Duran Duran - The Chauffeur
Quando le favole si tingono di nero, si caricano del dramma, affondano le mani nel sacrilegio del dolore, la confusione diventa l’unica chiarezza, in una corsa affannata verso quell’amore che nega di spalancarsi, di essere consumato senza onde malefiche.
Abbiamo la fortuna di poter pensare a tutto questo ascoltando una chicca che resiste all’usura, che ancora oggi ferisce, per una strana apologia che non può essere scalfita da teorie opposte. Un gioiello pieno di brillantini che non soffoca la magnificenza che alberga nella sua profondità, regno dove la magia e il segreto continuano a pulsare.
La band di Birmingham, che ha depositato nello scrigno del tempo questa cometa senza morte sul suo dorso, scrisse nella maturità della sua adolescenza questo brano, vascello, treno e soprattutto auto, per portare concetti morali a bordo di una storia dove l’amore, la passione, il fastidio, l’ineluttabile consumo dei desideri potessero divenire un messaggio spinoso, una puntura mentale che, insinuandosi ascolto dopo ascolto, causasse una paralisi, come unico vero atto di devozione a un circuito che già di per sé era in grado di generare dipendenza. Saper coniugare la sensazione pop a una fascina di tensioni grigiastre con l’uso dei synth (veri piloti di questa lenta corsa), è un’operazione davvero notevole, con la capacità di lasciare nella bocca degli ascolti un gusto amaro e dolce, in un connubio che azzera ogni competizione. Il pianoforte in modalità flanger, il basso sensuale, il lavoro di programming, della drum machine e poi della batteria confluiscono tutti quanti in un testo, nella voce, per direzionarsi nel ventre della notte, lo scenario perfetto dove relazionarsi con la meditazione, fatto, in sé, da vivere come un avvenimento disarmante se si prendono i Duran Duran per quello che erano, ragazzi alla ricerca del successo e ingiustamente non considerati musicisti di talento e grandi capacità. Ci pensa questo brano a sgombrare dubbi, a immergere la classe nella clessidra del tempo, dove nulla può avere data di scadenza. Quello che magnetizza il tutto è il flusso poetico di questo testo, una storia che puzza di frustrazione, di un amore segreto che spia senza avere possibilità di essere corrisposto, in una flagrante detonazione razionale che coinvolge i battiti del cuore, in una pulsante drammaticità, che vede convogliare generi musicali in un atrio dove l’accoglienza e lo studio sono incrociati per completare la perfezione di un progetto. In questo scenario il divertimento sparisce, dissolto da queste trame sonore e dalla voce nasale di Simon che sembra soffocare le parole con il suo registro alto per sfumare poi nel crooning finale.
Tracce di Baudelaire, di Ian Curtis, del teatro folle che cerca di dipingere le pareti del cervello con cupi colori, scendono nelle onde ipnotiche del brano sin dall’inizio, con note drammatiche del piano che già esibiscono il respiro pesante, per convogliare il magnete senza possibilità di sgancio verso il nostro ascolto: l’insieme è una spinta verso le viscere del desiderio, la sua attrazione verso l’impossibilità che esalta la morte.
L’arpeggio del synth è la vera goccia diabolica che scende sui nostri timpani: ingannevole in quanto apparentemente piacevole, con il passare dei secondi diventa una tortura che non lascia scampo, concedendo a un flauto sintetico di recare un sollievo momentaneo, una nuova forma che cattura l’apparato uditivo.
Il nervo synthpop è in grado di perlustrare la decadenza tipica del post-punk, per un miracolo mesmerico, una “piacevole” camicia di forza, un loop da cui correre via è impossibile, come dal penitenziario di Alcatraz. In questo contesto, si rende evidente lo sconvolgente approccio nella scrittura di un impegno, che qualifica la band e la mette in condizione di essere meritevole di essere ascoltata da chi storce il naso: tutto spazzato via da questi trecentoventuno secondi di amletica propensione, dove tutto si complica, diventa una metafora adulta che si appiccica allo scettro di qualità innegabili. Eccoci nella cruda realtà, non c’è nulla di profetico, nessuna bugia, ma un lungo calvario che non declina responsabilità, anzi, fa l’opposto, per generare moti consapevoli che oscurano il futuro…
Minuti come insetti prendono sede nell’alchemica forma di una canzone che fugge pure da se stessa, avendo sulle caviglie tenebrose note che rimarcano la sensazione che negli anni Ottanta anche essere dei voyeur dell’amore significava far parte della squadra della sofferenza, in cui l’oggetto del desiderio, così agognato, diveniva l’unico colpevole. I Duran Duran lo presero e lo rinchiusero nella canzone che ne attesta la colpa, per l’eternità…
Si ha la sensazione che i cinque abbiano preso gocce d’acqua e le abbiano depositate nelle note, filtrate, coccolate, per lasciarle poi andare verso il loro destino, come se tutto fosse solo l’anticipo di una nuova modalità artistica che di lì a poco si sarebbe palesata del tutto. E avvenne: da questa perla sono nate imitazioni sghembe, ma anche artisti in grado di cercare di ripetere il miracolo di questa processione razionale e sensoriale. La raffinatezza, la produzione, il lavoro di sinergie protese verso la luce della candela che rende cupa la scena fanno rabbrividire, finendo con l’avere nelle tasche fazzoletti pieni di lacrime che danzano lentamente durante l’ascolto, da sole.
Quando la musica non ha possibilità di negarsi la permanenza nella volta celeste, ecco che divenire succubi rimane l’unica gioia praticabile, malgrado il contesto…
Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
21 Aprile 2024