannia Low, a Islington, Londra, per consegnarci non un idillio bensì il metro che misura la differenza tra il bene e i malesseri più estremi.

Tra Salford e Macclesfield esistono 41 chilometri e i quattro ragazzi si spartivano questa distanza recandosi a Manchester, la cupola grigia dell’esistenza più torbida e sconquassata. Il divertimento consisteva nella fuga dalla realtà, creando isole immaginifiche all’interno di un circuito elettrico fatto di note musicali ed estremi paradossi. La cultura della città lasciava l’ozio dei primi anni Sessanta e nel bel mezzo degli anni Settanta sprintava per accaparrarsi simpatie, favori e il consenso delle stelle. I Joy Division furono la frattura più evidente, ma mai vennero ostacolati: i Buzzcocks intravidero la loro nera bellezza e li accolsero per un tour durante il quale i JD scrissero le 9 canzoni che dettero a Unknown Pleasures un triste primato, vivo ancora oggi, ovvero quello di fare un album nuovo che smentisse molta di quella attitudine senza mancare però di qualità. Closer è un urlo ragionato, diabolico, magnetico, un’onda magmatica di stanchezze, introspezioni, una febbre in bianco e nero che permane, senza esitazioni. Raccoglie i detriti di un’anima allo sbando, il pulsare entusiasta degli altri tre componenti, giovani pieni di vitamine e speranze, deliziosi fannulloni in cerca di uno status che li porti via da questo agglomerato urbano sempre più in conflitto con la vita quotidiana. I testi, infatti, sono un diario giornaliero nei quali i pensieri non sono assunti a manifestazioni artistiche disarticolate dalla realtà ma ne sono invece il calco, l’impronta, lo scatto attitudinale di una volontà che si precisa nell’affermazione della debolezza come il limite che non può essere battuto. Nove composizioni divise in due lati: il primo gravita dentro la sistematica intenzione di mostrare l'inaccessibilità, il non piacevole che richiede il congelamento riuscendo però a far sudare l’anima. Il secondo è un ammasso di pensieri in totale putrefazione che si fanno accompagnare da musiche tetre, lapidarie, piene di pioggia e vento, per portare lontano, nel ricordo postumo, un’assenza di energia che somiglia a un canto senza i magneti della disperazione.


Sin dalla copertina, dove viene eliminato il significato religioso (della Madonna appare solo un braccio e il Gesù di Nazareth è quasi totalmente nascosto), capiamo che siamo innanzi a una immagine che non riassume il contenuto bensì indica la partenza, l’intenzione, l’estrema bellezza e intensità della fascinazione nei confronti della morte, qui mostrata nell’atto della vicinanza, dell’accoglienza, della spartizione delle lacrime. Ma il secondo lavoro dei JD non è una sintesi del dolore, nemmeno un cielo che attraverso l’esaltazione possa condurlo alla devozione. È un resocontare con la bilancia su un palmo e lo sguardo smarrito sull’altro, in un gioco dinamico di forze in grado di far perdere le coordinate. Closer è un boato sotto forma di un giocattolo con le guance essiccate attraverso un Post-Punk chirurgico che contempla l’assunzione di nuove metodologie espressive. Ecco, dunque, nei solchi apparire, “dolcemente”, i pruriti di una Coldwave spaventata, i primi vagiti di quella Darkwave che si prenderà la giusta quota di responsabilità subito dopo l’uscita di questo gioiello. Non mancano quote di una psichedelia elaborata e di una propensione a dare ai rumori quella validità che nella musica industrial poteva anche procurare fastidi. Il disco, per mezzo della maledetta capacità di Martin Hannett di raggiungere quella perfezione non gradita dai quattro, mummifica l’emozione (quella spontanea) per generare un corto circuito mentale nel quale lo smarrimento, la paura e la tensione fanno sembrare il tutto il frutto di una proiezione cinematografica, per consentire all’horror e al drammatico la convivenza, non forzata.

Troppo si è detto sul suicidio di Ian Curtis, del testamento e di tante altre gratuite ingenuità e sciocchezze: ci troviamo, invece, nel territorio di espressioni sbilanciate, impeti ingovernabili, gioia e dolore come una pastoia inevitabile, con la capacità di suscitare pensieri pieni di magneti sanguinei in costante caduta. Ian parla di se stesso e lo fa davanti a un microfono: nessun testamento conosce questa dinamica…


Dovremmo pensare a come per una volta la musica si sia disinteressata dei testi e che solo una magica congiunzione abbia potuto far credere a un legame tra le due parti. Ma Bernard, Peter e Stephen in quel tempo non ascoltavano nemmeno il cantato del povero ragazzo diviso e atrofizzato dagli spasmi. Dopo quarantaquattro anni si può affermare che sia stato un bene, una coincidenza strabiliante da lasciare sbigottiti. 

I temi affrontati nel disco sono circumnavigazioni spettrali, con la fatica incollata alla mancanza di ogni speranza, un lucidare la morte spegnendo la vita, depositando i sogni nel caveau dove ogni interesse non poteva maturare. Eretto, nerboso, elettrico e potente, una incudine lenta con accelerazioni che precedono la lunga processione che conduce nella zona del silenzio che può consegnare la verità. I brani sono uniti solo dal fatto che i musicisti e la voce risultino  perfettamente riconoscibili: per il resto è una slavina che scompone ogni armonia e la delicatezza muore secondo dopo secondo, snervando i sogni e le velleità per conquistare un eremo che si chiama Capolavoro, quello che non rende felice nessuno, il più triste che si possa immaginare…

Tutto, in questo getsemani moderno, si dirige verso la non piacevolezza e l’urto incombente tra il desiderio di sentire come procede e l’assoluta volontà di spegnere ogni transistor.

Ed esistono ancora persone che definiscono questo lavoro “dark”...

Il delicato vetro di quest’ultima creazione non è nient’altro che un circo dove il clown non esce, mostra il suo trucco attraverso ombre cinesi, e i cavalli, quelli di solito non domati, qui si siedono e si fanno pettinare la criniera dalle lacrime congelate di Ian, assoluto protagonista, non voluto, di un assolo lacerante, verso dopo verso. L’atmosfera, plumbea e vibrante, conduce spesso al fastidio, alla reazione di anime che vorrebbero negare la vera identità di un ascolto che spezza lo stomaco. Riti, ideali, dispersioni, scontri, dal “No Future” del Punk al “Sono fottuto”: sembrano essere passati tanti anni e invece no, i Joy Division con questo gioiello dimostrano come ogni impeto possa perdere foga e trovare la melma di attriti sempre più coscienzosi e capaci. Sconvolge il fatto che la band dimentichi la poesia della metodica Post-Punk, fatta di riferimenti letterari della fine dell’Ottocento per divenire l’avamposto di una serie di furibonde analisi introspettive: forse è proprio per questo motivo che la definizione del genere nei confronti di Closer perde valore, in quanto veniamo catapultati su un lettino scoprendo che uno psichiatra fatica a raccogliere informazioni. Avviene per le parole come per la musica: la forma canzone, solo apparentemente, aiuta a credere che la pazzia non sia una molla che prende la vita e la fa rimbalzare ordinatamente. È esattamente il contrario e da qui inizia la difficile gestione di artrosi, artriti e degenerazioni che parrebbero cadere nel lago del malcontento. 


Si debbono individuare le zone di appartenenza, quelle di rifiuto, quelle nelle quali la band si scontra con se stessa, con il produttore, con il tempo che non sembra in grado di accettare che questi figli non vigilino sul reale, ma decidano invece di posizionarsi sulla coda del tempo per dare una serie di addii. Muore tutto in queste nove canzoni, nessuna ipotesi di copia e incolla, di una riproduzione o di una continuazione, perché il vero capolavoro è quello in cui il proprio senso, il proprio spazio, nella collocazione misteriosa che non mette a proprio agio nessuno, sia un archivio irraggiungibile anche per il futuro.

Closer, dall’iniziale terremoto sensoriale, diventa una galassia in continua esplosione, tra ritmi tribali, circonferenze genetiche in ebollizione e la smagnetizzazione di ogni fiducia. Non può e non deve piacere questo insieme di tensioni, ma devono essere insegnanti ingobbiti dalle diottrie dubbiose in quanto, forse, il primo guadagno di questo lavoro è proprio quello di dare alla vista meno importanza possibile. Ed ecco quindi che l’apparato uditivo si trova a soccombere, incapace di gestire queste non canzoni, queste disarmonie, stonature, ansie, apprensioni e suoni cadaverici che sotterrano ogni sorriso.

Ha una collocazione temporale scolorita dalla mancanza della conoscenza e della memoria da parte di chi quegli anni non li ha conosciuti, vissuti, desiderati: molti album del 1980 sono coperte lise, bucate, assottigliate, e se questo ha resistito è solo apparentemente per un legame con la tragedia.

Ora è tempo di scendere nelle corsie di queste composizioni per assestare alla consapevolezza un uppercut deciso, perché nulla è concesso all’ascolto se non avere un vuoto vicino nel quale gettarsi…


Song by Song


1 - Atrocity Exhibition

Con un inizio tribale da cui i Cure prenderanno moltissimo, si entra nella zona della non melodia, di una continua infiltrazione psichedelica che viene controbilanciata dal cantato di Ian, l’unico in grado di dipingere una sottile linea armonica. Ma è un tripudio di suoni, sciabolate, con il basso che pare affiancarsi al funk per rallentare la venatura acida dell’approccio chitarristico di Bernard, mentre Stephen mette ghiaccio nelle vene per una omogeneità, non voluta, con le parole del cantante. Un inizio snervante, lungo, che subito mette in chiaro le cose: Closer non sarà la festa dei sensi ben pettinati…



2 - Isolation

Unknown Pleasures si affaccia solo per il basso pieno di nevrosi e il drumming, per il resto avvertiamo la presenza di un synth che getta la band in una nuova zona e prospettiva: precedere il tempio della musica con una esagerata esibizione di mute espressioni in circospetta esibizione. Pare mettere dosi di allegria quella tastiera ma, invece, il brano è una splendida contorsione, nel dirupo di una solitudine che avanza e reclama attenzione. Si danza come robot in prestito dai Suicide, evidenziando piuttosto i confini di un rock in fase di escursione. 



3 - Passover

L’autonomia dell’intenzione, quando è ingravidata da certezze nerastre, si fa supportare da chitarre accennate e taglienti, un basso quasi nascosto, un drumming semplice ma militare, sino a quando si scopre una evoluzione che genererà, nell’arpeggio di Bernard, un nuovo genere musicale di cui i The Sisters Of Mercy saranno i primi discepoli. Ian è un rabdomante calcolatore, spietato, chirurgico, mai impulsivo, trattiene la catastrofe dei versi in un cantato che sembra solo apparentemente privo di ogni emozione. Brano che mostra lo scricchiolio dell’anima e una capacità della musica di continui allarmi, la non voglia di trovare un momento in cui la canzone possa conoscere vette diverse. Misteriosa, dilegua in ogni suo movimento il desiderio di vivere…



4 - Colony

L’attacco glam, poi via, dopo pochissimi secondi, nei territori dei Killing Joke, dove il nervosismo passa attraverso i cavi, le rullate e le oscillazioni di una chitarra epilettica…

Roboante, sfibrante, una progressione di tagli sulla pelle e la sensazione di una gemma che desidera nascondersi…



5 - A Means to an End

Il futuro conosce se stesso solo dopo la morte: questo miracolo balistico spazza via la storia del Post-Punk, di ogni dottrina preventiva per spalancare lo stupore e irrigidire i nervi. Invita la danza a rimanere legata come una prostituta mentale, per generare delirio e maldicenze varie. Il primo momento di una costruzione scheletrica dei futuri New Order appare come un arcobaleno in decadimento, che misura le cose, gli impeti, affidandosi a una chitarra che pare figlia dell’album Scream dei Banshees. Ma il basso di Hook è il vero mantra, colui che ipnotizza prima che il cantato baritonale di Ian ci sequestri l’anima per l’eternità….



6 - Heart and Soul

Una vita, gli eccessi, gli estremi, le calamite, i disordini e l’ubbidienza a un destino da scrivere in fretta assorbono l’intera composizione con un cantato quasi dolce, perfettamente intonato, quasi potente, del tutto devastante, all’interno di una architettura che non indugia ma che trova il metodo per strutturare il tutto in pochi movimenti sino a dare, nel finale, l’impressione di un abbandono volontario a se stessa. Tutto è accennato, misurato, scheletrito, raffreddato, messo nella cantina delle decisioni che logorano i nervi, annichilendoli…



7 - Twenty Four Hours

Il manifesto e l’apoteosi di un attorcigliamento dei muscoli trova la pulsione Post-Punk all’interno di bacilli e virus che rendono l’ascolto un cielo in caduta libera, senza appigli. Magnetica, buia, devastante, affida al terzetto musicale il compito di disegnare lacrime, mentre a Ian tocca illuminare il disastro esistenziale, in un epilogo che frantuma ogni sogno. La voce, sapientemente illuminata dalle polveri oscene di un villaggio artico, rende inutile ogni gioia, con l'imbarazzo di un ascolto che potrebbe, da solo, spezzare ogni respiro…



8 - The Eternal

Martin Hannett scrive il suo epitaffio con la band di Manchester, donando la sua classe a una canzone che non è altro che una processione misurata dal minimalismo di un piano che tocca le lacrime portandole dentro le parole di Ian, per dare a questo palcoscenico l’odore di macerie intellettuali e fisiche, in un abbandono floreale che incanta sebbene paralizzi. Si entra nell’intimo, nei posti normalmente inaccessibili, di un'anima in litigio con se stessa, dove la frattura evidente si specchia nella teatralità di cupe e avide atmosfere. Muore la Musica attraverso uno spettro cupo rimbalzante nella voce piovigginosa che annichilisce il pianto. Niente di simile era mai apparso prima e non troverà il futuro a sospirare per un seguito: il brano è una processione che oltrepassa le definizioni, perché inserito in una nuvola che si dissolve secondo dopo secondo…



9 - Decades

L’ultimo petalo è sintetico, una tastiera che sembra uscire da un videogame in bianco e nero, un progressivo e lacerante consumo di ogni vitalità entra nel cimitero dei sogni a sincronizzare la giovinezza con la vecchiaia di ogni volontà, nella sfibrante decadenza di una esistenza che cancella ogni scatto. Un assolo della tastiera conduce Ian a porre una domanda che mette l’assenza sul trono, a testa bassa, in uno spazio dove ogni respiro nel microfono diventa un grido sincopato che non fa altro che pronunciare una sentenza obbligatoria, lasciando il cuore nella sua dannazione. Secca, come una tavolozza acrilica senza pulsioni, la canzone esalta il mood dell’album e abbraccia la band nel suo saluto: non esiste addio quando la storia ha deciso che questo lavoro rappresenterà un unicum per i posteri, con l’imposizione che nulla dovrà assomigliargli…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

9 Maggio 2024


My Review: Joy Division - Closer




 Joy Division - Closer


‘The greatest pain in the world is that which, drop by drop, pierces the soul and breaks it.’

Francisco Villaespesa


In human history, there are ties that are passed on without direct contact, like a trajectory that swings covertly. In this case we are talking about the Odyssey, the transplant of the most extreme adventures that, in March 1980, in just thirteen days, decided to enter the musical body of a project full of symptoms adjacent to the original, a catastrophic and hallucinatory journey, gliding into the cold clearing of Britannia Low studios, in Islington, London, to deliver us not an idyll but the metre that measures the difference between good and the most extreme ills.

There are 41 kilometres between Salford and Macclesfield, and the four boys shared this distance by travelling to Manchester, the grey dome of existence at its murkiest and most turbulent. The fun lay in escaping reality, creating imaginative islands within an electric circuit of musical notes and extreme paradoxes. The culture of the city was leaving the idleness of the early sixties and in the middle of the seventies was pushing to gain sympathy, favour and star approval. Joy Division were the most obvious break, but they were never thwarted: the Buzzcocks saw their black beauty and welcomed them for a tour during which JD wrote the nine songs that gave Unknown Pleasures a sad record, still alive today, of making a new album that belied much of that attitude but lacked quality.  Closer is a reasoned, devilish, magnetic scream, a magmatic wave of fatigue, introspection, a black-and-white fever that lingers on, without hesitation. It collects the detritus of a soul in disarray, the enthusiastic pulsing of the other three members, young people full of vitamins and hopes, delightful slackers in search of a status that will take them away from this urban agglomeration increasingly at odds with everyday life. The texts, in fact, are a daily diary in which thoughts are not assumed to be artistic manifestations disjointed from reality, but are instead the cast, the imprint, the attitudinal snapshot of a will that is specified in the affirmation of weakness as the limit that cannot be beaten. Nine compositions divided into two sides: the first gravitates within the systematic intention to show inaccessibility, the unpleasant that requires freezing while still managing to make the soul sweat. The second is a mass of thoughts in total decay that are accompanied by gloomy, lapidary music, full of rain and wind, to carry away, in posthumous memory, an absence of energy that resembles a song without the magnets of despair.


Right from the cover, where the religious significance is eliminated (only an arm of the Madonna appears and Jesus of Nazareth is almost totally hidden), we understand that we are before an image that does not summarise the content but rather indicates the departure, the intention, the extreme beauty and intensity of the fascination with death, shown here in the act of proximity, of welcoming, of shedding tears. But JD's second work is not a synthesis of grief, not even a heaven that through exaltation can lead to devotion. It is an account with the scales on one palm and the bewildered gaze on the other, in a dynamic play of forces that can make you lose your co-ordinates. Closer is a roar in the form of a toy with dried cheeks through a surgical Post-Punk that contemplates the assumption of new expressive methodologies. Here, then, in the grooves appear, ‘softly’, the itches of a frightened Coldwave, the first vows of that Darkwave that will take its rightful share of responsibility immediately after the release of this jewel.   There is no shortage of elaborate psychedelia and a propensity to give noise a validity that in industrial music could also cause annoyance. The record, by means of Martin Hannett's cursed ability to achieve that perfection not appreciated by the four of them, mummifies emotion (the spontaneous kind) to generate a mental short circuit in which bewilderment, fear and tension make it all seem like the fruit of a film projection, allowing the horror and the dramatic to coexist, not forced.

Too much has been said about Ian Curtis's suicide, about the will and so much other gratuitous naivety and nonsense: instead, we find ourselves in the territory of unbalanced expressions, ungovernable impulses, joy and sorrow as an inescapable fetter, with the ability to provoke thoughts full of constantly falling blood magnets. Ian talks about himself and does so in front of a microphone: no will knows this dynamic...


We are supposed to think how for once the music was disinterested in the lyrics and that only a magical conjunction could make one believe in a connection between the two. But Bernard, Peter and Stephen at that time did not even listen to the singing of the poor boy divided and atrophied by spasms. After forty-four years it can be argued that this was a good thing, a mind-boggling coincidence. 

The themes addressed in the record are spectral circumnavigations, with fatigue glued to the lack of all hope, a polishing of death by extinguishing life, depositing dreams in the vault where all interest could not mature. Erect, weedy, electric and powerful, a slow anvil with accelerations that precede the long procession leading into the zone of silence that can deliver the truth. The tracks are united only by the fact that the musicians and the vocals are perfectly recognisable: for the rest, it is an avalanche that disrupts every harmony and the delicacy dies second by second, snuffing out dreams and ambitions to conquer a hermitage called Masterpiece, the one that makes no one happy, the saddest one imaginable…  Everything in this modern getsemani is heading towards unpleasantness and the impending clash between the desire to hear how it goes and the absolute will to turn off every transistor.

And there are still people who call this work ‘dark’...

The delicate glass of this latest creation is nothing more than a circus where the clown does not come out, he shows his trick through Chinese shadows, and the horses, the usually untamed ones, here sit and have their manes combed by the frozen tears of Ian, the unintended protagonist of a lacerating solo, verse after verse. The atmosphere, leaden and vibrant, often leads to annoyance, to the reaction of souls who would like to deny the true identity of a stomach-churning listen. Rituals, ideals, dispersions, clashes, from Punk's ‘No Future’ to ‘I'm fucked’: it seems like so many years have passed, but no, with this jewel Joy Division show how any impetus can lose its fury and find the slime of increasingly conscious and capable friction. It is shocking that the band forgets the poetry of methodical Post-Punk, made up of literary references from the late 19th century, to become the outpost of a series of furious introspective analyses: perhaps this is precisely why the genre definition for Closer loses its value, as we are catapulted onto a couch discovering that a psychiatrist struggles to gather information.  It happens with words as with music: the song form, only apparently, helps to believe that madness is not a spring that takes life and makes it bounce neatly. It is exactly the opposite and this is where the difficult management of arthrosis, arthritis and degenerations that seem to fall into the lake of discontent begins. 


One has to identify the zones of belonging, those of rejection, those in which the band clashes with itself, with the producer, with time, which does not seem able to accept that these children do not watch over the real, but instead decide to position themselves on the tail end of time to say goodbye. Everything dies in these nine songs, no hypothesis of copy and paste, of a reproduction or a continuation, because the true masterpiece is the one in which its own sense, its own space, in the mysterious location that makes no one comfortable, is an unattainable archive even for the future.

Closer, from the initial sensory earthquake, becomes a galaxy in continuous explosion, amidst tribal rhythms, boiling genetic circles and the demagnetisation of all trust. One cannot and should not like this set of tensions, but they must be swollen teachers with dubious diopters because, perhaps, the first gain of this work is precisely to give sight as little importance as possible. And so it is that the auditory apparatus finds itself succumbing, unable to cope with these non-songs, these disharmonies, out-of-tune, anxieties, apprehensions and cadaverous sounds that bury every smile.

It has a temporal collocation discoloured by the lack of knowledge and memory on the part of those who did not know those years, lived them, desired them: many albums from 1980 are lysed, punctured, thinned blankets, and if this one has resisted it is only apparently because of a link with the tragedy.

Now it is time to descend into the aisles of these compositions to give awareness a decisive uppercut, for nothing is granted to the listener but to have a nearby void into which to throw oneself...


Song by Song


1 - Atrocity Exhibition

With a tribal beginning from which the Cure would take a lot, we enter the zone of non-melody, of a continuous psychedelic infiltration that is counterbalanced by Ian's singing, the only one capable of painting a subtle harmonic line. But it is a riot of sounds, sabre-rattling, with the bass that seems to join the funk to slow down the acid vein of Bernard's guitar approach, while Stephen puts ice in the veins for an unintended homogeneity with the singer's words. A nerve-wracking, lengthy beginning that immediately makes things clear: Closer will not be the party of well-combed senses...



2 - Isolation

Unknown Pleasures appears only for the neurosis-filled bass and drumming, for the rest we feel the presence of a synth that throws the band into a new zone and perspective: preceding the temple of music with an exaggerated display of mute expressions in circumspect display. It seems to put doses of cheerfulness in that keyboard but, instead, the song is a splendid contortion, in the precipice of a loneliness that advances and demands attention. It dances like robots on loan from Suicide, rather highlighting the boundaries of a rock in the process of excursion.



3 - Passover

The autonomy of intention, when impregnated by blackish certainties, is supported by hinted and sharp guitars, an almost hidden bass, a simple but military drumming, until an evolution is discovered that will generate, in Bernard's arpeggio, a new musical genre of which The Sisters Of Mercy will be the first disciples. Ian is a calculating diviner, ruthless, surgical, never impulsive, he holds back the catastrophe of the verses in a singing that only seems to be devoid of all emotion. A song that shows the creaking of the soul and a capacity of the music for constant alarms, the unwillingness to find a moment when the song can know different heights. Mysterious, diluting in each of its movements the desire to live...



4 - Colony

The glam attack, then off, after a few seconds, into the territories of Killing Joke, where the nervousness passes through the cables, the rolls and oscillations of an epileptic guitar...

Roaring, exhausting, a progression of cuts on the skin and the feeling of a gem that wants to hide...



5 - A Means to an End

The future only knows itself after death: this ballistic miracle sweeps away the history of Post-Punk, of all preemptive doctrine, to open stupor and stiffen nerves. It invites the dance to remain tied up like a mental prostitute, to generate delirium and various illusions. The first moment of a skeletal construction of future New Order appears as a decaying rainbow, measuring things, impulses, relying on a guitar that seems to be a child of the Banshees' Scream album. But Hook's bass is the real mantra, the one that hypnotises before Ian's baritone singing seizes our souls for eternity....



6 - Heart and Soul

A life, excesses, extremes, magnets, turmoil and obedience to a destiny to be hastily written absorb the entire composition with an almost sweet, perfectly tuned, almost powerful, utterly devastating singing, within an architecture that does not linger but finds the method to structure everything in a few movements until giving, in the finale, the impression of a voluntary abandonment to itself. Everything is hinted at, measured, skeletonised, cooled, placed in the cellar of decisions that wear out the nerves, annihilating them...



7 - Twenty Four Hours

The manifesto and apotheosis of a twisting of muscles finds the Post-Punk drive within bacilli and viruses that make listening a free-falling sky, without footholds. Magnetic, dark, devastating, it entrusts the musical trio with the task of drawing tears, while it is up to Ian to illuminate the existential disaster, in an epilogue that shatters every dream. The voice, cleverly illuminated by the obscene dust of an arctic village, renders all joy useless, with the embarrassment of a listening that could, alone, break every breath...



8 - The Eternal

Martin Hannett writes his epitaph with the Manchester band, lending his class to a song that is nothing more than a procession measured by the minimalism of a piano that touches the tears bringing them inside Ian's words, to give this stage the smell of intellectual and physical rubble, in a floral abandon that enchants though paralyses. We enter the intimate, the normally inaccessible places of a soul in quarrel with itself, where the evident fracture is mirrored in the theatricality of dark, greedy atmospheres. Music dies through a gloomy spectre bouncing in the drizzling voice that annihilates weeping. Nothing like it had ever appeared before and it will not find the future sighing for a sequel: the track is a procession that goes beyond definitions as it is embedded in a cloud that dissolves second by second...



9 - Decades

The last petal is synthetic, a keyboard that seems to come out of a black-and-white video game, a progressive and lacerating consumption of all vitality enters the graveyard of dreams to synchronise youth with the old age of every will, in the exhausting decadence of an existence that erases every snap. A keyboard solo leads Ian to pose a question that puts absence on the throne, head down, in a space where every breath into the microphone becomes a syncopated cry that does nothing but pronounce an obligatory sentence, leaving the heart in its damnation. Dry, like an acrylic palette without pulses, the song enhances the mood of the album and embraces the band in its farewell: there is no goodbye when history has decided that this work will be unique for posterity, with the imposition that nothing will have to resemble it...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

9th May 2024

sabato 4 maggio 2024

La mia Recensione: Piero Ciampi - Piero Ciampi


 

Piero Ciampi - Piero Ciampi


Ma che bella responsabilità assistere al talento, al lavoro, alle qualità di un altro e non fare nulla, se non scendere dentro la polvere aspettando la sua essiccazione. Che cosa strana è l’ascoltatore medio, afflitto dal desiderio di essere felice all’interno della massa per trovare forza, solidarietà, senso e posizione. Tutto ciò gonfia il petto e sgonfia l’apprendimento, atrofizza la genuflessione che non è segno di paura ma di devozione, di uno slancio che sublima il tutto.

Quando nella mente arriva la possibilità di potersi trovare all'appuntamento con la bellezza che sporca le vene, si vive un ascesso del cuore e tutto bolle, ribolle, si amplifica, dilata, spaventa, deterge e assorbe l’incomprensibile e l’inimmaginabile. Questo accade nel momento in cui nelle orecchie della percezione arrivano le corse lente di un maestro senza la laurea, non  attribuitagli da un corpo docente sempre più spavaldamente ignorante. Insegnanti del niente che vivono in modo corsaro nelle case di un’Italia sempre più analfabeta, almeno per quanto concerne l’arte di sicuro.

Piero Ciampi è una croce mobile, un tatuaggio dell’altrui sbaglio, un abbaglio da cui fuggire in quanto non esiste la possibilità di un confronto con chi non ha caveau, sogni segreti, racconti segregati nei bauli delle cantine. Lui no, scava, porta e riporta ancora ogni resa che abbia un dettaglio, minimo, che possa respirare nell’inconsapevolezza che fa arrendere il suo talento senza limiti, proprio lui che con essi ha giocato una sfida enorme, vincendola, senza nessuna medaglia sul petto. Canzoni? Per nulla! Siamo davanti a delle pepite, a dei graffi ingestibili, a degli accorati accorgimenti, fallaci in modo stupendo, con una dignità perfettamente legata solamente alla sua identità, e di nessun altro, in un girone unico dove approcciarsi significa immergersi in un buio che riporta in voga il periodo in cui l’uomo scappava solo dentro le corsie del cielo. In questo secondo album l’artista, a cui dare una residenza significa sconfiggerlo definitivamente, compie una serie di imprese capaci di mettere fuorigioco l’ascoltatore, il passante, l’essere perennemente rinchiuso in una stanza, l’intellettuale con la verità in tasca, tritola il sognatore romantico, prende a pugni il metodico, chi è maniacale, chi cerca negli altri domande e risposte. Quattordici anestesie, amnesie, lampi, poesie, afflizioni, contrizioni, fughe sghembe, speranze mute e sorde,   esagerazioni per nulla fuorvianti, fantasie come stelle mai come le immaginereste, tavoli e baldorie ipnotiche, sconvolgimenti, assoluzioni, benedizioni, invettive sottili in bianco e nero, favole robuste come carta assorbente. Magneti coi poli ubriachi a confondere la rotta, onde che ascoltano i battiti ribaltandoli nelle illusioni più sconsiderate, amori balbuzienti e sconfitti in anticipo, figli assenti, dolori sempre presenti come gittate ineluttabili, amici da curare come un’anima imprigionata da una ricerca che crea danni a prescindere e tanto altro, in un calvario che spossa e droga chi le ascolta.

Piero trita le convenzioni e, con il lavoro sapiente, elegante, commovente di Gianni Marchetti, le canzoni diventano approcci visivi, metafore e incudini, dove il jazz, il progressive più contenuto e moderato, i respiri leggiadri di un approccio a quella musica classica ancora bacino di ispirazioni, il folk che salta nei luoghi e nel tempo, consentono una variegata parata stilistica, nella quale le combinazioni diventano scintille lente, capaci di essere viste per l’eternità, in cui non è il crescendo che galvanizza ma il dover ascoltare con estrema attenzione. Non è solo nella velocità che si possono sentire fuggire le cose…

Le chitarre acustiche, gli archi, la batteria, il basso sono la base per le scorribande delicate di un pianoforte ribelle, educato alla bellezza senza bavagli, anzi, un foulard rosso che vola sulle note per annettersi alla volta celeste celebrando una natura che, in modo spavaldo, indietreggia e avanza nella storia di impianti musicali non solo italiani, per un delirio che tocca le pareti del cuore.

Una collaborazione tra due geni che fanno dei propri campi espressivi un baluardo, un raggio di azione, un limite, una esasperata e deliziosa libertà di non avere impicci dentro queste flessioni di incanti senza catene. Non c’è nessun compromesso bensì due corpi solidi che, quando vengono uniti, rendono l’ascolto un fiume che bacia il mare senza cambiare il colore della propria pelle. Si piange, ci si sente sgomenti, si ride amaramente, ci si ritrova all’interno di correnti che non ascoltano le altre e si entra nelle diagonali delle stagioni della vita, avvertendo gli enormi grappoli vitali di testi che baciano le fascine musicali per trovare una perfetta definizione della solitudine che vive di transiti, approcci e malinconie che quando escono dalla sua ugola paiono moltitudini senza il fiatone, perennemente in viaggio.

La sincerità è l’impronta digitale di un’anima che non soltanto sonda, scava, ma soprattutto porta alla luce il calore dell’inferno, le sue diramazioni, con l’arguzia di momentanee anestesie, per dare al dolore qualche piccola possibilità di riposo. Piero è un operaio della verità, e, da poeta prestato alla canzone, pone le domande che scomodano l’intellighenzia, le classi sociali meno strutturate alla felicità, e intere categorie di anime intente a essere leggere e che, dopo averlo ascoltato, precipitano nell’onda plumbea del disagio. Pone quesiti dentro storie nelle quali si danza a fianco del peccato, scompone le sicurezze e manda a quel paese il cattivo gusto nel tempo in cui l’Italia vede addormentare la ragione che conduce al vero benessere. Lui spoglia tutto, come gesto di stizza, come atto necessario, inequivocabile, con parole che sono diserbanti naturali, attrezzando paragoni con la vita animale, tra purosangue che avanzano buffamente, conoscendo la metamorfosi e l’inquietudine del cambiamento. 

Aleggia nei suoi versi una timidezza fotonica, per riuscire a rendere il pensiero un oggetto, gretto, pesante, adiacente all’impossibile,  libero di ingannare ogni tentativo di caccia: solo ai veri poeti è consentito fare questo, spiazzando, come conseguenza, chi si pone di fronte con l’intenzione di capire. È proprio con la poesia che gli studiosi si garantiscono l’ignoranza e il fallimento. Piero Ciampi rifiuta le gabbie e nelle sue parole ci sono i princìpi di Michael Bakunin, la follia di Edgar Allan Poe che cattura l’ignoto, la suadenza di una pellicola muta francese degli anni Venti e le campagne piene di fattorie cadute in miseria. Non le vedi ma le percepisci queste situazioni, in un marasma di ipotesi che lui controlla per renderle inattaccabili. Quando ci si commuove si conosce sempre la perdita e, se esiste un guadagno, è quello di fare della sua esperienza un monito per la nostra.

Crea distanze, sobborghi dove far stagnare le colpe, dando alla inutilità un raggio di azione in cui ci immerge, con la sua risata invecchiata a congelare ogni pseudo entusiasmo. 

Un disco purtroppo troppo vero, immenso e immerso in un vapore che solo la stupidità ama veder dissolvere e invece dovremmo farlo divenire una enciclopedia comportamentale e attitudinale che renda gli sbagli scevri della volontà di posizionarsi…

La mancata presenza di una forma canzone insistente fa intendere come costruzione e improvvisazione siano due cardini entrati in contatto per non dare fieno da mangiare alla stupidità crescente che ha inghiottito questa forma artistica popolare. I due insabbiano i trucchi, danno alla magia la bacchetta per essere custode dei segreti e si beffano delle definizioni, compiendo passi da giganti, portando avanti nel tempo quello che ancora oggi non si riesce a intendere. Coniugando il sapere e dando spazio ai guitti, questi artisti hanno trovato il modo di essere spavaldi e irruenti, con uno stile unico, raschiando pellicole di vita in luoghi sospetti, dando dignità a strutture che spesso non venivano considerate, con una sintesi quasi cabarettistica per passare ancora di più come una eruzione folle senza possibilità di essere creduta. Eccoci, quindi, al cospetto di raggi dentro i miraggi di appunti come spartiti nel vento: non lo si cattura e non si cattura questo insieme di canti e note in continuo stato di spostamento, cancellando baricentri e scomponendo le forze per conoscere il colore dell’urto. Sono lividi queste composizioni, sono rantoli, sono il canto di un perdente mentre fa calare la tristezza dentro il pozzo dove i desideri non possono sistemarsi. Piero e Gianni diventano il valzer dell’addio, il jazz che ossida, il blues che è attento a non paventare la sua presenza, per rovistare nelle carni di un pentagramma che sembra spesso uscire dai balli a palchetto degli anni Cinquanta per garantire la memoria e il rispetto. La drammaticità vive, come una forma rinascimentale gravida di allucinazioni: non creano dipendenza se non a chi sta nei loro paraggi per quattordici appuntamenti con l’ampiezza, le offerte, in una scrittura che è pura forma giornalistica, quella che entra nella ricerca di ciò che è vero e reale, per descrivere anche ciò che può voler stare lontano da tutto questo, in un carrozzone mai confusionario bensì preciso, come un intervento che serve a estirpare il cancro più grave di tutti che è l’illusione.

Quando ascolti questo album i libri e la vita si aprono, con riferimenti non sempre ovvi, con stupori, con rimembranze, con citazioni nascoste per legittimare genialità che stuzzicano e invitano gli spari a far fuggire i mediocri, mentre la famiglia, il lavoro, i piaceri vengono condotti nella stanza della resa, per essere meno spavaldi e boriosi. Non alza mai la voce Piero, casomai, raramente, il registro del cantato, sempre come se fosse un atto gentile. È tutto facilmente riassumibile in pochi versi: “Quando t’ho vista seduta accanto a me, le labbra aperte ai suoni del mattino, volevo tacere, porre fine al ricominciare”. Una fucilata poetica disarmante, inequivocabile, che rende le parti unite e disunite, nel gioco perverso di una distanza che vorrebbe essere diversa. Perché nulla della bellezza serve se non viene inseguita con un disagio paralizzante, nutrendo il linguaggio e le immagini di una catarsi che dopo aver spossato il pensiero lo getti nel fango. 

Canzoni che rimorchiano, graffiano la vita nell’estate immaginaria di un viaggio dove gli affetti sono abiti che conoscono spesso il ricambio, per sincronizzare i desideri nuovi con quelli privi di luce. La solitudine rende povera solo la parte della pelle che si vede e che Piero ci consente di odorare, tra portate piene di zuccheri e abbracci richiesti.

I sapori sono l’ebbrezza che attraversa lo champagne e il vino rosso, in un tripudio che odora di imbarazzo e necessità che avanzano, in un palco pieno di giornali, goffi movimenti e i dolori a un fianco messi sotto l’occhio di bue per conferire una circonferenza logica al tutto. L’amore nell’album è un arredo che non consola gli occhi, non profuma di pace, attraversa invece lo sconforto, l'inadeguatezza, avvilisce e fa smarrire i sogni, sparge veleni senza rifiutare l'ipotesi di un benessere minimo. Le creature musicali diventano appunti da leggere dopo cena, in modo distratto, durante una passeggiata tra vicoli acclamanti la luce mentre nell’anima il buio si assesta e rovista, per trovare quello smarrimento che spossa e ingigantisce la pigrizia e il pentimento. 

Le sue composizioni le viviamo come l’autore nato a Livorno quando per vederci un minimo beve “un litro molto amaro”: uno sconvolgimento necessario per uscire dalla finzione di anime posate, mai in affanno. Ecco che l’eccesso rivela la vera natura della nostra incoscienza.

Una detonazione continua che solamente la poesia del suo vagabondare permette di accettare, perché la pelle ricoperta da quella polvere è la sua: lui riesce a farci provare l’incanto di questa visione lasciando alla nostra coscienza la facoltà di decidere se sia una colpa o meno.

Quando ci troviamo nei sogni di una donna con la follia esibita nei suoi versi, il brano riesce a regnare, a diffondere le note di un piano di New Orleans e a farci ritrovare fuori zona, fuori luogo e fuori dal tempo, come la magia sa fare senza balbuzie.

Conosce, questo sipario mobile, la modalità che rifiuta di divenire un’attrazione, dando ai versi il potere di spostare i bisogni, senza la possibilità di riconoscersi, per rendere la sua e la nostra solitudine incompatibili. 

Gli archi sembrano prendere questo potere per esaltarlo, in voli e danze che sfiorano l’epicentro di un terremoto nel cuore dell’universo, lontano anni luce dal nostro comprendere. 

La vera genialità non comprende condivisione, rendendo ancora più cruda la distanza delle differenze: l’album più intenso, perverso, incandescente, libertario, raccapricciante nell’accezione positiva, più seducente e pesante di tutti gli anni Settanta e, probabilmente, non solo.

L’unico augurio che possa fare il Vecchio Scriba è di fare una grande indigestione di questo raro capolavoro globale e di soffrire di spasmi che conducano alla grande verità: “è successo un fatto strano” e siamo ancora qui a non capire quale sia, dentro una meravigliosa merda…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
4 Maggio 2024

https://open.spotify.com/intl-it/album/02kbC96fGDCaGS1a7tynHC?si=xvtA_mo4Q-6empSdnRxm2Q

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