domenica 21 aprile 2024

La mia Recensione: Duran Duran - The Chauffeur

 


Duran Duran - The Chauffeur 


Quando le favole si tingono di nero, si caricano del dramma, affondano le mani nel sacrilegio del dolore, la confusione diventa l’unica chiarezza, in una corsa affannata verso quell’amore che nega di spalancarsi, di essere consumato senza onde malefiche.

Abbiamo la fortuna di poter pensare a tutto questo ascoltando una chicca che resiste all’usura, che ancora oggi ferisce, per una strana apologia che non può essere scalfita da teorie opposte. Un gioiello pieno di brillantini che non soffoca la magnificenza che alberga nella sua profondità, regno dove la magia e il segreto continuano a pulsare.

La band di Birmingham, che ha depositato nello scrigno del tempo questa cometa senza morte sul suo dorso, scrisse nella maturità della sua adolescenza questo brano, vascello, treno e soprattutto auto, per portare concetti morali a bordo di una storia dove l’amore, la passione, il fastidio, l’ineluttabile consumo dei desideri potessero divenire un messaggio spinoso, una puntura mentale che, insinuandosi ascolto dopo ascolto, causasse una paralisi, come unico vero atto di devozione a un circuito che già di per sé era in grado di generare dipendenza. Saper coniugare la sensazione pop a una fascina di tensioni grigiastre con l’uso dei synth (veri piloti di questa lenta corsa), è un’operazione davvero notevole, con la capacità di lasciare nella bocca degli ascolti un gusto amaro e dolce, in un connubio che azzera ogni competizione. Il pianoforte in modalità flanger, il basso sensuale, il lavoro di programming, della drum machine e poi della batteria confluiscono tutti quanti in un testo, nella voce, per direzionarsi nel ventre della notte, lo scenario perfetto dove relazionarsi con la meditazione, fatto, in sé, da vivere come un avvenimento disarmante se si prendono i Duran Duran per quello che erano, ragazzi alla ricerca del successo e ingiustamente non considerati musicisti di talento e grandi capacità. Ci pensa questo brano a sgombrare dubbi, a immergere la classe nella clessidra del tempo, dove nulla può avere data di scadenza. Quello che magnetizza il tutto è il flusso poetico di questo testo, una storia che puzza di frustrazione, di un amore segreto che spia senza avere possibilità di essere corrisposto, in una flagrante detonazione razionale che coinvolge i battiti del cuore, in una pulsante drammaticità, che vede convogliare generi musicali in un atrio dove l’accoglienza e lo studio sono incrociati per completare la perfezione di un progetto. In questo scenario il divertimento sparisce, dissolto da queste trame sonore e dalla voce nasale di Simon che sembra soffocare le parole con il suo registro alto per sfumare poi nel crooning finale.


Tracce di Baudelaire, di Ian Curtis, del teatro folle che cerca di dipingere le pareti del cervello con cupi colori, scendono nelle onde ipnotiche del brano sin dall’inizio, con note drammatiche del piano che già esibiscono il respiro pesante, per convogliare il magnete senza possibilità di sgancio verso il nostro ascolto: l’insieme è una spinta verso le viscere del desiderio, la sua attrazione verso l’impossibilità che esalta la morte.

L’arpeggio del synth è la vera goccia diabolica che scende sui nostri timpani: ingannevole in quanto apparentemente piacevole, con il passare dei secondi diventa una tortura che non lascia scampo, concedendo a un flauto sintetico di recare un sollievo momentaneo, una nuova forma che cattura l’apparato uditivo. 

Il nervo synthpop è in grado di perlustrare la decadenza tipica del post-punk, per un miracolo mesmerico, una “piacevole” camicia di forza, un loop da cui correre via è impossibile, come dal penitenziario di Alcatraz. In questo contesto, si rende evidente lo sconvolgente approccio nella scrittura di un impegno, che qualifica la band e la mette in condizione di essere meritevole di essere ascoltata da chi storce il naso: tutto spazzato via da questi trecentoventuno secondi di amletica propensione, dove tutto si complica, diventa una metafora adulta che si appiccica allo scettro di qualità innegabili. Eccoci nella cruda realtà, non c’è nulla di profetico, nessuna bugia, ma un lungo calvario che non declina responsabilità, anzi, fa l’opposto, per generare moti consapevoli che oscurano il futuro…


Minuti come insetti prendono sede nell’alchemica forma di una canzone che fugge pure da se stessa, avendo sulle caviglie tenebrose note che rimarcano la sensazione che negli anni Ottanta anche essere dei voyeur dell’amore significava far parte della squadra della sofferenza, in cui l’oggetto del desiderio, così agognato, diveniva l’unico colpevole. I Duran Duran lo presero e lo rinchiusero nella canzone che ne attesta la colpa, per l’eternità…

Si ha la sensazione che i cinque abbiano preso gocce d’acqua e le abbiano depositate nelle note, filtrate, coccolate, per lasciarle poi andare verso il loro destino, come se tutto fosse solo l’anticipo di una nuova modalità artistica che di lì a poco si sarebbe palesata del tutto. E avvenne: da questa perla sono nate imitazioni sghembe, ma anche artisti in grado di cercare di ripetere il miracolo di questa processione razionale e sensoriale. La raffinatezza, la produzione, il lavoro di sinergie protese verso la luce della candela che rende cupa la scena fanno rabbrividire, finendo con l’avere nelle tasche fazzoletti pieni di lacrime che danzano lentamente durante l’ascolto, da sole.

Quando la musica non ha possibilità di negarsi la permanenza nella volta celeste, ecco che divenire succubi rimane l’unica gioia praticabile, malgrado il contesto…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

21 Aprile 2024

sabato 20 aprile 2024

La mia Recensione: St. Jimi Sebastian Cricket Club - Soothing Nights


 St. Jimi Sebastian Cricket Club - Soothing Nights


C’è una poesia che vola nell’aria, non ha tracce di inchiostro sulla pelle ma note vibranti sulla schiena, in una contorsione che aspira il cielo abbellendo, in modo sorprendente, la scia luminosa di una notte insonne. Un brano che nella sua struggente monotonia rivela ruscelli di splendidi comitati di tristezza, con l’intenzione di esplorare lo spazio celeste contemplante una stella morente. Non ha bisogno di variare, se non nel ritmo che aumenta, con l’ingresso della batteria e un'atmosfera sempre più avvolgente, per coniugare il testo a un insieme di grappoli sonori che, come una voragine liquida, compattano l’universo dei sentimenti.

Come si può fare dell’addio una festa con gocce di roccia di montagna che scivolano in mare? Si scrive Soothing Nights mentre il dolore governa ogni spinta che vorrebbe fare della vita un semplice e impotente ricordo. C’è nell’ascesa del ritmo una modalità che abbiamo saputo ammirare con i Belle and Sebastian, ma in questo caso tutto sembra andare incontro a un destino in cui l’assenza del fiato della canzone ci lascerà nella commozione più totale…

Il quintetto svedese esplora una piuma, gli accadimenti del passaggio del tempo, osservando da una prospettiva che sembra essere quella di una nuvola autunnale: tutto è incline a equilibrare la vena nervosa di un malessere per renderla viva sotto il nostro sguardo, che non può essere niente altro che un applauso con gli occhi lucidi. Markus Hahn con la sua chitarra pennella bollicine, quella di Jimi Sebastian (che è anche la voce della band) è la gemella che ribadisce questa vertiginosa alchemia, e sono coadiuvati dalla nostalgica tastiera di David Lindberg, il basso quasi muto ma essenziale di Mats Skoglund e la batteria semplice ma perfetta di Fabian Ris Lundblad, che è una carezza che mette vivacità e ordine, per fare di questa slavina emotiva un miracolo: se avesse posto nel vostro cuore sorriderebbe di certo…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

20 April 2024

https://open.spotify.com/track/3eky1P2ngoFfbBrmtUBmY9?si=_FeTg6NIRC2Uu_mLqUND9g

My Review: St. Jimi Sebastian Cricket Club - Soothing Nights


 St. Jimi Sebastian Cricket Club - Soothing Nights


There is a poem that flies through the air, it has no ink marks on its skin but vibrant notes on its back, in a contortion that sucks in the sky, embellishing, surprisingly, the luminous wake of a sleepless night. A song that in its poignant monotony reveals streams of beautiful committees of sadness, with the intention of exploring celestial space contemplating a dying star. It does not need to vary, except in the rhythm that increases, with the entry of the drums and an increasingly enveloping atmosphere, to combine the lyrics with a set of sound clusters that, like a liquid chasm, compact the universe of feelings.

How can one make farewell a party with drops of mountain rock sliding into the sea? Soothing Nights is written as grief governs every thrust that would like to make life a simple, impotent memory. There is in the rise of the rhythm a mode that we have come to admire with Belle and Sebastian, but in this case everything seems to meet a fate in which the absence of the song's breath will leave us in utter commotion….   The Swedish quintet explores a feather, the happenings of the passage of time, observing from a perspective that seems to be that of an autumnal cloud: everything is inclined to balance the nervous vein of a malaise to make it come alive under our gaze, which can be nothing more than a teary-eyed applause. Markus Hahn with his guitar brushes bubbles, Jimi Sebastian's guitar (who is also the band's vocalist) is the twin that reaffirms this vertiginous alchemy, and they are assisted by David Lindberg's nostalgic keyboard, Mats Skoglund's almost mute but essential bass and Fabian Ris Lundblad's simple but perfect drums, which is a caress that brings vivacity and order, to make this emotional avalanche a miracle: if it had room in your heart it would certainly smile...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

20 April 2024


https://open.spotify.com/track/3eky1P2ngoFfbBrmtUBmY9?si=_FeTg6NIRC2Uu_mLqUND9g

La mia Recensione: Healthy God - Poison, healing, poison poison

 


Healthy God - Poison, healing, poison poison


Che meraviglia assoluta è sorprendersi ancora, dopo una vita di ascolti musicali, e provare una gioia così precisa, limpida e fluorescente?

Il tutto è organizzato da un’anima sola, un autore italiano, di Milano, che ha vissuto una trasferta a Londra per tornare a risiedere in Italia, nella calda e accogliente Sicilia.

Quello che ci apprestiamo a sperimentare è un’esperienza che avvolge i sensi e li sparpaglia nel tempo (conoscenza musicale e memoria in questo ascolto sono estremamente importanti), nei luoghi che hanno reso la musica un tempio indiscutibile dove regna la qualità, il valore, il senso di un operare con precisione una mappatura di capacità che tornano sempre utili.

Daniele rincorre gli abiti luccicanti del piacere, perlustra i movimenti del dolore mettendo sopra loro una mano, per proteggerlo, si getta nei corridoi lacerati dei rimpianti e dei rimorsi, stabilisce un contatto sonoro con l’elettronica cristallina e seducente dei Suicide, innesta pillole di post-punk senza esagerare, scrive un trattato di misteriosa psichedelia con maschere di cerone, non tralascia di certo di imbastire un manichino di Alternative per donare attimi di leggerezza nei quali la classe evidente fa schiudere un sorriso, mentre nei dintorni l’urlo delle difficoltà spinge per prevalere. Queste sette composizioni, però, dimostrano un equilibrio strategico, per fare della sua musica un menù completo, digeribile, dai sapori multipli e con la sorpresa finale di riuscire a sentire un profumo intenso dalle note appoggiate su un pentagramma che pare essere stato scritto tra case abbandonate, acciaierie e scorribande psicotrope.

Tutto sembra un’analisi che, partendo dall’essere esplorativa, è in grado di suggerire un’apertura nella quale il conscio e l’inconscio discutono per determinare una realtà che, oltre a essere limpida e precisa, sappia spingere l’attenzione verso una partecipazione diretta da parte degli ascoltatori.

Brani come segnali intermittenti, SOS multipli, corse affannate, villaggi pitturati da una mente consapevole che il paesaggio, per poter essere comprensibile, vada vissuto. Ed ecco che l’artista si butta, con un paracadute che arriva di sicuro dai primi anni Settanta, nelle articolate strutture elettroniche, capace di convogliare beats strepitosi, un drumming fantasioso e potente, chitarre acide che lavorano per sfibrare i nervi della storia inglese, per stabilire il recinto della sua mente fervida e fertile. Si ha la sensazione che siano venti e non sette le canzoni che possiamo ascoltare: un dato che già rivela la potenza di un disco che è un trattore intento ad arare gli ascolti sino a trasformarli in obbedienti granelli di terra.

La voce, il cantato, i testi: da quanto tempo il Vecchio Scriba non sentiva un compattamento del genere, con la capacità di commuovere, preoccupare e far interrogare? Colpisce come la drammaticità si coniughi a una stramba dolcezza, un veleno che pare mutare verso il liquido che può ricordare la fragranza di profumi che sanno stordire.

Il registro è spesso alto, la metodica è quella di paroli brevi, secche, ben pronunciate in inglese, e la sapiente e davvero profonda capacità di divenire un corpo unico con le musiche. Esiste una sacralità in questo disco, un utilizzo davvero effervescente di cambiamenti strutturali che allargano il campo di azione delle possibilità: è come abbracciare un fucile e trovare nella canna proiettili di tipo diverso e, quando il dito preme il grillento, l’esplosione è un arcobaleno in bianco e nero che sfida quello colorato.

Senza esitazioni andiamo a metterci nei pressi di queste fragorose e ben pettinate composizioni, per poterci cibare di un lavoro che mi auguro riesca a incuriosirvi e a dare materia ai vostri impulsi, con l’intento di essere alla fine dell’ascolto maggiormente disciplinati nell’accogliere un album così potente…


Song by Song


1 - Eternal Internal Fight 

Un synthpop iniziale in odore di Human League scuote subito la pelle, che con il passare dei secondi si ritrova addosso lacrime di un electropop in fase perlustrativa. È come se ascoltassimo il silenzio sacro di una processione di intenti fuori da un capanno abbandonato.


2 - Can’t Go On Can’t Let Go

La rincorsa del post-punk più sottile, il suo latrato che inquina il sole, ci presenta un brano nel quale la chitarra esibisce con grande intensità la storia del suo sviluppo, con un cantato che, modulato, potente e a tratti sguaiato, impressiona. E quell’arpeggio che si presenta prima del ritornello odora di immenso, come gocce che dalla storia americana dei Television arrivano ai giorni nostri…


3 - White Walls

Si parte dal 1971, l’anno in cui nacquero i Suicide, e si raccolgono per strada chitarre acide, un loop che ossida e corrompe. Poi la chitarra allarga la sofferenza e fa cadere tutti i mattoni di queste pareti bianche pronte a tingersi di grigio…


4 - The Dance

Torna il duo di New York (Suicide) il tempo necessario per mostrare l’inizio di un ululato che pare avere tentacoli di generi musicali compressi, intenti a tener segreta l’origine, in un trambusto che rimane convincente per tutti i centocinquantadue secondi…


5 - Catholic Guilt

Ecco la canzone più intensa e seducente, una estensione di elementi concentrici che abilmente fanno uscire bolle di ossigeno: tutto è qui in attesa di graffi e indagini sonore che smantellano molte convinzioni. Appaiono gli Ultravox, si sente l’operato dei Cabaret Voltaire nel cercare un concetto e definirlo, per poi entrare con il cantato quasi comatoso nella poesia dell’indagine. Il ritmo è una scorribanda, tra altalene e tuffi nel vuoto…


6 - This Is Not A Game

Gocce di noise provenienti dalle balbuzienti labbra dei Liars sono solo il pretesto per scrivere un brano drammatico, dal ritmo sincopato, dai beats minimalisti ma alquanto efficaci, per dare poi alle chitarre la possibilità di generare uno splendido caos stellare…



7 - All These Sufferings Must Lead Somewhere

Trecentouno secondi di pura ipnosi, con svariate modalità, all’insegna di un ritmo lento ma astutamente prodigo nel convogliare l’attenzione verso un gioco analitico dove solo la voce sembra voler spaziare tra la dolcezza e la malinconia. La chitarra, uscita da Seventeen Seconds dei Cure, fa da collante a questa strategica dispersione di semi, in un vortice dal climax intenso, travolgente e mistico. Si piangono lacrime di metallo, si vive la frustrazione di dolori che si acquattano come iene in attesa che la nostra debolezza li convinca ad attaccarci…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

20 Aprile 2024


https://open.spotify.com/album/3H2W22PIH9hkzHatz8UlDv?si=clRCrtCtSwWt-Z0fjjGvdQ

My Review: Healthy God - Poison, healing, poison poison


 Healthy God - Poison, healing, poison


What an absolute marvel it is to be surprised again, after a lifetime of listening to music, and to experience such precise, clear and fluorescent joy?

The whole thing is organised by a lonely soul, an Italian author, from Milan, who took a trip to London to return to Italy, to the warm and welcoming Sicily.

What we are about to experience is an experience that envelops the senses and scatters them in time (musical knowledge and memory are extremely important in this listening), in the places that have made music an unquestionable temple where quality, value, and the sense of operating with precision reign supreme, mapping skills that always come in handy.


Daniele chases the shimmering clothes of pleasure, patrols the movements of pain by placing a hand over them to protect it, throws himself into the lacerated corridors of regrets and remorse, establishes a sonic contact with the crystalline and seductive electronics of Suicide, grafts pills of post-punk without exaggeration, writes a treatise on mysterious psychedelia with wax masks, and certainly doesn't neglect to baste a touch of Alternative to give moments of lightness in which the obvious class raises a smile, while in the surroundings the scream of difficulty pushes to prevail. These seven compositions, however, demonstrate a strategic balance, to make his music a complete menu, digestible, with multiple flavours and with the final surprise of being able to smell an intense perfume from the notes resting on a stave that seems to have been written among abandoned houses, steelworks and psychotropic raids.


Everything seems to be an analysis that, starting from being exploratory, is able to suggest an opening in which the conscious and the unconscious discuss in order to determine a reality that, in addition to being clear and precise, is able to push attention towards a direct participation on the part of the listeners.

Songs like intermittent signals, multiple SOSs, harried runs, villages painted by a mind aware that the landscape, in order to be comprehensible, must be experienced. And here the artist jumps, with a parachute that certainly comes from the early seventies, into the articulated electronic structures, capable of channelling resounding beats, imaginative and powerful drumming, acid guitars that work to fray the nerves of English history, to establish the enclosure of his fervid and fertile mind. One has the feeling that there are twenty and not seven songs that we can listen to: a fact that already reveals the power of a record that is a tractor intent on ploughing the listeners into obedient grains of earth.

The voice, the singing, the lyrics: how long has it been since the Old Scribe heard a compact like this, with the ability to move, worry and make one question? It is striking how the drama is combined with a strange sweetness, a poison that seems to shift towards the liquid that can recall the fragrance of perfumes that can stun.

The register is often high, the method is that of short, dry, well-pronounced words in English, and the skilful and truly profound ability to become one with the music. There is a sacredness in this record, a truly effervescent use of structural changes that broaden the scope of possibilities: it is like embracing a rifle and finding bullets of different types in the barrel and, when your finger presses the trigger, the explosion is a black and white rainbow that challenges the coloured one.

Without hesitation, let's get close to these thunderous and well-combed compositions, in order to feed on a work that I hope will succeed in intriguing you and give matter to your impulses, with the intention of being at the end of listening more disciplined in welcoming such a powerful album...


Song by Song


1 - Eternal Internal Fight 

An opening synthpop in the odour of Human League immediately shakes the skin, which, as the seconds go by, finds itself in the throes of an electropop scouring. It is as if we are listening to the sacred silence of a procession of intentions outside an abandoned shed.



2 - Can't Go On Can't Let Go

The pursuit of the subtlest post-punk, its howl polluting the sun, presents us with a track in which the guitar displays the story of its development with great intensity, with a modulated, powerful and at times husky vocal that impresses. And that arpeggio that appears before the refrain smells of immensity, like drops that from the American history of Television come to the present day...



3 - White Walls

It starts in 1971, the year Suicide was born, and picks up acid guitars, a loop that oxidises and corrupts. Then the guitar widens the suffering and drops all the bricks of these white walls ready to be tinged with grey...


4 - The Dance

Back comes the New York duo (Suicide) just long enough to show the beginning of a howl that seems to have tentacles of compressed musical genres, intent on keeping the origin a secret, in a hustle and bustle that remains convincing for the entire one hundred and fifty-two seconds



5 - Catholic Guilt

Here is the most intense and seductive song, an extension of concentric elements that cleverly let out oxygen bubbles: everything is here waiting for scratches and sound investigations that dismantle many convictions. Ultravox appear, you can hear the work of Cabaret Voltaire in searching for a concept and defining it, then entering with the almost comatose singing into the poetry of the investigation. The rhythm is a rambling, between swings and dives into the void....


6 - This Is Not A Game

Drops of noise coming from the stuttering lips of the Liars are just the pretext for writing a dramatic, syncopated track with minimalist but quite effective beats, and then giving the guitars the chance to generate splendid stellar chaos




7 - All These Sufferings Must Lead Somewhere

Three hundred and one seconds of pure hypnosis, in a variety of modes, under the banner of a slow but cunningly prodigal rhythm in channelling attention towards an analytical game where only the voice seems to want to range between sweetness and melancholy. The guitar, straight out of The Cure's Seventeen Seconds, acts as the glue to this strategic scattering of seeds, in a vortex with an intense, overwhelming and mystical climax. We weep metal tears, experience the frustration of pains that crouch like hyenas waiting for our weakness to convince them to attack us...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

20 April 2024


https://open.spotify.com/album/3H2W22PIH9hkzHatz8UlDv?si=xdhMhu62TzSJ8AR-SzhsEg

giovedì 18 aprile 2024

La mia Recensione: David Potts - The Blue Tree / The Red Tree (2 album)



 

David Potts - The Blue Tree / The Red Tree (2 albums)


Come è buffa la vita, quando riempie il pianeta di esistenze che sembrano avere poca visibilità e poi, immediatamente, le ributta nelle strade dando loro una nuova occasione. È il caso del protagonista di questo scritto, un talento indiscutibile, in grado di creare, con la sua fantasiosa e abile versatilità, due album in uscita contemporanea, quasi per tappare il buco di un’assenza che a parere del Vecchio Scriba sembrava una bestemmia, visto il valore di queste ventuno composizioni totali. Due alberi, due figure paterne, proprietari del percorso di questo artista, dai connotati solo in parte simili, vedono il musicista (chitarrista e bassista) e cantante muoversi tra l’alternative, l’indie pop, il folk più solare, la dance elegante e leggera.

Nel 1989 a Manchester il bassista dei Joy Division formò una band che si chiamava Revenge. Uno dei loro membri, che sostituì l’originale chitarrista David Hicks, è il soggetto di questa recensione. Dopo quella esperienza con Peter Hook i due misero in piedi il progetto Monaco che tanto ebbe successo con il brano What do you want from me, antipasto dell’insieme di attitudini dance che scrissero.

E dopo diversi anni eccoci a parlare dell’esordio come solista di David Potts con gli album The Blue Tree e The Red Tree

The Blue Tree appare come la descrizione di una giornata primaverile attorno a questo albero, con canzoni che volano come uccelli felici di tornare ad abitare in quei luoghi, libere di muoversi con gioia e capaci di contaminare l’entusiasmo con la loro esuberanza giovanile.

The Red Tree pare, invece, un insieme di brani scritti da quegli stessi uccelli con qualche anno in più, dove la maturità si mostra anche con approcci più spigolosi, in cui il ritmo rimane alto ma con maggior decisione nel tracciare il percorso di quei voli. Si ha come l’impressione che si sia nei paraggi dell’autunno, ma con la volontà di avere ancora quei sorrisi che solo la primavera sa distribuire.

In entrambi i lavori la scrittura è sorprendente, scavando nei territori celesti degli anni Settanta e proseguendo nella decade successiva per quanto riguarda l’aspetto di brani eclettici, che fanno danzare. La chitarra, quando si presta ad esibire assoli brevi ma efficaci, dimostra l’intenzione di catturare il senso delle composizioni, perfezionandole ulteriormente, facendoci vibrare e volare con la mente attorno a quei due alberi, che, alla fine dell’ascolto dei due dischi, paiono essere amici di lunga data.

Si riesce a sorridere, ridere, pensare, ballare in un cielo che sembra così lontano da quello di Manchester, per trovare immagini, luoghi e sensazioni che ci mostrano il mondo in lungo e in largo, con il merito di farci salire sulla sospirata macchina del tempo. 

Decisamente un debutto meraviglioso che non deve sfuggire alla vostra fame  musicale, se volete che sia ricoperta di qualità.


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
19 Aprile 2024


La mia Recensione: Midas Fall - Cold Waves Divide Us

  Midas Fall - Cold Waves Divide Us La corsia dell’eleganza ha nei sogni uno spazio ragguardevole, un pullulare di frammenti integri che app...